Analisi: un colpo di fortuna insperato? La presidenza Trump potrebbe essere un bene per la Palestina

4 gennaio 2017, Maannews
di Ramzy Baroud
Israele ha le vertigini. Il 20 gennaio ci sarà una specie di secondo natale e Donald Trump è un gioviale vecchio Babbo Natale che porterà doni.

Tutto è già scritto, dal momento che il presidente eletto Trump ha nominato, come prossimo ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, un estremista, David Friedman, che ha intenzione di trasferire l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme e appoggia l’espansione delle colonie illegali che hanno già frantumato l’ipotetico stato di Palestina in bantustan di tipo sudafricano.

Quindi deve suonare strano, se non assolutamente provocatorio, insinuare che una presidenza Trump potrebbe essere il colpo di grazia di cui i palestinesi, e di fatto l’intero Medio Oriente, hanno bisogno per liberarsi del peso di una politica estera americana autoritaria, arrogante e futile che è durata per decenni.

Senza dubbio una presidenza Trump è palesemente terribile per i palestinesi nel breve termine. Il personaggio non prova nemmeno a mostrare la minima imparzialità o un’ombra di equilibrio nel suo approccio al più duraturo e delicato conflitto del Medio Oriente.

Secondo il flusso quasi ininterrotto dei suoi tweets, Trump sta contando i giorni fino a quando potrà mostrare ai leaders israeliani quanto filo-israeliana sarà la sua amministrazione. Poco dopo che gli Stati Uniti il 23 dicembre si sono astenuti dal voto sulla Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che ha condannato le illegali colonie israeliane, il presidente eletto ha twittato: “Per quanto riguarda l’ONU, le cose cambieranno dopo il 20 gennaio.”

Trump è di nuovo ricorso a Twitter, poco dopo che John Kerry ha pronunciato un importante discorso politico sul conflitto israelo-palestinese, in cui il segretario di stato ha rimproverato Israele di compromettere la soluzione dei due stati ed ha definito l’attuale governo di Benjamin Netanyahu il più a destra della storia di Israele.

Nella sua replica Trump ha invitato Israele a “tener duro” fino al suo insediamento il 20 gennaio. Anche i leaders israeliani guardano a quella data, quelli del calibro di Naftali Bennett, capo del partito estremista Casa Ebraica, si attendono una ‘riconfigurazione’ delle relazioni tra Israele e Stati Uniti, una volta che Trump sarà presidente.

Inoltre Bennett, che è anche il ministro dell’educazione di Israele, lo scorso novembre ha dichiarato ai giornalisti: “Abbiamo l’opportunità di reimpostare la struttura di tutto il Medio Oriente, dobbiamo cogliere questa opportunità e sfruttarla.”

Una delle imminenti opportunità offerte dalla presidenza Trump, ha detto Bennett, è che “l’epoca dello stato palestinese è tramontata.”

Certo, Kerry ha ragione; l’attuale governo israeliano è il più di destra ed il più estremista, una prospettiva destinata a non cambiare presto, dato che riflette fedelmente il clima politico e sociale del paese.

Leggete come ha risposto Bennett al discorso di Kerry.

Kerry mi ha citato tre volte nel suo discorso, senza nominarmi, per dimostrare che noi siamo contrari ad uno stato palestinese”, ha detto, “perciò lasciatemelo dire esplicitamente: sì. Se dipendesse da me, non creeremo un altro stato terrorista nel cuore del nostro paese.”

All’insistenza di Kerry sul fatto che Gerusalemme dovrebbe essere la capitale sia di Israele che della Palestina, Bennett ha risposto: “Gerusalemme è stata la capitale degli ebrei per 3.000 anni. Sta scritto nella Bibbia, apritela e leggetela.”

La presa del fanatismo religioso sulla politica di Israele è irreversibile, quanto meno nel futuro prevedibile. Mentre nel passato i politici ebrei laici utilizzavano i precetti religiosi per attrarre i fedeli ebrei in cambio dei loro voti e per popolare le colonie illegali, adesso sono i gruppi religiosi che stabiliscono i criteri delle principali politiche israeliane.

E allora come può tutto questo essere un bene per i palestinesi? In parole povere: la chiarezza.

Da quando funzionari statunitensi di medio livello hanno accettato di incontrare una delegazione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) in Tunisia alla fine degli anni ’80, gli Stati Uniti hanno scelto un cammino piuttosto inverosimile per fare la pace. Subito dopo che gli Stati Uniti hanno “reclutato” con riluttanza l’OLP – una volta che quest’ultima ha dovuto superare mille ostacoli politici per ottenere un cenno di assenso americano – sono rimasti gli unici a definire che cosa comportasse la “pace” tra Israele ed i suoi vicini palestinesi ed arabi.

La Casa Bianca ha stabilito i parametri del “processo di pace”, ha costretto in parecchie occasioni gli arabi ad approvare qualunque “visione” della pace gli Stati Uniti ritenessero conveniente ed hanno diviso gli arabi tra ‘moderati’ e ‘radicali’, basandosi esclusivamente su come un determinato paese avrebbe recepito i dettami di ‘pace’ degli USA nella regione.

Senza alcun mandato, gli Stati Uniti si sono auto-nominati ‘ un onesto intermediario per la pace’, ed hanno fatto di tutto per compromettere il rispetto di quegli stessi parametri che avevano posto per raggiungere la supposta pace. Mentre arrivava a definire la costruzione delle colonie illegali israeliane un ‘ostacolo alla pace’, Washington finanziava le colonie e l’esercito di occupazione incaricato di proteggere quelle entità illegali; faceva appello a ‘costruire la fiducia’ mentre, nello stesso tempo, finanziava l’esercito israeliano e giustificava le guerre di Israele a Gaza e la sua eccessiva violenza nella Cisgiordania e a Gerusalemme occupate.

In altri termini, per decenni, gli Stati Uniti hanno fatto esattamente il contrario di ciò che predicavano pubblicamente.

La schizofrenia politica americana sta toccando il suo massimo in questo momento. Mentre Obama ha osato fare una cosa incredibile a dicembre – quando si è astenuto dal voto su una risoluzione che chiedeva ad Israele di porre fine alle sue colonie illegali in Cisgiordania – solo poche settimane prima ha concesso ad Israele “ il più cospicuo finanziamento militare nella storia.”

Nel corso degli anni il cieco appoggio americano ad Israele ha accresciuto le aspettative di quest’ultimo al punto che adesso prevede che il sostegno continui, anche quando Israele è governato da estremisti che stanno ulteriormente destabilizzando una regione già fragile ed instabile. Nella logica israeliana queste aspettative sono del tutto razionali.

Gli Stati Uniti hanno svolto la funzione di facilitatori dell’aggressività politica e militare israeliana, tenendo buoni i palestinesi e gli arabi con vuote promesse, a volte con minacce, elemosine e semplici parole.

I cosiddetti ‘palestinesi moderati’, del genere di Mahmoud Abbas e della sua Autorità Nazionale Palestinese, sono stati debitamente rabboniti, certo, perché hanno ottenuto i privilegi del ‘potere’, insieme al riconoscimento politico statunitense, permettendo intanto ad Israele di conquistare tutto ciò che rimaneva della Palestina.

Ma quel tempo è certamente finito. Finché gli USA continueranno a permettere l’intransigenza di Israele, una presidenza Trump probabilmente segnerà un totale abbandono del linguaggio ambiguo di Washington.

Il male non sarà più un bene, ciò che è sbagliato non è giusto e il militarismo non è fare la pace. Di fatto, Trump è destinato a mostrare la politica estera americana per quello che veramente è ed è stata per decenni. La sua presidenza probabilmente porrà tutte le parti in causa di fronte ad una difficile scelta su dove collocarsi riguardo alla pace, alla giustizia e ai diritti umani.

Anche i palestinesi dovranno fare una scelta, affrontare la realtà durata decenni con un fronte unito, oppure schierarsi al fianco di coloro che intendono ‘ riconfigurare’ il futuro del Medio Oriente sulla base di una fosca interpretazione delle profezie bibliche.

Ramzy Baroud è un giornalista accreditato internazionalmente, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è ‘Mio padre era un combattente per la libertà: storia non raccontata di Gaza.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La palestina nel 2017: è tempo di dire addio a Washington e di abbracciare il mondo

Ramzy Baroud – 29 dicembre 2016, Ma’an News

Non ci sono dubbi che la condanna del Consiglio di Sicurezza dell’ONU ad Israele venerdì 23 dicembre sia stato un evento importante e degno di nota.

E’ vero, i principali organi delle Nazioni Unite (il Consiglio di Sicurezza e l’assemblea generale) e le sue

varie istituzioni, dalla Corte Internazionale di Giustizia all’agenzia ONU per la cultura, l’UNESCO, hanno ripetutamente condannato l’occupazione israeliana, le colonie ebraiche illegali e i soprusi contro i palestinesi. Nei fatti, a differenza della risoluzione 2334 del 23 dicembre, le precedenti condanne ONU sono state molto più forti – in quanto alcune risoluzioni non solo hanno chiesto un immediato blocco della costruzione di colonie ebraiche illegali, ma anche la rimozione di quelle esistenti.

Ci sono oltre 196 insediamenti illegali sul territorio palestinese occupato, oltre a centinaia di avamposti dei coloni. Questi insediamenti ospitano oltre 600.000 coloni ebrei, che si sono installati lì in violazione delle leggi internazionali e, in particolare, della Quarta Convenzione di Ginevra.

Ma cosa rende importante questa specifica risoluzione?

In primo luogo, gli USA non hanno posto il veto sulla risoluzione né hanno minacciato di farlo; non hanno neppure fatto seriamente pressioni, come hanno fatto spesso in precedenza per rendere più morbido il testo.

Secondo, è la prima condanna decisa e chiara di Israele da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU in quasi otto anni – circa l’intero periodo del mandato del presidente Barak Obama.

Terzo, il voto ha avuto luogo nonostante le eccezionali pressioni israeliane sull’attuale amministrazione USA, su quella di Donald Trump che sta per iniziare e quelle che hanno avuto successo sul presidente egiziano, Abdul Fatah al-Sisi. Infatti l’Egitto ha rimandato il voto, previsto per il giorno precedente, prima che Nuova Zelanda, Senegal, Malaysia e Venezuela accellerassero e portassero al voto la risoluzione il giorno successivo.

Senza dubbio la risoluzione ONU – come tutte le altre – rimane alquanto simbolica finché non ci sono dei meccanismi concreti per garantire il rispetto delle leggi internazionali.

Non solo Israele non rispetta la volontà delle Nazioni Unite, ma nei fatti sta accelerando le attività di colonizzazione nella zona di Gerusalemme, sfidando questa decisione.

Mentre i membri del Consiglio di Sicurezza stavano preparando per il voto sull’ “invalidità legale” delle colonie ebraiche, il Comune di Gerusalemme ha annunciato che 300 unità abitative saranno costruite nelle colonie illegali di Ramat Shlomo, Ramot e Bit Hanina.

D’altra parte l’Autorità Nazionale Palestinese sta già festeggiando un’altra “vittoria” simbolica, che è stata prontamente venduta ai palestinesi, per niente entusiasti, come un passo fondamentale verso la loro libertà e verso uno Stato indipendente. La risoluzione ONU è stata certo desiderosa di garantire che l’illusione dei due Stati sia ulteriormente perpetuata, che è tutto ciò di cui la leadership di Mahmoud Abbas aveva bisogno per insistere su un miraggio irraggiungibile.

Tenendo conto di tutto ciò, c’è una lezione – e una lezione importante – che si deve trarre a questo punto: senza il sostengo degli USA, Israele, con tutta la sua potenza, è decisamente vulnerabile e isolato nell’arena internazionale. Il risultato della votazione è stato piuttosto eloquente: i 14 membri del Consiglio di Sicurezza hanno votato “sì”, mentre gli USA si sono astenuti. Il voto è stato seguito da un raro spettacolo in simili consessi, un prolungato applauso, in cui Paesi che difficilmente si trovano d’accordo tra loro hanno concordato con convinzione sulla giustezza delle aspirazioni palestinesi e sul rifiuto del modo di agire di Israele.

Pensateci per un momento: i continui sforzi di Israele e degli USA per intimidire, forzare e imbrogliare i membri dell’ONU in modo da tener fuori la comunità internazionale dal conflitto israelo-palestinese, sono completamente falliti. E’ bastata una semplice astensione USA dal voto per mettere in luce l’unanimità internazionale ancora solida riguardo alle azioni illegali di Israele in Palestina.

In un emblematico segnale di speranza, la votazione chiude il 2016, che è stato molto duro per i palestinesi. Centinaia di palestinesi sono stati uccisi durante quest’anno durante scontri a Gerusalemme, in Cisgiordania e a Gaza; centinaia di case sono state parzialmente o totalmente demolite e danneggiate; migliaia di ettari di terra sono stati confiscati da Israele, e innumerevoli alberi di olivo divelti.

Il prossimo anno difficilmente promette di essere migliore, in quanto la nuova amministrazione USA di Trump presenta tutti i requisiti che suggeriscono il fatto che il sostegno USA a Israele rimarrà saldo, se non prenderà una piega ancora più terrificante.

Friedman [nuovo ambasciatore americano in Israele nominato da Trump ed eslicitamente favorevole alle colonie. Ndtr.] e quelli come lui non tengono in alcuna considerazione le leggi internazionali né hanno rispetto per l’attuale politica estera USA riguardo all’occupazione israeliana, all’illegalità delle colonie (considerate un “ostacolo per la pace” da varie amministrazioni) e sono pronti a spostare l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme.

Tutto ciò è inquietante, e la risoluzione appena approvata non deve illudere che le cose stiano cambiando.

Nondimeno c’è una speranza.

La risoluzione è un’ulteriore affermazione che la comunità internazionale è incondizionatamente dalla parte dei palestinesi e, nonostante tutti i fallimenti del passato, invoca ancora il rispetto delle leggi internazionali. Questo monito avviene nel momento in cui il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) si sta rafforzando, galvanizzando la società civile, i campus e i sindacati in tutto il mondo per prendere posizione contro l’occupazione israeliana.

Mentre i diritti dei palestinesi non registrano minimamente l’attenzione degli interessi della politica estera USA (che vede la sua alleanza con un forte Israele come molto più importante delle necessità dei Paesi arabi disuniti), i palestinesi possono ancora forgiare una nuova strategia fondata sul forte sostegno che continuano a raccogliere nel resto del mondo.

Israele può essere incolpato di molte cose, ma anche i palestinesi hanno buona parte della responsabilità per la loro divisione, le lotte intestine e la corruzione.

Non si possono aspettare che i loro sforzi, per quanto sinceri, producano libertà e liberazione quando sono incapaci di formare un fronte unitario.

Ciò dovrebbe essere fatto riorganizzando l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e riunendo tutte le fazioni palestinesi sotto un’unica piattaforma politica che soddisfi le aspirazioni di tutti i palestinesi, in patria e nella “Shattat” (diaspora).

La dirigenza palestinese deve capire che l’epoca dell’inconcludente egemonia USA è finita. Non più vuote promesse di pace ed elemosina per l’ANP, mentre veniva finanziato l’esercito israeliano e sostenuto politicamente Israele. La prossima amministrazione è totalmente filo-israeliana.

Questa deve essere la chiarezza di cui i palestinesi hanno bisogno per comprendere che richieste ed implorazioni per ottenere la compassione degli americani non saranno più sufficienti.

Se una dirigenza palestinese unitaria non approfitta dell’opportunità e non riprende l’iniziativa nel 2017, tutti i palestinesi ne soffriranno.

E’ ora di allontanarsi da Washington e di abbracciare il resto del mondo.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Cosa c’è dietro il discorso di Kerry?

Ben White – 29 dicembre 2016, Middle East Monitor

Un elogio della soluzione dei due Stati? Forse, ma il discorso del segretario di Stato John Kerry di mercoledì è simile in modo sospetto ad un ennesimo disperato tentativo di tenere in piedi il cosiddetto “processo di pace”.

E’ possibile capire la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e il discorso di Kerry, come interpretarli – la loro debolezza e le opportunità che rappresentano -, solo iniziando con guardare in faccia la realtà del processo di pace durato due decenni e guidato dagli USA e dalla comunità internazionale.

Il processo di pace ha imposto una falsa simmetria tra occupante ed occupato, trasformando colonizzatori e colonizzati in “due parti” con obblighi e responsabilità reciproci.

Il processo di pace è anche servito ad rendere ulteriormente immune Israele dal dover rispondere dei sistematici e continui abusi dei diritti umani e delle violazioni delle leggi internazionali. Per esempio, i tentativi di garantire giustizia per le vittime dei crimini di guerra sono stati sacrificati allo per “proteggere” il processo dei negoziazione.

Ed infine l’obiettivo del processo di pace, diventato sempre più esplicito, è di preservare Israele come “Stato ebraico”. I diritti dei palestinesi sono subordinati al “carattere” (etnocratico) di Israele, e la sovranità palestinese ( e la sua autodifesa) è subordinata alle esigenze di sicurezza di Israele.

Ma il processo di pace è fallito, uno sviluppo guidato da una leadership politica israeliana votata alla colonizzazione della Cisgiordania e da una totale mancanza di volontà da parte degli USA e degli Stati europei di imporre un costo reale a un governo israeliano segnato dal dire sempre di no e favorevole alle colonie.

Mercoledì scorso non c’è stato niente di originale nell’affermazione di Kerry che se Israele occuperà la Cisgiordania per sempre sarà “o ebraico o democratico”, ma “non potrà essere entrambe le cose”: versioni di questo avvertimento sono state esposte ormai da anni da diplomatici occidentali e persino da qualche politico israeliano.

Lo stesso Kerry, durante il Saban Forum [incontro annuale organizzato dall’ istituto statunitense “Centro per la Politica in Medio Oriente. Ndtr.] del dicembre 2015, ha chiesto retoricamente: “Come Israele potrebbe continuare ad conservare il suo carattere di Stato ebraico e democratico se dal fiume al mare [dal Giordano al Mediterraneo. Ndtr] non ci fosse un maggioranza ebraica?”

Due importanti punti a proposito di questo “avvertimento”. In primo luogo, Israele ha governato su milioni di palestinesi non cittadini con un regime militare per almeno 50 anni. Per cui, solo su questa base, l’occupazione permanentemente temporanea ormai mette in dubbio le credenziali democratiche di Israele.

Ma, in secondo luogo, il vero contesto è una concessione al razzismo colonialista d’insediamento, in cui la sola presenza dei palestinesi costituisce una minaccia. Ad esempio quali sono le implicazioni per i palestinesi cittadini di Israele di una ideologia dello Stato in cui “troppi” non ebrei sono una questione di pericolo esistenziale?

Ci sono tre fattori principali dietro alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU e al discorso di Kerry (in altre parole, “perché adesso?”). Il principale impulso viene da una nuova legge che sta proseguendo il suo iter alla Knesset, la quale “legalizzerebbe” retroattivamente dozzine di “avamposti” non autorizzati dei coloni in Cisgiordania.

Contemporaneamente a questo sviluppo c’è l’imminente arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, che porta con sé un gruppo di consiglieri sul Medio Oriente che include espliciti oppositori della costituzione di uno Stato palestinese e sostenitori entusiastici della colonizzazione israeliana.

E, oltretutto, questa è stata una manifestazione di frustrazione da parte di un’amministrazione Obama che avrebbe voluto avere due mandati di un primo ministro israeliano come Tzipi Livni o Isaac Herzog – strateghi più accorti quando si tratta di collaborare con il “processo di pace” – mentre gli sono toccati otto anni con Bibi [Netanyahu].

Come ha scritto su “The Nation” [rivista progressista statunitense. Ndtr.] Yousef Munayyer, direttore esecutivo della Campagna USA per i Diritti dei Palestinesi: “E’ stato un tentativo di salvarsi la faccia nei libri di storia con il gioco dello scaricabarile . Kerry ha chiarito che se gli israeliani voglio uccidere la pace con le colonie, è una loro scelta.”

Ma quali sono gli aspetti positivi? Sicuramente il discorso di Kerry è stato una boccata di aria fresca rispetto alle vere e proprie macchinazioni o agli argomenti prevedibili delle fonti ufficiali israeliane e dei loro amici e alleati. Ma ciò non alza di molto il livello.

Kerry si è vantato del record di Barack Obama nell’appoggiare Israele, affermando che “nessuna amministrazione americana ha fatto di più per la sicurezza di Israele.” Ha aggiunto: “Nel mezzo della nostra crisi finanziaria e del deficit di bilancio abbiamo ripetutamente aumentato i finanziamenti per sostenere Israele.”

I diplomatici USA hanno persino sottolineato con orgoglio il sostegno di Obama a Israele durante i brutali attacchi universalmente condannati contro la Striscia di Gaza (o, con le parole di Kerry, “azioni…che hanno suscitato grandi polemiche”).

I principi di Kerry per un accordo di pace sono, nelle parole del giornalista israeliano Barak Ravid, “magnificamente sionisti”: “scambio di territori” per tener conto dei principali insediamenti illegali, negazione del ritorno a casa dei rifugiati palestinesi per non minacciare la maggioranza ebraica (creata con la violenza) di Israele.

E’ vero che Kerry ha riconosciuto alcune verità imbarazzanti a proposito del regime discriminatorio di Israele nella Cisgiordania occupata: “Praticamente nessuna costruzione privata palestinese viene approvata nell’Area C [in base agli accordi di Oslo, sotto totale controllo israeliano. Ndtr.]”, ha affermato, notando come “solo un permesso è stato rilasciato da Israele in tutto il 2014 e 2015.”

E sì, Kerry ha anche confutato qualche luogo comune riguardo alla costruzione di colonie, sottolineando come “quello che costituisce un blocco (di insediamenti) è stato fatto in modo unilaterale dal governo israeliano, senza consultare i palestinesi e senza il loro consenso.”

Ma è un monito del fatto che Kerry e i diplomatici come lui non sono ignari di quello che succede – hanno solo scelto di garantire l’impunità di Israele. Oltretutto, è chiaro che Kerry conosce fatti altrettanto imbarazzanti riguardanti situazioni che è orgoglioso di difendere – ad esempio, i bombardamenti israeliani contro Gaza.

Ciò detto, è importante non ignorare le scelte politiche – e l’impatto – dell’ammonimento degli USA, senza mezzi termini e pubblicamente, al governo di Netanyahu, soprattutto facendo immediatamente seguito alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che ha riaffermato le “flagranti” violazioni delle leggi internazionali da parte di Israele.

Tali dinamiche renderanno sicuramente la vita più difficile ai gruppi che appoggiano Israele – soprattutto quelli che ancora sostengono con la voce roca la causa “progressista” dello Stato del colonialismo di insediamento. Le risibili reazioni di Netanyahu e dei suoi ministri hanno messo in evidenza il loro disprezzo, e la loro paura, delle leggi internazionali.

La risoluzione dell’ONU e il discorso di Kerry (e quello che ciò rappresenta) giocheranno un ruolo e agiranno come catalizzatori di processi preesistenti – come la trasformazione di Israele in un argomento conflittuale nella politica USA e la crescita della campagna per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS).

Dopo la risoluzione dell’ONU le singole campagne di boicottaggio e sanzioni saranno solo più facili da attuare alla luce di una sicura continuazione dell’incremento delle colonie israeliane e delle politiche di apartheid. Dovrebbe risultare ancora più evidente ai gruppi dei diritti umani ed ai governi internazionali che è necessaria una pressione effettiva.

Il giornalista israeliano Chemi Shalev ha definito il discorso di Kerry “un rito di passaggio da un’era ad un’altra”. La domanda per i dirigenti palestinesi è se potranno agire di conseguenza e sfruttare i nuovi sviluppi a favore dell’autodeterminazione e dei diritti di tutto il popolo palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il discorso di Kerry è stato magnificamente sionista, a favore di Israele e in ritardo di tre anni

Nota redazionale: il presente articolo rappresenta posizioni che non corrispondono alle opinioni condivise da Zeitun, in quanto, come afferma lo stesso Barak Ravid fin dal titolo, Kerry ha confermato la sua adesione alla logica sionista. Quindi gli aspetti che il giornalista ritiene positivi dal nostro punto di vista non lo sono affatto. Inoltre è evidente che le responsabilità di un mancato accordo tra le parti non può ricadere equamente su Netanyahu e Abu Mazen, data l’enorme differenza di potere tra i due ed il fatto che il mediatore, in questo caso Kerry, si è sempre dimostrato acquiescente rispetto all’espansione delle colonie israeliane nei Territori occupati. Lo status quo in realtà ha rappresentato la continuazione dei cambiamenti sul terreno imposti da Israele. Anzi, nessun presidente e nessun segretario di Stato statunitensi sono stati sbeffeggiati come Obama e Kerry da un governo israeliano, senza che ciò abbia provocato serie reazioni da parte della superpotenza.

Nonostante queste ed altre obiezioni riteniamo utile tradurre questo articolo in quanto smentisce le informazioni e le interpretazioni del discorso di Kerry circolate sui nostri media, che, facendo eco alle proteste di Netanyahu e dei suoi ministri e diplomatici, hanno sostenuto che si è trattato di un duro attacco contro Israele.

 Barak Ravid – 29 dicembre 2016,Haaretz

Se lo avesse messo sul tavolo [delle trattative] nel 2014, lo schema presentato da Kerry avrebbe potuto spingere Israele ed i palestinesi ad un accordo. Ma le risposte ipocrite di Netanyahu e Abbas hanno dimostrato perché i suoi sforzi per la pace sono falliti | Analisi

Il segretario di Stato USA John Kerry ha scelto di dedicare la maggior parte del suo discorso ai suoi personali legami con Israele fin dalla sua prima visita quando era un giovane senatore 30 anni fa. Ha detto di essere salito a Masada, di aver nuotato nel Mar Morto, di essere andato da un sito biblico all’altro, di aver visto le atrocità dell’Olocausto allo Yad Vashem e ha persino parlato di come guidò un aereo dell’aviazione militare su Israele per comprendere le sue necessità in materia di sicurezza.

Non ci sono molti altri politici americani che conoscano Israele quanto John Kerry. Non c’è un solo politico americano in carica che abbia scavato quanto Kerry così in profondità nel conflitto israelo-palestinese e lo abbia studiato e tentato di risolverlo. Queste cose erano chiaramente riflesse nel suo discorso. Il segretario di Stato ha fatto un’analisi convincente dello stato delle cose attuale del processo di pace. Ha evidenziato la profonda sfiducia tra le parti, la disperazione, la rabbia e la frustrazione dei palestinesi, e l’isolamento e l’indifferenza da parte israeliana.

Il discorso di Kerry è stato magnificamente sionista e filo-israeliano. Chiunque appoggi davvero la soluzione dei due Stati e un Israele ebraico e democratico dovrebbe approvare le sue considerazioni ed appoggiarle. E’ un caso duplice, senza mezzi termini. Non c’è da sorprendersi che quelli che si sono affrettati a condannare Kerry, persino prima che parlasse e ancor di più dopo, siano stati il segretario di Habayit Hayehudi [partito di estrema destra dei coloni israeliani. Ndtr.] Naftali Bennett ed i capi della lobby delle colonie. Nel suo discorso Kerry ha notato che è questa minoranza che sta guidando il governo israeliano e l’apatica maggioranza verso la soluzione dello Stato unico.

Negli ultimi quattro anni, il segretario di Stato americano spesso ha agito goffamente, ossessivamente e persino con un tocco di messianismo, ma lo ha fatto per una causa buona e giusta. Ha tentato con tutte le sue forze di porre fine a 100 anni di conflitto per garantire un futuro a Israele, il maggiore alleato dell’America, ed alle sofferenze dei palestinesi. Purtroppo i suoi due partner in questa missione, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente dell’autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas, semplicemente non l’hanno voluto tanto quanto lui. Negli ultimi quattro anni, Abbas e Netanyahu sono stati uno l’immagine riflessa dell’altro. Si sono impegnati nel conservare lo status quo, sono rimasti trincerati sulle loro posizioni e non hanno voluto prendere neanche il minimo rischio o spostarsi di un millimetro per cercare di ottenere un miglioramento.

Il discorso di Kerry è stato lungo e dettagliato, ma il suo centro è stato il piano per la pace che ha presentato. Il progetto non intendeva essere una soluzione imposta, ma includere i principi fondamentali su cui dovrebbe essere condotto il futuro dei negoziati israelo-palestinesi. Era centrato sul documento complessivo formulato nel marzo 2014 dopo parecchi mesi di colloqui con entrambe le parti.

Quando si leggono le parole di Kerry, si vede immediatamente che egli ha accettato un numero significativo di richieste di Israele, in primo luogo e soprattutto quella secondo cui ogni futuro accordo di pace includa il riconoscimento palestinese di Israele come Stato ebraico. Kerry ha anche affermato che una soluzione del problema dei rifugiati dovrebbe essere giusto e praticabile, che non minacci le caratteristiche dello Stato di Israele. Egli ha detto che ogni futura frontiera dovrebbe essere basata sul fatto di lasciare in mani israeliane i principali blocchi di colonie; ha messo in evidenza che l’accordo definitivo deve costituire la fine del conflitto e precludere qualunque ulteriore richiesta palestinese, ed ha sottolineato che le misure per la sicurezza devono essere una componente fondamentale di ogni accordo.

Nel contempo lo schema di Kerry include una serie di compromessi richiesti ad Israele, il primo e principale è consentire che Gerusalemme sia la capitale di entrambi gli Stati. Kerry ha chiarito che i confini dello Stato palestinese dovrebbero essere basati su quelli del 1967 con un scambio consensuale di territori delle stesse dimensioni, e che Israele deve riconoscere le sofferenze dei rifugiati palestinesi.

Il principale problema dello schema di Kerry è che lo ha presentato troppo tardi. Egli sa di aver fatto un errore quando, nel marzo 2014, non ha messo ufficialmente sul tavolo [delle trattative] il suo documento quadro contenente gli stessi principi che ha enumerato nel suo discorso. I suoi principali consiglieri ammettono che Kerry, se potesse tornare indietro di 33 mesi, proporrebbe questo progetto di pace alle due parti e imporrebbe loro di negoziare su queste basi.

Questa mossa “prendere o lasciare” a quel tempo avrebbe obbligato entrambe le parti a prendere decisioni strategiche. Un simile passo avrebbe anche definito lo schema di Kerry come base per ogni futuro colloquio. Per quanto importante, il fatto di averlo presentato solo tre settimane prima che Donald Trump entri alla Casa Bianca ha solo un valore simbolico.

Come in altri esempi del passato, Netanyahu non si è neanche preso il disturbo di ascoltare le osservazioni di Kerry o di valutarle nel merito. Ha risposto con affermazioni aggressive contenenti pesanti critiche personali a Kerry. C’è chi dirà che la profondità di queste dichiarazioni riflette la profondità delle indagini su di lui [Netanyahu è indagato per corruzione. ndtr.] .

Le critiche di Netanyahu sono condite di ipocrisia e cinismo. I principi che Kerry ha elencato nel suo discorso sono gli stessi che Netanyahu aveva accettato nel marzo 2014. Il primo ministro aveva delle riserve, che aveva previsto di esprimere pubblicamente, ma in pratica aveva accettato di negoziare sulla base di un progetto molto simile. Ad oggi Netanyahu rifiuta di ammetterlo.

Il suo gemello politico, Abbas, ha reagito con la stessa ipocrisia. Quando il presidente USA Barack Obama ha presentato lo schema ad Abbas nel marzo 2014, Abbas ha promesso di pensarci e di tornare da Obama. Obama sta ancora aspettando. Persino dopo il discorso di Kerry di mercoledì Abbas ha rifiutato di dire se per lui lo schema è accettabile o meno.

Il presidente eletto Trump, che sembrava aver accettato la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU della scorsa settimana sulle colonie, rispondendo con un tweet formulato in modo generico, non ha potuto esimersi dal commentare il discorso di Kerry. Solo un attimo prima che Kerry iniziasse il suo discorso, Trump ha lanciato tre tweet che hanno reso evidente il suo dissenso.

Negli ultimi mesi Trump ha ripetutamente detto che uno dei suoi obiettivi è raggiungere una pace tra Israele e i palestinesi. Ha chiarito che vuole chiudere “la madre di ogni problema” e porre fine alla “guerra infinita” tra le due parti. Trump ha persino nominato inviato speciale per il processo di pace il suo avvocato e stretto collaboratore Jason Greenblatt. Trump e Greenblatt presto scopriranno che se vogliono fare questo storico accordo, assomiglierà molto a quello delineato da Kerry nel suo discorso.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




L’insuccesso al Consiglio di Sicurezza è totalmente di Netanyahu

Sono le colonie, stupido: l’insuccesso al Consiglio di Sicurezza è totalmente di Netanyahu

Per otto anni gli USA hanno messo in guardia Netanyahu che la sua politica avrebbe avuto un costo, ma lui ha preferito tenersi buona la lobby delle colonie piuttosto che fare un piano di azione. Può dare la colpa solo a se stesso.

Haaretz

Di Barak Ravid – 24 dicembre 2016

Solo un’ora dopo il voto di venerdì al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, Ben Rhodes, consigliere del presidente Barak Obama, ha tenuto una conferenza stampa durante la quale ha spiegato perché gli Stati Uniti non hanno posto il veto sulla risoluzione riguardante le colonie. Rhodes ha risposto alle domande per un’ora, ma le sue osservazioni possono essere riassunte in questo modo: abbiamo messo in guardia Netanyahu per otto anni che questo è ciò che sarebbe successo. Non ci ha ascoltati: ora può dare la colpa solo a se stesso.

La descrizione di Rhodes è esatta. Il fatto che gli USA si siano astenuti non dovrebbe sorprendere nessuno, soprattutto non il primo ministro israeliano. Il vecchio luogo comune a proposito di quello che si può prevedere non è mai stato così vero. Infatti, è stato lo stesso primo ministro Benjamin Netanyahu che lo ha scritto sul muro con le sue iniziative negli ultimi anni e soprattutto negli ultimi mesi. La risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU è una sua sconfitta personale.

Dalle ultime elezioni, e soprattutto l’anno scorso, il governo di Netanyahu ha condotto una politica di notevole accelerazione della costruzione nelle colonie, demolizione di case palestinesi nell’Area C [in base agli accordi di Oslo, il territorio della Cisgiordania sotto totalmente controllata da Israele. Ndtr.] e di autorizzazione di colonie illegali. La saga riguardante l’evacuazione di Amona [avamposto illegale dei coloni che la Corte Suprema israeliana ha ordinato di evacuare. Ndtr.] e la legge nota come “Legge della regolarizzazione” [legge che intende legalizzare retroattivamente Amona ed altri avamposti. Ndtr.] è l’apice di questa tendenza. Netanyahu, insieme al ministro dell’Educazione Naftali Bennett e della Giustizia Ayelet Shaked, ha fatto tutto il possibile per spingere Obama al Consiglio di Sicurezza.

Durante tutti questi mesi la comunità internazionale non è stata per niente indifferente. Il rapporto del Quartetto sulla pace in Medio Oriente, reso pubblico in luglio, ha messo in guardia proprio sui punti inclusi nella risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Da allora, praticamente ogni settimana, il Dipartimento di Stato USA ed i ministri degli Esteri delle potenze occidentali hanno diramato condanne sempre più severe della politica di colonizzazione del governo israeliano, avvertendo che minacciava di seppellire la soluzione dei due Stati. Ogni mese il Consiglio di Sicurezza ha tenuto un incontro nel quale ha chiesto ai rappresentanti di molti Paesi di prendere decisioni relative alle colonie.

Netanyahu lo sapeva. Ha ricevuto una serie di documenti riservati dal ministero degli Esteri e dal Consiglio per la Sicurezza Nazionale che lo avvertivano di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU a cui gli USA non avrebbero posto il veto. Lui stesso lo ha dichiarato pubblicamente e in discussioni riservate dozzine di volte negli ultimi mesi e lo ha citato dalla tribuna dell’ONU in settembre. Netanyahu sapeva anche molto bene quanto fossero precari i rapporti con Obama e quanto scarsa fosse la sua capacità di influenzarne le decisioni.

Invece di fare un piano d’azione, Netanyahu si è occupato di Amona, Amona e ancora Amona. Invece di cambiare politica per evitare una disfatta diplomatica e un danno a livello internazionale per Israele, Netanyahu ha preferito tenersi buona la lobby dei coloni per poter sopravvivere politicamente. Sapeva che avrebbe pagato un prezzo per le sue azioni, ma ha agito come se tutto andasse bene. Una persona che sa tutto questo e continua con la stessa politica è affetto da una mancanza di discernimento e di responsabilità, o è semplicemente un giocatore d’azzardo compulsivo.

Solo mercoledì Netanyahu ha fatto un’apparizione arrogante sulla sua pagina Facebook privata. Di fronte alla camera da presa, il primo ministro di Israele ha superato se stesso nell’autocelebrazione, informando tutti quelli che lo guardavano che la posizione internazionale di Israele non era mai stata migliore. Quarantotto ore dopo si è scoperto che le parole di Netanyahu erano avulse dalla realtà.

Netanyahu ha ragione quando afferma che Israele è corteggiato da molti Paesi, ma sbaglia e si inganna riguardo a quanto pesino duramente su Israele 50 anni di occupazione. Una solida maggioranza di Paesi che hanno votato per la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU non è anti-israeliana o antisemita. Il messaggio del loro voto è semplice: sono le colonie, stupido.

La risoluzione del Consiglio di Sicurezza rivela ancora una volta quanto chiaro e netto sia il consenso internazionale contro le colonie. Non si tratta solo di Obama. Ha votato a favore [della risoluzione] il governo inglese di destra del primo ministro Theresa May e del ministro degli Esteri Boris Johnson.  Lo stesso hanno fatto i governi di Spagna e Russia, del presidente Vladimir Putin, buon amico di Netanyahu, e la Cina, di cui Bennett e altri ministri dicono che non si interessa dei palestinesi ma solo della tecnologia israeliana, e la Nuova Zelanda, il cui capo del governo di destra, Bill English, nel 2003 aveva attaccato il ministro degli Esteri del suo Paese per aver abbracciato Yasser Arafat.

Il primo ministro si consolerà sicuramente per il fatto di essere riuscito a portare dalla sua parte la persona che il prossimo mese sarà presidente degli USA. Non è sicuro che si tratti di una cosa di cui possa essere fiero. Netanyahu ha ingannato Donald Trump e gli ha provocato la prima sconfitta diplomatica.  Tranne che il presidente egiziano, nessun altro leader di un Paese del Consiglio di Sicurezza ha tenuto conto di Trump.

Dopo questo episodio, Netanyahu è in debito con Trump persino prima che quest’ultimo inizi il suo mandato. E’ in debito per averlo fatto perdere. E Trump non ama perdere. Anche la risposta del presidente eletto è interessante: Trump non ha attaccato la risoluzione, né ha difeso le colonie: lo ha fatto con una dichiarazione piuttosto laconica.

Prima e dopo il voto, il primo ministro si è lasciato andare ad una campagna di attacchi contro Obama che sembrano notizie false su un sito delirante della destra negli USA. L’accusa più stravagante è stata che Obama era parte di una cospirazione con i palestinesi, ha di fatto abbandonato Israele e l’ha colpito alle spalle. Sì, lo stesso Obama che solo poche settimane fa ha dato ad Israele 38 miliardi di dollari in aiuti per la sicurezza. Netanyahu non ha osato dire di Putin, May o del presidente cinese Xi Jinping  neppure un decimo di queste cose. Ci sono molti precedenti di presidenti americani che si sono astenuti all’ONU su risoluzioni riguardanti Israele. Non ci sono precedenti del modo in cui Netanyahu ha agito nei confronti di Obama.

Netanyahu può cercare di accusare Obama, Mahmoud Abbas, la sinistra e persino il tempo o il mufti per la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Ma ciò non potrà eliminare la disfatta diplomatica di venerdì. Alla fine, è successo per responsabilità di Netanyahu.

E’ ad avvenimenti del genere che l’ex-primo ministro e ministro della Difesa Ehud Barak faceva riferimento quando ha parlato di uno tsunami diplomatico. Barak lo ha anche riassunto bene sul suo account Twitter durante il fine settimana: “Sconfitta senza precedenti al Consiglio di Sicurezza. Il primo ministro deve cacciare il suo ministro degli Esteri.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La risoluzione ONU: una vendetta personale di Obama

La risoluzione ONU: una vendetta personale di Obama contro Netanyahu

Middel East Eye

Yossi Melman – Sabato 24 dicembre 2016

Il primo ministro israeliano, abituato all’appoggio incondizionato degli USA, è rimasto colpito dall’iniziativa di Obama. Se ne farà una ragione.

La risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di venerdì, che denuncia le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata (che sono illegali in base alle leggi internazionali e un ostacolo alla creazione di uno Stato palestinese) è stata uno shock per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e per il suo governo di destra.

Fino all’ultimo minuto hanno sperato che in qualche modo, deus ex machina, Washington avrebbe posto il veto sulla proposta. Ma gli Usa si sono astenuti, consentendo l’adozione della risoluzione da parte degli altri 14 membri del consiglio.

Non è la prima volta che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approva una risoluzione contro l’occupazione israeliana e la sua politica illegale di costruzione ed espansione delle colonie ebraiche. Ma in questa occasione la risoluzione è molto più mirata. Sottolinea il ruolo distruttivo giocato dalle colonie nel dividere e controllare la Cisgiordania per impedire la nascita di uno Stato palestinese con continuità territoriale.

E’ stata anche la prima risoluzione dal 1980 su cui gli USA non hanno posto il veto o impedito che venisse proposta.

La decisione degli USA di astenersi riflette una politica di lunga durata contraria alle colonie. Ma si è trattato anche un atto di vendetta e di ritorsione personale del presidente Obama contro Netanyahu. La Casa Bianca usa un eufemismo quando sostiene che la politica delle colonie da parte di Netanyahu è stata responsabile della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Fin dal primo momento di Obama alla Casa Bianca, Netanyahu ha cospirato contro di lui con la maggioranza repubblicana del Congresso USA. Nonostante sia stato uno dei presidenti che più ha sostenuto e generosamente finanziato Israele, Obama è stato detestato da un ingrato Netanyahu. Il primo ministro israeliano ha ripetuto continuamente il suo sostegno alla soluzione dei due Stati, ma ha fatto tutto quanto gli era possibile per sabotarla. Ha anche cospirato con il partito Repubblicano per far fallire l’accordo sul nucleare tra l’Iran e i “P5 più uno” – cioè, i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU più la Germania.

Netanyahu e il suo governo, preso in ostaggio anni fa dai coloni, che rappresentato appena il 10% della popolazione ebraica di Israele, ha ignorato il fatto che la risoluzione è equilibrata. Chiede ai palestinesi di bloccare gli incitamenti alla violenza e il terrorismo.

Eppure Netanyahu ha espresso tutta la sua rabbia e frustrazione verso Obama stravolgendo la verità e accusandolo di aver deviato dalla “tradizione” politica USA di appoggiare sempre Israele. Il borioso Netanyahu si è autoconvinto che l’appoggio incondizionato degli USA è uno dei Dieci Comandamenti.

Paralizzato dal suo timore verso Vladimir Putin, che egli ha ripetutamente elogiato e descritto come un amico, Netanyahu ha totalmente ignorato il fatto che anche la Russia ha appoggiato la risoluzione.

In un messaggio personale, Netanyahu ha promesso di ignorare la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e per ritorsione ha richiamato l’ambasciatore israeliano in Nuova Zelanda e quello in Senegal, due Nazioni che hanno proposto la mozione.

Riguardo alle implicazioni della risoluzione su Israele e la Palestina, si tratta di un’arma a doppio taglio. Innanzitutto, la risoluzione non fa riferimento al capitolo sette della Carta dell’ONU, che parla di “minacce per la pace” e quindi è ben lungi dall’imporre sanzioni internazionali su Israele o sulle sue colonie.

Singole Nazioni possono utilizzare la risoluzione come una base legale per giustificare la propria decisione di boicottare le colonie e persino Israele. Ma lo faranno, e in che misura? La risoluzione funge anche da impulso per il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), che prende di mira le colonie e Israele.

La risoluzione è anche una vittoria per l’anziano presidente palestinese Mahmoud Abbas e per la sua strategia di utilizzare l’arena diplomatica per combattere l’occupazione. Abbas è stato recentemente sottoposto a terribili pressioni all’interno del suo stesso movimento, Fatah, e della più ampia Organizzazione per la Liberazione della Palestina perché desse le dimissioni a causa del fallimento delle sue politiche e per non essere riuscito ad avvicinare i palestinesi alla creazione di uno Stato.

Ma è prematuro che i palestinesi si rallegrino. Una volta superato lo shock, Netanyahu si sposterà probabilmente ancora più a destra e costruirà ancora più colonie. Crede che il prossimo mese, quando Donald Trump entrerà nello Studio Ovale [l’ufficio del presidente alla Casa Bianca. Ndtr.], Israele avrà mano libera per fare tutto quello che vuole.

– Yossi Melman  è un commentatore in materia di sicurezza e di intelligence e co-auotore di “Spie contro l’Armageddon”.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il consulente di Trump su Israele sostiene (di nuovo) l’annessione della Cisgiordania con calcoli sbagliati

di Allison Deger 28 settembre 2016, Mondoweiss

nota redazionale: questo articolo è di fine settembre e già allora si mettevano in luce le pessime credenziali del Signor Friedman  recentemente nominato ambasciatore USA in Israele.

Secondo un reportage del Canale 2 di Israele, che ha ottenuto un video dell’incontro, durante una cena con i rappresentanti di un’organizzazione dei coloni a New York il consulente di Donald Trump per Israele ha di nuovo evocato la possibilità che il suo candidato sostenga l’annessione della Cisgiordania occupata da parte di Israele.

Un video della discussione mostra David Friedman, assistente di Trump, mentre parla, presumibilmente due settimane fa, con il dirigente dei coloni Yossi Dagan.

Le riprese colgono Friedman mentre sostiene un’argomentazione matematica per l’espansione territoriale israeliana in tutta la Cisgiordania. Il nocciolo di questa posizione è che l’annessione può essere “ebraica e democratica”, perché ci sarebbe una maggioranza di ebrei se la popolazione dei territori fosse unita a Israele.

“Il concetto che abbiamo, secondo cui ci si debba disfare della Giudea e della Samaria (la Cisgiordania) per conservare il carattere ebraico di Israele, è sbagliato,” ha detto Friedman. “Secondo la maggior parte dei calcoli, se prendi tutto lo Stato di Israele dal Giordano al Mediterraneo, nel senso di annettere tutta la Giudea e Samaria a Israele, la popolazione ebraica sarebbe ancora attorno al 65%. Questa è la più…l’opinione diffusa attualmente.”

“Nessuno si è preoccupato di fare il calcolo,” ha aggiunto Friedman tra un boccone e l’altro, prima di sfoderare le sue statistiche.

“Ci sono 400.000 ebrei che vivono in Giudea e Samaria, altri 400.000 che vivono a Gerusalemme est. Si stanno moltiplicando proprio adesso,” ha detto.

I calcoli di Friedman sono basati su cifre confutabili. Colloca 800.000 coloni ebrei in Cisgiordania e a Gerusalemme est, un forte aumento rispetto ai 500-650.000 coloni secondo i dati del governo e delle Nazioni unite. Anche la maggioranza ebraica del 65% è smentita. La maggioranza dei demografi sostiene che il numero è all’incirca di 50% ebrei e 50% palestinesi tra il Giordano e il Mediterraneo.

Friedman ha anche affermato che la popolazione ebraica sta aumentando con un tasso superiore a quello dei palestinesi. “Per cui la verità è che se tu chiedi a dieci esperti di statistica quanti arabi stanno vivendo in Cisgiordania non ti potrebbero dare una risposta perché nessuno lo sa davvero,” ha sostenuto.

La popolazione palestinese in Cisgiordania è costantemente aumentata dal 1967, l’anno del primo censimento israeliano del territorio, secondo i dati sia dell’Amministrazione Civile israeliana [l’autorità militare che governa nei territori occupati. Ndtr.] che dell’Ufficio Centrale di Statistica palestinese. Entrambi concordano sul fatto che circa 2.5 milioni di palestinesi vivono in Cisgiordania.

Su Gaza, Friedman ha lasciato intendere che i palestinesi di lì sarebbero esclusi dal piano di pace per il Medio Oriente del presidente Trump. Ha detto: “L’evacuazione [israeliana] da Gaza (nel 2005) ha avuto un effetto positivo, ha escluso due milioni di arabi dal calcolo.”

Prima di schierarsi con Trump in aprile, Friedman era relativamente sconosciuto, un avvocato della zona di New York apparentemente senza nessuna competenza in Medio Oriente se non la direzione di un settore per la raccolta di finanziamenti per una colonia della Cisgiordania, Beit El. (Il gruppo si chiama “Amici Americani della Yeshiva di Beit El” ed invia circa 2 milioni di dollari all’anno per finanziare una scuola religiosa fuori Ramallah).

Fiedman una volta ha lavorato anche come curatore fallimentare di un casinò del candidato presidenziale ad Atlantic City.

Dagan è un portavoce del Consiglio Regionale della Samaria, un gruppo noto per accompagnare delegazioni ufficiali USA nella Cisgiordania occupata.

I dati demografici a cui ha fatto riferimento Friedman, che superano di più di un milione i calcoli ufficiali, sono stati forniti dal “Gruppo di Ricerca Demografica Israelo-Americano”, una congrega di studiosi israeliani e americani che hanno pubblicato i loro risultati su due blog invocando “un unico Stato ebraico” sotto controllo israeliano.

Il gruppo non ha un sito web indipendente, i risultati della loro ricerca sono postati su portali in rete poco frequentati, con titoli come il “Progetto per uno Stato unico: uno Stato democratico ebraico” e “Demografia israeliana”.

I loro dati statistici sono rifiutati dai demografi ufficiali come uno strumento lobbistico molto poco attendibile e con lo scopo di indebolire l’appoggio ad uno Stato palestinese.

Il demografo Della Pergola dell’Università Ebraica ha detto a “Times of Israel” [giornale online israeliano. Ndtr.] che il ricercatore che sta dietro questo studio, l’ex-diplomatico israeliano Yoram Ettinger, è “delirante”.

“Sta spacciando un qualche futuro immaginario in un modo assolutamente non professionale, perché non ha mai studiato demografia. Non è altro che un ciarlatano,” ha affermato Della Pergola.

La registrazione video non è la prima occasione in cui Friedman ha sollevato la questione dell’annessione israeliana. In un’ intervista ad “Haaretz” in giugno ha detto al giornale israeliano che Trump potrebbe abbandonare il piano per i due Stati in favore dell’annessione. Facendo questa ipotesi, ha anche citato i dati forniti dal gruppo di Ettinger.

Negli scorsi mesi le considerazioni di Friedman hanno agitato le acque tra le istituzioni degli ebrei americani. Dopo che in luglio ha parlato alla CNN contro i colloqui di pace a favore di un unico Stato ebraico, il presidente dell’Unione per l’Ebraismo Riformato, il rabbino Rick Jacobs, ha scritto in una lettera aperta a Friedman che il progetto di Trump per uno Stato unico “sarebbe uno Stato ebraico che smetterebbe di essere una democrazia e priverebbe del diritto di voto milioni di palestinesi, oppure sarebbe una democrazia e smetterebbe di essere ebraico.”

Friedman ha risposto: “Devo rifiutare categoricamente la sua affermazione secondo cui Israele deve essere o uno Stato democratico o uno Stato ebraico.” In questo scambio epistolare ha fatto di nuovo riferimento agli stessi calcoli errati che si ritrovano nel video del suo pranzo a New York.

Allison Deger è vice caporedattore di Mondoweiss.net.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




I palestinesi non si aspettano molto da Trump, ma temono di perdere l’autogoverno

di Amira Hass, 10 novembre 2016

Haaretz

L’elezione del misogino padrone dei concorsi di bellezza viene interpretata semplicemente come una prosecuzione del declino americano.

‘Official Palestine’, l’ufficio del Presidente Mahmoud Abbas, ha rilasciato la scontata dichiarazione: “Lavoreremo con qualunque presidente eletto dal popolo americano nel quadro del principio di raggiungere una soluzione permanente in Medio Oriente sulla base della soluzione dei due stati entro i confini stabiliti il 4 giugno 1967, con Gerusalemme est come capitale.”

Non ci si aspetta assolutamente che Donald Trump ci riservi una sorpresa, laddove Barak Obama ha completamente desistito – in altri termini, dal fare pressioni su Israele e porre fine alla costruzione delle colonie – anche se non dichiara, come ha fatto il suo consigliere, che le colonie sono legali. L’ipotesi, o la speranza, è che dopo essersi insediato alla Casa Bianca, Trump non sarà in grado di allontanarsi troppo dalle regole di lavoro e dai principi fondamentali di decenni di politica estera americana, poiché in fin dei conti gli Stati Uniti sono una nazione che si regge su istituzioni e leggi, non su un uomo solo al comando.

Uno di questi principi fondamentali è il mantenimento dell’occupazione israeliana, unitamente al mantenimento dell’esistenza di un governo indipendente palestinese. Questo trova riscontro nei contributi finanziari da parte degli Stati Uniti all’Autorità Nazionale Palestinese (in gran parte destinati alle forze di sicurezza e alla pavimentazione delle strade che facilitano le infrastrutture di trasporto tra le enclaves dell’area A) e per l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (UNRWA). (Gli Stati Uniti sono il principale donatore dell’UNRWA). Quindi quando parlano della soluzione dei due stati, che sembra essere più lontana che mai, i funzionari palestinesi di fatto mirano anzitutto al breve termine: non vogliono che la cosiddetta rispettabilità politica che hanno acquisito per se stessi e che la diplomazia riconosce loro possa venir meno.

E neppure vogliono che venga meno la semi-sovranità che hanno conquistato nelle piccole enclaves dell’area A – ed a cui la popolazione palestinese si è abituata più di quanto voglia ammettere. Accadrà che Trump, con le sue dichiarazioni contraddittorie e per via della sua ignoranza, insieme ai repubblicani che ora controlleranno entrambe le camere del Congresso, deciderà di ridurre o addirittura interrompere questi contributi all’ANP?

Trump, nell’arroganza della vittoria, si rapporterà alla leadership palestinese come farebbe nei confronti di un’organizzazione terrorista ostile, o ci sarà qualcuno che gli spiegherà che un’Autorità Palestinese funzionante in realtà è una cosa positiva per Israele e per le politiche del suo partito?

Al tempo stesso, come influirà la mancanza di chiarezza in politica estera di Trump sulla diplomazia palestinese e sulle relazioni con Fatah? E’ possibile – senza alcun riferimento a Trump – attendersi dei cambiamenti finché Abbas rimarrà al vertice della piramide?

Non c’è bisogno, per pretesti diplomatici, di nascondere i veri sentimenti del popolo palestinese nei confronti di Trump. La delirante campagna elettorale negli Stati Uniti, in cui ciò che i due candidati avevano in comune era il gran numero di americani che li detestava, ha rafforzato il mantra palestinese della gente comune: l’America sta attraversando un “declino generazionale”.

Qualunque superpotenza alla fine può cadere in basso, e nemmeno gli Stati Uniti ne sono esenti. E se ciò accade, anche Israele ne verrà indebolito. Dopo lo shock iniziale, l’elezione del misogino padrone dei concorsi di bellezza viene interpretata semplicemente come la continuazione del declino.

Questa è un’analisi logica ma non politica, perché viene abitualmente portata a giustificazione dello star seduti a non fare niente finché il tempo e la ruota della fortuna diano i loro frutti. Una specie di versione laica dell’ abitudine di citare versi del Corano che profetizzano la punizione degli israeliani perché hanno peccato e non hanno fatto ciò che era giusto agli occhi di dio.

La vittoria di Trump, sicuramente nel breve e medio termine, verrà interpretata come un incoraggiamento alle politiche israeliane nei territori. Potrebbe accrescere il senso di abbandono dei palestinesi, ma non così drasticamente, a quanto sembra. Non cambierà né cancellerà le due tendenze contraddittorie che oggi caratterizzano la leadership della società palestinese. Da un lato la rivolta individuale, “il suicidio per mano dei soldati” da parte di giovani le cui motivazioni personali e politiche sono intrecciate. Dall’altro lato la fuga dalla politica, dalla possibilità di una rivolta generale e popolare, una vita quasi normale nelle enclaves, attività culturali, aspirazione ad una buona educazione per i ragazzi, problemi di bassi salari e lamentele sul fallimentare sistema sanitario, ecc. Come se l’occupazione non esistesse.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




E’ la fine del mondo?

di Gideon Levy, 10 novembre 2016

Haaretz

Potrà accadere una di queste due cose: o Trump sarà Trump, oppure il Presidente Trump non sarà lo stesso Trump che abbiamo conosciuto.

Prima confessione: ho sperato che Donald Trump venisse eletto. Seconda confessione: la sua elezione mi spaventa. Basta pensare a Rudolf Giuliani in una posizione preminente nel suo governo, che forse influenzerà la sua politica nei confronti di Israele, per essere colti dal panico. La mia compagna Catherine si è chiusa nella sua stanza, ancor più arrabbiata e terrorizzata: è preoccupata per l’ambiente e per il futuro del suo paese. E’ sicura che Trump distruggerà l’ambiente e che permetterà a Vladimir Putin di invadere la Svezia.

Questa paura di Trump che sta percorrendo il mondo, e forse anche alcuni dei suoi elettori – com’è accaduto per i sostenitori della Brexit in Gran Bretagna che in seguito hanno rimpianto il proprio voto, però in misura molto maggiore – è la paura dell’ignoto. Ed ancor più è la paura dell’inconoscibile. Questa paura ricorda il terrore del 1977 quando andò al potere (in Israele, ndtr.) Menachem Begin. Metà della nazione entrò nel panico, e si fece a gara dovunque nel prefigurare scenari apocalittici. Begin farà la guerra, Begin porterà al fascismo. Alla fine, Begin ha fatto davvero la guerra (contro il Libano, ndtr.) , come avrebbe fatto qualunque altro primo ministro israeliano rispettabile, ma Begin ha fatto anche la pace, come nessun altro primo ministro israeliano prima o dopo di lui ha fatto. E Begin non ha condotto al fascismo.

Ho sperato che Trump venisse eletto perché sapevo che l’elezione di Hillary Clinton, i cui valori da molto tempo sono cambiati, avrebbe anche significato una continuazione dell’occupazione israeliana. Il mio mondo è piccolo, lo ammetto: l’occupazione mi interessa più di ogni altra cosa e per me poche cose potrebbero essere peggio di un presidente che continui a finanziarla. Se lei fosse stata eletta, in posti come Yitzhar e Itamar (colonie israeliane in Cisgiordania, ndtr.) avrebbero stappato bottiglie di champagne. Con il denaro di Haim Saban (imprenditore israeliano naturalizzato statunitense, tra i più ricchi del mondo, finanziatore di Hillary Clinton e della campagna contro il BDS, ndtr.) e l’eredità di Barak Obama, l’America non avrebbe osato fare pressioni su Israele. La fine del mondo, in altre parole.

Anche Benjamin Netanyahu dovrebbe essere preoccupato. Un Trump che perde interesse per il Medio Oriente potrebbe anche essere un Trump che non appoggia l’occupazione. L’esultanza dei coloni è prematura. Potrebbe anche trasformarsi in un grido di dolore. Certo Trump non sarà mai amico dei palestinesi, esattamente come non sarà mai amico di tutti i deboli del mondo, ma potrebbe dimostrarsi un vero isolazionista ed in quanto tale annullare il cieco, automatico e sconcertante sostegno del suo paese ad Israele.

Dopo tutto è stato eletto in larga misura grazie alle sue promesse di eliminare il “politicamente corretto”. In America il sostegno alla prosecuzione dell’occupazione israeliana è politicamente corretto. Perciò, nella mia ottica localistica, questa è stata la ragione per cui ho sperato nella vittoria di Trump.

Al contempo la vittoria di Trump mi spaventa. Come spesso accade quando le fantasie diventano realtà, la realtà fa più paura del previsto. Non c’è bisogno di elencare tutte le sue idee bigotte, la sua retorica incendiaria, tutti gli aspetti del suo terribile personaggio. Ha promesso di perpetuare l’uso della tortura durante gli interrogatori, di annullare l’accordo con l’Iran, di utilizzare eventualmente armi nucleari. Cos’altro serve per terrorizzare chiunque sia sano di mente? Tuttavia la sua promessa di trasferire l’ambasciata americana a Gerusalemme è ridicola: sicuramente i diplomatici americani non saranno entusiasti di vivere a Gerusalemme e comunque il trasferimento dell’ambasciata probabilmente non è molto importante.

Potrà accadere una delle due cose: o Trump sarà Trump, oppure il Presidente Trump non sarà lo stesso Trump che abbiamo imparato a conoscere. Lui stesso probabilmente non sa chi sarà. Il suo discorso della vittoria di mercoledì suggeriva la seconda possibilità. Se Trump manterrà la sua parola e le sue promesse della campagna elettorale, questo significherà una terribile tragedia per l’America e per il mondo, e forse una piccola speranza per Israele: il Trump originale non esiterà a trascurare Israele ed il risultato potrebbe andare a suo beneficio.

Paradossalmente, ciò che è negativo per il mondo e per l’America potrebbe essere positivo per Israele: un presidente ignorante ed isolazionista, che si disinteressa del mondo, pretende che tutti i paesi paghino per l’aiuto americano ed ha intenzione di distruggere i sacri dogmi, potrebbe essere un presidente che dà una salutare scossa ad Israele.

Mercoledì ha segnato la fine del mondo? Forse sì, forse no.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)