Imporre la pace: Trump e i palestinesi

Osamah Khalil

18 dicembre 2017, Al Shabaka

L’annuncio del presidente Donald Trump secondo cui riconosce Gerusalemme come la capitale di Israele rappresenta il culmine della politica estera USA durante settant’anni in cui l’obiettivo del processo di pace è stato imporre una soluzione ai palestinesi.

Eppure per circa trent’anni la strategia della dirigenza palestinese è stata l’esaltazione della prevalenza dei negoziati e di politiche guidate dall’élite. Si è concentrata sul garantire la lealtà dei palestinesi al suo programma politico attraverso il clientelismo e la repressione. La dirigenza ha messo da parte, se non danneggiato attivamente, l’organizzazione di base ed ha consumato le istituzioni nella vana e sempre più disperata speranza che i suoi sforzi sarebbero stati premiati dagli Stati Uniti e da Israele. Al contempo la sua politica ha garantito che la ristretta cerchia che beneficia del processo di pace e dell’occupazione israeliana resistesse. I risultati di questa strategia sbagliata sono apparsi evidenti con l’annuncio di Trump, ma sono stati evidenti anche da parecchio tempo.

L’Autorità Nazionale Palestinese dipende dall’appoggio finanziario, soprattutto degli Stati Uniti. Pertanto è improbabile che faccia ricorso nel breve termine a qualcosa di più che iniziative retoriche e simboliche e vuote minacce. Continuerà a concentrarsi sulle élite internazionali e potrebbe tentare di trovare un nuovo mediatore per i negoziati con Israele. Tuttavia non ci sono ragioni per cui Israele riprenda i negoziati in questo momento e consenta che emerga un nuovo mediatore. Se la dirigenza palestinese è seria in merito a un cambiamento rispetto alla soluzione dei due Stati, come ha sostenuto recentemente uno dei suoi rappresentanti, allora l’unica iniziativa significativa che potrebbe prendere è lo scioglimento dell’Autorità Nazionale Palestinese. Benché un’azione così drammatica obbligherebbe Israele, gli Stati Uniti, i Paesi arabi e la comunità internazionale nel suo complesso ad una risposta, ciò implicherebbe che la dirigenza abbandonasse la propria posizione ed i propri privilegi. Ciò è ancora più improbabile che l’apparizione di un nuovo mediatore per i negoziati di pace che sfidi gli Stati Uniti.

La dichiarazione di Trump: settant’anni di preparazione

Il processo di pace può essere di fatto diviso in due periodi. Nel primo, dalla fine della guerra palestinese del 1948 e della Nakba [la “catastrofe”, cioè la pulizia etnica a danno dei palestinesi ad opera delle milizie sioniste, ndt.] fino a metà degli anni ’70, gli Stati Uniti hanno cercato di ignorare la questione palestinese concentrandosi sugli Stati arabi. I palestinesi vennero trattati come un problema umanitario che doveva essere risolto senza il loro intervento piuttosto che una questione politica che li includesse come parte dei negoziati.

Mentre gli Stati arabi erano generalmente disponibili a un accordo di pace con Israele a patto che il problema dei rifugiati palestinesi venisse risolto, Israele rimase il principale impedimento. L’intransigenza israeliana non fece che aumentare dopo la guerra del giugno 1967 e l’occupazione della Cisgiordania, di Gerusalemme est, della Striscia di Gaza, del Sinai e delle Alture del Golan. Subito dopo la guerra del giugno 1967 gli Stati Uniti misero in rilievo negoziati “terra in cambio di pace”, soprattutto con l’Egitto e con la Giordania. Continuarono ad ignorare l’emergere di organizzazioni politiche palestinesi, compresa Fatah, che col tempo avrebbe dominato l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).

In seguito alla guerra arabo-israeliana dell’ottobre 1973, Washington sembrò più interessata ad affrontare le rivendicazioni palestinesi. Eppure nel secondo periodo del processo di pace Washington cercò di limitare o sabotare la partecipazione dei palestinesi alle trattative. Pubblicamente ciò venne ottenuto imponendo all’OLP richieste perché dimostrasse la sua adeguatezza come partner nei negoziati. Washington insistette che l’organizzazione accettasse le risoluzioni 242 e 338 del consiglio di sicurezza dell’ONU e riconoscesse Israele.

In privato gli Stati Uniti ed Israele si coordinarono nei negoziati e Washington accettò di appoggiare, se non assecondare, la posizione israeliana sulle questioni chiave. Quindi Washington chiese all’OLP di fare importanti concessioni solo per partecipare ai negoziati, senza alcuna garanzia che avrebbero avuto successo. Gli accordi segreti e il coordinamento tra gli Stati Uniti ed Israele servirono a garantire che qualunque accordo sarebbe stato a scapito dei palestinesi.

Il mito del mediatore imparziale

Il concetto secondo cui gli Stati Uniti sono un “mediatore imparziale” è stato perpetuato da diplomatici americani egocentrici, da politici e dalla stampa. Non ha nessuna base nella realtà storica del conflitto arabo-israeliano e del processo di pace. L’eccessivo ruolo di Washington è in parte un riflesso del suo status come unica superpotenza che ha forgiato l’ordine internazionale e le istituzioni dopo la Seconda Guerra Mondiale. C’è spesso un malinteso fondamentale sulla Guerra Fredda e sull’influenza degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica sulla scena mondiale. Benché fossero in competizione, Washington era e rimase molto più potente e influente di Mosca sul piano politico, economico e militare.

Benché la posizione internazionale dell’America nei primi anni ’70 fosse ridotta a causa della guerra del Vietnam, la guerra arabo-israeliana del 1973 fornì a Washington un’opportunità per ribadire la propria influenza in Medio Oriente attraverso il processo di pace. Gli Stati arabi e i palestinesi non videro gli Stati Uniti come un mediatore imparziale. Semmai vennero visti come l’unico potere che sembrava in grado di imporre concessioni da parte di Israele. La nozione secondo cui gli USA potessero aiutare ad ottenere la pace con Israele era promossa dal presidente Richard Nixon e dal segretario di Stato e consigliere per la Sicurezza Nazionale Henry Kissinger, in quanto essi intendevano contenere l’influenza dell’Unione Sovietica nella regione ed a livello internazionale. Ciò è stato dimostrato dalla deliberata politica di Kissinger nei confronti del processo di pace, che intendeva escludere Mosca dai negoziati e rompere la posizione negoziale araba unitaria.

Gli accordi di Camp David del 1978 ed il trattato di pace finale tra Egitto ed Israele confermarono la strategia di Kissinger, che venne adottata dalle successive amministrazioni americane e le influenzò. Anche se Washington riuscì a contribuire a raggiungere la pace tra Egitto ed Israele, quello che è spesso trascurato è che le concessioni di Israele vennero fatte a spese dei palestinesi che vivevano sotto occupazione. Né gli accordi di Camp David comportarono successivi accordi di pace, come sperava il presidente Jimmy Carter, o ulteriori concessioni territoriali da parte di Israele.

Gli accordi di Oslo rafforzarono ulteriormente queste politiche. Washington non venne coinvolta nei negoziati originari né nella dichiarazione di principi del 1993. In effetti, una volta che il processo venne monopolizzato dal presidente Bill Clinton, i negoziati sullo status finale vennero rimandati e alla fine fallirono. Come le precedenti amministrazioni americane, Clinton si mise d’accordo in pubblico ed in privato con Israele. L’amministrazione Clinton si accordò segretamente con l’allora ed attuale primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, per discutere ogni proposta americana con Israele prima di presentarla al gruppo di negoziatori palestinesi.

Benché finalmente i palestinesi avessero un posto al tavolo dei negoziati quasi alla pari con gli israeliani, ed al presidente dell’OLP Yasser Arafat venisse consentito di recarsi varie volte alla Casa Bianca di Clinton, il ruolo di Washington era ancora quello di imporre un accordo di pace. Da Arafat e dalla neonata Autorità Nazionale Palestinese ci si aspettava che applicassero una pace inaccettabile e un’occupazione continua in cambio di una parvenza di statualità, ma senza una vera sovranità. A dispetto di tutte le iperboli sulla “generosa offerta” a Camp David nel 2000, Israele e l’allora primo ministro Ehud Barak non avevano intenzione di accettare neppure l’apparenza di uno Stato palestinese e di una Gerusalemme divisa. Guarda caso il fallimento dei negoziati per lo status finale venne attribuito ai palestinesi e ad Arafat, ma le sue radici risalgono al costante approccio al processo di pace fin dal suo inizio.

Il ruolo della politica USA

Benché gli Stati Uniti conservino la posizione dominante sulla scena mondiale, la loro politica interna è provinciale e guidata dai cicli elettorali di due e quattro anni. La necessità di ottenere fondi per le campagne delle elezioni politiche per il Congresso e per la presidenza si traduce nell’eccessiva influenza di importanti donatori su questioni di politica, compresi i rapporti internazionali. Ciò è risultato evidente nella volontà dei candidati presidenziali, compreso Barak Obama nel 2008, di dichiarare pubblicamente che Gerusalemme “dovrebbe rimanere la capitale di Israele e dovrebbe restare indivisa” durante le elezioni, ma di rimandare questa iniziativa fino al raggiungimento di un accordo finale.

Gli sconfortanti livelli di gradimento e gli scarsi risultati di Trump dopo circa un anno in carica hanno contribuito alla decisione su Gerusalemme. In particolare ciò potrebbe aiutare le possibilità del partito Repubblicano di conservare la sua maggioranza nelle elezioni di metà mandato del 2018 e le speranze di rielezione di Trump nel 2020. È probabile che l’annuncio rafforzi la posizione di Trump tra la base cristiana evangelica del partito Repubblicano ed alcuni importanti esponenti si sono affrettati ad acclamare l’annuncio. Questo soddisferà anche i principali donatori di fondi come Sheldon Adelson, un sostenitore di spicco delle colonie israeliane. Poiché la decisione ha un sostegno trasversale, compresi importanti dirigenti democratici, ciò potrebbe anche rendere Trump e il partito Repubblicano più graditi per i votanti filo-israeliani in Stati chiave in cui le elezioni sono sempre più combattute a causa di mutamenti demografici.

Manovre regionali

In quanto debole attore senza uno Stato, i palestinesi sono stati soggetti alle dinamiche regionali e alle politiche della grande potenza. Ciò include regimi che sono stati ostili al nazionalismo palestinese, come la Giordania, o quelli che intendono strumentalizzare i partiti politici palestinesi in competizione tra loro per i propri scopi e progetti regionali, come l’Egitto, la Siria e l’Iraq. Washington ha spesso cercato di fare pressione sui dirigenti palestinesi attraverso gli Stati arabi con risultati alterni.

Nel loro tentativo di stringere un’alleanza contro l’Iran che includa Israele, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti potrebbero tentare di obbligare Mahmoud Abbas e la dirigenza palestinese ad accettare un accordo di pace. Tuttavia si renderanno conto che l’ostacolo non è rappresentato da Ramallah. Piuttosto, come altri leader arabi hanno imparato in ritardo, Israele incasserà ogni concessione facendo al contempo altre richieste e saboterà negoziati che possano dare come risultato uno Stato palestinese. L’annuncio di Trump su Gerusalemme, presumibilmente con il tacito accordo di Riyadh e di altre capitali arabe, ricompensa esclusivamente l’intransigenza di Israele a spese dei palestinesi che vivono sotto occupazione e nella diaspora.

Osamah Khalil

Consigliere politico di Al-Shabaka, Osamah Khalil è co-fondatore ed ex co-direttore di Al-Shabaka. È professore associato di storia presso la Maxwell School of Citizenship and Public Affairs dell’università di Syracuse. Khalil è autore di “America’s Dream Palace: Middle East Expertise and the Rise of the National Security State” [Il posto dei sogni dell’America: la conoscenza del Medio Oriente e la nascita dello Stato della Sicurezza Nazionale] (Harvard University Press, 2016).

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Perché tagliare gli aiuti USA all’Autorità Nazionale Palestinese non è una cattiva idea

Alaa Tartir

Middle East Eye – 5 gennaio 2018

Se gli USA tagliano gli aiuti alla Palestina, ciò potrebbe obbligare i palestinesi ad avere il coraggio politico di prendere posizione per i propri diritti

Molti osservatori ed analisti ammoniscono che il taglio degli aiuti USA all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è pericoloso e potrebbe minacciare la stabilità. Alcuni hanno persino sostenuto che la minaccia del presidente USA Donald Trump riguardo ai fondi per i palestinesi è più pericolosa della sua decisione di spostare l’ambasciata USA in Israele a Gerusalemme.

Pensa che i giorni dell’ANP ormai siano contati?” è una delle domande più ricorrenti da parte dei giornalisti negli ultimi giorni dopo la dichiarazione di Trump secondo cui “diamo ai palestinesi centinaia di milioni di dollari all’anno e non riceviamo né apprezzamento né rispetto. Non vogliono neppure negoziare, cosa da tempo necessaria.”

Azioni contro i palestinesi

Trump ha proseguito dicendo: “Se i palestinesi non vogliono più parlare di pace, perché dovremmo fargli questi massicci versamenti in futuro?” Tuttavia, la minaccia di Trump di ritirare gli aiuti all’ANP non dovrebbe essere una sorpresa.

L’aiuto degli USA è sempre stato usato come strumento politico e le condizioni ad esso legate sono state deleterie e dannose per i palestinesi.

Ma nel caso in cui la minaccia di tagliare gli aiuti all’ANP si concretizzi, sarebbe davvero una cosa così negativa? Io sostengo di no; non sarebbe poi così male. Presumibilmente potrebbe dimostrarsi un vantaggio – probabilmente non a breve termine, ma sicuramente a lungo termine.

In buona misura l’aiuto degli USA all’ANP intende consolidare il ruolo dell’ANP come sub-appaltante dell’occupazione israeliana ed ha reso l’occupazione israeliana più economica e più lunga, cosa che ha favorito l’economia di Israele, ha rafforzato la frammentazione palestinese ed ha negato le potenzialità della democrazia palestinese. Per tutte queste ragioni, il taglio degli aiuti USA all’ANP non è così negativo.

Il primo e principale obiettivo degli USA per la Palestina è promuovere “la prevenzione o riduzione del terrorismo contro Israele”. In altre parole, l’aiuto è fornito ai palestinesi per la sicurezza di Israele; ma ciò è un sostegno per i palestinesi o per Israele?

Il paradigma “prima Israele”

Secondo questo paradigma securitario “prima Israele”, l’amministrazione USA ha versato milioni di dollari di assistenza per la sicurezza all’ANP come un modo per “professionalizzare” le sue forze di sicurezza per la stabilità e la sicurezza di Israele, della sua occupazione e dei coloni nella Cisgiordania occupata.

Questa logica distorta implica che l’ANP diventi subappaltante dell’occupazione israeliana, grazie all’aiuto e al condizionamento da parte degli USA.

Ciò non solo sostiene l’occupazione israeliana, ma la rende anche conveniente per Israele, la sua economia e le sue imprese. L’assistenza USA ai palestinesi è spesso utilizzata per pagare direttamente i creditori dell’ANP, molti dei quali sono imprese israeliane che impongono tariffe predatorie ed approfittano dell’economia dell’ANP tenuta in stato di soggezione.

Inoltre la maggioranza degli aiuti USA alla Palestina (oltre il 72%), soprattutto l’aiuto per la sicurezza, finisce nell’economia israeliana. Quindi larga parte dell’”assistenza” USA ai palestinesi di fatto si trasforma in un’ulteriore appoggio ad Israele e ai suoi apparati di sicurezza.

Gli aiuti USA hanno anche rafforzato la frammentazione palestinese nell’ultimo decennio ed alimentato la divisione tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Inoltre, gli aiuti non solo negano il potenziale democratico palestinese ma anzi facilitano l’emergere di un governo di stile autoritario in Cisgiordania.

Guidati dal loro progetto securitario, i programmi per la sicurezza sponsorizzati dagli USA tendono a criminalizzare la resistenza contro l’occupazione israeliana e a reprimere i bisogni e le aspirazioni del popolo palestinese.

L’intervento degli aiuti USA

Le operazioni e gli interventi della “United States Agency for International Development” [Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale, agenzia statale USA, ndt.] (USAID), e l’ufficio del Coordinatore per la Sicurezza USA (USSC), sono stati determinanti nel provocare tutti questi danni. Così facendo, queste due istituzioni non solo violano principi internazionali fondamentali di erogazione dell’aiuto, ma agiscono anche concretamente come braccio complementare dell’occupazione coloniale israeliana.

Certamente questi danni e le conseguenze negative dell’intervento di aiuti USA non saranno automaticamente annullati se si concretizzasse la minaccia di Trump di tagliare gli aiuti.

La situazione è molto più complicata, in quanto richiede lo smantellamento di strutture, dinamiche e istituzioni complesse, che sono emerse e si sono consolidate nell’ultimo quarto di secolo.

A questo punto è fondamentale che i palestinesi non si lascino prendere dal panico e non maledicano la sorte per “aver perso” da 300 a 400 milioni di dollari all’anno; dovrebbero agire – ed hanno parecchie possibilità. Per iniziare, dovrebbero chiedere conto ad USAID e all’USSC, e dovrebbero revocare le esenzioni amministrative che il defunto leader palestinese Yasser Arafat ha concesso a USAID per agire senza alcuna supervisione palestinese.

Invertire il processo di valutazione

È tempo di invertire il “processo di valutazione”: invece di USAID che valuta i palestinesi, è tempo che i palestinesi facciano la necessaria valutazione di USAID e degli altri enti USA dell’industria degli aiuti in Palestina.

Fare ciò richiede volontà politica e coraggio nella dirigenza politica palestinese. Purtroppo, l’attuale leadership palestinese rimane legata al suo approccio ed alle sue formule fallimentari.

L’incapacità della dirigenza ANP di mettere in atto piccole azioni, come revocare le esenzioni amministrative a favore di USAID, riflette una più profonda crisi di legittimità ed evidenzia le mosse tattiche dell’attuale dirigenza ANP nel prendere tempo, per rimanere al potere o risistemare le carte dei colloqui di “pace”. Bisogna assolutamente contrastare queste idee e sostituirle con nuovi indirizzi strategici che siano dettati dal popolo palestinese.

Tuttavia la principale sfida che rimane è come incanalare le richieste e le aspirazioni del popolo palestinese in una politica legittima e in istituzioni rappresentative.

Dal punto di vista della gente comune palestinese, nel caso in cui la minaccia di Trump di tagliare gli aiuti si concretizzi ci saranno conseguenze negative a breve termine. Ma è fondamentale anche riconoscere che l’aiuto all’ANP non si traduce automaticamente in assistenza al popolo palestinese.

È fuorviante ritenere che gli aiuti e i loro benefici arrivino fino alla gente comune palestinese. L’industria dell’aiuto è destinata a beneficiare pochi e a danneggiare molti.

Sam Bahour, il presidente di “Americans for a Vibrant Palestinian Economy” [Americani per un’Economia Palestinese Dinamica”, ndt.] recentemente ha affermato: “Non perderò certo il sonno se il Congresso bloccherà totalmente i finanziamenti all’Autorità Nazionale Palestinese. Ciò non renderà la vita quotidiana più facile sotto l’occupazione, ma forse farà aprire gli occhi ad un numero sufficiente di dirigenti americani perché vedano l’assurdità di farsi prendere in giro come un gregge di pecore dal loro pastore israeliano.”

Neppure io perderò il sonno. Anche se il taglio degli aiuti USA avrà qualche conseguenza negativa sulla vita dei palestinesi, le prospettive a lungo termine potrebbero dimostrarsi più positive, in quanto questa iniziativa potrebbe spingere l’ANP ad abbandonare il quadro del modello di aiuti degli accordi di Oslo. È tempo di confutare il fallito modello degli aiuti di Oslo.

Ma un processo di eliminazione graduale richiede azioni serie, passi concreti e chiari e un piano nazionale di azione/aiuto per una transizione verso una formula successiva ai due Stati e un contesto successivo agli accordi di Oslo.

Infine, benché l’assistenza umanitaria sia importante, quello che più importa per il palestinese comune non è un buono per comprare grano o sardine, ma piuttosto basi politiche per lottare contro la negazione dei suoi diritti.

Finché queste basi politiche non saranno affrontate, e indipendentemente da quanto grande sia il flusso degli aiuti, i palestinesi comuni non avranno la percezione di un risultato positivo degli aiuti, che siano americani, europei o arabi.

La minaccia di Trump di tagliare gli aiuti offre al palestinese comune una nuova opportunità di mettere i principi di autodeterminazione e dignità al centro del contesto e della macchina degli aiuti.

Dr Alaa Tartir è direttore del programma di Al-Shabaka, la rete politica palestinese, e ricercatore presso il Centre on Conflict, Development and Peacebuilding [Il Centro su Conflitto, Sviluppo e Costruzione della Pace] (CCDP), del Graduate Institute of International and Development Studies [Istituto Universitario di Studi Internazionali e dello Sviluppo] (IHEID)di Ginevra, Svizzera.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Netanyahu è orgoglioso del miglioramento dei rapporti diplomatici di Israele, ma il voto dell’ONU dà una lezione di umiltà

Noa Landau

22 didembre 2017,Haaretz

Le molte dichiarazioni del primo ministro negli ultimi due anni riguardo ad un presunto e vistoso cambiamento nell’atteggiamento del mondo verso Israele non hanno superato la prova della realtà.

Più passava il tempo prima della sconfitta all’Assemblea generale dell’ONU, tanto più a Gerusalemme cambiavano le aspettative sui risultati attesi.

All’inizio Israele ha cercato di convincere più Paesi possibile a votare contro la risoluzione, ma quando le esplicite minacce americane di tagliargli gli aiuti non hanno cambiato in modo significativo la situazione, il principale tentativo fatto è stato centrato sul convincere i leader almeno ad astenersi o ad andarsene improvvisamente per le vacanze di Natale e assentarsi dall’aula. E se questo non avesse funzionato, che per lo meno abbassassero il tono dei loro discorsi durante il dibattito.

Dopo il voto, il primo ministro Benjamin Netanyahu ed il suo ministro degli Esteri, Benjamin Netanyahu [Netanyahu ricopre entrambi gli incarichi, ndt.], hanno risposto all’unisono: “Israele rifiuta la risoluzione dell’ONU ed esprime la sua soddisfazione per il grande numero di Paesi che non hanno votato a favore della risoluzione,” rallegrandosi delle astensioni e festeggiando le assenze.

La maggiore delusione per Israele è venuta dai Paesi che negli ultimi anni hanno rafforzato i rapporti bilaterali, soprattutto quelli che condividono con il governo Netanyahu una visione molto conservatrice. Per esempio l’India, il cui primo ministro Narendra Modi ha visitato Israele in luglio – un viaggio memorabile soprattutto per le immagini bucoliche di lui e Netanyahu abbracciati che sguazzavano nelle onde – ha votato la risoluzione contro Israele e contro gli Stati Uniti. Durante la sua visita Netanyahu aveva definito Modi “un’anima gemella”. Ma anche con la visita bilaterale prevista a metà del prossimo mese, l’India non cambiato idea sul proprio rifiuto di astenersi.

Altre delusioni significative sono venute dalla Grecia e da Cipro, con cui è stato firmato molto recentemente un accordo per il gas naturale. La Russia e la Cina che Netanyahu loda in continuazione per i loro calorosi rapporti con Israele, hanno di nuovo votato, come al solito, per la posizione palestinese.

Un diplomatico israeliano ha detto che il principale insegnamento da trarre da questo episodio potrebbe essere una “lezione di umiltà”. Alla luce del voto del consiglio a New York, dove 128 quadratini luminosi verdi sono apparsi al suono di fragorosi applausi che sono rimbombati nell’aula quando si è saputo il risultato, le molte dichiarazioni del primo ministro negli ultimi due anni riguardo al presunto cambiamento significativo dell’atteggiamento del mondo verso Israele ora appaiono a dir poco diverse.

Ma ci sono state anche modeste consolazioni. Sei Paesi hanno rotto l’unanimità dell’Unione Europea ed hanno accolto le pressioni israeliane ad astenersi. L’Ungheria ed il suo leader Orban hanno guidato la ribellione, insieme alla Repubblica Ceca, il cui primo ministro è stato messo sotto pressione da Netanyahu prima del voto, ed alla Polonia, la cui posizione in Europa è comunque indebolita, e insieme a Croazia, Lettonia e Romania hanno votato per la risoluzione. Austria e Lituania, anche loro considerate amiche di Israele, hanno votato a favore della risoluzione. E ad ogni modo l’astensione dei Paesi dell’Europa orientale, come ha spiegato dalla tribuna il rappresentante della Cechia, è stata debole: “Non ci opponiamo alla posizione dell’Unione Europea sulla questione di Gerusalemme (la salvaguardia dei confini del 1967), ma ci asteniamo perché non pensiamo che il voto di questo pomeriggio farà progredire la pace.”

Il ministro degli Esteri ha riservato i suoi commenti più negativi all’”Europa classica”, alla Germania, per esempio. Alcuni Paesi africani, in cui Israele sta investendo un notevole impegno, si sono astenuti (per esempio il Rwanda e il Sud Sudan) o erano assenti (come il Kenia), mentre uno, il Togo, ha persino votato contro la risoluzione. È anche interessante notare l’astensione dell’Argentina, che Netanyahu ha visitato quest’anno. Tuttavia, in sostanza, se prendiamo in considerazione i viaggi di Netanyahu quest’anno, e sono stati molti – 59 giorni all’estero – non ci sono prove che queste visite abbiano dato risultati giovedì all’Assemblea Generale dell’ONU.

Rispetto agli esiti di importanti votazioni precedenti, per esempio nel 2012 sulla promozione dei palestinesi allo status di osservatori, c’è qualche miglioramento per quel che riguarda il governo: allora votarono “sì” 138 Paesi; questa volta lo hanno fatto “solo” 128. Ma questa volta non è stato messo alla prova solo il sostegno a Israele, era sotto esame soprattutto l’appoggio agli Stati Uniti. Poiché negli scorsi giorni il presidente Donald Trump e la sua ambasciatrice alle Nazioni Unite, Nikki Haley, non hanno esitato da fare esplicite minacce (“di prendere i nomi”) e di vendicarsi di chi avesse votato “sì” tagliando gli aiuti USA a quei Paesi, i quadratini verdi sulla lavagna elettronica hanno segnato non solo il chiaro appoggio della maggior parte dei Paesi alla soluzione dei due Stati all’interno dei confini del 1967, ma anche una crescente sfiducia nell’amministrazione Trump come mediatrice neutrale nel conflitto e nello stesso Trump come leader di una potenza mondiale.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Un ragazzo palestinese ripreso in una foto virale sarà giudicato da un tribunale con il 99,74% di probabilità di condanna

Sheren Khalel

18 dicembre 2017, Mondoweiss

Fawzi al-Junaidi, di 16 anni, affronterà oggi un’audizione presso un tribunale militare israeliano, dopo essere stato detenuto dagli israeliani per più di una settimana.

Junaidi è stato arrestato durante gli scontri scoppiati nella città di Hebron, nella Cisgiordania occupata, il 7 dicembre, il giorno dopo l’annuncio del Presidente USA Donald Trump del riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele.

Una foto scattata dal fotografo Wisam Hashlamoun durante l’arresto è diventata virale: mostrava il ragazzo disorientato e bendato mentre era malmenato, circondato da almeno venti soldati israeliani armati quando è stato portato via.

Brad Parker, dirigente ed avvocato per la Difesa Internazionale di ‘Defense for Children International – Palestine (DCIP)’, ha detto a Mondoweiss che la foto dovrebbe essere considerata come un simbolo delle normali pratiche israeliane riguardo ai ragazzi palestinesi, e non come una situazione eccezionale.

L’immagine ha fornito un’istantanea vivida e cruda della disparità di potere implicita nell’occupazione militare israeliana dei palestinesi ed ha contribuito a palesare i continui e diffusi maltrattamenti, sistematici ed istituzionalizzati, dei minori palestinesi detenuti dalle forze israeliane”, ha detto Parker.

L’avvocata di Fawzi, Farah Bayadsi, ha riferito ai media che il ragazzo era stato picchiato e presentava “contusioni sul collo, sul petto e sulla schiena.” Il ragazzo ha detto che i soldati lo hanno colpito con un fucile. Fawzi è accusato di aver lanciato pietre durante gli scontri, fatto che lui nega. Se ritenuto colpevole, la massima pena per il lancio di pietre è di 20 anni nelle prigioni israeliane.

Le probabilità che Fawzi venga giudicato colpevole sono alte, poiché, in base alla stessa documentazione interna del tribunale, il 99,74% dei casi portati davanti al tribunale militare israeliano si conclude con un verdetto di colpevolezza.

Tuttavia Parker ha detto che il tribunale non è in errore, ma agisce piuttosto secondo le direttive per cui è stato concepito. “Se i ragazzi palestinesi come Fawzi continuano a subire diffuse esperienze di maltrattamenti e torture e il sistematico diniego dei dovuti diritti al processo, è evidente che la detenzione militare israeliana ed il sistema giudiziario non non sono interessati a fare giustizia”, ha spiegato Parker. “Ciò che emerge è un sistema di controllo che si spaccia per giustizia. Non è che sistema di detenzione militare non funzioni, sta lavorando precisamente come previsto per negare i diritti fondamentali.”

In un reportage di al Jazeera, l’avvocata di Fawzi ha detto ai giornalisti che il primo giudice che ha esaminato il suo caso è rimasto “sbalordito dall’eccessivo uso della forza” a cui è stato sottoposto il ragazzo.

Si è presentato con grosse ciabatte fornite dal carcere. Aveva perso le sue scarpe ed ha parlato del modo in cui è stato maltrattato durante il trasferimento alla prigione,” ha detto l’avvocata ai giornalisti.

La procura non ha neanche detto se i soldati saranno indagati per l’uso eccessivo della forza. Finora l’intero caso è stato trattato con negligenza.”

Parker ha detto a Mondoweiss di dubitare che gli agenti che lo hanno arrestato verranno accusati o giudicati responsabili di uso eccessivo della forza, visto che tre ragazzi palestinesi su quattro arrestati dalle forze israeliane riferiscono di aver subito aggressioni fisiche.

Le forze israeliane godono di completa impunità per le violenze fisiche contro i ragazzi palestinesi detenuti. Anche nei casi in cui le prove evidenziano che esse hanno illegalmente ucciso un ragazzo con proiettili veri, senza che egli rappresentasse una minaccia nei confronti dei soldati, non vi è stata giustizia né attribuzione di responsabilità.”

Secondo la documentazione di Addameer [associazione palestinese per la difesa dei detenuti, ndtr.], attualmente ci sono più di 300 minori palestinesi detenuti nelle carceri israeliane.

In un rapporto diffuso da Addameer il 17 dicembre, l’associazione rivela che almeno 350 palestinesi sono stati arrestati nei primi 11 giorni dopo l’annuncio di Trump, che ha scatenato disordini in tutta la Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e a Gaza. Almeno nove degli arrestati sono minori palestinesi – anche se il numero potrebbe essere più elevato, in quanto il lavoro di documentazione è lento e complicato.

Il 16 dicembre le forze israeliane hanno arrestato nella Città Vecchia di Gerusalemme Sultan Ashour, di 16 anni, Mahmoud Taha, di 15, Muhammad Hamadeh, di 14 e Adnan Siyam, di 16. Il 15 dicembre hanno arrestato il tredicenne Abed al-Kareem Yassien, il quindicenne Muhammad Lutfi Melhem del villaggio di A’aneen e il diciassettenne Muhammad Ayman Sherydeh è stato arrestato a Tubas. Giovedì 14 dicembre il quindicenne Mutassem Hammas è stato arrestato a Ramallah.

In media, ogni anno vengono arrestati, detenuti e giudicati dal sistema giudiziario militare israeliano tra i 500 e i 700 minori palestinesi – dal 2000 sono passati nel sistema più di 8.000 minori palestinesi.

Dopo la condanna, circa il 60% dei ragazzi viene trasferito dai territori occupati alle carceri all’interno di Israele – una chiara violazione della Quarta Convenzione di Ginevra.

La conseguenza pratica di ciò è che molti di loro ricevono poche visite dei familiari, quando non nessuna, a causa delle restrizioni nella libertà di movimento e del tempo necessario a rilasciare un permesso di visita in carcere”, ha rilevato il DCIP.

Dato che nel 1991 Israele ha firmato la Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia, dovrebbe attenersi agli standard della giustizia minorile internazionale, che prevedono che i minori “vengano privati della libertà soltanto come misura estrema”; tuttavia le associazioni internazionali per i diritti hanno riscontrato che l’arresto di minori palestinesi da parte delle forze israeliane e la condanna presso il sistema dei tribunali militari è una pratica diffusa e normale, anche per violazioni della legge di scarsa gravità.

Sheren Khalel è una giornalista multimediale indipendente, che si occupa di Israele, Palestina e Giordania. È specializzata in diritti umani, questioni femminili e conflitto israelo-palestinese. Khalel ha precedentemente lavorato per l’Agenzia Ma’an News a Betlemme e vive attualmente a Ramallah e Gerusalemme.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’uccisione di un uomo senza gambe

Amira Hass

17 dicembre 2017,Haaretz

Ibrahim Abu Thuraya, con entrambe le gambe amputate e su una sedia a rotelle, si distingueva tra la folla di manifestanti sul confine di Gaza. È stato il suo coraggio che ha innervosito un soldato che si trovava sul lato israeliano?

I fanali della macchina illuminano due soldati nel buio, con fucili ed altro equipaggiamento all’ingresso della città cisgiordana di A-Ram, sovrappopolata e ammassata. I nostri occhi si sono incrociati per un attimo, come si suol dire. I loro volti esprimevano quel familiare misto di arroganza, ignoranza e paura. Come sembrano giovani, ho pensato. Ho anche riflettuto su quello che pensa in questi giorni chiunque guidi davanti a soldati: una lieve deviazione dell’auto e loro supporranno che questa signora sia decisa ad investirli. Una successiva inchiesta della polizia militare stabilirà che avevano avuto l’impressione che la loro vita fosse in pericolo e quindi che avevano agito correttamente. Concéntrati sulla guida, mi sono detta, pensando di nuovo a quanto fossero giovani.

Non credo che venerdì si sia vista alcuna paura negli occhi dei soldati israeliani che hanno sparato a Ibrahim Abu Thuraya, 29 anni, uccidendolo. Erano dall’altra parte della barriera di confine, a est del quartiere di Shujaiyeh a Gaza. Forse erano su una torre di guardia, forse su una collina o in una jeep blindata, che ha sparato a raffica sui manifestanti palestinesi.

Quale pericolo rappresentava Abu Thuraya? Certo si distingueva tra gli altri manifestanti: amputato delle due gambe, è avanzato sulla sua carrozzella, sceso da questa si è mosso rapidamente con l’aiuto delle braccia, andando verso est attraverso una collinetta sabbiosa. Il suo coraggio e la sua mancanza di paura hanno turbato un soldato sul lato israeliano della barriera?

Abu Thuraya era stato gravemente ferito durante l’offensiva israeliana del 2008-09 contro Gaza, quando perse entrambe le gambe. Nel 2015 una storia sul sito web palestinese di notizie Al Watan raccontava che lui e i suoi amici erano stati presi di mira da un bombardamento israeliano nel campo di rifugiati di Bureij. In seguito si era ripreso dalle gravi ferite e si guadagnava da vivere pulendo i finestrini delle auto nelle strade di Gaza, muovendosi tra le macchine sulla sua sedia a rotelle. Una ripresa video senza data lo mostra mentre si arrampica su un palo della luce nei pressi del confine di Gaza e sventola una bandiera. In un altro video, probabilmente registrato venerdì, lo si vede sulla sua carrozzella allo scoperto di fronte alla recinzione, mentre sventola di nuovo una bandiera palestinese.

Venerdì a mezzogiorno davanti a una telecamera diceva che la manifestazione era un messaggio all’esercito sionista di occupazione che “questa è la nostra terra e non ci vogliamo arrendere.” Poi un montaggio video lo mostra sulla sua sedia a rotelle, circondato da decine di giovani sconvolti. La sua testa è reclinata, viene messo in un’ambulanza e portato in ospedale. È stato dichiarato morto quel pomeriggio, ucciso da un proiettile alla testa.

Il montaggio video omette qualche scena che lo potrebbe accusare? Per esempio, Abu Thuraya ha puntato un razzo contro i soldati? Se questa è stata la ragione per cui un soldato ha sparato ad un uomo senza gambe su una sedia a rotelle, si è trattato di un errore dell’esercito e dei portavoce del Coordinamento delle Attività Governative nei Territori [COGAT, l’amministrazione israeliana dei territori palestinesi occupati, ndt.]. Perché non hanno emesso un comunicato ai mezzi di informazione riguardo ad un attacco con i razzi da parte dei manifestanti, evitando in questo modo qualunque danno che possa colpire i nostri soldati?

Di nuovo in Cisgiordania, un prurito al naso mi ha avvisato della presenza di soldati sulla strada che porta al campo di rifugiati di Jalazun –il che significa che c’erano anche quelli che lanciano sassi. Ma non era possibile tornare indietro. Il diffuso fumo di lacrimogeni aumentava di intensità e la strada procedeva a curve. Da una parte, tra alcune case, si erano accovacciati alcuni giovani – ed erano molto giovani. Avevano pietre in mano ma per il momento non le stavano tirando. Dall’altra parte, nei pressi di un muro che protegge la colonia di Beit El, stava uno spaventoso furgone passeggeri blindato, con di fianco qualche soldato. Forse erano della polizia di frontiera (il mio senso di panico mi ha fatto dimenticare qualche dettaglio). Sotto i loro elmetti e da lontano era difficile stabilire quanto fossero giovani. Ma nel loro atteggiamento arroganza e ignoranza erano evidenti.

Il mio tentativo di andare da Ramallah a Betlemme venerdì (per un concerto e l’esibizione di un coro di bambini) era fallito. Ad un incrocio verso il checkpoint di Beit El, alcuni giovani – quanto erano giovani! – hanno tirato fuori da un’auto dei copertoni con l’intenzione di incendiarli. Ho capito quello che stava succedendo e sono tornata indietro verso Qalandiyah. Il traffico era lento.

A un certo punto dei fedeli stavano uscendo da una moschea e in un altro della gente camminava in mezzo alla strada portando ceste dal mercato. Altrove c’erano macchine parcheggiate in doppia fila o uomini che uscivano da un salone per le feste portando tazze di caffè usa e getta e pezzi di torta. Un’ambulanza, a sirene spiegate, stava arrivando dalla direzione del checkpoint, segnalando quello che mi aspettava. Qualche decina di metri più in là si poteva chiaramente vedere una nuvola di lacrimogeni. Ogni desiderio che avevo di andare a vedere la situazione in ognuna delle altre uscite dalla prigione 5 stelle che è Ramallah mi era passato. In seguito si è saputo che una persona era morta al checkpoint di Beit El e un’altra era stata gravemente ferita a Qalandiyah.

Venerdì, durante una gita con amici, lui ha detto: “Per un verso, so che dovrei essere là con quei coraggiosi ragazzi al checkpoint. Per l’altro, so che solo se centinaia di migliaia di persone andassero lì, con le mani in tasca, qualcosa cambierebbe.”

Lei ha aggiunto: “Una volta quando sentivamo di una persona ferita a Gaza tutta la Cisgiordania era in fiamme. Ora sentiamo di qualcuno che è morto a Ramallah o un giovane che ha perso un occhio per un candelotto lacrimogeno e tutto quello che facciamo è scuotere la testa in segno di solidarietà e continuiamo con le nostre vite.”

Una persona che vive in una strada nei pressi del checkpoint di Beit El ha aperto la porta di casa a quelli che scappavano dal fumo dei lacrimogeni. Il fazzoletto impregnato di alcool fatto giare da un paramedico aiutava, ma solo in casa le lacrime e la sensazione di bruciore sono cessate.

I nostri dirigenti sono isolati,” ha dichiarato l’ospite. “Non gli importa della gente, ma solo dei soldi e degli affari. Non posso dire ai giovani di non andare ai checkpoint, ma so che il loro coraggio è inutile.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Dopo la bomba atomica di Trump su Gerusalemme: valutazioni sulle opzioni per i palestinesi

Nadia Hijab,

8 dicembre 2017, Al-Shabaka

In tutto il mondo vengono organizzate proteste contro la decisione del presidente USA Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.

Facendo questo, Trump ha ignorato dettagli quali confini e frontiere – insieme allo stesso diritto internazionale – ed ha ribadito l’impegno USA, da sempre vuoto di significato, di favorire “un duraturo accordo di pace”.

Date le politiche assolutamente scandalose di Trump riguardo a Gerusalemme e ai diritti dei palestinesi in generale, come anche la velocità con cui la sua amministrazione agisce per fare a pezzi i diritti umani ed ambientali negli Stati Uniti e nel mondo intero, è facile cadere nella disperazione. Eppure in un momento simile è importante ricordare le tendenze di più lungo termine che lavorano a favore dei palestinesi e per porre il movimento nazionale palestinese – sia a livello politico che della società civile – nella migliore posizione.

Il lungo percorso di Israele verso lo smascheramento

Molti degli orientamenti a favore dei palestinesi sono dovuti al fatto che Israele sta superando i limiti. Ha vinto molte battaglie, ma non può vincere la guerra. Può sembrare illusorio, data la grande forza militare, politica ed economica che fa di Israele una superpotenza regionale. Ma consideriamo il percorso del Paese. La vittoria del 1967 avrebbe dovuto metterlo in grado di avere la pace con gli arabi nei termini da lui stabiliti del 78% della Palestina che aveva colonizzato nel 1948, e seppellire così la causa palestinese per sempre.

Invece ha proseguito sulla strada tracciata dagli estremisti sionisti del XX secolo, che erano decisi a colonizzare ed espropriare, per garantire il minimo numero di autoctoni palestinesi ed il massimo numero di ebrei. Come disse Moshe Dayan nel 1950 riguardo ai 170.000 palestinesi riusciti a rimanere in ciò che divenne Israele nel 1948, dopo che 750.000 di loro furono costretti a diventare rifugiati: “Spero che nei prossimi anni possa verificarsi un’altra possibilità di attuare il trasferimento di quegli arabi fuori dalla Terra di Israele.” Dayan divenne poi un eroe di guerra israeliano nel 1967, quando altri circa 450.000 palestinesi furono costretti a diventare rifugiati.

Iniziata lentamente nel 1967, ma con una drastica accelerazione dopo gli accordi di Oslo apparentemente finalizzati, al momento della loro firma nel 1993, a portare la pace, la corsa inarrestabile di Israele alla colonizzazione dei territori appena acquisiti ha prodotto circa 600.000 coloni in 200 insediamenti, che frammentano la Cisgiordania e dividono tra loro i palestinesi. Il piano israeliano per Gerusalemme è apertamente improntato ad un rapporto di 70% a 30% tra ebrei israeliani ed arabi palestinesi, previsto come risultato del diradamento degli abitanti di Gerusalemme est.

Sulla base del “successo” di questi sforzi, i leader israeliani ora pensano che non sia necessario occultare le loro ambizioni e proclamano esplicitamente i loro obiettivi, compresi i piani di ulteriori espulsioni di palestinesi e di discriminazione verso quelli che rimangono. Il numero di leggi discriminatorie nei confronti dei palestinesi cittadini di Israele è balzato da circa 50 a quasi 70 negli ultimi anni.

Sia le istituzioni ufficiali che le organizzazioni di destra stanno sempre più infliggendo simili trattamenti agli ebrei israeliani che cercano di difendere i diritti di tutti gli esseri umani, a prescindere dalla religione o dall’etnia. Gli attacchi contro “Breaking the Silence” (Rompere il Silenzio), una Ong che promuove il fatto che i soldati israeliani denuncino ciò che sono costretti a fare ai palestinesi durante il loro servizio militare, ne sono solo un esempio. La repressione del ministro dell’Educazione Naftali Bennett nei confronti di ACRI (l’Associazione per le Libertà Civili in Israele) è un altro. “Goliath: life and loathing in greater Israel” (Golia: vita e odio nel grande Israele) di Max Blumenthal registra il percorso israeliano sempre più draconiano attraverso il XX secolo fino ad oggi ed è una lettura imprescindibile per chi si occupa di questa questione.

Lo status di “luce per le nazioni” di cui Israele ha goduto in quanto “unica democrazia” nel Medio Oriente è svanito da tempo. Oggi il progetto di insediamento, con la sua flagrante violazione dei diritti dei palestinesi, ha messo a repentaglio la fondamentale pretesa israeliana di uno Stato ebraico. Molti hanno usato il termine apartheid per descrivere quanto sta accadendo ai palestinesi nei territori occupati (OPT), comprese strade separate, differenti sistemi giudiziari e gravi restrizioni all’accesso all’acqua, alla terra ed anche allo spettro elettromagnetico.

Sempre di più, la situazione nei territori occupati ha spinto gli Stati e i difensori della società civile a tenere conto di quanto accade – e di quanto è accaduto – ai cittadini palestinesi di Israele. Quando niente meno che l’ex direttrice dell’ufficio di Gerusalemme del New York Times Jodi Rudoren, che aveva mostrato prudenza nei suoi reportage durante il suo mandato, afferma che il termine apartheid ben si addice al trattamento dei cittadini palestinesi di Israele, allora è chiaro che la vera natura dell’impresa è venuta in superficie. La prova è evidente: non è possibile avere uno Stato che privilegia gli ebrei senza discriminare i “non ebrei”. Chi può ora sostenere seriamente che Israele è uno Stato democratico?

Questa situazione ha condotto a quella che forse è la più importante tendenza a lungo termine in questo conflitto: il cambiamento del punto di vista degli ebrei americani. Esiste oggi una piccola percentuale, ma in rapida crescita, di ebrei americani che si mobilitano per i diritti umani nel movimento di solidarietà con la Palestina. A capo di questo cambiamento c’è “Jewish Voice for Peace (JVP)” (Voce ebrea per la pace), che sostiene i diritti dei palestinesi secondo la definizione data dai palestinesi stessi nell’appello del 2005 per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) contro Israele, fino a quando non rispetterà il diritto internazionale, e che ricopre un ruolo strategico fondamentale nel movimento USA per i diritti. (1)

Il secondo grande, e più recente, cambiamento nella comunità ebraica degli Stati Uniti è dovuto all’emergere di latenti tensioni tra Israele e gli ebrei riformati e conservatori [i primi sostengono un rapporto individuale e liberale con la fede, i secondi contestano la secolarizzazione della religione portata dalla società moderna e dall’illuminismo, ndt.], che rappresentano i due terzi degli ebrei americani. Vi è stata una quantità di articoli ed analisi sulla questione, che indicano che il primo ministro Benjamin Netanyahu ed i suoi alleati puntano sugli ebrei ortodossi americani e trascurano gli altri – trattandoli addirittura come ebrei di seconda classe. Questo è un grave errore strategico da parte di Israele: gli ebrei americani contribuiscono generosamente alle cause filantropiche, come anche alle politiche e alle posizioni ufficiali. Alienandosi questo importante bacino elettorale – anche se spende milioni per controllare il dibattito e confondere le critiche ad Israele e al progetto politico sionista con l’antisemitismo – Israele sta accelerando dei cambiamenti negli Stati Uniti che eroderanno l’automatico sostegno politico ed il massiccio aiuto militare che riceve, e favoriranno l’appoggio generale ai diritti dei palestinesi ed il riconoscimento della storia della Palestina.

La lotta rivitalizzata della Palestina

La lotta palestinese si è sviluppata ed evoluta parallelamente al percorso di Israele. Trent’anni dopo che il governo coloniale britannico sconfisse la rivolta per i diritti e la libertà del 1936-39, e vent’anni dopo la catastrofica perdita di quattro quinti della Palestina nel 1948 e la diaspora dei quattro quinti del suo popolo, entrò in scena l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e divenne in breve tempo una forza con cui fare i conti. Tuttavia i reiterati attacchi all’OLP da parte israeliana – ed araba – unitamente ai gravissimi errori della sua leadership, condussero ad colpo quasi mortale con l’invasione israeliana del Libano nel 1982 e l’esilio dell’OLP da Beirut, la sua ultima roccaforte ai confini di Israele.

Eppure dopo solo cinque anni la lotta palestinese assunse una nuova forma con la Prima Intifada, la rivolta nonviolenta guidata dai leader locali dei territori occupati. L’intifada portò i palestinesi sulla ribalta mondiale e vicino al raggiungimento dei loro obiettivi, dato l’impegno dell’amministrazione di George W. Bush a garantire un buon accordo in seguito alla prima guerra del Golfo nel 1990. Tragicamente, i negoziati segreti dell’OLP con Israele, che portarono agli accordi di Oslo, sperperarono le fonti di energia palestinese così attentamente costruite, che includevano un movimento globale di solidarietà ed il sostegno del Terzo Mondo.

Nonostante tali battute d’arresto, i palestinesi non stanno scomparendo. Dal 1948 la lotta nazionale è stata accompagnata da un fiorire di letteratura, arte, film e cultura che ha rafforzato e cementato l’identità palestinese. Come ha detto Steven Salaita [studioso e scrittore americano di origine araba, ndtr.] in un recente saggio, “Niente fa più paura ad Israele della sopravvivenza dell’identità palestinese attraverso successive generazioni.” Ed anche se la leadership nazionale palestinese è in confusione, per usare un eufemismo, la causa palestinese è spalleggiata da un movimento di solidarietà internazionale che include, e ne è rafforzato, il movimento BDS a guida palestinese. Negli ultimi cinque anni Israele ed i suoi alleati hanno gettato tutto il loro peso contro questo movimento nello sforzo di recuperare terreno e controllare il dibattito, ma esso è vivo e vegeto.

Quanto sarebbe stato più facile per Israele fare un accordo con Giordania, Egitto e Siria nel 1967, invece di azzardare per ottenere tutto e di doversela vedere con il movimento per i diritti dei palestinesi che continuamente si evolve e si rinnova!

Le opzioni palestinesi nella lotta per i diritti

Con queste premesse, quali opzioni hanno i palestinesi? È indubbio che il periodo attuale presenta gravi rischi per loro. Il movimento dei coloni ha avuto il semaforo verde per andare avanti da parte di Trump, che non si è nemmeno degnato di pronunciare “Stato palestinese” nel suo intervento su Gerusalemme, limitandosi a parlare di pace come “inclusiva di …una soluzione a due Stati” e condizionando anche questo all’approvazione di Israele, con l’aggiunta “se concordato dalle due parti.”

Il timore più grande è per la stessa Gerusalemme – sia per i suoi abitanti che per il complesso di Al Aqsa. Vi sono gravi preoccupazioni che Israele possa accelerare l’espropriazione e l’espulsione dei palestinesi, usando le varie tecniche burocratiche perfezionate nel corso degli anni, ed anche i bulldozer e le demolizioni. E, benché Trump abbia detto di continuare a “sostenere lo status quo” nei luoghi santi di Gerusalemme, questo è ampiamente ignorato dal movimento del Monte del Tempio, che intende edificare un terzo tempio ebraico al posto del complesso della moschea di Al Aqsa.

C’è molto da temere anche dal “Quartetto arabo” – Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto – e dal suo capofila, il principe ereditario Mohammad Bin Salman, che sostiene il piano di annessione USA-Israele e che ha ripetutamente offerto ai palestinesi come capitale Abu Dis, un sobborgo di Gerusalemme separato dalla città dal muro illegale che Israele ha costruito ampiamente all’interno dei territori occupati e che separa i palestinesi tra di loro e dalle principali colonie. D’altro lato, è in dubbio fino a che punto il Quartetto arabo possa conseguire i risultati desiderati. Lo stesso Bin Salman si è spinto troppo oltre con la sua guerra allo Yemen, con la repressione nei confronti dei suoi principi ed infine con il fallito tentativo di costringere il primo ministro libanese Saad Hariri a dimettersi, nel tentativo di indebolire Hezbollah, partito e forza militare libanese alleato di Iran e Siria.

Anche il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Mahmoud Abbas non potrebbe essere in una posizione meno invidiabile. Se respinge la pressione delle forze schierate contro di lui, perderà l’aiuto degli Stati Uniti e di molti Paesi arabi, senza il quale i dipendenti pubblici [dell’ANP] non potranno essere pagati, il che colpirà circa un milione e mezzo di persone. Se china il capo, sarà costretto a rinunciare ai diritti dei palestinesi. In tutti i casi, il suo arcinemico ed ex capo della sicurezza palestinese Mohammed Dahlan, il protetto degli emirati, è in attesa dietro le quinte ed assai verosimilmente è disposto a firmare.

Il pesante prezzo di sfidare la comunità internazionale è chiaro nella Striscia di Gaza, dove Hamas ha rifiutato di ammettere la sconfitta o deporre le armi. Il costo che i palestinesi di Gaza hanno sostenuto nell’ultimo decennio, e continuano a sostenere, è davvero alto. E tra le varie voci che si susseguono sul piano finale di colonizzazione che Israele e USA intendono imporre ai palestinesi vi è la deportazione dei palestinesi di Gaza nel deserto egiziano del Sinai, molto lontano dai confini della loro patria originaria (circa il 70% dei 1.900.000 palestinesi di Gaza sono rifugiati).

D’altra parte, l’OLP/ANP e la società civile palestinese, sostenuti dal movimento globale di solidarietà, non sono privi di opzioni, se c’è la volontà di unire le risorse ed usare tutte le strade disponibili, come occorre fare per contrastare questa grave minaccia alla richiesta di diritti per i palestinesi. A livello interno, la riconciliazione fra palestinesi di Fatah e Hamas deve essere attuata, non solo come di per sé positivo. È anche essenziale mettere in grado il sistema politico palestinese di attrarre il sostegno di diversi Stati arabi ed asiatici, alcuni dei quali sono più vicini ad un partito che all’altro. Ogni possibile relazione che Fatah e Hamas riescano ad ottenere, ciascuno per conto proprio o insieme, per rafforzare la posizione palestinese deve essere sfruttata. È un segnale positivo che Abbas intenda convocare il Consiglio Centrale dell’OLP ad una sessione straordinaria a cui saranno invitate “tutte le fazioni”.

Occorre anche trovare il modo di ridurre ed eliminare gradualmente il coordinamento per la sicurezza tra l’ANP e Israele. Sarà molto difficile, considerate le misure che Israele può intraprendere contro i palestinesi, la loro leadership e Abbas in persona. Come minimo, verrebbe limitata la sua possibilità di muoversi oltre i confini della Cisgiordania e di viaggiare. Eppure le conoscenze sul settore della sicurezza esistono e c’è molta letteratura in proposito, comprese serie analisi politiche della rete di Al-Shabaka. Queste competenze sarebbero immediatamente disponibili per l’ANP se decidesse di ridimensionare il coordinamento (con Israele). È anche decisamente tempo di andare oltre gli appelli per la protezione internazionale dei palestinesi e sviluppare una coerente strategia per garantirsi tale protezione.

L’OLP/ANP deve essere il più possibile attiva sulla scena europea. Finora quei Paesi europei che sostengono il diritto internazionale hanno consentito un facile cammino ad Israele. L’Unione Europea nel 2016 ha ribadito la sua posizione per cui i prodotti delle colonie che entrano nella UE devono essere etichettati per permettere ai consumatori una scelta informata – una misura timida e alla fine inefficace. Gli avvertimenti che 18 Stati dell’UE hanno emesso per mettere in guardia le imprese sui rischi (sul piano legale, di immagine e finanziario) di mettersi in affari con amministrazioni delle colonie hanno un maggiore impatto, ma non sono stati recepiti nella legislazione e nella normativa interna.

Nonostante questo atteggiamento pusillanime, l’UE e la maggioranza dei suoi membri non potranno mai approvare l’occupazione israeliana. Per gli europei il sistema di diritto internazionale stabilito dopo la seconda guerra mondiale è la loro garanzia contro altre guerre devastanti. Per riuscire nel suo tentativo di legalizzare l’occupazione, Israele dovrebbe scalzare – e ha cercato di farlo – tutto quel sistema legale. Finora gli europei hanno potuto chiudere un occhio e fare il minimo possibile sul fronte israelo-palestinese, felici di lasciare agli USA il ruolo del cosiddetto mediatore imparziale.

La dichiarazione di Trump di riconoscimento di Gerusalemme [come capitale di Israele], con il suo implicito attacco al diritto internazionale, costringerà gli europei a sedersi al posto di guida, a meno che intendano assistere al crollo della delicata struttura che hanno messo in piedi. Per di più, la questione dei territori occupati e dell’annessione riguarda direttamente gli europei dal momento dell’occupazione ed annessione russa della Crimea nel 2014. Avendo imposto sanzioni alla Russia, gli europei sono in difficoltà a continuare a trattare Israele con i guanti mentre cerca di legalizzare la sua illegale impresa di colonizzazione.

L’OLP in particolare dovrebbe trarre vantaggio dal rifiuto europeo del riconoscimento di Trump ed impegnarsi in una vasta campagna di pubbliche relazioni e sensibilizzazione nei confronti dei governi e dei diplomatici europei. Dovrebbe mostrare risolutezza e determinazione e promuovere la responsabilità dei Paesi europei nel difendere il diritto internazionale, nonché continuare a sostenere fattivamente la loro posizione e i loro passi contro le depredazioni israeliane. L’OLP dispone di alcuni diplomatici molto esperti che può mettere in campo per questo compito – dopotutto, alcuni di loro hanno condotto e vinto la causa contro il muro di Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia nel 2004.

In altre regioni del pianeta Israele ha lavorato per rovesciare le partnership e le alleanze con la Palestina nel Terzo Mondo, che sono state importanti fonti di sostegno negli anni ’70 e ’80. Lo ha fatto con successo in Asia, specialmente in India, in Africa e in America Latina. Ma non è troppo tardi per i palestinesi per riconquistare terreno e stringere questi legami, offrendo servizi e collegamenti dove possono. Cosa della massima importanza, l’OLP/ANP deve lavorare sodo per impedire che altri Paesi seguano le orme di Trump verso il riconoscimento o, peggio, l’effettivo trasferimento delle loro ambasciate a Gerusalemme.

In questo impegno, soprattutto negli USA, in Europa e sempre più in America Latina, l’OLP sarebbe appoggiata dalla società civile palestinese e dal movimento mondiale di solidarietà, che può mobilitare decine di migliaia di attivisti per fare pressione sui propri rappresentanti politici. Soprattutto negli Stati Uniti, il movimento di solidarietà con la Palestina ha creato diverse forti istituzioni che portano avanti le voci palestinesi e in favore dei palestinesi nei media, forniscono supporto legale agli studenti ed insegnanti che vengono attaccati per i loro discorsi, difendono i diritti dei palestinesi con i rappresentanti al Congresso e coinvolgono un crescente numero di ebrei nella lotta per uguali diritti per tutti.

Il ruolo della società civile palestinese e mondiale, oltre a mantenere la pressione su Israele ed a respingere i suoi tentativi di controllare la narrazione, è di mantenere l’OLP sulla retta via. Ciò che Trump ha fatto potrebbe infliggere un colpo mortale alla causa palestinese se i palestinesi ed i loro alleati non danno una risposta coerente e coordinata. Riflettendo su queste ed altre questioni e sviluppando delle strategie, i palestinesi ed i loro alleati possono trasformare questa tragedia in un’opportunità.

Note:

  1. È importante sottolineare la seconda parte di questo documento, dati i fraintendimenti circa il BDS. Il linguaggio dell’appello del BDS chiarisce che il movimento è contro le politiche di Israele, non contro la sua esistenza e che una volta che gli obbiettivi del movimento – autodeterminazione, libertà dall’occupazione, giustizia per i rifugiati ed uguaglianza per i palestinesi cittadini di Israele – fossero raggiunti, il BDS terminerà.

Nadia Hijab

Nadia Hijab è cofondatrice e direttrice esecutiva di Al-Shabaka, la rete di politica palestinese, e scrittrice, conduttrice e commentatrice sui media. Il suo primo libro, “Woman power: the arab debate on women at work “(Potere delle donne: il dibattito arabo sulle donne lavoratrici) è stato pubblicato dalla Cambridge University Press, ed è coautrice di “Citizens apart: a portrait of palestinians in Israel” (Cittadini a parte: un ritratto dei palestinesi in Israele) (I.B. Tauris). È stata capo redattrice della rivista sul Medio Oriente con sede a Londra, prima di lavorare per le Nazioni Unite a New York. È cofondatrice ed ex copresidentessa della Campagna USA per i Diritti dei Palestinesi ed ora lavora nel suo comitato consultivo.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La dichiarazione di Trump su Gerusalemme dà ad Abbas un’occasione per smuovere la situazione

Amira Hass

9 dicembre 2017,Haaretz

Sfortunatamente, però, la dirigenza palestinese ha dimenticato come si operano dei cambiamenti

Il riconoscimento americano di Gerusalemme capitale di Israele è un’occasione per la leadership palestinese di disfarsi dei modi sclerotizzati di pensare e agire che hanno reso quegli stessi leader incapaci di cambiamento.

Sarà sfruttata questa opportunità di intraprendere un processo interno di democratizzazione? In primo luogo per ripristinare i rapporti tra un élite palestinese non eletta che è stata al potere per diversi decenni e la popolazione (non solo in Cisgiordania e a Gaza ma anche nella diaspora palestinese)? La speranza è che venga usata per operare un cambiamento. La preoccupazione è che ciò non accada.

Quando la leadership palestinese si riprenderà dallo shock provocato dal cambiamento simbolico nella politica americana – simbolico, ma potenzialmente esplosivo -, dirà che si tratta di un problema pan-islamico, pan-arabo, o forse europeo. La leadership avrebbe ragione a dirlo, ovviamente. I leader diranno che i palestinesi sono l’anello più debole della catena e che non possono essere lasciati soli a trattare con il piromane della Casa Bianca.

La si potrebbe considerare anche in altri termini. Il cambiamento nella posizione americana consente ai leader palestinesi, guidati dal presidente Mahmoud Abbas, di operare cambiamenti che dimostrino al loro popolo di non aver scelto la via diplomatica che dipende dal coordinamento con Israele su economia e sicurezza solo per favorire i propri immediati interessi personali e economici – e quelli dei gruppi vicini alla leadership dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e di Fatah.

Una delle spiegazioni prevalenti del fatto che Abbas abbia ostinatamente evitato lo svolgimento di elezioni e che, all’interno della sua fazione di Fatah, le elezioni siano state stabilite e dettate dall’alto e in modo tale da non essere discusse pubblicamente, è il “tornaconto personale”. Per lo stesso motivo si sostiene che Abbas abbia evitato di apportare modifiche al suo gabinetto che avrebbero permesso al suo governo di essere rappresentativo delle varie organizzazioni politiche e non solo della propria.

Ripresisi dallo shock, Abbas e il suo gruppo diranno, giustamente, che il cambiamento nella posizione americana non riflette necessariamente il fallimento del percorso diplomatico palestinese, ma piuttosto l’inettitudine delle fazioni moderate all’interno del Partito Repubblicano statunitense.

Dopo tutto, il presidente Trump ha insultato tutti i musulmani, compresi quelli di Paesi i cui governi sono considerati alleati degli Stati Uniti, oltre ad attaccare il Vaticano e l’Europa. I leader palestinesi potranno dire che l’audacia di Trump, nel rompere le convenzioni internazionali, non si limita ad un ambito specifico.

Recentemente lui e la destra economica ed evangelica che [Trump] serve e rappresenta hanno ottenuto due importanti vittorie: un aumento dei profitti per le grandi aziende attraverso i tagli delle imposte per le imprese e una sentenza della Corte Suprema che ha permesso l’immediata applicazione del divieto di ingresso ai cittadini di sei Paesi musulmani. Di conseguenza, Abbas e i suoi soci diranno che non esiste alcun nesso tra la situazione interna palestinese e i tentativi della comunità internazionale di fare i conti con le politiche di Trump.

La via diplomatica – che implica il riconoscimento simbolico internazionale di uno Stato palestinese – è stata preparata lentamente, inclusi diversi risultati incoraggianti, come l’accettazione [della Palestina] in istituzioni internazionali e la firma di convenzioni internazionali. Ma poi il percorso è stato bloccato dagli Stati Uniti. La strada diplomatica ha fatto arrabbiare Israele, ma ora si è esaurita senza aver cambiato la realtà dei fatti: autonomia limitata per l’Autorità Nazionale Palestinese, divisa tra enclave separate, assolvendo nel contempo Israele nonostante le sue responsabilità di potenza occupante. I Paesi occidentali appongono tuttora il loro timbro di approvazione su una leadership palestinese non eletta e non amata a causa del suo impegno a tenere a freno la popolazione e a mantenerla calma nei confronti di Israele, e per la sua volontà di far finta che ci sia ancora un “processo” in corso per edificare uno Stato. Il rischio è che la mossa di Trump non faccia altro che sostenere la richiesta dell’Europa che Abbas e le sue forze di sicurezza continuino a tenere a bada il popolo palestinese in cambio del loro immutato riconoscimento di questa come leadership legittima.

Gli Stati Uniti, finanziatori molto generosi dell’UN Relief and Works Agency [(UNRWA, l’agenzia ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi, ndt.] e delle forze di sicurezza palestinesi, hanno accettato la realtà delle enclave molto prima dell’arrivo di Trump. Questo era il messaggio dietro il finanziamento per lo sviluppo delle strade rurali, al posto di larghe e veloci autostrade, ma in questa operazione Israele ha bloccato l’accesso [alle campagne] dalle città e dai villaggi palestinesi a beneficio dei coloni ebrei della Cisgiordania.

I Paesi europei non sono esenti, tuttavia, da responsabilità nel favorire la realtà delle enclave, con le loro donazioni che in qualche modo mitigano la cronica crisi finanziaria causata dalle restrizioni israeliane. Ma quei Paesi hanno cercato e stanno cercando di aiutare i palestinesi a rimanere sulla loro terra, prendendo misure non ancora definitive per boicottare i prodotti delle colonie e dichiarando che l’Area C (che è sotto il pieno controllo israeliano) fa parte dello Stato palestinese. Sono almeno consapevoli del loro ruolo negativo nel sovvenzionare l’occupazione.

Non smetteranno certo di sovvenzionarla ora – attraverso l’assistenza umanitaria ai palestinesi – con il crescente senso di un’imminente catastrofe. Anche questo rafforzerà la logica di mantenere il governo di Abbas così come è adesso.

L’appello di Fatah, partito di Abbas, ai tre giorni di rabbia sulla questione di Gerusalemme senza apportare modifiche alla struttura interna [del potere] è una scommessa rischiosa. Mette in pericolo la vita e la salute di centinaia di giovani palestinesi, esponendoli ad arresti di massa, e tutto questo per niente. Per lo più, potrebbe invece dimostrare che il popolo palestinese non risponde agli appelli di Fatah e dell’Autorità Nazionale Palestinese poiché non si fida di loro. La popolazione agirà piuttosto quando e come vorrà.

Invece di perseguitare chiunque li critichi su Facebook e di mettere a tacere gli oppositori con una legge relativa a Internet, Abbas e le persone intorno a lui potrebbero iniziare a fare dei passi per rinnovare il sistema politico che hanno costruito con gli auspici degli accordi di Oslo. È difficile immaginare come potrebbe svolgersi tale processo, a causa della lunga sclerosi delle istituzioni dell’OLP e dell’Autorità Nazionale Palestinese. In ogni caso, richiederebbe l’inclusione e il coinvolgimento attivo di ampi settori della popolazione nelle fasi di ideazione e di azione, cosa che i leader di Fatah e dell’OLP hanno da tempo dimenticato di fare.

(traduzione di Luciana Galliano)




Come mai l’Unione Europea sta offrendo croissant al criminale di guerra Netanyahu ?

David Cronin, Diritti e Responsabilizzazione

8 dicembre 2017 Electronic Intifada

Ci sono almeno 3000 motivi perché Benjamin Netanyahu non venga accolto a Bruxelles la prossima settmana.

Tremila è la cifra approssimata dei palestinesi uccisi dalle forze israeliane da quando Netanyahu è diventato primo ministro nel marzo del 2009.

Netanyahu ha ordinato due importanti offensive contro Gaza. Sia nell’una che nell’altra sono stati perpetrati crimini di guerra.

Insieme ai suoi colleghi di governo ha approvato l’espansione delle colonie nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme Est. Hanno promosso una serie di leggi per peggiorare la discriminazione e la repressione [a cui] i palestinesi sottostanno.

Netanyahu ha imposto alla popolazione di Gaza tagli all’energia elettrica. Egli è responsabile della morte dei pazienti cui è stata negata un’ adeguata cura medica e dei minori torturati durante la loro custodia in Israele.

Netanyahu è un palese razzista. Ha definito “infiltrati” i rifugiati africani e “bestie selvagge” gli arabi.

L’Accoglienza

Come mai Federica Mogherini, responsabile della politica estera dell’Unione Europea, ha invitato a “una colazione informale”Netanyahu ?

Perché l’Unione Europea offre dei croissant a un criminale di guerra?

Che nessuno venga ingannato dall’uso della parola “informale” usata per provare a sminuire il significato di come l’UE stia abbracciando Netanyahu.

L’UE ha rafforzato i suoi rapporti commerciali con Israele da quando Netanyahu è diventato primo ministro.

In questo periodo sono entrati in funzione due importanti accordi per facilitare agli esportatori israeliani l’accesso ai mercati dell’Unione Europea .

L’UE ha dato prova a Netanyahu di essere largamente compiacente.

Alcuni anni orsono Netanyahu si lamentava dei tentativi di escludere dai programmi europei di ricerca scientifica alcune imprese e istituzioni israeliane che lavoravano nella Cisgiordania occupata

Se i rappresentanti dell’Unione Europea avessero manifestato sul serio il loro attaccamento ai diritti umani e al diritto internazionale, avrebbero resistito alle pressioni del governo Netanyahu. Avrebbero rifiutato di intensificare la loro cooperazione con uno Stato che sta inghiottendo la terra palestinese.

Invece l’UE ha ceduto alle prepotenza di Netanyahu. Un decreto è stato tirato fuori per permettere a Israele di partecipare pienamente a Horizon 2020, come viene definito l’ultimo programma scientifico dell’Unione Europea.

L’accordo presentava delle grandi problematicità. Il ministero israeliano delle Scienze è una delle principali istituzioni di coordinamento della partecipazione dello Stato al [progetto] Horizon 2020.

Il ministero delle Scienze non si trova in quello che oggi è Israele. I suoi principali uffici, invece, sono nella Gerusalemme Est occupata

Superficiale

L’accordo di Horizon 2020 mostra come siano assai superficiali le preoccupazioni espresse questa settimana da Federica Mogherini circa il riconoscimento da parte di Donald Trump di Gerusalemme quale capitale di Israele.

Parlando alla CNN, Mogherini ha detto che la mossa di Trump ha “screditato un po’ gli Stati Uniti quale onesto mediatore”

Un buffone bellicoso come Trump non potrebbe mai essere credibile come onesto mediatore.

Per certi versi,tuttavia, Trump è stato veramente più onesto di Mogherini.

Trump sta dando carta bianca a Israele per continuare la pulizia etnica a Gerusalemme.

I rappresentanti dell’Unione Europea, collaborando con i ministeri israeliani a Gerusalemme Est, hanno fatto la stessa cosa- sebbene meno sfacciatamente.

Per celebrare la Giornata dei Diritti Umani all’inizio di questa settimana, l’ambasciatore dell’UE a Tel Aviv, Emanuele Giaufret, ha visitato l’Università Ebraica di Gerusalemme.

L’Università Ebraica ha il campus nell’occupata Gerusalemme Est. Alcuni dei suoi edifici sono situati su terra confiscata alla vicina cittadina palestinese Issawiyeh.

L’Università Ebraica è la maggiore beneficiaria dei finanziamenti europei [del programma] scientifico. In conclusione, l’Unione Europea sta fornendo un diretto aiuto a un’istituzione complice della colonizzazione di Gerusalemme.

Questo fatto [ci] fa capire come sia stata falsa Mogherini questa settimana quando ha provato a svolgere il [suo] compito riguardo all’annuncio di Trump su Gerusalemme.

Mantra

Mogherini non è riuscita a rendere Israele responsabile dei danni che ha prodotto a progetti finanziati dall’UE.

L’anno scorso ha affermato che i governi europei stavano discutendo [di chiedere] “possibili restituzioni o compensazioni” a Israele per avere distrutto progetti umanitari che avevano finanziato.

Otto tra i 28 Paesi dell’Unione hanno successivamente protestato per la confisca da parte di Israele dei pannelli solari che avevano pagato.

Nel venir meno a dare seguito a quell’azione, gli altri 20 Paesi europei e Mogherini,in qualità di responsabile della politica estera, stanno effettivamente scagionando Israele [dalle sue responsabilità]

Mogherini ripete come un mantra che l’UE si adopera per la soluzione a due Stati e desidera rilanciare il processo di pace.

Ad essere benevoli, forse crede che la soluzione a due Stati sia possibile o desiderabile. Ma Netanyahu ha sotto ogni aspetto escluso una tale soluzione ribadendo che Israele non abbandonerà mai nessuna delle sue colonie nella Cisgiordania

Una colazione con Netanyahu non cambierà le decisioni del suo governo. Al contrario Netanyahu potrà partire da Bruxelles con la consapevolezza che potrà continuare a calpestare impunemente

i diritti dei palestinesi

Per i suoi crimini è stato premiato con croissant.

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Trump, Gerusalemme e l’indifferenza araba verso la Palestina

Mariam Barghouti,

7 dicembre 2017, Al Jazeera

I palestinesi hanno provato un senso collettivo di ansia e rabbia quando il presidente Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti riconoscono formalmente Gerusalemme come capitale di Israele e inizieranno il processo di trasferimento della loro ambasciata da Tel Aviv alla città.

Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele è un altro doloroso colpo al morale palestinese poiché dimostra ancora una volta come le potenze internazionali agiscano senza accettare o riconoscere l’esistenza dei palestinesi, nonostante sia la popolazione che subisce il peso delle conseguenze.

Il problema della dichiarazione USA, tuttavia, non si basa sul riconoscimento e sull’affermazione in se’, ma sulla serie di eventi che hanno portato alla sua concretizzazione. È il culmine del fallimento internazionale nell’affrontare le violazioni di Israele dei diritti umani, il continuo sostegno degli Stati Uniti a Israele, l’incompetenza della leadership palestinese nel raggiungere soluzioni attraverso gli sforzi diplomatici e, più recentemente, la nuova amicizia che l’amministrazione statunitense sta costruendo con alcuni Stati arabi.

La storia si ripete.

Quest’anno – anno in cui Gerusalemme è riconosciuta dagli Stati Uniti come la capitale di Israele – segna anche 100 anni da quando Lord Balfour concesse al movimento politico sionista il diritto a una patria ebraica in Palestina. L’ultima decisione americana, quindi, riecheggia la stessa posizione secondo cui le potenze internazionali possono ignorare la popolazione indigena palestinese e il loro diritto all’autodeterminazione.

La dichiarazione di Balfour non solo dimostrò i pericoli di tali affermazioni unilaterali, ma provò anche che Israele le impiegherà per far avanzare il proprio programma coloniale. La dichiarazione del 1917 spianò la strada alla milizia sionista per radere al suolo i villaggi palestinesi e conquistare la terra palestinese, e oggi la dichiarazione di Trump legittima questa storia di violenza fornendo a Israele un costante sostegno.

Trump aveva ragione affermando che “Gerusalemme è la sede del moderno governo israeliano. È la sede del Parlamento israeliano, della Knesset e della Corte suprema israeliana. È la sede della residenza ufficiale del primo ministro e del presidente. È il quartier generale di molti ministri del governo”.

Gerusalemme è stata infatti considerata la capitale di Israele per decenni, anche se non ufficialmente. È per questo che il riconoscimento di Trump è stato reso possibile. Il lavoro preliminare era già in atto e così tutto ciò che ha portato fino a questo momento è la prova della bancarotta morale della comunità internazionale quando si tratta della situazione palestinese.

Il governo israeliano ha imposto un controllo assoluto e completo sulla popolazione palestinese a Gerusalemme, proprio come ha fatto in altre città e paesi palestinesi. I palestinesi gerosolimitani possiedono solo documenti di residenza, che possono essere revocati in qualsiasi momento; Israele demolisce continuamente case nei quartieri palestinesi con il pretesto che mancano di permessi, e i giovani palestinesi sono bersagliati in modo discriminatorio dalle forze israeliane.

Sono queste politiche israeliane, le stesse politiche contro cui i palestinesi hanno protestato per anni, che hanno messo a tacere le voci palestinesi così che Gerusalemme possa essere presentata di fatto come israeliana.

I leader arabi ignorano le grida dei palestinesi.

Ciò che è ancora più angosciante è che ciò non sarebbe stato possibile senza i compromessi raggiunti dalla leadership palestinese. La politica palestinese è stata segnata da rivalità tra fazioni, collaborazione sulla sicurezza con l’intelligence israeliana a spese dei palestinesi e una serie di concessioni sotto forma di accordi e trattati che non hanno mai incapsulato i fondamenti delle richieste palestinesi; giustizia, liberazione e dignità.

E mentre i palestinesi hanno ripetuto per decenni le loro richieste di autodeterminazione e diritti umani fondamentali, la comunità internazionale e la leadership palestinese li hanno ignorati intenzionalmente per perseguire un’altra agenda che ruota attorno ai negoziati. Ciò ha generato solo maggiore repressione e un netto aumento del numero di insediamenti colonici.

Oggi vediamo sia la comunità internazionale sia i leader arabi ignorare ancora una volta le grida palestinesi per la giustizia. Ciò è evidente nel discorso dominante dei leader globali e arabi. Esso ruota attorno alla paura di un’altra insurrezione, instabilità e protesta. Nella maggior parte dei discorsi e dei proclami non c’è una vera presa di posizione sulle radici dell’aberrazione imposta al popolo palestinese sotto forma di un’occupazione violenta.

La fissazione sulla possibile reazione dei palestinesi e della comunità araba come la ragione principale per opporsi a questa decisione oscura il fatto che il riconoscimento di Gerusalemme come capitale israeliana si basa su violazioni e abusi dei diritti umani.

È l’amplificazione della “paura della reazione dei palestinesi / degli arabi” che può tragicamente rappresentare la cornice entro cui spingere verso ulteriori negoziati mentre gli stati arabi si affrettano a controllare il tumulto della protesta e gli Stati Uniti spingono la loro visione di una pace che è solo una facciata per dare a Israele ciò che vuole; uno stato senza il fastidio dell’esistenza palestinese.

Così mentre i leader di tutto il mondo proclamano che questa mossa porterà alla fine dei colloqui di pace, della soluzione dei due Stati e di qualsiasi stabilità nella regione, la verità è che non c’è mai stata né pace né stabilità nei territori dall’inizio dell’occupazione israeliana.

Il discorso degli Stati arabi indica anche l’insincerità nel volere raggiungere una vera soluzione nella regione, soluzione che dovrebbe ritenere Israele responsabile dei suoi crimini e fornire ai palestinesi i loro pieni diritti. Ciò è particolarmente vero mentre si diffonde l’ondata di condanne contro la decisione.

I palestinesi hanno memorizzato questo scenario e la realtà che nessuna azione farà seguito. La verità è che gli Stati Uniti hanno un programma che è allineato con gli interessi israeliani e gli Stati arabi hanno fatto amicizia con l’amministrazione Trump, limitando ogni azione.

Proprio questa estate, abbiamo assistito ai palestinesi che protestavano contro le misure israeliane nella moschea al-Aqsa. Anche allora ci furono condanne e proteste da parte degli Stati arabi e dei paesi internazionali. Tuttavia, questo approccio sintomatico e simbolico continuerà solo a rafforzare l’occupazione e l’espropriazione di Israele della terra palestinese.

Tra le righe del discorso di Trump di mercoledì si intravvede il messaggio di Israele alla comunità globale. Esso predice che se commetti abbastanza crimini mentre reciti una storia al mondo, otterrai ciò che vuoi e te la caverai.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

(Traduzione di Angelo Stefanini)




Le pressioni USA fanno naufragare la “Legge per una Gerusalemme Più Grande”

Shlomi Eldar

30 ottobre 2017,Al-Monitor

SINTESI DELL’ARTICOLO

Pressioni esercitate dall’amministrazione Trump hanno provocato la sospensione da parte di Netanyahu della sua “Legge per una Gerusalemme Più Grande”

Il 29 ottobre il comitato ministeriale della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] sulle proposte di legge avrebbe dovuto approvare la proposta di legge nota come “Legge per una Gerusalemme Più Grande”, che avrebbe annesso a Gerusalemme le colonie di Maale Adumim, Givat Zeev, Beitar Illit e del blocco di Etzion (compresa Efrat), in Cisgiordania. Circa 150.000 israeliani vivono in quelle città e consigli locali.

L’idea di annettere colonie israeliane adiacenti ai confini della municipalità di Gerusalemme per aumentare la popolazione della città e garantirne la maggioranza ebraica ha circolato per decenni. Nel 2007 il parlamentare del Likud  Yisrael Katz portò avanti un simile progetto, che non è mai decollato a causa delle preoccupazioni per le dure reazioni internazionali e dei palestinesi.

La preoccupazione che gli ebrei non costituiranno più una maggioranza nella capitale israeliana entro meno di un decennio – a causa sia della crescita demografica dei palestinesi che vivono a Gerusalemme est, sia dell’emigrazione di ebrei israeliani laici dalla città – nel febbraio 2016 ha portato l’ex ministro Haim Ramon a lanciare un movimento d’opinione per “salvare la Gerusalemme ebraica”. Il gruppo era composto da un gran numero di esperti della difesa, di accademici e di attivisti di sinistra e del centro. Prima dei festeggiamenti annuali della “Giornata di Gerusalemme” del 2016, il movimento ha lanciato una vasta campagna pubblica per mettere in guardia gli israeliani indifferenti che, se non fossero state prese presto iniziative preventive, si sarebbero “svegliati con una maggioranza palestinese a Gerusalemme”.

La campagna ha fatto ricorso a varie tattiche intimidatorie, compreso persino un video di Hamas che mostrava incitamenti all’odio contro gli ebrei postati sulle reti sociali. Tuttavia i suoi toni esasperati quasi razzisti portarono importanti sostenitori dell’iniziativa, come l’ex capo dell’agenzia di sicurezza Shin Bet Ami Ayalon, ad andarsene.

In luglio il presidente di HaBayit HaYehudi [“La casa ebraica” il partito di estrema destra dei coloni, ndt.] Naftali Bennett ha presentato una sua proposta di legge – la “Legge per una Gerusalemme unificata” – che ha proposto al voto della Knesset. Questa proposta era già stata approvata il 18 giugno dal comitato ministeriale per le proposte di legge. La legge stabiliva che sia necessaria una maggioranza speciale di 80 membri della Knesset (su 120) per dividere la capitale tra la parte occidentale, ebrea, e una parte est prevalentemente palestinese. La Knesset ha votato 51 a 42 per approvare la legge in prima lettura.

Tuttavia il primo ministro Benjamin Netanyahu non voleva essere da meno rispetto al suo nemico politico Bennett per il titolo di maggior difensore di Gerusalemme, soprattutto dopo il fiasco di luglio riguardo ai metal detector che Israele ha piazzato alle entrate del complesso del Monte del Tempio e poi è stato obbligato a rimuovere in seguito alle pressioni internazionali. Il primo ministro ha deciso di appoggiare la “Legge per una Gerusalemme Più Grande” stilata da un parlamentare del suo stesso partito, Yoav Kish, che era stata lasciata da parte per mesi, insieme ad una legge simile proposta da Yehuda Glick, un altro parlamentare del Likud.

La proposta di Kish gode del sostegno del ministro dei Trasporti Yisrael Katz, considerato uno dei più moderati e pragmatici parlamentari del Likud e un rivale di Netanyahu, dei membri del partito HaBayit HaYehudi e del partito di centro destra Kulanu.

Nell’introduzione della sua legge Kish ha scritto: “Il concetto di Gerusalemme come ‘eterna capitale’ di Israele è diventato sfumato, ha perso il suo valore simbolico.” Kish aggiunge che invece la questione della posizione di Gerusalemme è centrata su questioni demografiche e sulla determinazione dei palestinesi a controllare Gerusalemme ed i suoi luoghi santi. “Viene pertanto proposto che le comunità [ebraiche, ndt.] che circondano Gerusalemme siano annesse alla capitale. Ciò incrementerà la popolazione [ebraica, ndt.], consentirà di preservare l’equilibrio demografico e aggiungerà terre per la costruzione di case, zone commerci e turismo, conservando aree verdi.”

Come detto, il comitato ministeriale per le proposte di legge avrebbe dovuto approvare la legge il 29 ottobre e inviarla alla Knesset, dove probabilmente sarebbe passata con una larga maggioranza alla prima lettura. Ci sono pochi problemi più condivisi nel discorso pubblico israeliano, per non parlare della Knesset, che preservare una maggioranza ebraica a Gerusalemme. Tuttavia, dodici ore prima che i ministri si riunissero, l’ufficio del primo ministro ha annunciato che il voto sulla proposta di legge era posticipato a tempo indefinito. Il primo ministro aveva bloccato la sua presentazione.

Ci sono state pressioni americane, è chiaro,” ha detto a Al-Monitor una fonte anonima palestinese nella città cisgiordana di Ramallah. Quando i palestinesi hanno sentito che Netanyahu stava per portare avanti la “legge dell’annessione”, ha affermato la fonte, hanno inviato un messaggio a Jason Greenblatt, inviato per il Medio Oriente del presidente Donald Trump. Gli hanno detto che la mossa sancisce la fine di ogni possibile iniziativa diplomatica con Israele.

La reazione ufficiale palestinese è stata stranamente silenziosa. L’unica dirigente palestinese importante che ha espresso pubblicamente rabbia e condanna è stata Hanan Ashrawi, membro del Consiglio Esecutivo dell’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, principale organizzazione politica palestinese, ndt.]. “E’ un fatto indiscutibile che ogni colonia è un crimine di guerra in base allo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale e una diretta violazione delle leggi e convenzioni internazionali, compresa la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU 2334,” ha affermato nella sua dichiarazione. Tuttavia neppure il portavoce del presidente palestinese Mahmoud Abbas si è espresso contro la legge, salvo che per dare una risposta laconica quando gli è stato chiesto in proposito dai mezzi di comunicazione palestinesi.

La fonte palestinese ha detto ad Al-Monitor che gli americani hanno chiesto ai palestinesi di mantenere un basso profilo per consentire a Netanyahu di ritirare la legge, affermando che la diplomazia silenziosa era l’unico modo per raggiungere il risultato desiderato. Gli americani avevano ragione. La velocità con cui Greenblatt e il suo entourage hanno agito nei confronti di Netanyahu ha messo in chiaro ai palestinesi quanto l’amministrazione USA sia seria riguardo ai progressi dell’iniziativa di pace israelo-palestinese e ancor più quanto Netanyahu sia ansioso di evitare di irritare l’amministrazione Trump.

In quanto persona così preoccupata della sua immagine di guardiano di Gerusalemme, ci si sarebbe aspettati che Netanyahu ignorasse le ammonizioni americane e gli dicesse che il problema è una questione interna israeliana che riguarda confini municipali e che non costituisce in alcun modo una dichiarazione di sovranità su parti della Cisgiordania. Invece nell’incontro settimanale del Consiglio dei ministri egli ha detto ai suoi ministri che gli americani “volevano comprendere l’essenza della legge. Poiché ci siamo coordinati con loro fino ad ora, conviene (continuare a) parlare e coordinarci con loro. Stiamo lavorando per avanzare e sviluppare l’impresa di colonizzazione e non per promuovere altre considerazioni.”

Shlomi Eldar è un editorialista per “Israel Pulse” di Al-Monitor [Pulsazioni di Israele, sezione dedicata ad Israele del sito informativo con sede a Washington, ndt.]. Negli ultimi 20 anni si è occupato dell’Autorità Nazionale Palestinese e soprattutto della Striscia di Gaza per i canali israeliani 1 e 10, informando sulla comparsa di Hamas. Nel 2007 per questo lavoro ha ottenuto il premio Sokolov, il più importante riconoscimento israeliano per i media.

(Traduzione di Amedeo Rossi)