I palestinesi non si aspettano molto da Trump, ma temono di perdere l’autogoverno

di Amira Hass, 10 novembre 2016

Haaretz

L’elezione del misogino padrone dei concorsi di bellezza viene interpretata semplicemente come una prosecuzione del declino americano.

‘Official Palestine’, l’ufficio del Presidente Mahmoud Abbas, ha rilasciato la scontata dichiarazione: “Lavoreremo con qualunque presidente eletto dal popolo americano nel quadro del principio di raggiungere una soluzione permanente in Medio Oriente sulla base della soluzione dei due stati entro i confini stabiliti il 4 giugno 1967, con Gerusalemme est come capitale.”

Non ci si aspetta assolutamente che Donald Trump ci riservi una sorpresa, laddove Barak Obama ha completamente desistito – in altri termini, dal fare pressioni su Israele e porre fine alla costruzione delle colonie – anche se non dichiara, come ha fatto il suo consigliere, che le colonie sono legali. L’ipotesi, o la speranza, è che dopo essersi insediato alla Casa Bianca, Trump non sarà in grado di allontanarsi troppo dalle regole di lavoro e dai principi fondamentali di decenni di politica estera americana, poiché in fin dei conti gli Stati Uniti sono una nazione che si regge su istituzioni e leggi, non su un uomo solo al comando.

Uno di questi principi fondamentali è il mantenimento dell’occupazione israeliana, unitamente al mantenimento dell’esistenza di un governo indipendente palestinese. Questo trova riscontro nei contributi finanziari da parte degli Stati Uniti all’Autorità Nazionale Palestinese (in gran parte destinati alle forze di sicurezza e alla pavimentazione delle strade che facilitano le infrastrutture di trasporto tra le enclaves dell’area A) e per l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (UNRWA). (Gli Stati Uniti sono il principale donatore dell’UNRWA). Quindi quando parlano della soluzione dei due stati, che sembra essere più lontana che mai, i funzionari palestinesi di fatto mirano anzitutto al breve termine: non vogliono che la cosiddetta rispettabilità politica che hanno acquisito per se stessi e che la diplomazia riconosce loro possa venir meno.

E neppure vogliono che venga meno la semi-sovranità che hanno conquistato nelle piccole enclaves dell’area A – ed a cui la popolazione palestinese si è abituata più di quanto voglia ammettere. Accadrà che Trump, con le sue dichiarazioni contraddittorie e per via della sua ignoranza, insieme ai repubblicani che ora controlleranno entrambe le camere del Congresso, deciderà di ridurre o addirittura interrompere questi contributi all’ANP?

Trump, nell’arroganza della vittoria, si rapporterà alla leadership palestinese come farebbe nei confronti di un’organizzazione terrorista ostile, o ci sarà qualcuno che gli spiegherà che un’Autorità Palestinese funzionante in realtà è una cosa positiva per Israele e per le politiche del suo partito?

Al tempo stesso, come influirà la mancanza di chiarezza in politica estera di Trump sulla diplomazia palestinese e sulle relazioni con Fatah? E’ possibile – senza alcun riferimento a Trump – attendersi dei cambiamenti finché Abbas rimarrà al vertice della piramide?

Non c’è bisogno, per pretesti diplomatici, di nascondere i veri sentimenti del popolo palestinese nei confronti di Trump. La delirante campagna elettorale negli Stati Uniti, in cui ciò che i due candidati avevano in comune era il gran numero di americani che li detestava, ha rafforzato il mantra palestinese della gente comune: l’America sta attraversando un “declino generazionale”.

Qualunque superpotenza alla fine può cadere in basso, e nemmeno gli Stati Uniti ne sono esenti. E se ciò accade, anche Israele ne verrà indebolito. Dopo lo shock iniziale, l’elezione del misogino padrone dei concorsi di bellezza viene interpretata semplicemente come la continuazione del declino.

Questa è un’analisi logica ma non politica, perché viene abitualmente portata a giustificazione dello star seduti a non fare niente finché il tempo e la ruota della fortuna diano i loro frutti. Una specie di versione laica dell’ abitudine di citare versi del Corano che profetizzano la punizione degli israeliani perché hanno peccato e non hanno fatto ciò che era giusto agli occhi di dio.

La vittoria di Trump, sicuramente nel breve e medio termine, verrà interpretata come un incoraggiamento alle politiche israeliane nei territori. Potrebbe accrescere il senso di abbandono dei palestinesi, ma non così drasticamente, a quanto sembra. Non cambierà né cancellerà le due tendenze contraddittorie che oggi caratterizzano la leadership della società palestinese. Da un lato la rivolta individuale, “il suicidio per mano dei soldati” da parte di giovani le cui motivazioni personali e politiche sono intrecciate. Dall’altro lato la fuga dalla politica, dalla possibilità di una rivolta generale e popolare, una vita quasi normale nelle enclaves, attività culturali, aspirazione ad una buona educazione per i ragazzi, problemi di bassi salari e lamentele sul fallimentare sistema sanitario, ecc. Come se l’occupazione non esistesse.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




E’ la fine del mondo?

di Gideon Levy, 10 novembre 2016

Haaretz

Potrà accadere una di queste due cose: o Trump sarà Trump, oppure il Presidente Trump non sarà lo stesso Trump che abbiamo conosciuto.

Prima confessione: ho sperato che Donald Trump venisse eletto. Seconda confessione: la sua elezione mi spaventa. Basta pensare a Rudolf Giuliani in una posizione preminente nel suo governo, che forse influenzerà la sua politica nei confronti di Israele, per essere colti dal panico. La mia compagna Catherine si è chiusa nella sua stanza, ancor più arrabbiata e terrorizzata: è preoccupata per l’ambiente e per il futuro del suo paese. E’ sicura che Trump distruggerà l’ambiente e che permetterà a Vladimir Putin di invadere la Svezia.

Questa paura di Trump che sta percorrendo il mondo, e forse anche alcuni dei suoi elettori – com’è accaduto per i sostenitori della Brexit in Gran Bretagna che in seguito hanno rimpianto il proprio voto, però in misura molto maggiore – è la paura dell’ignoto. Ed ancor più è la paura dell’inconoscibile. Questa paura ricorda il terrore del 1977 quando andò al potere (in Israele, ndtr.) Menachem Begin. Metà della nazione entrò nel panico, e si fece a gara dovunque nel prefigurare scenari apocalittici. Begin farà la guerra, Begin porterà al fascismo. Alla fine, Begin ha fatto davvero la guerra (contro il Libano, ndtr.) , come avrebbe fatto qualunque altro primo ministro israeliano rispettabile, ma Begin ha fatto anche la pace, come nessun altro primo ministro israeliano prima o dopo di lui ha fatto. E Begin non ha condotto al fascismo.

Ho sperato che Trump venisse eletto perché sapevo che l’elezione di Hillary Clinton, i cui valori da molto tempo sono cambiati, avrebbe anche significato una continuazione dell’occupazione israeliana. Il mio mondo è piccolo, lo ammetto: l’occupazione mi interessa più di ogni altra cosa e per me poche cose potrebbero essere peggio di un presidente che continui a finanziarla. Se lei fosse stata eletta, in posti come Yitzhar e Itamar (colonie israeliane in Cisgiordania, ndtr.) avrebbero stappato bottiglie di champagne. Con il denaro di Haim Saban (imprenditore israeliano naturalizzato statunitense, tra i più ricchi del mondo, finanziatore di Hillary Clinton e della campagna contro il BDS, ndtr.) e l’eredità di Barak Obama, l’America non avrebbe osato fare pressioni su Israele. La fine del mondo, in altre parole.

Anche Benjamin Netanyahu dovrebbe essere preoccupato. Un Trump che perde interesse per il Medio Oriente potrebbe anche essere un Trump che non appoggia l’occupazione. L’esultanza dei coloni è prematura. Potrebbe anche trasformarsi in un grido di dolore. Certo Trump non sarà mai amico dei palestinesi, esattamente come non sarà mai amico di tutti i deboli del mondo, ma potrebbe dimostrarsi un vero isolazionista ed in quanto tale annullare il cieco, automatico e sconcertante sostegno del suo paese ad Israele.

Dopo tutto è stato eletto in larga misura grazie alle sue promesse di eliminare il “politicamente corretto”. In America il sostegno alla prosecuzione dell’occupazione israeliana è politicamente corretto. Perciò, nella mia ottica localistica, questa è stata la ragione per cui ho sperato nella vittoria di Trump.

Al contempo la vittoria di Trump mi spaventa. Come spesso accade quando le fantasie diventano realtà, la realtà fa più paura del previsto. Non c’è bisogno di elencare tutte le sue idee bigotte, la sua retorica incendiaria, tutti gli aspetti del suo terribile personaggio. Ha promesso di perpetuare l’uso della tortura durante gli interrogatori, di annullare l’accordo con l’Iran, di utilizzare eventualmente armi nucleari. Cos’altro serve per terrorizzare chiunque sia sano di mente? Tuttavia la sua promessa di trasferire l’ambasciata americana a Gerusalemme è ridicola: sicuramente i diplomatici americani non saranno entusiasti di vivere a Gerusalemme e comunque il trasferimento dell’ambasciata probabilmente non è molto importante.

Potrà accadere una delle due cose: o Trump sarà Trump, oppure il Presidente Trump non sarà lo stesso Trump che abbiamo imparato a conoscere. Lui stesso probabilmente non sa chi sarà. Il suo discorso della vittoria di mercoledì suggeriva la seconda possibilità. Se Trump manterrà la sua parola e le sue promesse della campagna elettorale, questo significherà una terribile tragedia per l’America e per il mondo, e forse una piccola speranza per Israele: il Trump originale non esiterà a trascurare Israele ed il risultato potrebbe andare a suo beneficio.

Paradossalmente, ciò che è negativo per il mondo e per l’America potrebbe essere positivo per Israele: un presidente ignorante ed isolazionista, che si disinteressa del mondo, pretende che tutti i paesi paghino per l’aiuto americano ed ha intenzione di distruggere i sacri dogmi, potrebbe essere un presidente che dà una salutare scossa ad Israele.

Mercoledì ha segnato la fine del mondo? Forse sì, forse no.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)