Plasmare la storia coi bulldozer: come Israele utilizza l’archeologia per consolidare l’occupazione

Yara Hawari

6 marzo 2018, Middle East Eye

Dopo aver conquistato Gerusalemme ovest nel 1948, Israele ha occupato l’intera città meno di vent’anni dopo, nel 1967, durante la guerra dei Sei Giorni. Da allora, ha creato delle “realtà sul terreno”, attraverso l’annessione e la costruzione di colonie volte a consolidare le sue rivendicazioni nei confronti dell’intera città.

Di fatto, nella sua stessa essenza di progetto coloniale, Israele è ad un tempo ferocemente espansionista ed esclusivista. Il “progetto di legge sulla Grande Gerusalemme”, che è stato recentemente votato e che mira ad estendere i confini della municipalità di Gerusalemme per includervi ulteriori colonie illegali ed escludere quartieri palestinesi, testimonia questo espansionismo.

Allo stesso tempo, la dichiarazione del presidente Donald Trump sullo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme non solo viola il diritto internazionale, ma appoggia la continua colonizzazione della città da parte di Israele.

Cancellato dalla carta

Tuttavia Israele non si accontenta di esercitare un controllo assoluto sulla città attraverso l’annessione e la costruzione di colonie. Conduce anche una campagna aggressiva per appropriarsi dei siti del patrimonio palestinese o distruggerli, in modo da consolidare le sue rivendicazioni di proprietà esclusiva. Questa campagna si è intensificata dopo l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza nel 1967.

Queste rivendicazioni si appoggiano fortemente su un discorso biblico che mira deliberatamente a fare della religione un elemento di grave conflitto. Questo è oltremodo evidente nella città vecchia di Gerusalemme che – in base al diritto internazionale – è considerata inequivocabilmente territorio palestinese.

Infatti Israele ha cominciato a modificare il paesaggio di Gerusalemme fin dall’indomani della sua occupazione della città, distruggendo uno dei quartieri più vecchi.

Harat al Magharibeh (il quartiere marocchino), che si trova di fronte al muro occidentale della città vecchia, è stato raso al suolo appena qualche giorno dopo l’occupazione israeliana della città. Le autorità israeliane hanno giustificato questa iniziativa con la necessità di creare spazio per i fedeli ebrei.

Il quartiere aveva circa 800 anni e non ospitava soltanto edifici ayyubidi [antica dinastia curdo-musulmana, ndtr.] e mamelucchi [sultanato egiziano dal XIII al XVI, ndtr.], ma anche 650 persone. Gli abitanti hanno avuto poche ore di tempo per lasciare le loro case prima che venissero distrutte. Del resto, si dice spesso che gli archeologi israeliani sono i soli al mondo a servirsi di bulldozer.

Haram al-Sharif [ la Spianata delle Moschee, ndtr.) in pericolo

Più di recente, Israele ha condotto scavi nella zona che si trova al di sotto e intorno a Haram al-Sharif – il complesso che ospita la cupola della Roccia e la moschea al-Aqsa. Questi scavi sono stati condannati dall’UNESCO, che nel 2016 ha emesso una risoluzione che critica Israele per la sua politica generale nei confronti del complesso.

Israele ha moltiplicato i tentativi di controllare Haram al-Sharif, che resta sotto la custodia della Giordania, nel quadro del Waqf [fondazione che gestisce i beni religiosi, tra cui il complesso delle moschee a Gerusalemme, ndtr.]. Questi tentativi sono intrapresi sia dal governo che dai gruppi di coloni fanatici che sperano di distruggere la cupola della Roccia e la moschea al-Aqsa per costruire un Terzo Tempio ebraico.

Nell’estate 2017 la situazione ha raggiunto il parossismo, quando le autorità israeliane hanno istallato dei metal detector all’entrata del complesso. Dopo parecchie settimane di dure proteste da parte dei palestinesi, i dispositivi sono stati finalmente rimossi.

La situazione resta comunque tesa ed i palestinesi temono che Haram al-Sharif sia in pericolo.

Dal punto di vista della prassi archeologica, il diritto internazionale è chiaro: Israele non è autorizzato ad effettuare scavi in siti nei territori occupati. Tuttavia, secondo un rapporto dell’Ong svedese Diakonia, dal 1967 Israele ha eseguito scavi in 980 siti archeologici nella Cisgiordania occupata e si è appropriato di numerosi reperti archeologici.

Tra i siti oggetto degli scavi più aggressivi vi è quello di Silwan, un quartiere di Gerusalemme est situato appena fuori dalle mura della città vecchia e a sud di Haram al-Sharif.

Lunedì gli abitanti del quartiere di Silwan hanno protestato contro i nuovi danni strutturali provocati alle abitazioni da ciò che denunciano come scavi archeologici israeliani.

Gli abitanti di Wadi al-Hilweh si sono scontrati con i lavoratori dell’Autorità delle antichità di Israele e della fondazione Ir David, due istituzioni che effettuano scavi nella zona vicina alla moschea al-Aqsa e al muro meridionale della città vecchia.

L’archeologia ad oltranza

La narrazione biblica considera Silwan come il sito originario della città di Davide ed i primi scavi effettuati allo scopo di ricercare questa città originaria sono stati condotti dai coloni britannici alla fine del XIX secolo.

Attualmente la zona degli scavi è gestita dall’organizzazione di estrema destra El-Ad, che cerca di prendere il controllo di Silwan e di ebraizzare il quartiere. L’organizzazione dispone di fondi considerevoli e gli oligarchi ebrei russi Lev Leviev e Roman Abramovich hanno contribuito ai loro sviluppi.

El-Ad effettua “scavi selvaggi” che le hanno consentito di evitare di procurarsi dei permessi del governo.

Queste operazioni implicano scavi e tunnel ricavati sotto Silwan e si estendono fino ai terreni che circondano la moschea di al-Aqsa. Molte case palestinesi nella collina hanno quindi iniziato a sprofondare.

L’archeologia è solo uno dei numerosi meccanismi attraverso cui Israele mantiene il suo dominio sul popolo palestinese. Il ricorso a questa narrazione biblica è manipolato in modo da creare una cortina fumogena per il progetto sionista di colonizzazione.

Israele prosegue la prassi iniziata dagli archeologi coloniali britannici, che consiste nel tenere la bibbia in una mano e una cazzuola nell’altra. Il suo obbiettivo è manipolare la narrazione storica del passato per servire i suoi attuali interessi ed eliminare la possibilità di un futuro palestinese.

Yara Hawari è esperta di politica palestinese per “Al-Shabaka, The Palestinian Policy Network.” In possesso di un dottorato in politica del Medio Oriente all’università di Exeter, scrive spesso per diversi organi di informazione.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solamente l’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Per Israele Bolton è Gary Cooper in “Mezzogiorno di fuoco”, per chiunque altro è il dottor Stranamore dentro “Apocalypse Now”

Chemi Shalev

23 marzo 2018, Haaretz

Per il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale di Trump non c’è una guerra che non gli piaccia, un nemico che non voglia distruggere o un accordo diplomatico che valga la carta su cui è scritto.

Il licenziamento di H.R. McMaster e la nomina di John Bolton come consigliere per la sicurezza nazionale del presidente degli Stati Uniti Donald Trump sono stati accolti con gioia a Gerusalemme, con terrore nelle altre capitali. Israele spera che Bolton metta a posto i suoi nemici, mentre il mondo oggi ha maggiori timori di imminenti tensioni e guerre. Israele vede Bolton come Gary Cooper in “Mezzogiorno di fuoco”, arrivato per sparare ai cattivi, ma per la maggior parte del mondo è il dottor Stranamore [personaggio dello scienziato pazzo e criminale nell’omonimo film di Kubrik, ndt.], con un pizzico di “Apocalypse Now” [omonimo film di Coppola, ambientato durante la guerra del Vietnam, ndt.]. Se non altro l’esplosione di festeggiamenti in onore della nomina di Bolton nella coalizione di Netanyahu evidenzia la collocazione di Israele all’estrema destra dello spettro politico mondiale.

Bolton ha legami di lungo tempo e profondi con molti politici e funzionari israeliani. È un “vero amico”, come ha detto la ministra della Giustizia Ayelet Shaked [del partito di estrema destra dei coloni “Casa ebraica”, ndt.], uno che appoggerà incondizionatamente i sogni e le illusioni del suo campo, a differenza di scocciatori come Barack Obama e gli europei, che di tanto in tanto osano suggerire che è tempo di ricredersi. Netanyahu può essere soddisfatto, ma dovrebbe essere più cauto: la nomina di Bolton gli renderà più difficile limitare le richieste degli alleati della sua coalizione con la scusa che gli USA vi si oppongono. La nomina di Bolton rafforza il blocco di destra – messianico – evangelico in entrambi i Paesi, a cui Netanyahu racconta ancora a se stesso di non appartenere.

Per Bolton non c’è una guerra che non gli piaccia, un rivale che non voglia distruggere, un nemico che non voglia ridurre in mille pezzi e un conflitto internazionale che non creda si possa risolvere con le armi. Disprezza la diplomazia, denigra le organizzazioni multilaterali, vuole tornare ai giorni, se mai sono esistiti, in cui l’America diceva al mondo che cosa fare e tutti le davano retta. Bolton voleva attaccare la Corea del Nord, bombardare, bombardare e ancora bombardare l’Iran, seppellire le aspirazioni nazionali dei palestinesi. Non ha mai ritrattato il suo appoggio alla fallimentare guerra all’Iraq, e probabilmente sogna di trovare il nascondiglio in cui Saddam Hussein ha occultato le sue inesistenti armi di distruzione di massa.

Il passaggio da McMaster a Bolton sostituisce i freni della Casa Bianca con un acceleratore premuto a fondo; acuisce l’immagine bellicosa e aggressiva dell’amministrazione Trump in tutto il mondo. La nomina consolida la trasformazione, che Trump ha iniziato con la sostituzione del segretario di Stato Rex Tillerson con il più aggressivo [ex] direttore della CIA Mike Pompeo, da una politica estera americana rude ma tradizionale a un approccio radicale basato su politiche umorali, l’uso della forza e il totale disprezzo nei confronti dell’opinione pubblica internazionale. Il Pentagono rimane nelle mani del più cauto James Mattis, che probabilmente si unirà al generale e capo di stato maggiore John Kelly per formare un fronte comune, ma sarà Bolton che d’ora in poi indicherà la linea della Casa Bianca. Non è assurdo supporre che le ore siano contate anche per la partenza di Mattis e Kelly.

Trump, che trae profitto dai conflitti, probabilmente si rallegra delle reazioni contrarie alla nomina di Bolton. Deve aver superato la sua avversione per i famosi baffi del suo nuovo consigliere. Ma Bolton deve anche il suo nuovo incarico a due miliardari di estrema destra a cui il presidente dà retta. Il primo è il riservato commerciante di algoritmi Robert Mercer, che ha finanziato il Bolton’s PAC [comitato di Bolton, istituto per la sicurezza nazionale USAda lui fondato, ndt.] e i rapporti di questo con l’ora discussa [impresa di analisi informatica, ndt.] Cambridge Analytica. Bolton è il secondo consigliere per la sicurezza nazionale che Mercer ha sponsorizzato: il primo è stato Michael Flynn, che poi è stato coinvolto nell’inchiesta sul Russiagate [scandalo sulle interferenze russe nelle elezioni vinte da Trump, ndt.] di Robert Mueller [procuratore speciale che si occupa del caso, ndt.] ed ha ammesso di aver mentito all’FBI.

L’altro magnate che si congratula con se stesso è Sheldon Adelson, che ha preso Bolton sotto la sua ala e che da molto tempo finanzia lautamente le sue attività. L’ex-ambasciatore USA all’ONU, che ha abbandonato il suo incarico un decennio fa dopo che le sue opinioni sono state giudicate troppo estremiste per essere confermato dal Senato, deve essere stato una delle poche persone al mondo ad aver approvato la proposta di Adelson di far scoppiare una bomba nucleare nel deserto iraniano, solo a scopo dimostrativo. Si dice che Adelson sia rimasto scontento di Tillerson e di McMaster e che abbia fatto presente a Trump le sue opinioni. Il suo braccio destro alla “Coalizione Repubblicana Ebraica” [gruppo lobbystico che mette in contatto la comunità ebraica con i parlamentari repubblicani, ndt.], Elliott Broidy – il finanziere californiano noto in Israele per il fallimento del suo fondo “Markstone”, che ha privato molti israeliani dei loro fondi pensione – è stato ora denunciato per aver preso 2.7 milioni di dollari dagli Emirati Arabi Uniti per promuovere i loro interessi a Washington. Broidy ha invitato Trump a mollare Tillerson; McMaster era il suo ostacolo alla Casa Bianca. Ora entrambi se ne sono andati.

La “Sheldonizzazione” dell’amministrazione Trump in generale e la nomina di Bolton in particolare riducono le già scarse possibilità che Trump non voglia abbandonare l’accordo sul nucleare iraniano, intensificando inevitabilmente le tensioni regionali e creando forse le condizioni per una guerra. La presenza di Bolton alla Casa Bianca cancella anche ogni possibilità di riportare i palestinesi al tavolo dei negoziati, non solo per le opinioni del nuovo consigliere per la sicurezza nazionale, ma anche a causa della legge Taylor ora approvata, che è apparentemente intesa a bloccare i sussidi dell’Autorità Nazionale Palestinese ai terroristi in carcere, ma che in realtà avrà come conseguenza una notevole riduzione dell’aiuto USA ai palestinesi.

Ma l’esultanza scoppiata nella destra israeliana va ben oltre lo scontro armato con l’Iran o il fatto di mettere la parola fine sulla bara del processo di pace. Riflette la rinnovata speranza, che ha conosciuto alti e bassi durante i primi 15 mesi di Trump al potere, che i tempi siano ora più maturi che mai prima d’ora per passi audaci ed irreversibili, compresa l’annessione [dei territori palestinesi occupati, ndt.]. Ma, mentre gli entusiasti di Bolton in Israele e negli USA stanno ascoltando estasiati le trombe che annunciano l’arrivo del Messia, il resto del mondo sta udendo sirene che danno l’allarme che non si tratta di un’esercitazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Le ferite autoinflitte di Israele

Nota redazionale: l’articolo che segue non riflette per niente le opinioni della redazione di Zeitun. A nostro parere alcune affermazioni sono palesemente contrarie alla situazione in Palestina e distorcono la realtà sul terreno e il carattere storico del sionismo e dello Stato di Israele. Riteniamo tuttavia interessante proporlo ai lettori del sito in quanto ci pare estremamente significativo che persino uno dei massimi rappresentanti dell’ebraismo mondiale, esplicitamente schierato sempre e comunque con Israele (come lui stesso sostiene in questo testo) prenda una posizione critica nei confronti delle politiche messe in atto dall’attuale governo israeliano e dalla sua strategia annessionista.

RONALD S. LAUDER

18 marzo 2018,The New York Times

Mentre lo Stato di Israele si avvicina al suo settantesimo anniversario, sono molto orgoglioso quando vedo il vulnerabile Stato ebraico della mia infanzia trasformato nella nazione prospera e forte che è oggi.

In quanto presidente del Congresso Mondiale Ebraico, credo che Israele sia fondamentale per ogni identità ebraica e lo sento come mia seconda patria. Eppure oggi temo per il futuro della nazione che amo.

È vero, l’esercito israeliano è più forte di qualunque altro esercito del Medio Oriente. E sì, la capacità economica di Israele è nota in tutto il mondo: in Cina, in India e nella Silicon Valley sono celebrate la tecnologia, l’innovazione e l’intraprendenza israeliane.

Ma lo Stato ebraico democratico affronta due gravi minacce che credo potrebbero mettere in pericolo la sua stessa esistenza.

La prima è la possibile fine della soluzione dei due Stati. Sono un conservatore ed un repubblicano ed ho appoggiato il partito Likud fin dagli anni ’80. Ma la realtà è che 13 milioni di persone vivono tra il fiume Giordano ed il mar Mediterraneo. E circa la metà di esse sono palestinesi.

Se l’attuale tendenza continua, Israele dovrà affrontare una scelta drastica: concedere ai palestinesi pieni diritti e smettere di essere uno Stato ebraico o abrogare i loro diritti e smettere di essere una democrazia.

Per evitare questi risultati inaccettabili, l’unico cammino è la soluzione dei due Stati. Il presidente Trump e i suoi consiglieri sono assolutamente impegnati per una pace in Medio Oriente. Gli Stati arabi, come Egitto, Giordania, Arabia saudita ed Emirati Arabi Uniti sono ora più vicini ad Israele di quanto non lo siano mai stati, e, contrariamente a informazioni dei media, importanti dirigenti palestinesi sono pronti, mi hanno personalmente detto, a iniziare immediatamente negoziati diretti.

Ma alcuni israeliani e palestinesi stanno propugnando iniziative che minacciano di far fallire questa opportunità.

Gli incitamenti [alla violenza] e l’intransigenza dei palestinesi sono distruttivi. Ma lo sono anche i progetti di annessione, sostenuti dalla destra [israeliana] e la diffusa costruzione di colonie ebraiche oltre la linea di separazione [precedente alla guerra del 1967, ndt.]. Negli ultimi anni le colonie in Cisgiordania su terre che molto probabilmente in qualunque accordo di pace saranno parte dello Stato palestinese hanno continuato a crescere e ad estendersi. Queste ottuse politiche israeliane stanno creando una situazione irreversibile di Stato unico.

La seconda duplice minaccia è la capitolazione di Israele agli estremisti religiosi e la crescente disaffezione della diaspora ebraica. Molti ebrei fuori da Israele non sono accettabili agli occhi degli ultra-ortodossi israeliani, che controllano la vita rituale e i luoghi santi nello Stato. Sette degli otto milioni di ebrei che vivono in America, Europa, Sud America, Africa ed Australia sono ortodossi moderni, conservatori, riformati o sono laici. Molti di loro hanno cominciato a sentire, soprattutto negli ultimi anni, che la Nazione che hanno appoggiato politicamente, finanziariamente e spiritualmente gli sta voltando le spalle.

Sottomettendosi alle pressioni esercitate da una minoranza in Israele, lo Stato ebraico si sta alienando una vasta parte del popolo ebraico. La crisi è particolarmente pronunciata tra la generazione più giovane, che è prevalentemente laica. Un crescente numero di millenials ebrei – soprattutto negli Stati Uniti – si sta allontanando da Israele perché le sue politiche contraddicono i loro valori. I risultati sono prevedibili: assimilazione, disaffezione e una grave erosione dell’identificazione della comunità ebraica globale con la patria ebraica.

Nell’ultimo decennio ho visitato comunità ebraiche in oltre 40 Paesi. Membri di ognuna di esse mi hanno manifestato la propria preoccupazione e inquietudine sul futuro di Israele e sui suoi rapporti con la diaspora ebraica.

Molti ebrei non ortodossi, compreso il sottoscritto, sentono che in Israele l’espansione di una religiosità promossa dallo Stato sta trasformando una nazione moderna e liberale in una semi-teocrazia. Una grande maggioranza di ebrei in tutto il mondo non accetta l’esclusione delle donne da certe pratiche religiose, leggi restrittive sulla conversione o il bando alla preghiera paritaria al Muro del Pianto. Sono disorientati dall’impressione che Israele stia abbandonando la visione umanistica di Theodor Herzl e stia assumendo sempre più un carattere che non corrisponde ai suoi valori fondamentali o allo spirito del XXI° secolo.

I dirigenti del mondo ebraico hanno sempre rispettato le scelte fatte dai votanti israeliani ed agito di concerto con il governo democraticamente eletto in Israele. Sono anche ben consapevole che gli israeliani sono sulla linea del fronte, facendo sacrifici e rischiando le loro stesse vite ogni giorno in modo che il mondo ebraico sopravviva e prosperi. Sarò sempre in debito con loro.

Ma a volte la lealtà richiede un amico che parli a voce alta ed esponga una verità scomoda. E la verità è che lo spettro di una soluzione dello Stato unico e il crescente divario tra Israele e la diaspora stanno mettendo a rischio il futuro del Paese che mi è tanto caro.

Siamo ad un bivio. Le scelte che Israele farà nei prossimi anni saranno determinanti per il destino del nostro solo e unico Stato ebraico – e per la costante unità del nostro amato popolo.

Dobbiamo cambiare rotta. Dobbiamo spingere per una soluzione dei due Stati e trovare un terreno comune tra noi in modo che possiamo garantire il successo della nostra amata nazione.

Ronald S. Lauder è il presidente del Congresso Mondiale Ebraico.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Quindici anni di separazione: i palestinesi tagliati fuori da Gerusalemme dal muro

Netta Ahituv

10 marzo 2018,Haaretz

I palestinesi lo vedono come un tentativo di Israele di espellerli da Gerusalemme; gli israeliani come una difesa contro il terrorismo. Haaretz ha indagato l’impatto della barriera di separazione sulla città e sui suoi abitanti.

Nella capitale di Israele[ per Israele ma per la comunità internazionale salvo Trump la capitale è Tel Aviv,ndt] un muro serpeggia e gira per un totale di 202 kilometri. Da una parte questo serpente di cemento incarna l’occupazione; allo stesso tempo offre un senso di sicurezza. Tra questi due poli, a volte la situazione assume una dimensione assurda. Quest’anno segna il quindicesimo anniversario da quando la costruzione del muro è iniziata – un progetto concepito come necessità securitaria che si è ingrandito fino a diventare un strumento politico molto potente. I suoi molteplici aspetti si riflettono nei diversi nomi che gli sono stati attribuiti: “barriera di sicurezza”, “recinto di separazione”, il “muro” e, denominazione ufficiale, “l’involucro di Gerusalemme”.

I suoi sostenitori si concentrano su quello che descrivono come il suo principale pregio: la sicurezza. Come prova che il muro sta funzionando bene sottolineano il notevole decremento del numero di attacchi suicidi che sono avvenuti in Israele da quando l’idea è stata approvata la prima volta (43 di questi attacchi nel 2002, zero attacchi suicidi nel 2012).

Chi critica la barriera sostiene che il suo obiettivo sotteso sia demografico: l’annessione di fatto ad Israele della maggiore estensione possibile di territorio, includendo il minor numero possibile di abitanti palestinesi. L’esistenza del muro, affermano, renderà ancora più difficile alle due parti raggiungere mai un accordo. A supporto di questa considerazione, sottolineano che solo il 15% del percorso di 470 km dell’intera barriera (non solo il suo tracciato a Gerusalemme) corrisponde alla Linea Verde [che divideva Israele e la Cisgiordania prima della guerra del ’67 e dell’occupazione israeliana, ndt.], mentre il restante 85% passa all’interno di zone palestinesi.

Sostenitori e detrattori dei benefici del muro possono essere trovati tra israeliani sia di destra che di sinistra, così come nella comunità internazionale. Un suo ammiratore è il presidente Usa Donald Trump, che vuole replicare il suo “successo” lungo il confine del suo Paese con il Messico. Tuttavia la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia non riconosce la legittimità del muro e – in una sentenza del 2004 – chiede che venga smantellato, con indennizzi da pagare ai palestinesi che sono stati danneggiati dalla sua costruzione.

Qualunque sia l’opinione, non si può negare il fatto che la presenza del muro abbia provocato non pochi sconvolgimenti nelle vite sia degli israeliani che dei palestinesi. Ha alterato l’aspetto delle comunità, è diventato il fattore dominante nelle vite di molti, ha colpito l’economia dei due popoli e si è insinuato in modo molto naturale nelle abitudini culturali di questa terra in conflitto.

Descrivendo le diverse percezioni del muro all’interno delle due Nazioni, l’avvocatessa Nisreen Alyan, una palestinese con cittadinanza israeliana che lavora per l’”Associazione per i Diritti Civili in Israele”, osserva: “I palestinesi lo vedono come una ferita in mezzo alla popolazione. Sono anche informati del fatto che, in base alle leggi internazionali, non è legittimo. Dal loro punto di vista il muro è un ulteriore simbolo dell’occupazione israeliana. Al contrario gli israeliani vedono il muro come un mezzo di protezione, una necessità legata alla sicurezza, e di conseguenza pensano che la sua legittimità o illegittimità non sia pertinente alla discussione.”

Anche i tribunali israeliani si sono occupati del problema del muro in varie occasioni (negli anni sono stati presentati circa 150 ricorsi contro di esso e contro il suo percorso). Le sentenze non hanno mai assunto la forma di decisioni contro il muro in quanto tale, al massimo hanno dato debole espressione all’opinione che questa o quella parte del suo percorso fosse sproporzionata o irragionevole in termini di sconvolgimento della vita quotidiana dei palestinesi.

In realtà il tribunale non ha mai scavato in profondità alla radice dell’esistenza del muro, ne ha invariabilmente discusso in superficie,” dice Alyan.

Tutti questi ricorsi e contro-ricorsi hanno assunto una maggiore intensità riguardo al tratto di muro a Gerusalemme, che va dalla comunità di Har Adar a nord fino al blocco di colonie di Gush Etzion, a sud di Betlemme. In alcune parti assume la forma di una recinzione, con sotto dei fossati, in altre parti, soprattutto nelle aree urbane, è un muro di cemento alto nove metri sormontato da filo spinato, punteggiato di torri di controllo e telecamere.

Come molti capitoli della storia israeliana, la vicenda della nascita del muro è intrisa di sangue. Una serie di attacchi kamikaze scosse il Paese alla fine degli anni ’90 e nei primi anni del nuovo secolo. Il dicembre del 2001 fu un mese particolarmente duro, iniziato con due attacchi mortali. Nel primo vennero uccisi 11 israeliani da due kamikaze nella zona commerciale pedonale di via Ben Yehuda e da un’autobomba che esplose nei pressi. Il secondo incidente avvenne il giorno dopo ad Haifa, con 15 persone uccise in un autobus. La commissione ministeriale per la sicurezza nazionale si riunì in sessione speciale e decise di mettere in atto il progetto dell’“involucro di Gerusalemme”, con l’obiettivo di regolare l’ingresso dei palestinesi in Israele.

Nell’agosto del 2002 la prima fase del muro di Gerusalemme venne pianificata ed approvata – due sezioni di 10 km l’una. La parte settentrionale avrebbe separato Ramallah da Gerusalemme; quella meridionale avrebbe diviso Betlemme dalla capitale israeliana. Il resto del percorso venne aggiunto un po’ alla volta nel corso degli anni. Il tratto finale, al momento, viene costruito sulla dorsale meridionale di Gerusalemme, nel quartiere [in realtà una colonia, ndt.] di Gilo attraverso la Linea Verde, vicino al monastero “Cremisan” (che rimane all’interno dei confini municipali di Gerusalemme a causa delle pressioni da parte del Vaticano).

Nel loro libro del 2008 “The Wall of Folly” [“Il muro della follia”] (in ebraico) il geo-demografo Shaul Arieli e l’avvocato Michael Sfard, specializzato in leggi sui diritti umani, raccontano come il primo ministro Ariel Sharon e il suo governo del Likud [partito di destra israeliano, ndt.] “cercarono in ogni modo di evitare la costruzione di un muro a Gerusalemme.” Alla fine, aggiungono, la decisione di erigerlo “fu una risposta senza alternative di fronte agli avvenimenti terroristici di cui Gerusalemme soffrì più di qualunque altro luogo in Israele.”

In effetti il terrorismo si ridusse, ma molti analisti, compreso Arieli, sostengono che la diminuzione degli attacchi non sia stata dovuta solo alla costruzione del muro, ma a un insieme di vari fattori: il colpo sferrato alle organizzazioni terroristiche nell’operazione “Scudo difensivo” dell’esercito israeliano nel 2002; una più stretta collaborazione con l’Autorità Nazionale Palestinese in questioni relative alla sicurezza; una maggiore attività di intelligence da parte di Israele.

Inizialmente la barriera di Gerusalemme avrebbe dovuto circondare la cittadina [in realtà una colonia, ndt.] di Ma’aleh Adumim a est della città sulla strada verso il Mar Morto e annettere quella regione, nota come E-1, ad Israele. Tuttavia, in seguito a pressioni internazionali, il progetto di rendere Ma’aleh Adumim parte della conurbazione di Gerusalemme non è ancora stato messo in pratica. Per evitare un varco nella barriera di Gerusalemme, ma senza annettere quest’area sensibile, è stato costruito un muro tra Gerusalemme e l’E-1, che obbliga i 38.000 coloni ebrei nella zona ad attraversare un checkpoint per entrare a Gerusalemme.

La nostra espulsione silenziosa”

Per i palestinesi l’involucro di Gerusalemme ha creato spazi urbani totalmente diversi da quelli che esistevano nel periodo precedente il muro. Il risultato che più colpisce è la separazione di Gerusalemme sia da Betlemme che da Ramallah, che di fatto esclude dalla Cisgiordania gli abitanti palestinesi di Gerusalemme.

Un esempio calzante è la vita di due studenti, M. e L., che vivono entrambi a Gerusalemme est ed hanno carte d’identità blu (quelle israeliane). Si sono incontrati al corso preparatorio dell’Università Ebraica di Gerusalemme, dove ancora studiano, ed hanno intenzione di sposarsi presto. Poiché la famiglia estesa di L. vive a Ramallah, lei ha presentato una richiesta per ottenere dei permessi di ingresso per i parenti in modo che possano festeggiare insieme alla coppia il giorno delle nozze. La data dell’avvenimento si avvicina, ma le autorità israeliane non hanno ancora risposto alla richiesta. Questo non era stato un problema che i genitori di L., che si erano sposati prima della costruzione del muro, dovettero affrontare quando spedirono gli inviti per il loro matrimonio.

Il secondo cambiamento importante è la separazione dalla città vera e propria di Kafr Aqab, un villaggio nel nord di Gerusalemme, e del campo profughi di Shoafat, a nordest. Il muro separa entrambe le aree dal resto della città. Per entrare a Gerusalemme – cosa per cui queste persone hanno il permesso, in quanto possiedono carte d’identità blu e sono considerati residenti di Gerusalemme – gli abitanti dei due quartieri sono obbligati ad attraversare dei checkpoint. Circa 90.000 persone, che rappresentano tra un quarto e un terzo degli abitanti palestinesi di Gerusalemme est, vivono in quartieri “lasciati” dalla parte sbagliata del muro, fuori dalla Gerusalemme vera e propria.

Per i palestinesi con status di residenti a Gerusalemme est, le barriere erano precedenti al muro. Già negli anni ’90, durante la prima Intifada, Israele eresse barriere e proibì ai palestinesi che non erano residenti a Gerusalemme di entrare in città senza un permesso – ma la separazione ora è concreta e permanente.

Molti palestinesi ricordano con nostalgia il periodo precedente il muro. Descrivono via Salah e-Din, la strada principale di Gerusalemme est, come un prospero centro commerciale, economico e culturale, una calamita per i palestinesi di ogni parte della Cisgiordania e di Israele. In seguito alla costruzione della barriera, tuttavia, l’accesso a Gerusalemme è diventato difficile e l’attività commerciale nella parte orientale della città si è ridotta. Negli anni seguenti circa 5.000 piccoli commerci a Gerusalemme est hanno chiuso per mancanza di clienti, cosa che ha ulteriormente intensificato la povertà. Se prima della costruzione dell’involucro di Gerusalemme la percentuale di poveri tra i palestinesi di Gerusalemme era del 60%, dopo è salita fino all’80%, ed è rimasta tuttora invariata.

Il quartiere Bir Naballah di Gerusalemme nord, per esempio, è stato chiuso fuori, trasformato in una enclave isolata. Nel passato il quartiere era un centro di locali da ricevimento. Oggi i palestinesi che vogliono entrare a Bir Naballah devono attraversare posti di blocco e nessuno vuole smorzare l’allegria di una festa in quel modo. La situazione ha portato alla chiusura della maggior parte dei locali da ricevimento e dei ristoranti.

E non sono state solo le attività commerciali a soffrirne – anche la vita culturale ne ha risentito. C’erano tre cine teatri popolari a Gerusalemme est, insieme al teatro nazionale palestinese, Al Hakawati; i cine teatri hanno chiuso e Al Hakawati si è spostato a Ramallah.

Quindici anni sono passati da quando è iniziata la costruzione del muro, e gli uffici ed i servizi governativi, come la polizia e i servizi fognari, in quei quartieri non stanno più funzionando,” dice Nisreen Alyan.

Il risultato è stato il dominio di delinquenti e famiglie criminali. Ci sono spaccio di droga, prostituzione e anche un mercato delle armi, e nessuno sta facendo qualcosa. I quartieri oltre il muro sono diventati il rifugio di criminali che scappano dalle leggi in Israele o dal sistema giudiziario dell’ANP.”

Si è detto e scritto molto sul campo di rifugiati di Shoafat (30.000 abitanti), che soffre per la scarsità di infrastrutture e per la povertà. Kafr Aqab (25.000 abitanti) e i quartieri limitrofi sono in una situazione simile. Ufficialmente si trovano all’interno della giurisdizione del Comune di Gerusalemme, ma in pratica ricevono dalla città servizi vergognosamente inadeguati.

I residenti del posto descrivono la loro condizione come “la nostra espulsione silenziosa.” Quello che vogliono dire è che, in base al fatto concreto del loro abbandono, sono convinti che il Comune di Gerusalemme e lo Stato di Israele stiano tentando di spingerli in una condizione disperata, in seguito alla quale se ne andranno, e così facendo perderanno il loro status di residenti a Gerusalemme. In questo modo non rappresenteranno più una minaccia demografica per la maggioranza ebraica della città.

Infatti la disperazione è il sentimento dilagante sia a Shoafat che a Kafr Aqab. Le ragioni di ciò non mancano, e recentemente se n’è aggiunta una nuova: il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte del presidente Trump e l’annuncio che l’ambasciata USA sarà spostata in città come omaggio a Israele per il 70° anniversario della sua indipendenza. Per i palestinesi di Gerusalemme è l’ennesima iniziativa che allontana ulteriormente le loro speranze della fine dell’occupazione e le loro aspirazioni a fare di Al-Quds – come definiscono la Gerusalemme est araba – la loro capitale. Ciò potrebbe non cambiare la loro situazione materiale, ma costituisce un colpo in più al loro morale.

Paura della partizione

Una persona che ancora non dispera di migliorare la situazione è l’avvocato Mu’in Odeh. È nato e cresciuto nel quartiere di Silwan a Gerusalemme, nei pressi della Città Vecchia. Quando si è sposato, otto anni fa, a trent’anni, ha constatato di persona la crisi abitativa del quartiere. Siccome Silwan è parte integrante di Gerusalemme, i suoi abitanti non devono attraversare posti di controllo per entrare in città, il che rende molto ricercato il fatto di abitarvi. Odeh e sua moglie non hanno avuto altra possibilità che spostarsi a Kafr Aqab, al di là del muro. Lì pagano un affitto mensile di 2.000 shekel (circa 400 €), mentre un affitto all’interno della barriera di Gerusalemme può costare due o tre volte quella somma.

L’affitto a Kfr Aqab è basso, sì, ma ci sono tre gravi problemi in questo quartiere,” dice Odeh, che ha uno studio legale privato a Gerusalemme. “Il primo è il checkpoint. Non c’è modo di sapere in anticipo se ci sarà un grande ingorgo e per attraversarlo ci vorranno due ore o se andrà veloce e potrò superarlo in un quarto d’ora.”

Il secondo problema è “l’assenza di una sensazione di sicurezza,” continua Odeh. “Non ci sono forze di sicurezza nel quartiere, né israeliane né palestinesi. L’unica istituzione che agisce qui a volte è l’esercito israeliano, che entra solo per compiere arresti legati alla sicurezza. Nessuno ci protegge.”

Odeh arriva al terzo problema: l’abbandono delle infrastrutture e della rete fognaria. Solo metà delle case sono collegate alla rete idrica, le strade secondarie non sono asfaltate e sono costellate di buche, e la spazzatura è ammucchiata dappertutto. I residenti di Kafr Aqab parlano di una carenza di aule scolastiche – secondo “Ir Amim”, un’organizzazione no profit che si dedica a creare una situazione più giusta per i palestinesi di Gerusalemme, c’è una carenza di 2.557 aule nei quartieri di Gerusalemme dall’altra parte del muro. I dati mostrano che c’è una carenza di ambulatori infantili e di centri di salute, uffici di assistenza sociale, uffici postali – e in zona non c’è neppure un parco giochi per i bambini.

Nel 2012 Odeh ha presentato una petizione contro il Comune di Gerusalemme presso il tribunale amministrativo a nome dei residenti di Kafr Aqab. Nel preparare la causa, gli abitanti hanno scoperto che il bilancio per i servizi di pulizia a Kafr Aqab ammonta a meno dell’1% del bilancio totale del Comune per quella voce. Il tribunale ha invitato le due parti a raggiungere un compromesso, e la città ha accettato di aumentare il bilancio per le pulizie all’1%.

Odeh dice che la risposta del Comune è sempre la stessa: non ci sono soldi ed è pericoloso mandare operai municipali in quei quartieri. Riguardo agli stanziamenti, dice, “paghiamo le tasse municipali e il bilancio dovrebbe essere ripartito in modo diverso. Invece in merito alle questioni di sicurezza, molti operai delle fognature sono di Gerusalemme est. Invece di mandarli in altre zone della città, perché non lavorano nei loro stessi quartieri? Se il Comune pensa che non sia troppo pericoloso per loro vivere lì, possono anche lavorarci.”

Nel 2015 Odeh ha presentato un altro ricorso, dato che i servizi comunali non sono migliorati. Il municipio afferma che, dato che è lo Stato che ha costruito il muro, dovrebbe partecipare alle decisioni. A questo lo Stato ha risposto criticando la città per aver trascurato i quartieri, benché abbia ricevuto fondi statali a loro favore. Per esempio, il ministero dei Trasporti ha informato il tribunale di aver concesso a Gerusalemme 423 milioni di shekel (circa 121.2 milioni di dollari) per migliorare infrastrutture come strade e servizi di autobus a Gerusalemme est, ma il Comune non ha utilizzato i soldi a quello scopo.

Nir Barkat è stato eletto sindaco di Gerusalemme per la prima volta nel 2008. Il suo predecessore, Uri Lupolianski, ha cercato di risolvere il problema dei suoi quartieri palestinesi nel 2005. Pensava che con 80 milioni di shekel (circa 17.5 milioni di dollari), si potesse creare una rete di servizi accettabile per quelli che erano stati tagliati fuori dal muro. “Prendi i soldi dai tuoi amici dell’Unione Europea, qual è il problema?” consigliò al sindaco l’allora ministro delle Finanze, Benjamin Netanyahu. In seguito lo stesso Netanyahu, come primo ministro, ha dovuto fare i conti con le conseguenze dell’abbandono. Un rapporto del servizio di sicurezza Shin Bet del 2008 ha fatto riferimento al crescente numero degli abitanti di Gerusalemme coinvolti nel terrorismo. C’era anche un allarme in merito alla possibilità di atti di terrorismo perpetrati da individui solitari dei quartieri di Gerusalemme est – una previsione che si sarebbe avverata qualche anno dopo.

Durante i primi anni 2000 relativamente pochi abitanti della città presero parte al terrorismo, ma il numero di attentatori residenti a Gerusalemme iniziò ad aumentare nel 2008. In un articolo di Nir Hasson nel 2014 su Haaretz, intitolato “La pericolosa anomalia imprevista di Gerusalemme est” egli ha citato palestinesi che attribuivano l’incremento a tre fattori. Il primo di questi era la barriera di separazione, che, con le parole di uno di loro, “danneggia gravemente la vita sociale ed economica a Gerusalemme.”

Un’altra proposta per risolvere il “problema dei quartieri di Gerusalemme est” è stata architettata recentemente dal ministro per Gerusalemme e il Patrimonio Nazionale, Zeev Elkin (Likud). Elkin ha fatto molte pressioni per l’approvazione di un emendamento alla “Legge Fondamentale su Gerusalemme, Capitale di Israele”. Una delle sue clausole avrebbe stabilito che i quartieri palestinesi della parte orientale della città sarebbero stati gestiti da un’autorità municipale separata rispetto a quella di Gerusalemme. L’ottobre scorso Elkin ha detto ai giornalisti di “Haaretz” Nir Hasson e Jonathan Lis che la situazione nei quartieri non potrebbe essere peggiore, ed ha proposto: “Il sistema attuale è stato un totale fallimento. È stato un errore il modo in cui hanno tracciato la barriera. Attualmente ci sono due aree municipali – Gerusalemme e i suoi quartieri – e il rapporto tra loro è molto scarso. Dal punto di vista formale l’esercito non potrebbe intervenire là, la polizia vi entra solo per (effettuare) operazioni, e la zona è diventata una terra di nessuno.”

Elkin ha anche manifestato preoccupazione per il rapido aumento della popolazione in quei quartieri, che sta disintegrando l’attuale equilibrio tra ebrei ed arabi in città, a danno della maggioranza ebraica. Il collega che ha proposto l’emendamento insieme a lui è il ministro dell’Educazione Naftali Bennett (“La casa ebraica” [partito di estrema destra, ndt]). Tuttavia molti altri deputati di destra si sono indignati all’idea di mettere i quartieri di Gerusalemme sotto l’autorità di un governo municipale a parte: essi hanno sostenuto che ciò avrebbe messo le basi per un’eventuale divisione della città, anche se solo a livello dei servizi. Ne è seguito un certo trambusto, e Elkin e Bennett sono stati obbligati a cancellare la clausola dall’emendamento. L’emendamento, il cui principale obiettivo era rendere più difficile ad ogni futuro governo rinunciare alla sovranità su una qualunque parte di Gerusalemme, è stato approvato dalla Knesset a gennaio di quest’anno, ma senza la clausola sulla “divisione”.

Un sacco di cancelli”

Ahmed Sub Laban, un ricercatore di “Ir Amim”, guida la sua auto con sorprendente destrezza nel dedalo di stradine nel quartiere A-Ram di Gerusalemme. Conosce bene ogni pezzetto di asfalto ed ogni vicolo, sa chi vive dove e può raccontare la storia di ogni edificio. “Pronta?” chiede poco prima di girare a sinistra da una stretta via senza nome ad un’altra. Improvvisamente il muro si profila davanti a noi, emergendo in tutta la sua gloria in mezzo alla strada, come se fosse caduto a caso dal cielo. Ma non c’è niente di casuale nel percorso del muro. Passa qui e non in un posto più logico perché c’è una scuola cristiana nel quartiere, a cui molti diplomatici stranieri mandano i propri figli. Non vogliono aver a che fare tutte le mattine con un posto di blocco, per cui lo Stato di Israele ha accettato di far passare il muro dietro la scuola. Il muro passa anche attraverso il cortile della casa del nonno di Sub Laban. Lo stesso Sub Laban sottolinea di aver passato un’infanzia relativamente tranquilla accanto agli ebrei del vicino quartiere di Neve Yaakov, all’estremità settentrionale della città.

Dice che fin dalle prime voci sulla costruzione della barriera, tra i palestinesi si scatenò un boom immobiliare: “Sapevamo che avrebbe cambiato il quartiere, per cui la gente iniziò a costruire in tutti i modi, per creare fatti sul terreno prima che l’occupante ci dicesse cosa avesse bisogno di un permesso e cosa no. Quelli che hanno costruito qui (sul lato che alla fine è rimasto all’interno di Gerusalemme) hanno fatto un affarone, quelli che hanno costruito là (in quello che è risultato essere l’altro lato del muro) hanno perso.” La differenza di prezzo è notevole: un appartamento di tre stanze sul lato israeliano costa 1.5 milioni di shekel (oltre 430.000 dollari), sul lato palestinese circa 16.000 shekel (48.000 dollari).

La direttrice esecutiva di “Ir Amim”, Yudith Oppenheimer, anche lei nell’auto, aggiunge che il muro a Gerusalemme “non separa solo israeliani da palestinesi, ma anche Gerusalemme est dalla Cisgiordania. La sua costruzione è stata provocata da ragioni di sicurezza, ma il percorso scelto è stato sfruttato per rispondere alle ambizioni politiche, demografiche e territoriali israeliane.”

Il geografo Arnon Soffer, professore emerito dell’università di Haifa, parla dell’estetica del muro. “Tutta questa barriera è un sacco di cancelli ed ingressi,” dice, quando ne parliamo. “La sua bruttezza è spaventosa. Entrambi possiamo concordare che è un’aggiunta estremamente brutta alla nostra capitale. Ricordo fin dall’adolescenza la classica immagine della stupenda Gerusalemme. Cosa ne è rimasto? È un errore estetico madornale, che è anche un errore geografico.”

Aggiunge: “Sa quanti palestinesi vivono a Gerusalemme? Qualcuno lo sa? Nessuno lo sa esattamente. I numeri variano da 300.000 a 400.000, e si suppone che un terzo di loro siano fuori dal muro. Ma non c’è un modo effettivo per contarli, perché nessuno sa cosa stia succedendo in quei miseri quartieri. Quale futuro stiamo preparando a noi stessi in questo terribile posto?”

La curiosità di sapere cosa succede dall’altra parte del muro è irresistibile, ma tutto quello che si può fare è ascoltare. Dall’altra parte, alla “Tomba di Rachele”, a sud della città, si sente una guida turistica spiegare in inglese fluente il muro a un gruppo che sembra avere un accento britannico. Sul lato israeliano circa 50 scolare ascoltano i loro insegnanti raccontare la storia della matriarca biblica Rachele. Chiedo se qualcuna di loro è curiosa di sapere cosa ci sia dall’altra parte del muro. Una risponde “Sì,” un’altra dice “C’è Betlemme”; tutte le altre rispondono negativamente, non sono curiose: “È così alla Tomba di Rachele.” È sorprendente con quanta rapidità un muro fatto dall’uomo possa diventare qualcosa che la gente dà per scontato.

Sfide insormontabili

Chiedo a Soffer, che ha 82 anni, come vede il futuro del muro. “Le sfide sono così terribili che sono seriamente preoccupato che voi” – riferendosi alle generazioni più giovani – “non sarete in grado di superarle,” risponde.

Infatti, a questo punto del conflitto e dato lo spirito dei tempi, è difficile immaginare che il muro possa mai crollare. Al momento non pare che succederà nel contesto di un accordo di pace, e la sua eliminazione per obiettivi di annessione ora è una missione troppo complessa. Ma ci sono anche quelli che pensano che il muro sia in realtà un segnale di speranza. Sottolineano che comunque esiste una specie di frontiera tra palestinesi ed israeliani, per quanto frammentata e discussa. Quindi lo spazio per un accordo potrebbe essere più ampio di quanto appaia in un primo momento.

Questa è la premessa di due architetti, Karen-Lee Bar Sinai and Yehuda Greenfield-Gilat (che è anche membro del consiglio comunale di Gerusalemme, in rappresentanza del Partito dei Gerosolimitani [partito laico-religioso di centro, ndt.]). Entrambi erano studenti di architettura quando venne lanciato il progetto di separazione.

Benché le implicazioni geopolitiche, spaziali ed economiche del muro siano enormi, abbiamo rilevato che la comunità locale degli architetti non è stata coinvolta nella questione,” dice Bar Sinai. “Pensiamo che gli architetti abbiano un importante ruolo da svolgere nell’assunzione di responsabilità su come sarà il confine tra Israele e Palestina. Quello che è iniziato come una tesi di laurea è diventato la nostra professione.” I due hanno fondato lo studio “SAYA/Design for Change” ed hanno prodotto numerose mappe e simulazioni con l’obiettivo di “valorizzare la frontiera tra Israele e Palestina,” come dicono loro.

Il muro attorno a Gerusalemme rimarrà,” dice Greenfield-Gilat, “ma il suo percorso cambierà una volta che siano stabiliti i confini definitivi. Secondo noi, insieme ad un cambiamento del percorso, deve cambiare anche l’essenza del muro, in modo che diventi un collegamento e non una divisione. Deve diventare una membrana che respira e rende possibile un tessuto urbano vitale.”

Se il muro rimane, ma non com’è adesso, a cosa somiglierà? I due suggeriscono che sia integrato nelle infrastrutture municipali e mostrano con immagini e mappe come ciò possa essere fatto. Un’idea, per esempio, è di collocare un attraversamento nella stazione centrale degli autobus, in modo che il controllo di sicurezza venga effettuato all’entrata della stazione viaria ed evochi un aeroporto più che un posto di blocco. Un altro attraversamento verrebbe creato sotto la porta di Damasco della Città Vecchia, vicino al sito archeologico. Propongono anche un punto di passaggio nella forma di un ponte pedonale nei pressi dell’hotel “American Colony” a Gerusalemme est. Invece di un muro, in certi punti propongono uno spartitraffico alto, che separi due parti di una strada.

Durante la nostra conversazione dico agli architetti che, benché abbiano descritto la barriera di separazione in termini eleganti, parlando di una “membrana che respira” o di “un viale di confine” – non posso smettere di immaginare un alto muro con filo spinato.

Il nostro ruolo,” replica Greenfield-Gilat, “è proprio cambiare quello che lei sta immaginando. Stiamo proponendo una soluzione che ponga le basi soprattutto per trasformare le coscienze.” A cui Bar Sinai aggiunge: “Lei dipinge la separazione tra i popoli, e va bene – quando viene deciso di separarli per ragioni di sicurezza, lasciamo fare la separazione -, ma noi stiamo parlando della connessione. Stiamo dimostrando che è possibile mettere in connessione in modo più intelligente, farlo meglio.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Incoraggiato da Trump, Israele stringe la presa su Gerusalemme

Tamara Nassar

15 febbraio 2018, Electronic Intifada

Israele ha iniziato i lavori per un nuovo grande progetto di insediamento nella Gerusalemme est occupata. Secondo il “Palestinian Center for Human Rights” [“Centro Palestinese per i diritti umani”, ndt.] (PCHR), lo scorso martedì pomeriggio sono iniziati i lavori per la costruzione di un centro per studi religiosi ebraici nella Città Vecchia di Gerusalemme.

Il centro è a poca distanza dalla moschea di Al-Aqsa, uno dei luoghi più sacri per l’Islam. Il PCHR ha affermato che il progetto è una diretta violazione dei diritti palestinesi su Gerusalemme, e che “altererebbe e cambierebbe gravemente le caratteristiche storiche della città.”

Fa parte di un piano per eliminare la cultura palestinese, reinventare la storia di Gerusalemme in base ad una narrazione sionista ed espellere i palestinesi dalla città.

Il progetto è iniziato nello stesso momento in cui le autorità israeliane stanno installando un posto di blocco militare alla Porta di Damasco, una delle entrate della Città Vecchia, frequentemente utilizzata dai palestinesi.

La decisione del presidente Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele sembra aver dato “via libera alle autorità israeliane per espropriare il territorio palestinese, in particolare nella Gerusalemme occupata, a favore dei progetti di colonizzazione,” ha aggiunto il PCHR.

Le autorità israeliane hanno approvato il piano nel 2015. Il progetto prevede la costruzione di un edificio di tre piani su 2.800 m2 a Gerusalemme est.

La costruzione di questa colonia violerebbe le leggi internazionali.

Violerebbe anche una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvata nel dicembre 2016, che afferma che Israele deve “cessare immediatamente e completamente ogni attività di colonizzazione nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme est.”

L’Autorità Nazionale Palestinese ha chiesto ai governi del resto del mondo di bloccare la costruzione del progetto e di fare pressioni su Israele perché rispetti le leggi internazionali.

Imposizione di tasse alle Chiese palestinesi

I palestinesi stanno anche condannando la decisione di Israele di iniziare a raccogliere tasse dalle Chiese e dalle istituzioni delle Nazioni Unite a Gerusalemme.

Le autorità dell’occupazione israeliana hanno preso questa iniziativa – che è l’ultima aggressione contro la nostra capitale, Gerusalemme occupata, e contro i suoi abitanti originari – per realizzare le illusioni delle autorità occupanti di espellerli a forza,” ha affermato Yousef al-Mahmoud, un portavoce dell’Autorità Nazionale Palestinese.

La decisione del consiglio comunale di Gerusalemme controllato da Israele si basa su una richiesta da parte di Gabriel Hallevy, un professore israeliano di diritto, secondo cui le esenzioni di imposta per le Chiese riguardano solo le proprietà utilizzate per il culto o per insegnare la religione.

Il consiglio comunale ha iniziato a raccogliere circa 186 milioni di dollari da 887 proprietà a Gerusalemme che sono di Chiese e delle agenzie ONU, dopo aver congelato i loro conti bancari.

Le organizzazioni colpite comprendono l’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.

Il municipio ha già sequestrato circa 3 milioni di dollari dalla Chiesa cattolica, 2 milioni da quella anglicana, 500.000 dollari da quella armena e 161.000 dalla Chiesa greco ortodossa.

Svuotare Gerusalemme

I capi religiosi hanno affermato che Nir Barkat, il sindaco israeliano di Gerusalemme, sta violando i trattati internazionali che esentano le Chiese dalle tasse statali.

Al-Ahmoud dell’ANP ha affermato che non ci sono leggi al mondo che impongono tasse su luoghi di preghiera, tranne le leggi dell’occupazione.

Ora Israele cerca di reinterpretare queste leggi, che sono rimaste in vigore fin dai giorni dell’Impero Ottomano.

Atallah Hanna, un arcivescovo della Chiesa greco ortodossa, ha affermato che l’imposizione di tasse segna l’ultimo tentativo di Israele di svuotare Gerusalemme dalle sue istituzioni religiose e dagli abitanti palestinesi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele colpisce Gaza dopo che due soldati sono stati feriti, due palestinesi morti

MEE e agenzie

Domenica 18 febbraio 2018,Middle East Eye

L’esercito israeliano afferma che le sue forze hanno sparato “colpi di avvertimento” verso palestinesi che si stavano avvicinando alla barriera di confine tra Israele e Gaza

Fonti ospedaliere hanno affermato che domenica le forze israeliane hanno ucciso due adolescenti palestinesi nella Striscia di Gaza, mentre cresce la tensione dopo un presunto attacco con bombe che ha ferito alcuni soldati israeliani sul confine dell’enclave.

L’esplosione di sabato e i successivi attacchi aerei israeliani hanno segnato una delle più gravi escalation nel territorio governato da Hamas da quando il movimento islamico e Israele hanno combattuto un conflitto nel 2014 [l’attacco denominato “Margine protettivo”, ndt.].

Domenica medici di Gaza hanno affermato di aver recuperato i corpi di due palestinesi di 17 anni uccisi dal fuoco di un carro armato israeliano. L’esercito israeliano ha sostenuto che le sue forze hanno sparato” colpi di avvertimento” verso un certo numero di palestinesi che si stavano avvicinando alla recinzione di confine “in modo sospetto”.

Sono stati identificati dal ministero della Salute di Gaza come Salam Sabah e Abdullah Abu Sheikha, entrambi di 17 anni, che sono stati uccisi a est di Rafah nel sud dell’enclave. Dovevano essere sepolti più tardi domenica.

Sabato quattro soldati israeliani sono rimasti feriti, due in modo grave, quando un ordigno esplosivo artigianale è scoppiato lungo la barriera di confine di Gaza, ma secondo l’esercito nessuno di loro è in pericolo di vita.

Israele ha risposto con quelli che l’esercito ha definito attacchi aerei e fuoco dei carri armati contro 18 obiettivi di Hamas e della Jihad Islamica, compresi impianti per la fabbricazione di armi, campi di addestramento e postazioni di osservazione.

L’ala militare di Hamas, Izz ad Din al Qassam, ha sostenuto sabato notte di aver utilizzato missili antiaerei contro i jet israeliani sul territorio costiero.

Ciò è avvenuto nel quadro della resistenza contro la continua aggressione sionista contro il nostro popolo nella Striscia di Gaza,” ha detto il gruppo senza ulteriori spiegazioni.

Escalation”

Nessun gruppo armato a Gaza ha rivendicato la responsabilità dell’esplosione di sabato. Il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha detto che i “Comitati di Resistenza Popolare”, uno dei gruppi armati minori di Gaza, ha fatto esplodere la bomba che ha ferito i soldati.

Scoveremo i responsabili dell’incidente di ieri,” ha detto Lieberman a Radio Israele domenica, aggiungendo che Hamas é in ultima istanza responsabile di quanto avviene a Gaza.

Il portavoce di Hamas Fawzi Barhoum ha accusato Israele delle violenze.

Hamas ritiene l’occupazione israeliana totalmente responsabile delle conseguenze per la sua continua escalation contro il nostro popolo,” ha affermato Barhoum in una dichiarazione.

Hamas e Israele hanno combattuto tre conflitti dal 2008. Il conflitto più recente, nel 2014, è stato in parte combattuto a causa di tunnel da Gaza che venivano utilizzati per lanciare attacchi.

Israele ha ripetutamente colpito obiettivi di Hamas nel sud della Striscia di Gaza all’inizio di febbraio, sostenendo che i palestinesi là avevano sparato un missile nel suo territorio.

La tensione tra i palestinesi e Israele è stata alta da quando il presidente USA Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico in dicembre.

Venerdì una fonte ufficiale dell’amministrazione USA ha detto all’agenzia AFP che Netanyahu visiterà la Casa Bianca il prossimo mese.

La visita del 5 marzo arriva mentre Netanyahu deve affrontare uno scandalo che ha visto la polizia raccomandare che sia imputato per corruzione.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Mike Pence ha appena confermato l’uscita dell’America dal processo di pace in Medio Oriente

Sam Bahour

23 gennaio 2018, Haaretz

Quando Pence afferma: ‘Noi stiamo con Israele. La vostra causa è la nostra causa, la vostra lotta è la nostra lotta’, è chiaro che l’America è interessata solamente ad offrire ad Israele un cieco appoggio politico e ad abbandonare i palestinesi. Una vera pace ora non può che significare aggirare l’amministrazione USA

Il vicepresidente USA non avrebbe potuto dirlo più chiaramente.

Sono qui per trasmettervi un solo semplice messaggio. L’America sta con Israele. Noi stiamo con Israele perché la vostra causa è la nostra causa, i vostri valori sono i nostri valori e la vostra lotta è la nostra lotta,” ha detto lunedì alla Knesset (il parlamento) israeliana.

Ha rilanciato il piano dell’amministrazione Trump di spostare l’ambasciata a Gerusalemme ed ha ripetuto come un mantra l’affermazione che la decisione statunitense di riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele era giustificata in quanto “dato di fatto”. Il termine ‘palestinese’ non è stato quasi pronunciato e ‘Palestina’ – neanche una volta.

Pence ha anche detto che gli USA avrebbero sostenuto una soluzione dei due Stati, ma solo se entrambe le parti l’avessero appoggiata – ribadendo la posizione di Trump quando ha fatto l’annuncio. Che cosa significa? Che gli USA stanno rinunciando alla soluzione dei due Stati. Uno Stato palestinese sovrano non è più un obbiettivo necessario e centrale della politica estera americana.

Donald Trump, a quanto pare, non farà niente per bloccare o disapprovare l’accelerata costruzione di colonie da parte di Israele, o l’autorizzazione retroattiva degli avamposti costruiti su terre private palestinesi, avendo ammorbidito la vecchia e stanca retorica statunitense di “le colonie sono un ostacolo alla pace” con “le colonie potrebbero non aiutare” la pace. Quindi la loro costruzione continuerà, indefinitamente.

L’impresa coloniale israeliana ha acquisito, e gli USA hanno volontariamente venduto, tempo e spazio per consolidarsi, rendendo così sempre più impossibile la realizzazione di una soluzione di due Stati.

Alla luce di questa realtà, la comunità internazionale deve ora riconoscere che l’approccio “a guida USA” alla soluzione del conflitto israelo-palestinese è destinato al fallimento. Non vi è ora alcun dubbio che l’inafferrabile pace non si verificherà mai durante la presidenza Trump. È assolutamente chiaro – dopo due decenni di negoziati falliti sotto gli auspici USA – che la leadership americana è inutile e controproducente negli sforzi per la soluzione di questo conflitto.

Se la comunità internazionale intende ottenere due Stati per due popoli dovrà perseguire una posizione politica indipendente che aggiri gli americani. L’influenza politica della comunità internazionale in questo ambito è stata a lungo irrilevante, dato il monopolio USA sul processo di pace. Adesso è il momento che si faccia sentire.

La comunità internazionale per troppo tempo si è affidata alla leadership sbagliata. Questo tragico errore storico non solo è costato miliardi ai contribuenti della comunità internazionale, ma ha anche condotto ad una realtà diametralmente opposta a ciò che intendevano i responsabili delle politiche globali.

Dopo 24 anni, la fiducia nella “leadership” americana ha portato alla creazione di tanti bantustan palestinesi, finanziati dai contribuenti europei, circondati da una potenza militare occupante che continua ad occupare impunemente: l’UE ed i suoi Stati membri sono di gran lunga i maggiori donatori nei confronti dei palestinesi.

Israele – entusiasta che una parte terza intenda sovvenzionare la sua occupazione militare – continua ad ampliare e consolidare la sua impresa coloniale, con il sostegno di ampi settori dell’opinione pubblica e del governo americani.

Storicamente USA e UE hanno condiviso il comune obbiettivo di risolvere il conflitto israelo-palestinese nella cornice di una soluzione a due Stati. Ma da quando Trump occupa la Casa Bianca ed i repubblicani ora controllano i tre poteri del governo USA, vi è stato un significativo slittamento a destra nella politica del partito repubblicano verso Israele e Palestina.

Al contrario, gli europei si sono mossi verso un riconoscimento dello Stato di Palestina. Il riconoscimento svedese è ora ufficiale, mentre i parlamenti di Regno Unito, Irlanda, Spagna, Francia, Lussemburgo, insieme al Parlamento Europeo, hanno tutti approvato il riconoscimento. In seguito alla dichiarazione di Trump su Gerusalemme, tutto indica che più Paesi andranno verso il riconoscimento della Palestina per salvaguardare la soluzione dei due Stati.

L’America sostiene l’occupazione israeliana. L’Europa senza volerlo la sovvenziona. L’amministrazione Trump farà ben poco per contrastare il suo stesso partito o rischiare la collera dell’influente lobby israeliana negli USA, favorevole alle colonie. Trump continuerà a difendere l’approccio di non intervento, “tocca alle due parti decidere”. Il risultato è che Israele, che ha tutto il potere, è poco incentivato a fare concessioni, mentre i palestinesi, che non hanno potere e dovrebbero essere “protetti” in base al diritto internazionale, sono lasciati alla loro disperazione.

L’America è parte del problema

L’intransigenza di Israele e la sua palese violazione del diritto internazionale sono alimentate dalla sicurezza che, qualunque cosa faccia, gli USA lo proteggeranno sempre da un serio biasimo. La disperazione palestinese si basa sulla convinzione che l’enorme sostegno americano ad Israele renda inutili i negoziati, in quanto Israele ha poco interesse a fare concessioni, ricevendo così tanto denaro, armi e cieco sostegno politico.

Quindi che cosa può fare la comunità internazionale, più che votare contro la dichiarazione di Trump nelle varie istanze delle Nazioni Unite? La comunità internazionale può rimboccarsi le maniche, gestire una politica forte e affrontare l’occupante senza aspettare che la leadership americana ottenga risultati.

Se le esperienze di Bosnia, Kosovo, Timor est e Sudafrica insegnano qualcosa, un occupante o un regime di apartheid cambieranno direzione solo attraverso un’articolata combinazione di sanzioni, isolamento internazionale e, come ultima risorsa, forza militare.

La comunità internazionale deve cogliere l’occasione e dimostrare ai suoi componenti che l’Europa sta sprecando il suo denaro e la sua credibilità indulgendo al gioco americano dell’imparzialità. È chiaro che l’America non ha scrupoli morali o politici a che Israele resti una forza di occupazione. Una volta che la comunità internazionale finalmente riconoscerà questa realtà e andrà avanti, troverà la forza e la legittimazione per proporre politiche proprie, conformi al diritto internazionale, alla Carta delle Nazioni Unite ed ai propri standard morali.

Sam Bahour è un analista politico per ‘Al-Shabaka: rete di informazione politica palestinese’ ed è membro del segretariato del Gruppo di Strategia per la Palestina.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Lasciamo che la soluzione dei due Stati muoia di morte naturale

Richard Falk

1 gennaio 2018,middleeasteye

Solo un movimento di solidarietà globale, che esercita una pressione sufficiente su Israele, può creare una trazione politica per uno Stato laico condiviso ugualmente da israeliani e palestinesi

Nonostante tutte le apparenze contrarie, coloro che in Occidente  non vogliono unirsi al partito vittorioso israeliano si aggrappano fermamente alla soluzione dei due stati. Israele ha indicato in misura sempre crescente, con le sue azioni e parole, comprese quelle del primo ministro Benjamin Netanyahu, un’opposizione a una Palestina autenticamente indipendente e sovrana.

Il progetto di espansione degli insediamenti sta accelerando con le promesse fatte da una serie di figure politiche israeliane che nessun colono sarebbe mai stato espulso da un accordo anche se l’abitazione illegale non fosse situata in un blocco di insediamenti.

Domenica, il Partito del Likud di Netanyahu ha invitato unanimemente i legislatori a una risoluzione non vincolante  per unire efficacemente gli insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata, terra che i palestinesi vogliono per uno Stato futuro.

Aggrappato alla soluzione dei due Stati

Per di più, Netanyahu, anche se a volte parla come se preferisse una ripresa dei negoziati di pace, sembra più autentico quando chiede il riconoscimento di Israele come Stato del popolo ebraico come precondizione per qualsiasi ripresa dei colloqui con i palestinesi.

Per completare il tutto, la decisione di Trump del 6 dicembre dello scorso anno di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e di dare un seguito spostando l’ambasciata degli Stati Uniti toglie dai futuri negoziati una delle questioni più delicate: lo status e la condivisione di Gerusalemme.

Tutto sommato sembra giunto il momento di riconoscere tre conclusioni correlate:

(1) La leadership di Israele ha respinto la Soluzione a due Stati come via per la risoluzione del conflitto;

(2) Israele ha creato condizioni, quasi impossibili da invertire, che rendono del tutto irrealistico aspettarsi la creazione di uno Stato palestinese;

(3) Trump, ancor più dei precedenti presidenti, ha fortemente e visibilmente impegnato la diplomazia americana  a favore di qualsiasi leader israeliano cerchi la fine di questa lotta epica tra i due popoli.

Eppure molte persone di buona volontà e dedite alla pace si aggrappano alla soluzione dei due Stati.

Le parole di Amos Oz, il celebre romanziere israeliano, esprimono un sentimento ampiamente condiviso:

“… nonostante le battute d’arresto, dobbiamo continuare a lavorare per una soluzione a due Stati: rimane l’unica soluzione pragmatica e pratica di questo nostro conflitto che ha portato così tanto spargimento di sangue e dolore in questa terra”.

È anche significativo che Oz abbia fatto questa dichiarazione nel corso di un appello per il finanziamento di fine anno 2017 a favore di ‘J Street’, la voce del sionismo moderato, negli Stati Uniti.

Quello che Oz dice, ed è opinione diffusa, è che non v’è alcuna soluzione disponibile per la Palestina a meno che non ci sia uno Stato ebraico sovrano indipendente lungo i confini del 1967 come nucleo essenziale di ogni credibile accordo diplomatico.

In altre parole, ogni alternativa non sarebbe “pragmatica, pratica” secondo Oz e molti altri. Poiché questo è raramente articolato, ma sembra poggiare sull’asserzione che il movimento sionista, fin dal suo inizio, ha cercato una patria per il popolo ebraico che potrebbe essere garantita ed adeguatamente proclamata solo se sotto la protezione di uno Stato ebraico

Per molti anni la leadership palestinese, riconosciuta a livello internazionale, ha condiviso questo punto di vista e ha dato la sua benedizione formale nella sua Dichiarazione PNC/OLP 1988 che guardava all’accettazione di Israele come Stato legittimo se l’occupazione fosse finita, le forze israeliane si fossero ritirate e la sovranità palestinese stabilita entro i confini del 1967 (che erano significativamente più estesi di quelli proposti dall’ONU attraverso  la risoluzione 181 dell’Assemblea generale – cioè, Israele avrebbe avuto il 78% anziché il 55% del territorio complessivo acquisito dal mandato britannico).

Questo tipo di risultato è stato avallato anche dall’Iniziativa Pace Araba del 2002 e presentato con fiducia come soluzione durante la presidenza di Obama.

Persino Hamas ha appoggiato lo spirito dell’approccio dei due Stati proponendo nel corso dell’ultimo decennio un cessate il fuoco a lungo termine, fino a 50 anni, se Israele dovesse porre fine all’occupazione di Gerusalemme Est, Cisgiordania e Gaza che in effetti avrebbero materializzato la soluzione dei due Stati di fatto: Israele e Palestina

Seri dubbi

Ci sono almeno quattro problemi, opportunamente nascosti sotto il tappeto dai sostenitori dei due Stati, uno dei quali è sufficientemente grave da sollevare seri dubbi circa la fattibilità e l’opportunità della Soluzione dei due Stati:

1 – Il sionismo liberale espresse un punto di vista verso una soluzione diplomatica che non è stata condivisa dai governi israeliani più di destra guidati dal Likud che hanno dominato la politica israeliana nel corso del 21° secolo; l’obiettivo israeliano prevedeva l’espansione territoriale – in particolare per quanto riguarda un’allargata e annessa Gerusalemme, con una vasta rete di insediamenti e collegamenti di trasporto in Cisgiordania – sostenuto dalla convinzione fondamentale che Israele non dovesse stabilire confini permanenti fino a che l’intera ‘terra promessa’ come raffigurata nella Bibbia non fosse ritenuta parte di Israele.

Palestinesi si dirigono verso un checkpoint israeliano  / AFP PHOTO / Musa AL SHAER

In effetti, nonostante qualche timidezza nell’affrontare un processo diplomatico, Israele non ha mai credibilmente avallato un impegno nei confronti di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 basato sull’uguaglianza dei due popoli.

2 – In secondo luogo, Israele ha creato fatti concreti sul terreno che hanno definitivamente contraddetto la sua dichiarata intenzione di cercare una pace sostenibile basata sulla soluzione dei due Stati.

3 – In terzo luogo, la soluzione dei due Stati, come previsto dai suoi sostenitori, ha di fatto trascurato la difficile situazione della minoranza palestinese in Israele, che ammonta al 20% della popolazione, ovvero a circa 1,5 milioni di persone. Aspettarsi che una minoranza non ebraica così numerosa accetti l’egemonia etnica e le politiche e le pratiche discriminatorie dello Stato israeliano è irrealistica, oltre a essere contraria agli standard internazionali sui diritti umani.

4 – E infine, oltre a questo, sostenere Israele in relazione al popolo palestinese espropriato e oppresso è dipeso dalla creazione di strutture di dominio etnico che costituiscono il crimine dell’apartheid.

Smantellare le strutture dell’apartheid

Come in Sud Africa, non può esserci pace con i palestinesi fino a quando non saranno smantellate completamente le strutture dell’apartheid utilizzate per soggiogare il popolo palestinese (comprese quelle imposte ai profughi e agli esiliati palestinesi), ciò non accadrà finché la leadership e il pubblico israeliano non rinunceranno a insistere sul fatto che Israele è esclusivamente lo Stato del popolo ebraico, includendo un illimitato ed esclusivo diritto al ritorno per gli ebrei e altri privilegi basati esclusivamente sull’identità etnica.

Tutto questo ci spinge a scartare la soluzione dei due Stati come indesiderata da Israele, inaccettabile per i palestinesi e non diplomaticamente raggiungibile, anche se emergesse inaspettatamente una forte volontà politica  sinceramente dedicata alla sua attuazione.

A fronte di una tale critica situazione siamo obbligati a fare del nostro meglio per rispondere a questa domanda inquietante: “C’è una soluzione che sia desiderabile e raggiungibile, anche se non è attualmente visibile nell’orizzonte politico?”

Seguendo queste linee, prefigurate 20 anni fa da Edward Said, due principi fondamentali devono essere raggiunti se si vuole raggiungere una pace sostenibile: agli israeliani deve essere data una patria ebraica all’interno di una Palestina riconfigurata e i due popoli devono stabilire un’autorità costituzionale che difenda i principi fondamentali di uguaglianza collettiva e dignità umana individuale.

Realizzare una simile visione sembrerebbe richiedere la creazione di uno stato unificato laico, magari con due bandiere e due nomi. Vi sono molte varianti, purché sia ​​rispettata l’uguaglianza dei due popoli nelle strutture costituzionali e istituzionali del governo.

Se l’approccio liberista sionista sembra impraticabile e inaccettabile, questa sarà  l’alternativa favorita, “una inutile utopia” o al massimo una fonte di false speranze?

Se i palestinesi dovessero proporre una tale soluzione nell’attuale atmosfera politica, Israele senza dubbio o la ignorerebbe o reagirebbe in modo sprezzante, e gran parte del resto della comunità internazionale li deriderebbe. Forse, ma ciò che viene proposto è un’utopia utile e l’unico percorso realistico verso una pace sostenibile e giusta.

Non v’è dubbio che l’attuale panorama di forze è tale che è prevedibile un rigetto iniziale. Anche se  l’Autorità palestinese dovesse presentare una visione del genere sotto forma di una proposta elaborata con molta attenzione, costituirebbe nuovo terreno per un dibattito più corrispondente alle effettive circostanze affrontate dagli israeliani e dai palestinesi.

Un movimento di solidarietà globale

La principale questione politica ed etica è come creare una spinta politica per uno Stato laico condiviso ugualmente da israeliani e palestinesi. Ritengo che ciò possa avvenire solo in questo contesto se il movimento di solidarietà mondiale che attualmente sostiene la lotta nazionale palestinese eserciterà pressioni sufficienti su Israele in modo che la leadership israeliana riveda i suoi interessi. Il precedente caso sudafricano, pur differendo in molti aspetti, è tuttora istruttivo.

Pochi immaginavano che in Sudafrica una transizione pacifica dall’apartheid a una democrazia costituzionale basata sull’eguaglianza razziale fosse lontanamente possibile, fino a quando non è successo.

Prevedo una potenziale analogia riguardo Israele/Palestina, anche se indubbiamente sarebbero presenti  una serie di fattori che dimostrano l’originalità di quest’ultima fase di sviluppo. In politica, se la volontà politica e le capacità necessarie sono presenti e mobilitate, l’impossibile può verificarsi e realizzarsi, come in Sudafrica e nelle lotte contro i regimi coloniali europei nella seconda metà del XX secolo.

Inoltre, senza una tale politica di impossibilità, persisterà una sofferenza enorme. La strada per una vera pace e giustizia sia per i palestinesi che per gli israeliani deve basarsi sulla loro convivenza sulla base del rispetto reciproco in una versione matura e democratica dello Stato di diritto, sostenuta da pesi e contrappesi e diritti fondamentali costituzionalmente forti.

Chi è Richard Falk

Richard Falk è professore emerito di diritto internazionale all’Università di Princeton. È autore o coautore di 20 libri e redattore o co-editore di altri 20 volumi. Nel 2008, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (UNHRC) ha nominato Falk per un mandato di sei anni come relatore speciale delle Nazioni Unite sulla “situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967.”

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina

 




Come i sionisti cristiani hanno ottenuto il loro uomo nella Casa Bianca

Morgan Strong

2 gennaio 2018, Middle East Eye

I sionisti cristiani sono riusciti ad avere, grazie alla posizione di Mike Pence e dei suoi compagni di fede alla Casa Bianca, un’incredibile influenza su quella che è la più potente Nazione sulla terra.

Il 18 luglio il vice presidente USA Mike Pence ha pronunciato il discorso d’apertura all’annuale riunione dei “Christians United for Israel” [“Cristiani Uniti per Israele”] (CUFI). Fondato nel 2006 dal pastore John Hagee, un evangelico di San Antonio, il CUFI sostiene di essere il più numeroso gruppo filo-israeliano degli Stati Uniti, con tre milioni di membri. Nel maggio 2016 Hagee ha appoggiato la candidatura di Trump a presidente.

Pence ha di nuovo sostenuto che l’amministrazione Trump avrebbe spostato l’ambasciata USA a Gerusalemme, questa volta di fronte ai sostenitori cristiani di Israele che sono diventati sempre più insoddisfatti per il fatto che Trump non abbia ancora tenuto fede alla sua promessa elettorale nei confronti di Israele – segnando quello che alcuni analisti hanno visto come un nuovo cambiamento ideologico della Casa Bianca.

Il cambiamento ideologico della Casa Bianca

Il discorso di Pence segna un cambiamento fondamentale nel linguaggio che la Casa Bianca ha storicamente utilizzato per esporre i rapporti degli Stati Uniti con Israele,” ha scritto sul “Washington Post” Dan Hummel, uno studioso dell’Harvard Kennedy School.

Questo cambiamento fondamentale è verso il sionismo cristiano, un’ideologia che basa il proprio appoggio ad Israele sulla convinzione che il moderno Stato di Israele sia una manifestazione delle profezie della Bibbia – e che il destino degli Stati Uniti sia profeticamente legato ad Israele.

Hummel descrive Pence come un “ardente sionista cristiano” che esprime il proprio appoggio ad Israele in termini esplicitamente profetici. La sua comparsa alla riunione “indica una nuova era dell’influenza del sionismo cristiano sulla Casa Bianca.”

Pence non è da solo nel tentativo di convincere Trump a realizzare quello che i cristiani sionisti vedono come una profezia biblica. Mike Huckabee, l’ex governatore dell’Arkansas, sua figlia Sara Huckabee Sanders, ora addetto stampa della Casa Bianca, e Sara Palin esercitano una grande influenza nell’amministrazione Trump e sono ardenti sionisti cristiani.

Roy Moore dell’Alabama, che Trump ha appoggiato in Alabama per l’elezione al Senato, è annoverato in questo gruppo.

L’apocalisse dei cristiani sionisti

I sionisti cristiani, che sono circa 20 milioni negli Stati Uniti, negli ultimi decenni hanno investito milioni di dollari a favore di un’espansione di Israele. Hanno sponsorizzato la migrazione di migliaia di ebrei dalla Russia, dall’Etiopia e da altri Paesi.

Hanno contribuito con milioni [di dollari] alla costruzione di nuove colonie nelle zone palestinesi occupate per sistemarvi i migranti. “Lo spostamento [dell’ambasciata Usa a Gerusalemme] dimostra che il nostro presidente mantiene fede alla sua parola,” ha detto Hagee.

Ha anche detto alcune altre cose meno lucide: “Restituire Gerusalemme ai palestinesi equivarrebbe a restituirla ai talebani.” Ha anche detto che il popolo ebraico sta per bruciare all’inferno per l’eternità, a meno che non abbandoni l’ebraismo e si converta al cristianesimo dopo la battaglia di Armageddon [probabilmente Tel Megiddo, nell’attuale Israele nei pressi di Nazareth, ndt.].

Ciò è qualcosa in cui John Hagee crede, e in cui credono tre milioni di fedeli del CUFI e inoltre i complessivi 40 milioni di membri del movimento evangelico, o almeno vi credono in parte.

Rimane la più terrificante supposizione che una parte, o quanto meno qualcuna, delle cose che Hagee crede possa essere creduta anche dallo stesso presidente. L’ossessione di Trump per l’Islam potrebbe essere parzialmente influenzata dalle opinioni contro l’Islam dell’ex capo del CUFI, il defunto pastore Jerry Falwell.

Non più un onesto mediatore

Il 6 dicembre Trump ha esplicitamente negato la persistente speranza per una soluzione dei Due Stati. “Dopo più di due decenni di deroghe, non siamo più vicini ad un accordo di pace definitivo tra Israele ed i palestinesi. Pertanto ho deciso che è tempo di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come la capitale di Israele. Sarebbe una follia ritenere che ripetere esattamente la stessa formula produrrebbe ora un risultato diverso o migliore,” ha detto.

Il riconoscimento di Gerusalemme come unica capitale di Israele è molto più che simbolico. In effetti nega uno dei più fondamentali impegni del processo di pace, una soluzione dei Due Stati.

Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas lo ha pienamente compreso. I palestinesi sono ora convinti che gli Stati Uniti non possano essere degli intermediari imparziali, o neutrali – benché gli Stati Uniti non siano mai stati dei mediatori veramente obiettivi.

L’enorme influenza politica di Israele negli Stati Uniti ha reso impossibili rapporti onesti, e questa duplicità è palesemente evidente ora. Il mese scorso in un summit internazionale Abbas ha detto che gli Stati Uniti non sono adeguati a mediare nel conflitto in Medio Oriente, segnando un importante cambiamento di politica dopo decenni passati a corteggiare la benevolenza americana.

Abbas ha annunciato il cambiamento, che arriva in risposta alla dichiarazione di Trump su Gerusalemme, durante un incontro dei dirigenti musulmani che ha condannato la mossa degli USA e ha chiesto il riconoscimento mondiale di uno Stato palestinese con capitale a Gerusalemme est.

Il 21 dicembre l’assemblea generale dell’ONU ha votato per condannare la decisione di Trump su Gerusalemme. Quasi tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite l’hanno condannata, nonostante le sue minacce di negare ulteriori finanziamenti agli Stati che avessero votato contro.

Ciò porta ad una drastica fine del processo di pace attraverso il fruttuoso tentativo di Jared Kushner, il genero di Trump e principale consigliere, di chiedere ai palestinesi di accettare una totale capitolazione alle richieste di Israele. La famiglia Kushner e lui stesso hanno contribuito con milioni [di dollari] agli sforzi di colonizzazioni israeliane in Cisgiordania.

Il risultato del suo obiettivo di negare qualunque soluzione ai palestinesi per le loro rivendicazioni non avrebbe mai dovuto essere stato in dubbio, dal momento in cui gli è stata concessa da Trump autorità assoluta.

Il ritorno del messia

Una questione essenziale per i sionisti integralisti e per i loro alleati cristiani è la collocazione delle rovine del primo e del secondo tempio ebraico sotto il complesso della moschea di Al-Aqsa, il terzo luogo più venerato dell’Islam. Un principio fondamentale della teoria dei sionisti cristiani è che un nuovo tempio venga costruito su queste antiche rovine.

I palestinesi credono che gli scavi archeologici israeliani sotto il complesso della moschea di Al-Aqsa per costruire il nuovo tempio costituisca una minaccia per la moschea. I sionisti cristiani sono assolutamente convinti che questo debba essere fatto per rispettare la profezia. Credono che una volta completata la costruzione del nuovo tempio il ritorno del messia sarà inevitabile.

L’unica speranza per i palestinesi è una graduale inclusione della popolazione palestinese della Cisgiordania e di Gaza in quella che diventerà un’entità unica, Israele. Un esito estremamente improbabile. Gli israeliani non acconsentiranno mai a concedere la cittadinanza ai palestinesi musulmani o cristiani, e il diritto di voto in quello che è ora dichiarato da Netanyahu come lo Stato ebraico.

Netanyahu ha l’incrollabile, forse delirante, convinzione di essere stato scelto da dio per guidare il popolo ebraico. Eyal Arad, un importante ex- consigliere politico, ha detto: “Il primo ministro ha una visione messianica di se stesso, come di una persona chiamata a salvare il popolo ebraico dal nuovo olocausto.”

Farebbe meglio a sbrigarsi. Ora è sottoposto alla quarta inchiesta per corruzione e malversazione da quando è al governo.

Anche Pence è convinto di essere chiamato da dio. Il suo passaggio biblico favorito, che spesso cita, è: “Poiché conosco i progetti che ho per te, dichiara il signore, progetti di farti prosperare e non di danneggiarti, progetti di darti speranza e un futuro.”

Pence è ambizioso, nonostante l’apparente mancanza di credenziali e i suoi errori politici come governatore dell’Indiana. Pence “ha chiarito” al comitato nazionale repubblicano di voler prendere il posto di Trump come candidato del GOP [il partito repubblicano, ndt.] per la presidenza all’indomani della registrazione di “Access Hollywood” [uno spettacolo televisivo. Nella registrazione Trump fa pesanti apprezzamenti sulle donne, ndt.] nell’ottobre 2016.

Un presidente veramente evangelico?

La scorsa estate il “New York Times” ha informato che sembrava che Pence si stesse preparando per la candidatura presidenziale. Pence ha risolutamente smentito la storia. Pence ha immaginato la reale possibilità che il GOP volti le spalle a Trump dopo un altro grave scandalo, garantendo la sua conseguente ascesa.

Gli Stati Uniti potrebbero finire per avere un presidente veramente evangelico. Ciò che è preoccupante non è che Pence creda in dio, ma che sembri sicuro che dio creda in lui.

I principali studiosi cristiani della Bibbia la vedono come un testo allegorico. I sionisti cristiani credono a un’interpretazione letterale del noioso e deprimente testo del libro dell’Apocalisse.

Il movimento sionista cristiano tuttavia non è un fenomeno recente. C’è stato più di un secolo di tentativi di restituire Israele ad una gloria biblica largamente illusoria. Nel 1600 re Giacomo I suggerì che “la fine del mondo” avrebbe avuto luogo in Palestina.

Come i sionisti cristiani ora, egli credeva che le tribù ebraiche dovessero essere riunite e tornare dalla diaspora in modo che la battaglia finale tra le forze del male e il messia potesse aver luogo ad Armageddon.

Un’altra dichiarazione Balfour

Lord Balfour, ministro degli Esteri britannico, e il suo primo ministro, David Lloyd George, erano entrambi simpatizzanti del sionismo cristiano. Nel 1917, tre anni prima che la Società delle Nazioni concedesse alla Gran Bretagna il mandato sulla Palestina, Balfour scrisse a lord Rothschild, appartenente alla ricchissima famiglia di banchieri ebrei e precoce sostenitore del sionismo, che “il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione di un focolare nazionale ebraico in Palestina e farà uso del suo massimo impegno per agevolare il raggiungimento di questo obiettivo.”

Lo Stato di Israele non avrebbe potuto nascere senza la dichiarazione Balfour. Quando gli Stati Uniti hanno riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, lo hanno fatto, almeno in parte, per invocare il messia e iniziare la preparazione della battaglia di Armageddon.

Questo è quello che credono i sionisti cristiani ed hanno senza sosta chiesto dall’amministrazione. La Bibbia ci dice che Gesù tornerà per mettere tutto quanto a posto.

I musulmani, gli ebrei, i buddisti, gli induisti, gli scintoisti, gli animisti, i seguaci del voodoo, i cattolici, gli agnostici e gli atei, ecc., verranno convertiti alle legioni del signore dei sionisti cristiani. Il messia, Gesù Cristo, prevarrà e porrà fine a tutto il male che ora ci colpisce. Annichilerà l’anticristo e la sua orda barbarica, che include i russi, ed egli, Gesù, regnerà come re sulla terra per mille anni di felicità ed abbondanza.

Ma in primo luogo credono che l’antico Israele debba essere reso totalmente immune da eretici di ogni convinzione religiosa, diversa dalla loro, in modo da rispettare la profezia biblica del ritorno di Cristo sulla terra.

Israele biblico

Secondo la liturgia sionista cristiana questo ritorno tuttavia non promette bene per gli israeliani. Purtroppo Israele non ci sarà più. Israele verrà distrutto durante questa apocalisse.

Secondo quello che credono, Gesù, addolorato che gli ebrei non lo vedano come il messia, ucciderà tutti gli ebrei che rifiutino di convertirsi al cristianesimo, o più precisamente al sionismo cristiano. Gesù non sembra essere uno che volge l’altra guancia quando viene offeso.

Se credi altrimenti, se credi che le profezie bibliche come le interpretano i sionisti cristiani siano una follia, fai parte della maggioranza senza speranza. Perché i sionisti cristiani sono riusciti ad avere alla Casa Bianca, grazie alla posizione di Mike Pence e dei suoi adepti, un’incredibile influenza su quella che forse è la più potente Nazione sulla terra.

Essi credono che solo l’apocalisse purificherà il mondo e che gli Stati Uniti debbano essere lo strumento che porterà a termine l’ira di dio. Le grandi risorse ed il potere militare degli Stati Uniti sono parte del piano divino per portare su di noi l’apocalisse.

Trump farà di tutto per incoraggiare la cieca lealtà di questo gregge che ha in eredità. Il partito Repubblicano dipende in modo massiccio dai sionisti cristiani sia per quanto riguarda i finanziamenti che i voti. Hanno un profondo effetto sull’orientamento del partito, anche se ora il partito sembra essere più teocratico che politico.

È molto probabile che i sionisti cristiani vadano a votare; sono più di venti milioni e sono finanziatori generosi. Sono la base di questa nuova teocrazia repubblicana.

Non vogliono la pace con i palestinesi. I palestinesi non hanno posto nell’Israele biblico. I sionisti cristiani vogliono che se ne vadano per purificare il nascente regno di Israele e consentire la loro eterna beatitudine in paradiso.

– Morgan Strong, un ex-professore di Storia del Medio Oriente, è stato consulente di “60 minuti” [programma televisivo statunitense di attualità della CBS, ndt.] sul Medio Oriente.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Abbas dichiara morti gli accordi di Oslo: “Il piano di pace di Trump è uno schiaffo e noi glielo restituiremo.”

Jack Khoury

15 gennaio 2018, Haaretz

Abbas: “Israele ha ucciso gli accordi di Oslo. Futuri negoziati avranno luogo nel contesto della comunità internazionale” Il vice capo di Fatah: “Congelare il riconoscimento di Israele è un’opzione”

Domenica il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha detto che Israele ha ucciso gli accordi di Oslo e durante una drammatica riunione a Ramallah ha definito il piano di pace per il Medio Oriente del presidente USA Donald Trump “uno schiaffo in faccia”, aggiungendo che “glielo restituiremo”.

Abbas ha aggiunto che “oggi è il giorno in cui sono finiti gli accordi di Oslo. Israele li ha uccisi. Siamo un’autorità senza potere, e un’occupazione senza alcun costo. Trump minaccia di tagliare i finanziamenti all’Autorità [Nazionale Palestinese] perché i negoziati sono falliti. Ma quando mai le trattative sono iniziate?!”

Ha aggiunto che “ogni futuro negoziato avrà luogo solo nel contesto della comunità internazionale, da parte di una commissione internazionale creata nell’ambito di una conferenza internazionale. Permettetemi di essere chiaro: non accetteremo la leadership dell’America in un processo politico che riguardi i negoziati.

L’ambasciatore USA in Israele David Friedman è un colono che si oppone alla fine dell’occupazione. È un essere umano aggressivo e non accetterò di incontrarmi con lui da nessuna parte. Hanno chiesto che mi incontrassi con lui e mi sono rifiutato, non a Gerusalemme, non ad Amman, non a Washington. Anche l’ambasciatrice USA all’ONU, Nikki Haley, minaccia di colpire le persone che nuocciono ad Israele con il tacco della sua scarpa, e noi risponderemo nello stesso modo.”

Il consiglio centrale palestinese si è riunito nel contesto dell’annuncio del presidente USA Donald Trump il 6 dicembre, in cui ha dichiarato che Gerusalemme è la capitale di Israele, e del contrasto senza precedenti che ciò ha provocato tra l’Autorità Nazionale Palestinese e Washington. Abbas ha detto: “Il ministro degli Esteri della Lega Araba ha accusato i palestinesi di non protestare abbastanza contro la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.”

Noi siamo un popolo che si è messo a fare proteste non-violente in seguito al riconoscimento di Trump (di Gerusalemme come capitale di Israele), e il risultato è stato 20 morti, più di 5.000 feriti e oltre 1000 arresti, e loro hanno la faccia tosta di dire che il popolo palestinese non è sceso nelle strade,” ha continuato, aggiungendo che “l’ho detto al ministro, che se egli vuole davvero aiutare il popolo palestinese ci appoggi e ci dia concretamente una mano. Sennò potete andare tutti quanti all’inferno.”

Poi Abbas si è rivolto al Regno Unito, affermando che “continuiamo a chiedere delle scuse dalla Gran Bretagna per la dichiarazione Balfour [in cui nel 1917 la GB si impegnava a favorire la costituzione di un “focolare ebraico” in Palestina, ndt.], e continueremo a chiedere che riconosca lo Stato palestinese.” Ha osservato che “la frase di Herzl ‘una terra senza popolo per un popolo senza terra’ era un’invenzione. Venne qui e vide un popolo, e per questa ragione parlò della necessità di sbarazzarsi dei palestinesi.”

Abbas ha parlato per circa due ore e mezza di come gli ebrei sono stati portati in Israele. Ha sottolineato che Inghilterra e Stati Uniti hanno partecipato al processo di trasferimento degli ebrei in Palestina dopo l’Olocausto, cercando di risolvere il problema di avere gli ebrei senza patirne le conseguenze.

Abbas ha continuato: “A Camp David hanno tentato un’operazione insensata. Hanno detto agli americani che eravamo pronti a rinunciare al diritto al ritorno, al 13% della Cisgiordania e a fornire agli ebrei uno spazio per pregare nella moschea di Al-Aqsa.

La nostra posizione è uno Stato palestinese all’interno dei confini del ’67 con capitale a Gerusalemme est e la messa in pratica delle decisioni della comunità internazionale, così come una soluzione giusta per i rifugiati.

Siamo a favore della lotta nazionale, che è più efficace perché non c’è nessun altro su cui possiamo contare.

Gli americani ci hanno chiesto di non entrare a far parte di 22 organizzazioni, compresa la Corte Penale Internazionale. Gli abbiamo detto che non l’avremmo fatto finché non avessero chiuso gli uffici dell’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che riunisce i principali gruppi palestinesi ed è dominata da Fatah, ndt.], non avessero spostato la loro ambasciata a Gerusalemme ed avessero congelato l’edificazione negli insediamenti. Non hanno accettato, e di conseguenza non siamo vincolati da nessun accordo. Aderiremo a quelle organizzazioni.

Abbiamo accettato 86 decisioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per i palestinesi, e nessuna di esse è stata messa in pratica. Ad altre 46 gli americani hanno posto il veto.

Israele ha importato impressionanti quantità di droga per distruggere la nostra generazione più giovane. Dobbiamo stare attenti, e per questa ragione abbiamo creato un’autorità per combattere le droghe e stiamo investendo molto nello sport, soprattutto nel calcio. Abbiamo già denunciato Israele alla FIFA.

Pubblicheremo una lista nera di 150 imprese che lavorano con le colonie e renderemo pubblici all’Interpol i nomi di decine di persone sospettate di corruzione.

I prigionieri e i membri delle loro famiglie sono nostri figli e continueremo a fornire loro un sussidio.

Le famiglie dei palestinesi uccisi hanno il diritto di rivolgersi alla Corte Penale Internazionale e di chiedere giustizia dalla comunità internazionale.

Non intendiamo accettare che gli USA tentino di farci delle imposizioni e non vogliamo accettarli come mediatori.

Non saremo un’autorità senza potere e un’occupazione senza costi. Difenderemo le nostre conquiste nella comunità internazionale e a livello locale, e continueremo a combattere il terrorismo, e a lottare con la non-violenza. Parteciperemo a tutti i processi politici guidati dalla comunità internazionale per la fine dell’occupazione.”

Il capo di “Iniziativa Nazionale Palestinese” [gruppo politico palestinese che sostiene la lotta non violenta contro l’occupazione, ndt.], il dottor Mustafa Barghouti, dopo il discorso di Abbas ha detto ad Haaretz: “Il discorso ha sollevato la questione. È chiaro che gli USA hanno esaurito il loro ruolo come unici sostenitori del processo di pace e i palestinesi hanno sottolineato che non accetteranno più nessuna imposizione di parti terze. Lunedì stileremo le conclusioni e da parte mia chiederò che la bozza includa la posizione secondo cui noi lavoreremo per mettere in pratica una soluzione dello Stato unico con gli stessi diritti civili e nazionali per tutti.”

Hamas ha attaccato Abbas dicendo che le sue dichiarazioni non sono condivise tra i palestinesi.

L’incontro di domenica nella città cisgiordana di Ramallah – sede del governo dell’Autorità Nazionale Palestinese – si è tenuto con i rappresentanti della maggior parte delle fazioni palestinesi, ma due importanti organizzazioni, Hamas e Jihad Islamica, hanno annunciato che non vi avrebbero partecipato, benché fossero state invitate.

Il portavoce di Hamas Fauzi Barhum ha criticato la decisione di convocare l’incontro a Ramallah, affermando che si sarebbe dovuto tenere in un altro Paese, per garantire la partecipazione dei principali rappresentanti di tutte le fazioni.

Haaretz è venuto a sapere che nelle discussioni che si sono tenute durante il fine settimana, sia nel Comitato Centrale di Fatah che nel Comitato Esecutivo dell’OLP, sono state prese in considerazione una serie di proposte, tra cui l’idea di annullare gli accordi di Oslo e il coordinamento per la sicurezza, sulla base del fatto che Israele ha violato tutti gli accordi per cui i palestinesi non sono più obbligati a continuare a rispettare i patti.

Altri membri di Fatah e dell’OLP hanno appoggiato l’opzione di continuare con i tentativi a livello internazionale, soprattutto attraverso le Nazioni Unite, l’Unione Europea, la Cina e la Russia, per portare avanti il riconoscimento internazionale dello Stato palestinese all’interno dei confini del 1967.

Secondo funzionari di Fatah la prossima mossa palestinese sarà la messa in pratica della loro richiesta di rendere il conflitto una questione internazionale e di chiedere che l’ONU istituisca un gruppo per risolverla. I funzionari hanno detto che gli Stati Uniti potrebbero essere membri di questo gruppo, ma non gli unici mediatori del processo politico.

Il vice capo di Fatah Mahmoud Al-Aloul ha detto che molti palestinesi hanno grandi aspettative per la decisione del consiglio centrale. “Dobbiamo rispondere a queste aspettative, perché oggi siamo arrivati ad un punto di svolta della questione nazionale palestinese.” Al-Aloul ha aggiunto che queste decisioni sono difficili e non porteranno ad abbandonare gli amici di Fatah.

Al-Aloul ha detto ad Haaretz che il consiglio centrale di Fatah ha preso le sue decisioni in modo indipendente e che c’è una lista di suggerimenti che devono essere presi in considerazione, compreso il congelamento del riconoscimento di Israele.

Le decisioni prese dal consiglio sono state trasmesse al comitato esecutivo dell’OLP per essere messe in pratica.

Haaretz ha saputo anche che durante gli ultimi giorni Paesi europei ed arabi come l’Arabia Saudita hanno fatto pressioni sull’ANP, e su Abbas in particolare, perché non prendessero iniziative radicali e per consentire un’azione a livello internazionale e diplomatico.

Un altro suggerimento chiederebbe al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di riconoscere lo Stato palestinese all’interno dei confini del ’67, così come la definizione delle terre dell’ANP come un Paese sotto occupazione. Un’ulteriore indicazione è stata di rivolgersi alla Corte Internazionale di Giustizia per iniziare un procedimento legale contro Israele.

Il consiglio centrale palestinese è un ente consultivo che si riunisce quando è impossibile convocare una seduta del Consiglio Nazionale Palestinese (l’organo legislativo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina), e si prevede che fornisca al comitato esecutivo dell’OLP, che è l’organo esecutivo palestinese di maggior importanza, raccomandazioni relative alle politiche.

Un importante membro del comitato esecutivo dell’OLP ha detto ad Haaretz che, nonostante l’atmosfera drammatica che i collaboratori di Abbas hanno cercato di creare, non ci si aspettano cambiamenti radicali.

(traduzione di Amedeo Rossi)