L’ANP deve chiarire il proprio concetto di ‘negoziati’ nella Palestina abbandonata

Ramona Wadi

14 novembre 2020, Palestine Chronicle

L’ “accordo del secolo” promosso dagli USA potrebbe essere accantonato quando a gennaio si insedierà il presidente eletto Joe Biden, ma le sue ripercussioni non saranno necessariamente una maledizione per l’amministrazione entrante. Proprio come il presidente uscente Donald Trump ha utilizzato decenni di politica estera internazionale e USA per fare una serie di concessioni a Israele, lo stesso succederà quando Biden riporterà gli USA all’ovile del consenso per la soluzione dei due Stati.

Trump ha lasciato in eredità al popolo palestinese un disastro che la comunità internazionale ha allegramente ignorato, limitandosi a mettere in ridicolo la sua inadeguatezza.

Prevedibilmente, l’Autorità Nazionale Palestinese è finita dritta dentro la trappola: ha rifiutato — giustamente — di negoziare con gli USA, ma ha erroneamente rappresentato una comunità internazionale, nel suo complesso, alleata. Gli accordi di normalizzazione fra Israele e i Paesi arabi, mediati dagli USA e approvati da parecchi leader, hanno messo a nudo la farsa del “supporto” internazionale alla Palestina.

Gli USA hanno preso una via diretta che ha ribaltato decenni di diplomazia basata sulla soluzione dei due Stati, in base alla propria agenda e hanno portato l’oggetto delle trattative a un nuovo livello. Che l’ANP lo ammetta o no, il panorama politico è cambiato e la “soluzione” dei due Stati è ora offuscata dagli intrighi USA-Israele sotto Trump.

Il portavoce Nabil Abu Rudeineh ha dimostrato che l’ANP non sembra rendersene conto. “I leader palestinesi sono pronti a ritornare ai negoziati [con Israele], o basandosi sulla legittimità internazionale o ripartendo dal punto dove si erano bloccati o puntando al rispetto israeliano di tutti gli accordi firmati,” ha dichiarato. A parte il fatto che Israele non ha interesse a impegnarsi in alcun accordo, firmato o no, Abu Rudeineh sta dimenticando quello che è successo nel frattempo, dalle trattative interrotte ai piani di annessione rimandati, ma non cancellati, che hanno fatto seguito alla normalizzazione.

L’ANP ovvierà a questa discrepanza? O sta aspettando un ritorno agli accordi mediati dagli USA travestiti dal compromesso dei due Stati, senza essere ritenuta responsabile per aver ignorato i cambiamenti della Palestina sotto Trump e per i suoi regali a Israele?

La soluzione dei due Stati è morta e sepolta e tutti lo sanno. Israele è arrivato allo stadio dell’annessione con scarsa opposizione internazionale e quindi l’ANP deve spiegare qual è la sua idea di negoziato, dalla sua attuale posizione senza speranza nella Palestina abbandonata e frammentata che la comunità internazionale ha contribuito a creare.

Gli accordi di normalizzazione sono stati ben accolti dal resto del mondo; dopo tutto Trump ha usato una forma di diplomazia che l’Onu ha perfezionato fin dal riconoscimento dello Stato di Israele. Fin dal suo insediamento, la comunità internazionale non ha fatto nulla per opporsi alle politiche USA che hanno accelerato la colonizzazione della Palestina da parte di Israele.

Il mondo ha osservato, criticato e condannato, assecondando l’ANP e Mahmoud Abbas con conferenze di pace internazionali e risoluzioni che non hanno portato a nulla. Il motivo dell’accondiscendenza dell’Onu è che gli USA non hanno mai operato in opposizione ai piani della comunità internazionale per la Palestina.

La soluzione dei due Stati è un eufemismo per coprire decenni di attesa, diligentemente praticata dall’ANP, e mantenere l’illusione di legittimità, finanziata dalla comunità internazionale. Forse l’ANP dovrebbe chiarire se, con il termine “negoziati, si riferisce a un altro periodo di umiliazioni per poi ricevere poche briciole gettate dalla comunità internazionale. Con Washington ora riaccolta nel consesso internazionale dopo la missione compiuta a favore di Israele per conto dell’Onu, la Palestina si trova sull’orlo del precipizio.

Ramona Wadi è una cronista per il Middle East Monitor dove originalmente ha pubblicato questo articolo, con cui ora contribuisce al Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Dopo Trump non basta ripristinare la “normale” politica statunitense sulla Palestina

Omar Baddar 

13 novembre 2020 – 972mag

Biden può essere un convinto filo-israeliano, ma gli attivisti e i rappresentanti progressisti possono spingere ad una politica estera che rispetti i diritti dei palestinesi.

La sconfitta di Donald Trump alle elezioni presidenziali statunitensi la scorsa settimana ha generato un collettivo sospiro di sollievo fra i progressisti e le comunità vulnerabili negli Stati Uniti e in tutto il mondo, compresi i palestinesi e coloro che lottano per i diritti dei palestinesi. Il motivo è ovvio: la politica di Trump su Palestina / Israele era guidata dalla sua simpatia per l’autoritarismo e dal desiderio di assecondare la base evangelica di estrema destra. Di conseguenza, era gestita da ideologi incompetenti come Jared Kushner e David Friedman, che hanno abbozzato un tentativo fallito di liquidare una volta per tutte la lotta palestinese per la libertà.

Tale fallimento, tuttavia, non ha lasciato indenni i palestinesi, che negli ultimi quattro anni hanno subito danni devastanti e senza precedenti, tra cui la chiusura della missione diplomatica palestinese a Washington, il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, l’approvazione dei piani di annessione e la fine dei finanziamenti statunitensi all’UNRWA [agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi, ndtr.] e agli ospedali palestinesi. Ma al di là dell’innegabile riduzione del danno che ci sarà con questo cambiamento dell’amministrazione statunitense, quali sono le prospettive per la libertà dei palestinesi nell’era Biden?

Il presidente eletto Joe Biden fa parte di una problematica tendenza della politica degli Stati Uniti su Palestina / Israele, che a parole appoggia l’indipendenza palestinese ma in pratica sostiene Israele nella negazione di quella libertà attraverso finanziamenti militari illimitati e protezione diplomatica. Anche in questa ultima stagione elettorale, quando l’ala progressista del Partito Democratico chiedeva chiaramente di riconoscere le responsabilità di Israele, Biden si è distinto come il candidato che ha respinto con più veemenza qualsiasi discorso sul condizionare gli aiuti militari a Israele al rispetto dei diritti umani palestinesi.

In breve, la politica di Biden probabilmente promuoverà ancora una volta la vuota farsa dei “negoziati di pace”, semplicemente chiedendo a Israele di rispettare i diritti dei palestinesi ben sapendo che non lo farà, per poi fornirgli le armi con cui le forze israeliane brutalizzano i palestinesi. Se Biden si atterrà a questo approccio crudele e controproducente, per i palestinesi la transizione da Trump a Biden sarà come passare dalla padella alla brace.

Per decenni, il problema della politica statunitense in Palestina è stata la discrepanza – o l’ipocrisia, per dirla più chiaramente – tra il dire e il fare. Se la politica dichiarata è di promuovere l’indipendenza dei palestinesi, perché gli Stati Uniti stanno in realtà sostenendo l’occupazione e l’oppressione?

Donald Trump ha posto fine a questa ipocrisia, ma nella direzione sbagliata: la sua politica è stata di favorire l’oppressione. Ora che l’approccio degli Stati Uniti sta per tornare alla “normalità”, ciò di cui abbiamo bisogno è risolvere l’ipocrisia nella giusta direzione e cambiare radicalmente l’azione politica. Allora, come la mettiamo con Biden?

La sfida principale con Biden è che, come si suol dire, “non si possono insegnare nuovi trucchi a un vecchio cane”. Come la vicepresidente eletta Kamala Harris, Biden ha trascorso la sua carriera politica flirtando con l’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, la più potente lobby americana di sostegno a Israele, ndtr.] e assecondando i gruppi filo-israeliani, ribadendo l’idea che Israele sia al di sopra di ogni colpa.

Ci vorrà quindi un grosso sforzo per convincere Biden a riesaminare i suoi profondi pregiudizi sul tema, e per fargli riconoscere quanto l’opinione pubblica tra gli elettori del Partito Democratico si sia spostata in merito a Palestina / Israele. Dopo tutto, il 64% dei Democratici sostiene la riduzione degli aiuti militari a Israele a causa delle sue violazioni dei diritti umani. È vero che i gruppi di pressione israeliani continuano a esercitare un significativo potere finanziario su candidati e politici, ma affermare che Israele dovrebbe essere chiamato a rispondere di come utilizza la sbalorditiva cifra di 38 miliardi di dollari che riceve ogni dieci anni dagli Stati Uniti non è più impopolare.

Per fortuna, la narrazione progressista sulla Palestina, che giudica le ingiustizie dell’occupazione e dell’apartheid israeliani per quello che sono e chiede alla politica statunitense un approccio più etico sta guadagnando un’inedita forza negli Stati Uniti. Le cose stanno cambiando a Washington, dalla presentazione di progetti di legge da parte delle parlamentari Betty McCollum e Alexandria Ocasio-Cortez per limitare la complicità degli Stati Uniti nell’aggressione israeliana ai palestinesi, alla sconfitta di sostenitori filo-israeliani come Eliot Engel da parte di nuovi eletti progressisti come Jamaal Bowman [il preside di scuola media che ha sconfitto Engel, presidente della commissione Affari Esteri della Camera, nelle primarie democratiche di New York, ndtr.] Il 117° Congresso avrà anche un maggior numero di membri in carica che parlano apertamente dei diritti dei palestinesi.

Questa ondata di rappresentanti progressisti può spingere l’amministrazione Biden a cambiare la politica degli Stati Uniti su Palestina / Israele. Ma potrà farlo solo se continuiamo a costruire un variegato movimento di base che si allei con altre lotte progressiste nel paese e che renda socialmente e politicamente inaccettabile il fatto di essere “progressisti tranne che sulla Palestina” (PEP).

Vale anche la pena riflettere sul ruolo della leadership palestinese nella Cisgiordania occupata, che si è fatta in quattro per accogliere le richieste degli Stati Uniti negli ultimi 30 anni nella speranza di avvicinarsi gradualmente all’indipendenza palestinese. Dopo decenni di fallimento, questo approccio è insostenibile. La leadership palestinese deve cambiare, deve diventare più democratica e smettere di reprimere e soffocare il dissenso. Fondamentalmente, deve smetterla di stare a guardare in attesa che gli Stati Uniti procurino la libertà ai palestinesi. In qualità di leader, è loro compito cercare giustizia attraverso ogni possibile via, comprese le istituzioni internazionali e la Corte Penale Internazionale, indipendentemente dalle obiezioni degli Stati Uniti.

In definitiva, tuttavia, il compito di porre fine alla complicità degli Stati Uniti con l’oppressione israeliana dei palestinesi grava sulle spalle di coloro che vivono negli Stati Uniti, e dobbiamo continuare a impegnarci su questo compito. Facendo crescere una campagna multiforme di pressione progressista dal basso, che a sua volta influenzi il dibattito politico, la copertura mediatica e il comportamento dei responsabili politici, il consenso sul cieco sostegno degli Stati Uniti a Israele può davvero incrinarsi. Questa crepa renderà possibile una politica estera più giusta ed etica che sostenga – o almeno smetta di ostacolare – la ricerca della libertà da parte dei palestinesi.

Omar Baddar è un analista politico palestinese-americano che risiede a Washington, DC. È stato vicedirettore dell’Arab American Institute [organizzazione che si occupa di difendere gli interessi degli statunitensi di origine araba, ndtr.] (AAI) e direttore esecutivo dell’American Arab Anti-Discrimination Committee [associazione che lotta contro le discriminazioni a danno della comunità arabo-americana, ndtr.] del Massachusetts.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’UE ignora la sentenza della Corte sul diritto a boicottare Israele

David Cronin

29 ottobre 2020 – Electronic Intifada

La brama di Donald Trump di compiacere Israele è stata oscena ma divertente.

Talvolta è stato impossibile non vedere, con un insieme di orrore e diletto, come un presidente facesse a pezzi le convenzioni della diplomazia.

Nel 2017 Trump ha ammesso che non gli importa se ci sarà una soluzione a uno o due Stati, facendo questa insulsa osservazione: “Mi piace quella che piace ad entrambe le parti.”

L’anno seguente si è vantato di aver ridotto il costo dello spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme. Non importa che Trump usi le risoluzioni ONU come carta igienica, ha ancora un occhio di riguardo per le transazioni immobiliari.

E ora Trump ha messo in dubbio che Joe Biden avrebbe potuto mediato un accordo di “normalizzazione” tra Israele e il Sudan. Così come lo ha spacciato come un trionfo per la pace, Trump ha cercato (in questo caso senza successo) di tirare qualche cazzotto a “Sleepy Joe” [Sonnolento Joe, nomignolo spregiativo con cui Trump chiama Biden, ndtr.].

Parzialità

Per ragioni puramente egoistiche spero che i decisori politici dell’UE si esibiscano in alcune delle bravate di Trump. Mentre lui mi fa ridacchiare, il loro comportamento mi ha fatto diventare un incorreggibile brontolone.

La scorsa settimana è stato riportato che Frontex, l’agenzia dell’UE per il controllo dei confini, sta collaborando con l’industria bellica israeliana. L’agenzia ha concesso un totale complessivo di 118 milioni di dollari al principale esportatore israeliano di armi, Elbit System, e a un consorzio tra Israel Aerospace Industries [principale industria aeronautica israeliana, di proprietà statale, ndtr.] e alla multinazionale Airbus.

Aerei da guerra testati sui palestinesi verranno molto probabilmente utilizzati per contribuire a bloccare i rifugiati che raggiungono le coste europee, anche se questo è un dettaglio che vi sarebbe sfuggito se aveste letto l’articolo di The Guardian su questi contratti.

L’evidente parzialità delle autorità e dei media nei confronti di Israele rende il boicottaggio dei suoi prodotti ed istituzioni ancora più impellente. Il problema è che queste autorità stanno attivamente cercando di compromettere il boicottaggio.

Durante l’estate ho inviato una protesta a Margaritis Schinas, vicepresidente della Commissione Europea. La mia denuncia si concentrava su un discorso poco pubblicizzato ma significativo fatto da Schinas nel 2019, in cui ha affermato che “l’antisemitismo ha molte forme, passando dall’antisionismo alla negazione e distorsione dell’Olocausto, da un commento discriminatorio verso un collega sul posto di lavoro a gravi minacce alla vita di una persona.”

Ho chiesto che Schinas spiegasse perché stava equiparando il sionismo, un’ideologia politica sviluppata alla fine del XIX secolo, all’ebraismo, una religione molto più antica. Gli ho ricordato che il sionismo è stato utilizzato negli anni ’40 come pretesto per una espropriazione di massa dei palestinesi e che oggi è alla base di un sistema razzista contro i palestinesi.

Libertà di espressione

Inoltre ho informato Schinas di come, da quando è stato fatto il suo discorso, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo abbia emesso un’importante sentenza. Nel suo verdetto, pronunciato nel giugno di quest’anno, la Corte ha esplicitamente difeso i diritti degli attivisti che chiedono il boicottaggio di Israele.

La Corte ha persino affermato che il discorso relativo al boicottaggio di Israele richiede “una notevole protezione”.

Ho obiettato che, se il verdetto della Corte viene preso seriamente, allora le critiche all’ideologia dello Stato di Israele, il sionismo, devono essere considerate come protette dal diritto alla libertà di espressione.

Schinas non ha risposto di persona alla mia protesta. Ha incaricato Katharina von Schnurbein, la coordinatrice dell’UE contro l’antisemitismo, di farlo.

Von Schnurbein, che ha calunniato gli attivisti del movimento per il boicottaggio di Israele, non ha di fatto affrontato i punti da me sollevati. La sua lettera non fa alcuna menzione alla sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani.

Al contrario ha fatto riferimento a come l’ UE si basi sulla definizione di antisemitismo approvata dalla International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organizzazione intergovernativa, ndtr.]. Ha omesso il fatto che la definizione è stata concretamente stilata da organizzazioni della lobby filo-israeliana e che esse la utilizzano per cercare di proteggere Israele dal rendere conto del proprio operato.

Von Schnurbein ha anche segnalato un sondaggio del 2018 pubblicato dalla Fundamental Rights Agency [Agenzia per i Diritti Fondamentali, agenzia europea che si occupa della difesa dei diritti umani, ndtr.] dell’UE. Nelle sue parole, “l’inchiesta evidenzia che l’antisemitismo legato a Israele è la forma più diffusa di discriminazione e maltrattamenti antisemiti subiti dagli ebrei europei.”

Indipendentemente da quello che pensa von Schnurbein, i sondaggi di opinione non sono di fatto un sostituto delle sentenze di un tribunale.

L’UE si prepara a inserire nella propria legislazione la Convenzione Europea per i Diritti Umani.

La Corte Europea per i Diritti Umani, che è separata dall’Unione Europea, sovrintende al rispetto di quella convenzione. Se i rappresentanti dell’UE pensano davvero quello che dicono riguardo al desiderio di rispettare una convenzione sui diritti umani, allora devono rispettare le sentenze della Corte.

I risultati di un sondaggio non forniscono loro una scusa per ignorare le sentenze che non gli piacciono.

Promuovere l’ignoranza

Oltretutto l’obiettività del gruppo che ha condotto l’inchiesta del 2018 è dubbia.

Il direttore del progetto era Jonathan Boyd, dell’Institute for Jewish Policy Research [Istituto per la Ricerca Politica Ebraica], con sede a Londra. Boyd è un petulante sostenitore di Israele, che non fa alcuna distinzione tra sionismo ed ebraismo.

Nel suo editoriale su The Jewish Chronicle [settimanale ebraico inglese filoisraeliano, ndtr.] Boyd ha riflettuto su come inculcare devozione per Israele nei giovani ebrei. Lo scorso anno, prima delle elezioni politiche in Gran Bretagna, ha affermato che il partito Laburista aveva un grave problema con il fanatismo anti-ebraico, benché ciò sia stato inventato per danneggiare l’allora segreteria di Jeremy Corbyn.

Detto questo, la ricerca del 2018 non dovrebbe essere ignorata.

Una delle sue conclusioni è stata che il 43% degli ebrei che vi hanno preso parte riteneva di essere incolpato continuamente o frequentemente per le azioni di Israele. Un altro 36% riteneva di esserlo stato occasionalmente.

Qui c’è un chiaro messaggio: l’oppressione israeliana contro i palestinesi può anche danneggiare gli ebrei europei.

Se le autorità dell’UE fossero davvero così preoccupate dell’antisemitismo come pretendono di essere, allora farebbero pressioni su Israele in modo che ponga fine ai soprusi e tutti potrebbero tirare un sospiro di sollievo.

Potrebbero abbinare questo lavoro con la crescente consapevolezza su come gli ebrei del resto del mondo non debbano essere considerati responsabili di quello che fa Israele.

Allo stato attuale, le autorità dell’UE si comportano in modo esattamente opposto.

Comprando le armi di Israele, come Frontex ha appena fatto, rendendo economicamente conveniente l’oppressione, contribuendo pertanto a che essa continui. E considerando il sionismo indistinguibile dall’ebraismo, stanno promuovendo l’ignoranza.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il turismo al servizio di occupazione ed annessione

Halah Ahmad 

13 ottobre 2020 – Al-Shabaka

Sintesi

Per l’impresa sionista il turismo è stato fondamentale fin da quando i primi sionisti si sono stabiliti in Palestina. L’analista politica di Al-Shabaka Halah Ahmad analizza il ruolo del turismo, soprattutto di quello religioso, nella diffusione della narrazione sionista e dello Stato di Israele, concentrandosi sull’impatto dannoso del turismo verso gli insediamenti israeliani nella terra palestinese illegalmente occupata. Fornisce indicazioni per un turismo etico che promuova il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione.

Il turismo, e più specificamente quello religioso, gioca un ruolo diretto nella legittimazione ed espansione del furto di terre palestinesi da parte di Israele. Mentre i tentativi di annessione sotto il governo di estrema destra di Netanyahu, appoggiato dalla Casa Bianca di Trump, viola palesemente la governance globale dei diritti umani e le leggi internazionali, il turismo israeliano nei Territori Palestinesi Occupati (TPO) legittima in modo sostanziale questa espansione, rendendo nel contempo complici i turisti e gli operatori turistici. Infatti varie organizzazioni hanno criticato il turismo nelle colonie israeliane illegali, così come il ruolo di varie attività economiche nell’espansione delle colonie.  

Questo articolo affronta il ruolo storico e persistente dell’industria turistica nell’originario movimento sionista e nel progetto colonialista dell’odierno Stato di Israele, in particolare con la diffusione di idee bibliche dell’eterna proprietà ebraica sulla Palestina e di narrazioni razziste della superiorità degli ebrei israeliani sugli arabi in termini di governo e conoscenza. La glorificazione di Israele nella pubblicità turistica israeliana come Stato straordinariamente moderno in continuità provvidenziale con un passato biblico mette in ombra la sua continua espulsione, oppressione e sfruttamento dei palestinesi.

L’articolo si basa sulla letteratura esistente riguardo al problematico turismo religioso in Israele/Palestina e propone uno studio di caso per illustrare gli aspetti nefasti di questa industria. L’articolo fornisce anche uno sguardo sul ruolo del turismo nella negazione del diritto dei palestinesi a sviluppare un’industria turistica a vantaggio della propria economia, mentre Israele pregiudica l’accesso dei palestinesi ai loro siti di importanza archeologica, religiosa e naturalistica. Infine richiama l’attenzione su iniziative concrete intese a suscitare consapevolezza sulla dannosa industria turistica israeliana e offre suggerimenti per consentire ai turisti, ai pellegrini e alla società civile internazionale di sostenere l’autodeterminazione dei palestinesi attraverso un turismo etico.

Il turismo, chiave del colonialismo di insediamento sionista

Da quando i suoi fondatori misero gli occhi sulla Palestina alla fine del XIX° secolo, il progetto colonialista sionista ha affermato di offrire un governo e un’intelligenza superiori colonizzando la terra (1). In effetti nel 1944 David Ben-Gurion, dirigente del movimento sionista e primo capo del governo di Israele, pronunciò il famoso discorso “Gli imperativi della rivoluzione ebraica”, in cui suggerì che i lavoratori ebrei sarebbero stati i maestri che avrebbero portato “conoscenze culturali, scientifiche e tecnologiche moderne” per fare “fiorire il deserto”. Dall’inizio del XX secolo l’iconografia sionista riflette questi concetti di sviluppo ebraico e “lavoro ebraico” superiori. Moshe Shertok, il secondo primo ministro israeliano, ripeté questa idea esprimendo opinioni negative sugli arabi: “Non siamo venuti in una terra vuota per ereditarla, ma per conquistare un Paese dal popolo che vi abita, che lo governa in virtù del suo linguaggio e della sua cultura primitiva” (2) .

L’iniziale attività promozionale sionista prodotta dall’Associazione per lo Sviluppo Turistico della Palestina utilizzò vivaci immagini e simbolismo religioso per incoraggiare ebrei europei a immigrare in Palestina, e il famoso manifesto “Visita la Palestina”, disegnato da Franz Krausz nel 1936, ne è un chiaro esempio. L’obiettivo del poster commissionato dalla Associazione per lo Sviluppo Turistico della Palestina non era di incoraggiare visite temporanee, ma, di fatto, l’immigrazione permanente.

Durante le prime ondate dell’insediamento sionista in Palestina, le organizzazioni sioniste esaltavano anche gli investimenti in hotel, e tra il 1917 e il 1948 ne apparvero molte decine. Cosa importante, l’Associazione per lo Sviluppo Turistico della Palestina utilizzò anche mappe della Palestina per mostrare luoghi biblici ebraici sulla topografia esistente, costruendo in ultima analisi un legame visuale sia per immaginare una continuità ebraica in Palestina dall’antichità al presente, sia per pianificare un esteso insediamento coloniale che avrebbe oscurato qualunque concetto di appartenenza ai palestinesi.

Nel continuo tentativo di legittimare le loro rivendicazioni sulla terra, i sionisti hanno utilizzato l’archeologia. Come ha sostenuto l’antropologa Nadia Abu El-Haj nel suo fondamentale Facts on the Ground, le organizzazioni sioniste e la società israeliana degli anni ’50 e ’60 esaltarono l’archeologia come “hobby nazionale”, fondamentale per la “formazione e l’adozione di un immaginario coloniale-nazionale e per dare consistenza alle proprie rivendicazioni territoriali” (3).

In effetti Edward Said ha evidenziato come, attraverso un turismo fondato su un’archeologia selettiva e una descrizione orientalista degli arabi e dei palestinesi, i sionisti eliminarono il ricordo storico della Palestina e dei palestinesi (4). In altre parole, l’archeologia era uno strumento di legittimazione legato fondamentalmente allo svago turistico e collettivo, gettando le basi di quella che è emersa nell’attualità come una delle destinazioni turistiche più popolari.

Fin dalla sua creazione nel 1948 lo Stato di Israele ha sostenuto il progetto sionista, con la narrazione della superiorità infrastrutturale, intellettuale e produttiva sulla popolazione palestinese che continua a opprimere attraverso l’occupazione militare e le continue espulsioni. Oltretutto oggi il ministero del Turismo israeliano ribadisce i concetti di progresso e superiorità intellettuale israeliana insieme a labili e discutibili rivendicazioni di racconti biblici che forniscono un falso senso di continuità con il passato.

Il continuo utilizzo da parte di Israele delle narrazioni bibliche per escludere i palestinesi dalle guide ufficiali e dai viaggi turistici è particolarmente evidente a Gerusalemme, l’epicentro del turismo religioso. Le guide turistiche israeliane su Gerusalemme si rivolgono in particolare ai visitatori cristiani ed ebrei, con descrizioni di itinerari e luoghi che spesso mettono in evidenza solo storie giudaico-cristiane. Nel 2011 il ministero del Turismo ha descritto come segue il quartiere musulmano di Gerusalemme: “Il quartiere musulmano presenta chiese e moschee, e ci sono varie case e yeshiva [scuole religiose, ndtr.] ebraiche tuttora rimaste,” omettendo il fatto che le case ebraiche in quel quartiere sono state acquistate di recente, spesso da coloni sionisti estremisti appoggiati dall’esercito israeliano (5).

Più di recente, quando il governo israeliano ha promesso l’annessione della Valle del Giordano e di parti della Cisgiordania, il ministero del Turismo israeliano ha esaltato il turismo nelle colonie della Cisgiordania come area per investimenti strategici. Di sicuro ciò comprende il turismo nelle colonie controllate da Israele, definite illegali dalle leggi internazionali, ed esclude le città e cittadine palestinesi, in molte delle quali lo Stato israeliano vieta l’ingresso ai suoi cittadini.

Oltre a sviluppare siti di turismo archeologico nelle terre palestinesi occupate, le campagne turistiche di Israele in Cisgiordania circostanziano il furto illegale di terra palestinese. Sia il turismo storico che quello attuale, che partecipa all’impresa di colonizzazione illegale, accelerano l’annessione israeliana compresa nel più complessivo progetto coloniale sionista e sono complici della negazione ai palestinesi del diritto alla loro terra e all’autodeterminazione.

L’impatto dannoso del turismo nelle colonie

Le illegali colonie israeliane nei TPO costituiscono una minaccia per l’autodeterminazione palestinese. Negano anche l’accesso dei palestinesi alle risorse naturali e culturali e il loro uso. Infatti lo sfruttamento di queste risorse per il turismo da parte dei coloni ostacola lo sviluppo economico dei palestinesi, creando dipendenza dall’aiuto estero e consentendo all’impresa colonialista israeliana di prosperare. Cioè, il successo e la sostenibilità della colonizzazione israeliana attraverso il turismo nelle colonie dipendono dalla più complessiva oppressione economica e militare inflitta ai palestinesi attraverso le colonie.

Per illustrare le dimensioni dell’impresa coloniale di Israele nei TPO è importante contestualizzare il differente accesso alla terra e alle risorse tra i palestinesi e lo Stato israeliano. In particolare, oltre il 60% della Cisgiordania costituisce l’Area C, sottoposta al totale controllo amministrativo e militare israeliano. Un rapporto del 2017 dell’UNOCHA [Agenzia delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari, ndtr.] evidenziava che oltre il 10% della Cisgiordania si trova all’interno dei confini municipali delle colonie, costituendo ulteriori zone cuscinetto attorno agli insediamenti a cui i palestinesi non possono accedere. Mentre i confini fisici delle colonie costituiscono oltre il 5% della Cisgiordania, un rapporto del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU del 2013 ha evidenziato che oltre il 43% della Cisgiordania è sotto la giurisdizione dei consigli dei coloni israeliani. In più il rapporto ha mostrato che questi consigli controllano l’86% della Valle del Giordano e del Mar Morto.

Al-Haq, organizzazione non governativa indipendente palestinese per i diritti umani, ha pubblicato molti rapporti sullo sfruttamento economico della terra e delle risorse palestinesi in Cisgiordania per il turismo nelle colonie. Nel suo rapporto dell’aprile 2020 accusa le aziende turistiche e i loro Paesi d’origine di essere convolti nell’impresa di colonizzazione in Cisgiordania, tra gli altri territori occupati. In seguito a questi rapporti, aziende turistiche come Airbnb, che operano nelle colonie israeliane, sono state oggetto di campagne di base per il disinvestimento e perché rispondano delle violazioni dei diritti umani. Inoltre Amnesty International ha criticato parecchie compagnie perché traggono profitto operando nelle colonie israeliane, con nomi particolarmente noti nell’industria turistica come TripAdvisor, Expedia, Booking.com e Airbnb. 

Nel dicembre 2017 il Dipartimento degli Affari Negoziali dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) ha pubblicato un rapporto che documenta l’impatto negativo dello sviluppo turistico nelle colonie sul settore turistico palestinese. Il rapporto evidenzia che, secondo il rapporto dell’OCHA del 2017, se l’Area C fosse trasferita sotto il controllo palestinese, come previsto dagli Accordi di Oslo, l’economia palestinese crescerebbe in modo notevolissimo, pari a un aumento del 35% del PIL. Tuttavia nel 2016, quando Israele ha approvato 20 milioni di dollari di finanziamento per le colonie, il ministero del Turismo israeliano e il primo ministro Netanyahu hanno entrambi sottolineato che i principali obiettivi di questi finanziamenti sono stati i luoghi turistici e la costruzione di hotel nelle colonie della Cisgiordania. Poi, nel gennaio 2020, il ministro della Difesa Naftali Bennett [del partito di estrema destra dei coloni Yamina, ndtr.] ha approvato la costruzione di parchi nazionali e riserve naturali in Cisgiordania come parte di una spesa di oltre 110 milioni di dollari nel primo trimestre dell’anno, la più alta in un decennio, nelle colonie della Cisgiordania.

Israele nega anche attivamente ai palestinesi lo sviluppo economico del proprio settore turistico, limitando il movimento dei turisti, dei lavoratori palestinesi del settore e del trasporto turistico. Nel rapporto del dicembre 2017 l’OLP ha documentato le differenti prassi per la concessione di licenze del ministero del Turismo israeliano, scoprendo che le guide turistiche israeliane contano oltre 8.000 permessi di accesso approvati a siti in Israele e in Cisgiordania, mentre i permessi approvati ai palestinesi rappresentano lo 0,5%. L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha anche chiesto permessi per sviluppare oltre 10 siti turistici in Cisgiordania. Come nel caso di tentativi simili a Gerusalemme est, Israele li ha sistematicamente negati.

Tali ostacoli allo sviluppo dei palestinesi rappresentano un’attiva continuazione dell’originaria narrazione sionista della maggiore capacità di sfruttare la terra con una profezia che si auto-avvera, utilizzata allora per rappresentare un destino decretato dalla Bibbia. Infatti, oltre ad essere luoghi per i profitti delle imprese, le colonie israeliane sono diventate uno scenario per rafforzare “il rapporto del popolo ebraico con la terra di Israele.”

Turismo religioso a sostegno del colonialismo di insediamento israeliano

Il turismo religioso è fondamentale nella narrazione sionista dei diritti in base alla Bibbia e della continuità dell’insediamento ebraico in Palestina. Le città palestinesi di Betlemme, Gerico, Nablus, Ramallah, al-Khalil (Hebron) e villaggi come Sabastia e Burqin sono tra i molteplici luoghi di grande significato religioso nella tradizione abramitica. Molti di questi siti sono centri del turismo cristiano, che continua a giocare un ruolo particolarmente importante nella diffusione della narrazione coloniale sionista, soprattutto tra i turisti degli Stati Uniti. Mentre questi luoghi si trovano nei TPO e sarebbero fondamentali per attirare pellegrini e promuovere il settore turistico palestinese, Israele li rivendica come luoghi storici propri.

Negli itinerari di programmi e viaggi religiosi sionisti compaiono in modo considerevole parecchi luoghi problematici. Herodion, per esempio, un sito archeologico e parco nazionale in Cisgiordania, vede scavi devastanti e la rimozione di reperti nonostante l’opposizione dell’ANP in base alle leggi. Nel contempo questi scavi hanno anche lasciato i villaggi vicini senza acqua per oltre tre settimane. Oltretutto, benché sia una colonia illegale costruita su terre di proprietà del villaggio palestinese di Bi’lin, il governo israeliano ha riconosciuto Modi’in Illit come città israeliana, in flagrante violazione delle leggi internazionali e persino di quelle israeliane. Un altro sito è l’acquedotto di Biyar, rovine romane di 2000 anni fa che, benché vengano pubblicizzate come un sito del patrimonio culturale israeliano, si trovano sulla terra palestinese occupata, rafforzando la narrazione dell’antica storia ebraica per legittimare e continuare l’occupazione della terra. Nel solo 2014 le visite turistiche all’acquedotto hanno portato un profitto di 4,5 milioni di dollari.

Il Jerusalem Walls National Park [Parco Nazionale dei Muri di Gerusalemme] è un altro esempio, costruito nella Gerusalemme est occupata e utilizzato in tempi diversi per giustificare la demolizione di case palestinesi per fare spazio al “cammino della Bibbia”. Un altro luogo è Tel Shiloh, un sito archeologico su territorio palestinese occupato che attrae annualmente decine di migliaia di turisti cristiani e dove è stato costituito un parco tematico biblico con finanziamenti della famiglia statunitense Falic, che appoggia gruppi di coloni di destra e lo sviluppo delle colonie. L’appropriazione da parte di Israele di questi siti per il turismo religioso, insieme a molti altri nella Gerusalemme est occupata come la Città di David (Silwan), il Giardino di l’Orto del Getsemani (Monte degli Ulivi) e la Via Dolorosa (Città Vecchia), rafforza la narrazione sionista di un’eterna appartenenza ebraica per negare la questione dell’espulsione dei palestinesi.

In questo senso per decenni i principali finanziatori e sostenitori sionisti dello Stato di Israele hanno garantito il turismo religioso verso Israele all’insegna dei rapporti interreligiosi, dell’appoggio a Israele o del pellegrinaggio. Figure come Naty Saidoff, Sheldon Adelson, Steve Green, Ira Rennert, Roger Hertog, Simon Falic e la famiglia Falic, così come l’attuale ambasciatore USA in Israele, David Friedman, sono tra i grandi donatori e finanziatori che appoggiano sia lo sviluppo di colonie israeliane, compresi esplicitamente sia lo sviluppo turistico e le aziende vitivinicole che il sostegno e l’educazione sionisti filoisraeliani negli USA. Significativamente parecchi di questi donatori statunitensi sono anche noti finanziatori di gruppi di estrema destra ed islamofobi.

I turisti religiosi continuano ad essere coinvolti in queste dinamiche, e dunque diventano parte della diffusione della strategia sionista di colonizzazione di insediamento, appoggiando materialmente il furto e l’occupazione delle terre palestinesi e la continua violazione dei diritti umani dei palestinesi. Il caso di studio che segue illustra il danno provocato ai palestinesi dall’industria del turismo dei cristiano-sionisti.

Passages: uno caso di studio del turismo cristiano-sionista

Passages [Passaggi] è un’organizzazione statunitense dli turismo religioso che considera visitare Israele un “rito di passaggio per ogni cristiano”, anche per “rendere la storia di Israele parte della propria storia.” Il programma è lautamente sovvenzionato da finanziatori cristiani ed ebrei conservatori e negli USA lo si può trovare presso 157 tra università e organizzazioni. Le università sono per lo più cristiane, ma includono anche alcune grandi università pubbliche come, tra le altre, la Texas A&M, l’università della Florida e quella del Minnesota. Passages vanta anche 7.000 ex-studenti in tutti gli Stati Uniti. Non sorprende che abbia espliciti legami con il governo israeliano e sarebbe frutto dell’ingegno di Ron Dermer, ambasciatore di Israele negli USA. Nel 2015 Dermer ha ospitato all’ambasciata israeliana a Washington il lancio del programma. All’avvenimento hanno partecipato anche l’ambasciatore USA in Israele, David Friedman, e l’ex-ambasciatore israeliano negli USA, Michael Oren.

Una ricerca su Passages di Friends of SabeelNorth America [Amici di Sabeel, ong cristiana per la pace in Terra Santa, ndtr.] (FOSNA), insieme ad alcune organizzazioni di solidarietà con la Palestina nei campus, ha rivelato i problematici itinerari percorsi dai tour, compresi i luoghi degli itinerari turistici, così come la narrazione cristiano-sionista che vi viene proposta (6). In questi viaggi Passages glorifica Israele come Stato moderno che manifesta una continuità provvidenziale con un passato biblico, rendendo strategicamente irrilevante l’espulsione e l’oppressione dei palestinesi. Questa narrazione sionista è emblematica dello sfruttamento del turismo religioso da parte di Israele per nobilitare e favorire il suo progetto colonialista, presentando falsamente la situazione come una disputa territoriale (tra niente di meno che esseri superiori e selvaggi) invece che un’occupazione.

Oltre a problematiche visite alle Alture del Golan occupate e ad ex-avamposti delle Israeli Defense Force [Forze di Difesa Israeliane] (IDF), FOSNA riporta che il viaggio intende evidenziare la persecuzione dei cristiani in Medio Oriente e la presunta drammatica vulnerabilità di Israele, inquadrando vari giorni del viaggio nel contesto dei rischi che Israele corre a causa dei suoi vicini, compreso un viaggio a Sderot, la città israeliana di fronte a Gaza. Sderot non è una città di importanza religiosa per i viaggiatori cristiani ed è nota per le opinioni di estrema destra dei suoi abitanti. Infatti Sderot è stata il luogo del famoso incidente degli abitanti seduti sulle sdraio a guardare i bombardamenti israeliani di Gaza durante l’offensiva del 2014, che uccise oltre 2.000 palestinesi e 73 israeliani.

Passages afferma esplicitamente la sua intenzione di sviluppare sentimenti filo-israeliani tra i leader cristiani negli USA. È modellato su Birthright Israel, o Taglit, che offre viaggi totalmente pagati e molto pubblicizzati a giovani ebrei americani perché visitino Israele e che in anni recenti è stato avversato da campagne nazionali da parte di organizzazioni ebraiche progressiste USA per la sua rappresentazione ingannevole di Israele. Tuttavia i viaggi di Passages sono oggetto di un’attenzione molto meno critica e un impegno molto minore per documentare e contrastare i loro discutibili programmi.

Cosa importante, sebbene i viaggi di Passages si concentrino sull’esperienza religiosa cristiana in Terra Santa, essi intendono esplicitamente collegare il fatto di essere in Israele con l’appoggio allo Stato di Israele. Infatti il programma di Passages mette in risalto dialoghi con soldati israeliani, una visita alla Knesset [il parlamento, ndtr.] israeliana ed esperienze culturali per comprendere la “cultura tecnologicamente innovativa” e “il dinamismo economico” di Israele. Nel contempo gli itinerari del viaggio ignorano, o affrontano in modo superficiale, le vicende dei musulmani e dei palestinesi nella regione e non mettono in discussione l’illegale occupazione di molti dei luoghi religiosi visitati in Cisgiordania. Di fatto una particolare narrazione della persecuzione di cristiani ed ebrei e di Israele come rifugio religioso si prestano ad un progetto di estraniamento islamofobico comune a molti mezzi di comunicazione americani.

Le testimonianze di ex-partecipanti ai viaggi di Passages riflettono la prospettiva adottata dall’agenzia turistica e non sorprende che sul suo sito in rete Passages sottolinei queste testimonianze. Per esempio un partecipante al viaggio scrive: “Non sono la stessa persona che ero quando sono partito per Israele. Ho una motivazione nuova per stare dalla parte di Israele, e sento che i piani di Dio per la mia vita dopo l’università sono di sostenere la Terra Santa nel mio lavoro futuro. Grazie a Passages, il mio cuore è pieno della passione di sentirmi unito a Israele.” L’aspirazione politica a “stare dalla parte di Israele” implica un’avversione nei confronti di ogni critica allo Stato di Israele e, in quanto programma che si basa sulla fede, il viaggio riesce alla fine ad identificare l’impegno biblico o spirituale per la Terra Santa con il progetto coloniale sionista laico.

Un partecipante ha sottolineato che il suo viaggio in Israele è stato particolarmente speciale non solo per le visite ai siti biblici, ma anche per l’opportunità di saperne di più su Israele come “Stato moderno”. Una descrizione del genere espone il progetto sionista: promuovere l’immagine di uno Stato eccezionale, tecnologicamente avanzato, e di un popolo a cui vengono sovrapposte le immagini orientaliste degli arabi come sottosviluppati. Un’altra ha scritto che il suo viaggio “ha messo Israele ed il popolo ebraico al centro del mio cuore quando rifletto sulla mia fede cristiana (…). Mi trovo a parlare di Israele a chiunque sia disposto ad ascoltarmi.” Le dichiarazioni di alcuni dei partecipanti indicano un sentimento di autentico impegno interconfessionale nel “conflitto”, sottolineando costantemente anche l’ammirazione per il moderno Stato di Israele.

Ciò che molte testimonianze hanno in comune è la sconcertante riproposizione della propaganda sionista riguardo a un progresso superiore al resto del Medio Oriente, un discorso sulla divina provvidenza incarnata dallo Stato ebraico e una connessione esplicita tra la storia antica e biblica e il moderno Stato di Israele, tutto ciò con poche, o senza, discussioni sui duemila anni che ci sono in mezzo, dove figurano ampiamente la storia islamica così come l’espulsione coloniale sionista dei palestinesi. Il quadro continua a mettere in ombra, e di fatto a giustificare, l’oppressione dei palestinesi da parte di Israele.

Passages esemplifica la più complessiva infrastruttura del turismo religioso al servizio del discorso coloniale sionista e il progetto israeliano di costruzione dello Stato. Ciò è particolarmente evidente nel contesto del tentativo di una vasta annessione da parte di Netanyahu, che ha coltivato forti rapporti politici con gli evangelici statunitensi, l’80% dei quali si identifica come cristiano-sionista. Passages fa parte di parecchi programmi analoghi che intendono promuovere il dialogo interreligioso mobilitando attivamente ed esplicitamente l’appoggio al progetto colonialista, sia storico che in corso, da parte di Israele in Palestina. Non solo questi viaggi lavorano per ridurre al silenzio e inficiare le storie e le narrazioni palestinesi, ma sostengono anche materialmente un settore turistico nelle terre palestinesi occupate illegalmente, cosa che mina gli stessi tentativi dei palestinesi per una sostenibilità economica duratura.

Alternative e suggerimenti

Nel 2019 la Campagna Palestinese per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (PACBI) ha pubblicato l’appello delle organizzazioni della società civile palestinese per un turismo etico. La dichiarazione chiede ai turisti di “non nuocere” e di evitare i luoghi storici e religiosi nei TPO controllati dalle autorità israeliane o promossi come siti israeliani. Allo stesso modo le organizzazioni cristiane palestinesi hanno prodotto una guida turistica che chiede ai visitatori cristiani di sostenere le agenzie di viaggio palestinesi come Walk Palestine, viaggi organizzati dal Siraj Center for Holy Land Studies [Centro Saraj per gli Studi sulla Terra Santa] a Beit Sahur, e di evitare i viaggi organizzati dagli israeliani o i siti sfruttati da Israele nei TPO.

I gruppi americani come Eyewitness Palestine [Testimone oculare in Palestina] forniscono anche delle opzioni alternative ai pellegrini e ad altri turisti per visitare la Palestina evitando di essere complici dell’oppressione e dell’occupazione israeliane. Inoltre un numero crescente di iniziative “Palestine Trek” [Escursione in Palestina] nei campus universitari, come quelli di Harvard, Cambridge e Berkeley, offrono opportunità per un turismo etico in Palestina che possa evitare le rappresentazioni intese a “rifarsi un’immagine con la fede” da parte di Israele e di contribuire materialmente all’industria turistica israeliana. Insieme ad altre, queste alternative rafforzano i diritti umani e la dignità palestinesi e fanno da modello affinché la società civile sostenga delle alternative.

Altri suggerimenti includono:

  • Le organizzazioni della società civile, e in particolare le organizzazioni religiose negli Stati Uniti, dovrebbero valutare in modo critico il ruolo del turismo a favore di Israele nella legittimazione dell’annessione illegale e delle violazioni dei diritti umani dei palestinesi.

  • Le organizzazioni di sostegno alla Palestina con sede nei campus degli Stati Uniti possono giocare un ruolo importantissimo, opponendosi ai viaggi degli studenti nei TPO o negli altri territori occupati. I viaggi di Passages possono servire da obiettivo principale delle campagne per bloccare la complicità con le violazioni israeliane dei diritti umani, nel quadro di una campagna più ampia per porre fine all’occupazione israeliana condizionando al rispetto del diritto internazionale l’aiuto militare americano a Israele.

  • Le autorità di controllo e i responsabili politici devono riconoscere la necessità di porre fine alle attività economiche con soggetti israeliani dall’altra parte della Linea Verde [cioè nei territori occupati, ndtr.]. Le imprese che operano nei TPO dovrebbero quanto meno essere obbligate ad adottare misure di controllo con effetti di interdizione per garantire che non contribuiscano a progetti colonialisti israeliani illegali, né ne traggano benefici.

Note:

1. Rashid Khalidi, The Hundred Year’s War on Palestine: A History of Settler Colonialism and Resistance, 1917-2017 [La Guerra dei Cent’Anni contro la Palestina: una storia di colonialismo di insediamento e di resistenza] (New York: Metropolitan Books, 2020), p. 7.

2. Benny Morris, Righteous Victims: A History of the Zionist-Arab Conflict,1881-2001 (New York: Vintage Books, 2001), 91 [Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Rizzoli, Milano, 2001], p. 91.

3. Nadia Abu El-Haj, Facts on the Ground: Archaeological Practice and Territorial Self-Fashioning in Israeli Society [Fatti sul terreno: pratiche archeologiche e auto-produzione del territorio nella società israeliana] (Chicago: University of Chicago Press, 2001), p. 2.

4. Edward Said, The Question of Palestine [La questione palestinese, Gamberetti Editrice, Roma, 1995] (New York: Vintage Books, 1992), p. 158.

5. Yara Hawari, “The Old City of Jerusalem; Whose Heritage? Tourism, Narratives and Orientalism” [La Città Vecchia di Gerusalemme: quale eredità? Turismo, Narrazioni e Orientalismo], p. 22

6. FOSNA e qualche altra associazione universitaria anonima di solidarietà è riuscita a partecipare a un viaggio di Passages e l’ha condiviso con l’autrice per questo articolo. L’itinerario non è stato pubblicato, ma le informazioni in questa sezione riguardante i viaggi di Passages vengono direttamente dal programma del tour.

Halah Ahmad

Halah Ahmad, analista politica di Al-Shabaka, ha conseguito il master in Politiche Pubbliche all’Università di Cambridge come studentessa del programma Lionel de Jersey Harvard presso l’Emmmanuel College. Ha fatto ricerche in politica strategica per agenzie governative e Ong in Grecia, Albania, a Berlino, in Cisgiordania, a San Francisco, a Chicago e a Boston. Attualmente dirige lavori su politica e relazioni pubbliche presso il Jain Family Institute, un istituto per le ricerche in scienze sociali applicate con sede a New York. Le sue ricerche riguardano vari argomenti, dallo sviluppo equo e il benessere sociale all’urbanistica, al turismo, all’espulsione, alle questioni abitative e alla giustizia economica. Halah si è laureata con lode in religioni comparate e sociologia ad Harvard.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Per il momento la dirigenza palestinese è immune agli accordi di normalizzazione

Daoud Kuttab

18 settembre 2020 – Al-Monitor

In seguito agli accordi di normalizzazione tra EAU, Bahrein e Israele, potrebbero essere concessi incentivi finanziari all’Autorità Nazionale Palestinese, benché senza un pieno consenso palestinese nessun cambiamento sia in vista.

In tempi normali continue pressioni e l’uso combinato di carota e bastone in genere rendono più malleabile la maggior parte dei leader politici. Ma quando si ha a che fare con un conflitto durato decenni come quello israelo-palestinese e con un leader ostinato come il presidente Mahmoud Abbas, spesso le pressioni ottengono i risultati opposti.

La posizione del dirigente palestinese sembra aver sorpreso il presidente USA e la sua cerchia ristretta. Il 16 settembre il presidente Donald Trump, parlando con i giornalisti, ha rivelato le sue tattiche di pressione finanziaria nei confronti dei palestinesi. Si è vantato di aver tagliato 750 milioni di dollari di supporto annuale ai palestinesi e di aver fatto pressioni sui Paesi arabi perché facessero altrettanto.

Ho smesso di finanziare i palestinesi abbastanza presto perché stavano parlando male del nostro Paese. Quindi da subito ho smesso di finanziarli. Penso che finalmente i palestinesi stiano per rendersi disponibili [a un accordo],” ha detto Trump durante una conferenza stampa alla Casa Bianca.

Trump ha sostenuto che i due Paesi del Golfo che hanno normalizzato i rapporti con Israele smetteranno di finanziare i palestinesi. Tuttavia il ministro dell’Economia degli EAU Abdullah bin Touq Al Marri ha lasciato intendere che, invece di tagliare gli aiuti, gli Emirati Arabi Uniti stanno prendendo in considerazione investimenti sia in Israele che nei territori palestinesi, affermando che nei loro impegni economici bilaterali gli EAU ed Israele stanno progettando di includere alcune aree palestinesi.

Finora i palestinesi si sono opposti agli accordi, una posizione che si è ulteriormente rafforzata quando David Friedman, ambasciatore [USA] in Israele si è messo nei guai allorchè ha pubblicamente chiesto che Abbas venga sostituito da Mahmoud Dahlan [ex-responsabile dell’intelligence di Fatah a Gaza ed espulso dall’organizzazione per aver partecipato all’assassinio di Arafat e per corruzione, ndtr.], l’ex-leader di Fatah che vive negli EAU.

In un’intervista su Israel Hayom [giornale israeliano gratuito di destra, ndtr.] è stato chiesto a Friedman se l’amministrazione Trump stesse cercando di “nominare” Dahlan nuovo leader palestinese. Secondo l’articolo di Israel Hayom, Friedman ha risposto: “Ci stiamo pensando.” Ed ha aggiunto: “Non vogliamo progettare la dirigenza palestinese.” In seguito Friedman ha affermato che intendeva dire: “Non ci stiamo pensando.”

Ma, indipendentemente dalle sue intenzioni, il danno era stato fatto. L’attivista palestinese Dimitri Diliani, di Gerusalemme, portavoce della cosiddetta ala riformista di Fatah, ha stigmatizzato le affermazioni di Friedman, insistendo sul fatto che i palestinesi continueranno a scegliersi i propri dirigenti.

La dichiarazione di Friedman ha persino obbligato Dahlan a fare altrettanto. Dahlan ha twittato: “Chiunque non sia eletto dal proprio popolo non può guidarlo e raggiungere l’indipendenza nazionale…Penso fermamente che la Palestina abbia disperatamente bisogno di rinnovare la legittimità di qualunque dirigenza e istituzione palestinese, e ciò si otterrà solo attraverso corrette elezioni nazionali e non è ancora nato chi possa imporci la propria volontà.”

Invece di obbligare Abbas ad ammorbidire la sua posizione, le pressioni di USA e EAU sembrano avergli dato una nuova vitalità politica.

Si potrebbe sostenere che l’appoggio popolare emerso a favore di Abbas sarà di breve durata, ma la situazione è che i palestinesi stanno godendo di una rara atmosfera di unità nazionale. Di fronte a un pericolo esiziale sia l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina che i dirigenti islamici hanno seppellito l’ascia di guerra per rafforzare la pace, mettendo da parte le differenze tra loro.

Mentre i rivali politici di Abbas sono in svantaggio, l’opinione pubblica è ancora scettica riguardo alla dirigenza e alla strategia. Gli attuali tentativi di intensificare la resistenza popolare non sono riusciti a prendere piede. Mentre i dirigenti palestinesi stanno ancora guidando macchine di lusso e vivono agiatamente, la popolazione palestinese sta soffrendo e i dipendenti pubblici non ricevono lo stipendio.

L’impatto definitivo degli accordi sulla dirigenza palestinese alla fine porterà alle elezioni a lungo attese. Un complessivo riesame popolare degli obiettivi, dei mezzi e della dirigenza per una nuova strategia per la liberazione può essere fatto solo all’interno di un contesto di elezioni sia legislative che presidenziali, così come con la riconvocazione dei rappresentanti del Consiglio Nazionale Palestinese [organo legislativo dell’OLP, che negli ultimi 22 anni si è riunito solo una volta, ndtr.]. Il tentativo di unità nazionale verrà preso seriamente solo quando sarà annunciata la data per le elezioni e verrà riformata l’OLP.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Perché i leader arabi si inchinano improvvisamente all’opportunità di normalizzare i rapporti con Israele

Miko Peled

17 settembre 2020MintPress News

I leader arabi capiscono che i rapporti con Israele forniscono l’accesso all’impero USA e a tutto ciò che ne deriva, compresi gli agognati armamenti statunitensi ed altri vantaggi come la cooperazione economica e per la sicurezza.

Mentre scrivo queste parole i Ministri degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein sono a Washington per firmare accordi di normalizzazione dei rapporti tra i loro Paesi e lo Stato di Israele. Mentre gli Stati Uniti ed Israele sono rappresentati dal Presidente Donald Trump e dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu, gli Stati arabi hanno inviato alla cerimonia per la firma i loro ministri degli esteri in rappresentanza dei loro Paesi. Ciò potrebbe avere a che fare meno con il protocollo quanto piuttosto con il fatto che sia Trump che Netanyahu stanno lottando per la propria vita politica e per loro questa è stata un’esibizione di pubbliche relazioni estremamente necessaria.

Lo spettacolo odierno appare ben lontano dalla posizione risoluta, di principio e coraggiosa presentata dai leader arabi a Kartoum quasi esattamente 53 anni fa. Appena dopo l’attacco israeliano alle terre arabe nel 1967, mentre le canne dei fucili erano ancora fumanti, nella capitale sudanese Kartoum fu convocata una riunione dei capi degli Stati arabi. Questo incontro produsse una coraggiosa risoluzione che affermava il rifiuto del riconoscimento, di negoziati e della pace con Israele. Gli eserciti arabi dell’Egitto, il più grande degli Stati arabi, della Siria e della Giordania vennero completamente distrutti, circa 18.000 soldati arabi uccisi e centinaia di migliaia di civili restarono senza casa, eppure i leader degli Stati arabi furono fermi nel dire “no” al potente aggressore, Israele.

La risoluzione degli Stati arabi di respingere il brutale regime di apartheid israeliano fu accettata nell’agosto 1967 al summit della Lega Araba, appena due mesi dopo che Israele aveva decimato gli eserciti di tre Stati arabi ed aveva occupato con la violenza le alture del Golan siriano, la penisola del Sinai egiziana ed aveva completato la conquista della Palestina occupando la Cisgiordania, Gerusalemme est e la Striscia di Gaza.

La risoluzione, che in seguito venne conosciuta come quella dei “tre no”, viene tuttora usata dalla propaganda sionista per dimostrare la mancanza di volontà degli Stati arabi di fare la pace con Israele e riconoscere il cosiddetto Stato ebraico. Tuttavia, alla luce del mortale attacco israeliano a questi Paesi, il loro rifiuto di capitolare fu eroico. Ciò che invece è deplorevole è il successo del movimento sionista nel ribaltare l’impegno arabo per la Palestina. Passo dopo passo, a partire dallo Stato più grande, l’Egitto, e poi la Giordania, ed ora gli Stati del Golfo e persino il Sudan, i regimi arabi sono andati “normalizzando” i rapporti con Israele.

 

Accesso all’impero

Se si potesse solo per un momento mettersi nei panni del capo di uno Stato arabo, cosa si proverebbe? Si vedrebbe che i Paesi arabi che erano determinati nell’appoggiare la causa palestinese sono ora distrutti. A partire dall’Iraq, lo Yemen, la Libia e la Siria. La punizione di quelli che non hanno voluto arrendersi è stata dura. A parte c’è l’Iran, che mentre per ora è al riparo da un attacco militare totale, soprattutto perché gli USA ed Israele non sono in grado di affrontare di petto le forze iraniane, sta soffrendo molto a causa di dure sanzioni.

I rapporti con Israele danno accesso agli agognati armamenti di fabbricazione USA e ad altri vantaggi, come la cooperazione economica e per la sicurezza. Che scelta potrebbe essere fatta nei panni di leader di uno Stato Arabo? I commentatori della CNN hanno ripetutamente affermato che i leader degli EAU e del Bahrein, e forse di altri Stati arabi che presto normalizzeranno i rapporti con Israele, hanno deciso di abbandonare la causa palestinese e di concentrarsi su altre questioni come la cooperazione economica e il turismo, e porre le necessità e sicuramente il futuro dei propri Paesi al di sopra della questione palestinese.

E’ facile criticare gli Stati arabi per aver voltato le spalle ai loro fratelli e sorelle palestinesi. Tuttavia Paesi più grandi ed influenti non si comportano diversamente. Russia, Unione Europea, Cina e India fanno una quantità di affari con Israele e si sono da tempo scordati dei palestinesi. Israele è riuscito a cancellare la causa palestinese dalla scena mondiale. A prescindere da quanto frequenti siano gli attacchi israeliani contro Gaza, o da quanto siano feroci, a prescindere da quanti palestinesi siano detenuti nelle carceri israeliane e da quanto drammatiche siano le condizioni di vita dei palestinesi, Israele è riuscito a far voltare il mondo dall’altra parte.

L’opposizione

Ci sono state informazioni circa una resistenza popolare in Bahrein da parte di gruppi che si oppongono alla normalizzazione dei rapporti con Israele e giustamente la considerano un tradimento del popolo palestinese. E’ probabile che queste voci verranno velocemente messe a tacere dal governo del Bahrein.

Inoltre fonti del governo del Kuwait hanno informato che “la posizione del Kuwait nei confronti di Israele non è cambiata dopo il suo accordo con gli Emirati Arabi Uniti”. Dirigenti del Kuwait hanno anche negato ad aerei israeliani il diritto di volo nello spazio aereo del Paese.

Il Sudan

I tentativi di Israele di costruire alleanze vanno oltre la penisola arabica e si spingono anche in Africa. Il Primo Ministro sudanese Abdalla Hamdokmet ha recentemente incontrato il Segretario di Stato USA Mike Pompeo, che ha visitato il Sudan dopo un viaggio per incontrare dirigenti israeliani a Gerusalemme. Israele è stata la prima tappa di Pompeo in un tour ideato per convincere ulteriori Paesi arabi a normalizzare i legami con lo Stato sionista. Inoltre ci sono conferme che la visita a Kartoum del Segretario di Stato USA era finalizzata a discutere i rapporti tra Sudan ed Israele.

Il Primo Ministro sudanese ha detto a Pompeo che il suo governo “non aveva mandato per normalizzare i rapporti con Israele” ed ha aggiunto che la cancellazione del Sudan dall’elenco degli Stati che sponsorizzano il terrorismo non dovrebbe essere correlata alla normalizzazione dei rapporti con Israele. Chiaramente la cancellazione da quell’elenco è la carota che Pompeo sta offrendo al Sudan.

Dopo l’incontro il Dipartimento di Stato USA ha affermato in una dichiarazione che Pompeo e Hamdok hanno discusso di “positivi sviluppi nei rapporti tra Sudan ed Israele”, cosa che non dovrebbe sorprendere. E’ difficile immaginare che la leadership sudanese possa osare rifiutare un’offerta degli USA, sicuramente non una attraente come la cancellazione dell’etichetta di Stato sponsor del terrorismo, che aprirebbe le porte e consentirebbe la crescita economica della Nazione africana.

Ora torniamo un attimo indietro e presumiamo di essere il capo di una Nazione africana o araba. La scelta è tra capitolare e accettare rapporti con il regime di apartheid israeliano, il che aprirebbe nuove possibilità economiche, e mantenere una posizione ferma e di principio, e subire devastazioni per una guerra o soffocare lentamente a causa di sanzioni.

Miko Peled è uno scrittore e attivista per i diritti umani, nato a Gerusalemme. E’ autore di “Il figlio del generale. Viaggio di un israeliano in Palestina”, e “Ingiustizia, la storia dei cinque della Fondazione Terra Santa.”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di MintPress News.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 

 




I palestinesi indicono la “giornata della rivolta” contro l’accordo di normalizzazione tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain

Shatha HammadMohammed al-Hajjar

15 settembre 2020 – Middle East Eye

Un nuovo gruppo della società civile palestinese costituito da diverse fazioni ha protestato martedì contro la firma dei controversi accordi.

I palestinesi della Striscia di Gaza e della Cisgiordania occupata sono scesi in piazza per denunciare gli accordi di normalizzazione firmati martedì a Washington tra Israele, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti (EAU).

Sia l’Autorità Palestinese (ANP) che il movimento di Hamas, che governa la Striscia di Gaza, hanno condannato gli accordi mediati dagli Stati Uniti come una “pugnalata alle spalle” al loro popolo.

Dalla prima mattina di martedì si sono svolte manifestazioni nella Cisgiordania occupata a Ramallah, Tulkarem, Nablus, Gerico, Jenin, Betlemme e Hebron, in altre località più piccole nonché a Gaza.

I manifestanti hanno cantato ed esposto cartelli che denunciavano la normalizzazione e si appellavano all’unità araba contro l’occupazione israeliana. 

Martedì il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e gli alti diplomatici degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrain hanno firmato gli accordi per normalizzare le loro relazioni, senza alcun progresso verso un accordo israelo-palestinese.

Ismail Haniyeh, leader di Hamas, che martedì era a Beirut per un incontro con i segretari delle fazioni palestinesi, ha detto al presidente Mahmoud Abbas al telefono che tutte le fazioni palestinesi erano unite contro l’accordo e “non permetteranno che la causa palestinese sia un ponte per il riconoscimento e la normalizzazione della potenza occupante a scapito dei nostri diritti nazionali, della nostra Gerusalemme e del diritto al ritorno”.

Lunedì, il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha descritto gli accordi come un altro “giorno nero” per il mondo arabo.

“Un’altra data da aggiungere al calendario della disgrazia palestinese”, ha detto, aggiungendo che l’Autorità Nazionale Palestinese dovrebbe “rettificare” le proprie relazioni con la Lega Araba a causa del rifiuto di condannare i due accordi di normalizzazione conclusi nel mese scorso.

Il ministro degli Esteri del Bahrain Abdullatif al-Zayani e il ministro degli Affari Esteri degli Emirati Arabi Uniti Abdullah bin Zayed bin Sultan Al Nahyan sono arrivati a Washington domenica, mentre Netanyahu è arrivato lunedì nel pieno delle molte richieste in Israele di dimissioni per le indagini in corso sulla sua corruzione e la cattiva gestione del suo governo della pandemia di coronavirus.

Il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti non hanno combattuto guerre contro Israele, a differenza di Egitto e Giordania, che hanno firmato trattati di pace con Israele rispettivamente nel 1979 e nel 1994.

“Giornata di rivolta popolare”

Un nuovo gruppo della società civile, costituito da varie fazioni, ha chiamato martedì a una “giornata di rivolta popolare” in coincidenza con la firma dell’accordo.

Il gruppo, chiamato Leadership Palestinese Unita per la Resistenza Popolare (UPLPR), si è formato la scorsa settimana dall’incontro tra i leader di tutte le fazioni politiche palestinesi nella capitale libanese Beirut.

Nella sua prima dichiarazione, il gruppo ha lanciato un appello per manifestazioni nazionali –definite “il giorno nero” – in tutti i territori palestinesi per chiedere la cancellazione del cosiddetto “accordo del secolo” e dell’occupazione israeliana. 

Ha lanciato anche un altro giorno di protesta – denominato “giorno di lutto” – per venerdì, durante il quale dovranno essere issate bandiere nere per esprimere il rifiuto dell’accordo di normalizzazione.

Martedì, le proteste sono iniziate alle 11 in tutta la Cisgiordania occupata.

A Hebron, secondo un corrispondente di Middle East Eye, a Bab al-Zaweya, al termine di una manifestazione sono scoppiati piccoli scontri tra giovani palestinesi e forze israeliane.

Fahmy Shaheen, rappresentante delle forze nazionali e islamiche a Hebron, ha affermato che le proteste in città riflettono la rabbia per i conflitti praticamente quotidiani tra gli abitanti, i coloni israeliani e le forze dell’esercito a causa della continua espansione degli insediamenti nella città storica.

“Stiamo manifestando il nostro rifiuto alla normalizzazione perché avviene a scapito dei diritti e dei sacrifici del popolo palestinese”, ha detto Shaheen a MEE.

“È anche un omaggio gratuito a Stati Uniti e Israele, offerto a scapito delle aspirazioni arabe alla libertà. Non contiamo sui regimi arabi che stanno svendendo le aspirazioni dei loro popoli e la nostra causa palestinese. Contiamo piuttosto sul popolo arabo che è unito [nella sua convinzione] che la causa della Palestina sia fondamentale”.

Anche Jamal Zahalka, a capo del partito Assemblea Nazionale Democratica, che martedì stava prendendo parte a una protesta a Wadi Ara, ha descritto la firma dell’accordo di normalizzazione come “un regalo pericoloso dagli Emirati Arabi Uniti e dal Bahrein a Trump e Netanyahu, vittime di una soffocante crisi politica nei loro paesi”.

“Oggi, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain dichiarano di sostenere l’occupazione israeliana contro il popolo palestinese. Ciò che si sta discutendo non è la normalizzazione, ma piuttosto un’alleanza strategica”, ha detto.

“Chiunque stringa alleanza con Israele non potrà mai stare con il popolo palestinese e con i suoi giusti diritti”.

Faisal Salameh, capo del comitato popolare di Tulkarem, ha detto a MEE che le manifestazioni hanno portato “un messaggio di amore e rispetto per tutti i popoli arabi”, nonostante le critiche ai governi degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrain.

Razzi e proteste da Gaza

Appena firmati gli accordi a Washington, sono giunte notizie di diversi razzi lanciati verso Israele dalla Striscia di Gaza. Sebbene non sia chiaro quale fosse il gruppo responsabile del lancio di razzi, Israele ritiene il movimento di Hamas responsabile di tutti gli attacchi dall’enclave.

Si sono viste a Gaza anche manifestazioni per tutto il giorno, con centinaia di persone che marciavano contro l’accordo di normalizzazione.

I manifestanti si sono radunati davanti al palazzo dell’Unesco a Gaza per esprimere la loro disapprovazione all’accordo.

Abdel-Haq Shehadeh, membro della più alta leadership del movimento di Fatah a Gaza, ha criticato gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain per non aver rispettato l’Iniziativa di Pace araba del 2002, che delineava tutti i passi per porre fine al conflitto israelo-palestinese.

Shehadeh ha detto che vorrebbe chiedere a qualsiasi paese stia pensando di seguire le orme degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrain di fermarsi e riconsiderare, sottolineando di non credere che la gente nel mondo arabo sia d’accordo con una scelta simile – messaggio rimbalzato martedì durante le proteste palestinesi.

Durante la manifestazione Ismail Radwan, alto funzionario di Hamas, ha definito l’iniziativa guidata dagli Stati Uniti “un pugnalata alle spalle del popolo palestinese” e ha assicurato che si stava organizzando “una strategia globale e unificata di tutte le fazioni palestinesi per contrastare Israele”.

“Ai governanti degli Emirati e del Bahrain: avete dismesso il sostegno al popolo palestinese ma le generazioni palestinesi non dimenticheranno le vostre scelte”, ha detto Radwan, lodando i cittadini che nei due paesi si erano espressi contro le decisioni dei loro governi.

A Washington, 50 ONG hanno lanciato una protesta davanti alla Casa Bianca durante la cerimonia della firma per esprimere la loro opposizione.

Martedì anche le fazioni palestinesi in Libano hanno organizzato proteste per condannare l’accordo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La ‘normalizzazione’ di Israele: l’Arabia Saudita sta ammorbidendo la sua posizione?

16 settembre 2020 – Al Jazeera

Dopo gli accordi con Emirati Arabi Uniti e Bahrain, ci sono segnali che l’Arabia Saudita stia preparando la sua gente a relazioni amichevoli con Israele.

Quando nel corso del mese uno dei principali leader musulmani dell’Arabia Saudita ha chiesto ai suoi correligionari di evitare “emozioni irruente e passioni infuocate” nei confronti degli ebrei, ciò ha costituito un netto cambiamento di tono da parte di chi in passato ha versato lacrime durante le sue prediche a favore della Palestina.

Il sermone di Abdulrahman al-Sudais, imam della Grande Moschea della Mecca, trasmesso dalla televisione di Stato saudita il 5 settembre, è arrivato tre settimane dopo che gli Emirati Arabi Uniti avevano concordato uno storico accordo per normalizzare le relazioni con Israele e pochi giorni prima che lo Stato del Golfo del Bahrain, uno stretto alleato saudita, ne seguisse l’esempio.

Sudais, che in passato pregava nei suoi sermoni perché i palestinesi conseguissero la vittoria sugli ebrei “invasori e aggressori”, ha spiegato come il profeta Maometto fosse buono con il suo vicino ebreo e ha sostenuto che il modo migliore per persuadere gli ebrei a convertirsi all’Islam fosse “trattarli bene”.

Anche se non ci si aspetta che l’Arabia Saudita segua presto l’esempio dei suoi alleati del Golfo, le osservazioni di Sudais potrebbero essere un indizio su come il regno affronta il delicato tema dell’amicizia con Israele – una prospettiva un tempo inconcepibile. Nominato dal re, egli è una delle figure più influenti del paese, che riflette le opinioni della propria istituzione religiosa conservatrice e della corte reale.

I plateali accordi con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain hanno costituito un colpo di scena da parte di Israele e del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che si sta atteggiando a pacificatore in vista delle elezioni di novembre.

Ma il grande risultato diplomatico riguardo un accordo con Israele riguarderebbe l’Arabia Saudita, il cui re è il custode dei siti più sacri dell’Islam e governa il più grande Stato esportatore di petrolio del mondo.

“Testare la reazione del pubblico”

Marc Owen Jones, un accademico dell’Istituto di studi arabi e islamici dell’Università di Exeter, ha affermato che la normalizzazione degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrain ha consentito all’Arabia Saudita di mettere alla prova l’opinione pubblica, ma un accordo formale con Israele sarebbe un “compito gravoso” per il regno.

“Dare una ‘spintarella’ ai sauditi tramite un influente imam è ovviamente un passo nel tentativo di testare la reazione del pubblico e di incoraggiare il concetto di normalizzazione”, ha aggiunto Jones.

L’appello di Sudais onde evitare emozioni accese è ben distante dal suo passato, quando decine di volte è scoppiato in lacrime nel pregare per la moschea Al-Aqsa di Gerusalemme, il terzo luogo più sacro dell’Islam.

Il sermone del 5 settembre ha suscitato una reazione mista, con alcuni sauditi che lo difendevano con la motivazione che egli stesse semplicemente comunicando gli insegnamenti dell’Islam. Altri su Twitter, per lo più sauditi all’estero e apparentemente critici nei confronti del governo, lo hanno definito “il sermone sulla normalizzazione”.

Ali al-Suliman, intervistato in uno dei centri commerciali di Riyadh, ha detto, in risposta all’accordo con il Bahrain, che da parte degli altri Stati del Golfo o facenti parte del più vasto Medio Oriente sarebbe stato difficile abituarsi alla normalizzazione con Israele, poiché “Israele è una nazione occupante e ha cacciato i palestinesi dalle loro case”.

Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MBS), il sovrano di fatto del regno, ha promesso di promuovere il dialogo inter-religioso come parte delle sue riforme interne. Il principe aveva affermato in precedenza che gli israeliani hanno il diritto di vivere pacificamente nella propria terra con la condizione di un accordo di pace che assicuri stabilità a tutte le parti.

La paura condivisa di Arabia Saudita e Israele nei confronti dell’Iran potrebbe essere un fattore chiave per lo sviluppo dei legami.

Ci sono stati altri segnali che l’Arabia Saudita, uno dei paesi più influenti del Medio Oriente, stia preparando la sua gente a stabilire rapporti di amicizia con Israele.

Una serie televisiva, “Umm Haroun” [La madre di Haroun, ndtr.], andata in onda alla televisione della MBC [la più grande compagnia privata di radio-telediffusione satellitare del Medio Oriente e del Nord Africa, controllata dai sauditi, ndtr.] ad Aprile durante il Ramadan, in un periodo in cui il numero di spettatori in genere aumenta, era incentrata sui processi subiti da un’ostetrica ebrea.

La serie immaginaria parla di una comunità multireligiosa in uno Stato non specificato del Golfo arabo dagli anni ’30 ai ’50. Lo spettacolo ha attirato le critiche del gruppo palestinese di Hamas, secondo cui [la serie] ritraeva gli ebrei sotto una luce di indulgenza.

All’epoca, la MBC ha sostenuto che lo spettacolo fosse lo sceneggiato ambientato nel Golfo più apprezzato in Arabia Saudita nel corso del Ramadan. Gli autori dello spettacolo, entrambi del Bahrain, hanno affermato che non conteneva nessun messaggio politico.

Ma esperti e diplomatici hanno detto che si trattava di un altro indizio dello spostamento del discorso pubblico su Israele.

All’inizio di quest’anno, Mohammed al-Aissa, ex ministro saudita e segretario generale della Muslim World League [organizzazione non governativa islamica che si propone di diffondere il panislamismo, ndtr], ha visitato Auschwitz. A giugno ha preso parte a una conferenza organizzata dall’American Jewish Committee [gruppo di difesa ebraica, ndtr.] dove ha auspicato un mondo senza “islamofobia e antisemitismo”.

“Certamente – ha affermato Neil Quilliam, ricercatore presso la Chatham House [Royal Institute of International Affairs, comunemente noto come Chatham House, centro di studi britannico, specializzato in analisi geopolitiche, ndtr.] – MBS è intenzionato a moderare i messaggi approvati dallo Stato condivisi dall’istituzione clericale, e ciò in parte probabilmente funzionerà per giustificare qualsiasi accordo futuro con Israele, che in precedenza sarebbe sembrato impensabile”.

Palestinesi isolati

La normalizzazione tra Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Israele, firmata martedì alla Casa Bianca, ha ulteriormente isolato i palestinesi.

L’Arabia Saudita, il luogo di nascita dell’Islam, non ha preso direttamente parte agli accordi di Israele con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain, ma ha affermato di rimanere impegnata per la pace sulla base delle iniziative di pace arabe di vecchia data.

L’Arabia Saudita, che non riconosce Israele, ha elaborato l’iniziativa del 2002 con la quale le nazioni arabe si sono offerte di normalizzare i legami con Israele in cambio di un accordo con i palestinesi per uno Stato [indipendente] e del completo ritiro israeliano dal territorio occupato nel 1967.

Trump ha detto che si sarebbe aspettato che l’Arabia Saudita aderisse agli accordi per normalizzare i rapporti diplomatici e creare nuove e ampie relazioni.

Ma il re dell’Arabia Saudita Salman bin Abdulaziz ha detto al presidente degli Stati Uniti che il paese del Golfo intende prima vedere una soluzione equa e permanente per i palestinesi.

Non è chiaro se e come il regno cercherà di scambiare la normalizzazione con un accordo sui termini dell’Iniziativa di pace araba.

In un altro accattivante gesto di buona volontà, il regno ha consentito ai voli Israele-Emirati Arabi Uniti di utilizzare il suo spazio aereo. Il genero e alto consigliere di Trump, Jared Kushner, che ha uno stretto rapporto con MBS, ha elogiato la mossa la scorsa settimana.

Un diplomatico del Golfo ha detto che per l’Arabia Saudita la questione è più legata a quella che ha definito la sua posizione religiosa come guida del mondo musulmano, e un accordo formale con Israele richiederebbe tempo ed è improbabile che avvenga mentre il re Salman resta al potere.

“Qualsiasi normalizzazione da parte saudita aprirà le porte a Iran, Qatar e Turchia per chiedere l’internazionalizzazione delle due sacre moschee”, ha detto, riferendosi alle periodiche richieste degli oppositori di Riyadh affinché la Mecca e Medina siano poste sotto la supervisione internazionale.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il Bahrein segue gli EAU e normalizza i rapporti con Israele

Al-Jazeera e agenzie

12 settembre 2020 – Al-Jazeera

La Palestina richiama l’inviato in Bahrein, denunciando l’ultimo accordo come “un’altra coltellata a tradimento contro la causa palestinese.”

Il Bahrein si è unito agli Emirati Arabi Uniti accettando di normalizzare i rapporti con Israele, con un accordo mediato dagli USA che i dirigenti palestinesi hanno denunciato come “un’altra coltellata a tradimento contro la causa palestinese”.

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato l’accordo venerdì su Twitter, dopo aver parlato per telefono con il re del Bahrain Hamad bin Isa Al Khalifa e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

È veramente un giorno storico,” ha detto Trump ai giornalisti nello Studio Ovale, affermando di credere che altri Paesi faranno altrettanto.

Era impensabile che ciò potesse avvenire e così in fretta.”

Con un comunicato congiunto gli Stati Uniti, il Bahrein e Israele hanno detto che “aprire un dialogo e rapporti diretti tra queste due società dinamiche e le loro economie avanzate continuerà la trasformazione positiva del Medio Oriente e aumenterà la stabilità, la sicurezza e la prosperità nella regione.”

Un mese fa gli EAU hanno accettato di normalizzare i rapporti con Israele in base ad un accordo mediato dagli USA che dovrebbe essere firmato martedì durante una cerimonia alla Casa Bianca ospitata da Trump, che sta cercando di essere rieletto il 3 novembre.

Alla cerimonia parteciperanno Netanyahu e il ministro degli Esteri degli Emirati, lo sceicco Abdullah bin Zayed Al Nahyan. Il comunicato congiunto afferma che il ministro degli Esteri del Bahrein Abdullatif al-Zayani si aggiungerà a questa cerimonia e firmerà una “storica dichiarazione di pace” con Netanyahu.

La storia della normalizzazione tra arabi e israeliani

Come l’accordo degli EAU, quello di venerdì tra il Bahrain e Israele normalizzerà le relazioni diplomatiche, commerciali, per la sicurezza ed altro tra i due Paesi. Il Bahrein, insieme all’Arabia Saudita, ha già annullato il divieto di passaggio sul suo spazio aereo ai voli israeliani.

Il comunicato congiunto di venerdì menziona solo marginalmente i palestinesi, che temono che le iniziative del Bahrein e degli EAU indeboliscano la tradizionale posizione di tutti i Paesi arabi di chiedere il ritiro di Israele dai territori già illegalmente occupati e l’accettazione di uno Stato palestinese in cambio della normalizzazione dei rapporti con i Paesi arabi.

Il comunicato afferma che il Bahrain, Israele e gli USA continueranno nel tentativo di “raggiungere una soluzione giusta, esauriente e duratura del conflitto israelo-palestinese per consentire al popolo palestinese di realizzare appieno il suo potenziale.”

Grave danno”

Netanyahu ha accolto positivamente l’accordo ed ha ringraziato Trump.

Ci sono voluti 26 anni tra il secondo accordo di pace con un Paese arabo e il terzo, ma solo 29 giorni tra il terzo e il quarto, e ce ne saranno altri,” ha detto in riferimento al trattato di pace del 1994 con la Giordania e all’accordo più recente.

Secondo l’agenzia di stampa statale [del Bahrein] BNA, per parte sua il Bahrein ha affermato di appoggiare una pace “giusta ed esauriente” in Medio Oriente. Questa pace dovrebbe essere basata su una soluzione a due Stati per risolvere il conflitto israelo-palestinese, dice l’articolo citando re Hamad.

Il genero di Trump e importante consigliere alla Casa Bianca Jared Kushner ha salutato gli accordi come “il culmine di quattro anni di grande lavoro” da parte dell’amministrazione Trump.

Parlando al telefono con i giornalisti dalla Casa Bianca subito dopo l’annuncio di venerdì, Kushner ha detto che gli accordi degli EAU e del Bahrein “contribuiranno a ridurre le tensioni nel mondo musulmano e consentiranno al popolo di separare la questione palestinese dai propri interessi nazionali e dalla politica estera, che dovrebbe essere concentrata sulle priorità interne.”

Tuttavia la dirigenza palestinese ha condannato l’accordo come un tradimento della causa palestinese e ha richiamato per consultazioni l’ambasciatore palestinese in Bahrein.

In un comunicato l’Autorità Nazionale Palestinese ha dichiarato di “respingere la decisione presa dal regno del Bahrein e gli chiede di ritrattarlo immediatamente per il grave danno che causa agli inalienabili diritti nazionali del popolo palestinese e all’azione congiunta degli arabi.”

L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), con sede a Ramallah, in Cisgiordania, ha definito la normalizzazione “un’altra coltellata a tradimento alla causa palestinese.” E a Gaza il portavoce di Hamas Hazem Qassem ha affermato che la decisione del Bahrein di normalizzare i rapporti con Israele “rappresenta un grave danno per la causa palestinese e appoggia l’occupazione.”

Una decisione puramente saudita”

Khalil Jahshan, direttore esecutivo dell’Arab Center [Centro Arabo] di Washington, ha detto che il consenso saudita è stato fondamentale per la decisione del Bahrain.

È una decisione puramente saudita. Non potendo rispondere positivamente a Trump a causa di contrasti interni, la dirigenza dell’Arabia Saudita gli ha dato il Bahrein su un piatto d’argento.”

Il Bahrein, un piccolo Stato insulare, è sede del quartier generale regionale della flotta USA. Nel 2011 l’Arabia Saudita ha inviato truppe in Bahrein per contribuire a reprimere una rivolta, e nel 2018, insieme al Kuwait e agli EAU, ha offerto al Bahrein un salvataggio finanziario di 10 miliardi di dollari.

Nida Ibrahim, inviata di Al Jazeera a Ramallah, nella Cisgiordania occupata, concorda, affermando che fonti ufficiali palestinesi credono che gli accordi di Bahrein e EAU non ci sarebbero stati “senza un sostegno regionale.”

Il timore tra i palestinesi è che questi accordi rappresentino la luce verde perché altri Stati arabi normalizzino i rapporti con Israele,” dice. “E molti palestinesi che dicono di aver per anni visto gli USA come avvocati o partner di Israele, ora li vedono come i rappresentanti di Israele. Perché è Trump che annuncia gli accordi di normalizzazione.”

Da quando ha assunto il potere, l’amministrazione Trump ha perseguito politiche risolutamente filo-israeliane, compreso lo spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, ordinando la chiusura dell’ufficio di rappresentanza dell’OLP a Washington e riconoscendo l’occupazione israeliana delle Alture del Golan siriane. Il presidente USA e i suoi consiglieri hanno promosso la proposta del cosiddetto “accordo del secolo” per risolvere il conflitto israelo-palestinese ed hanno corteggiato gli Stati arabi del Golfo per cercare di ottenere appoggio all’iniziativa.

Per esempio nel giugno 2019 il Bahrein ha ospitato la conferenza organizzata dagli USA per rivelare gli aspetti economici della proposta, e all’epoca dirigenti emiratini e sauditi hanno espresso il loro appoggio a qualunque accordo economico che beneficiasse i palestinesi. Tuttavia i dirigenti palestinesi hanno boicottato quel summit, affermando che l’amministrazione Trump non era un mediatore imparziale per qualunque futuro negoziato con Israele.

Riferendo da Washington, Kimberly Halkett di Al Jazeera afferma che, mentre gli accordi tra Israele, il Bahrein e gli EAU non sono tra le principali priorità per molti elettori USA, gran parte dei sostenitori di Trump sono cristiani evangelici, favorevoli alle sue posizioni a favore di Israele.

Halkett dice che Trump sta cercando di dimostrare loro prima delle elezioni del 3 novembre che può ottenere l’“accordo del secolo” durante il suo secondo mandato.

Sta agendo come se questo fosse il quadro che porterà al cosiddetto “accordo del secolo”, afferma Halkett, nonostante il fatto che “finora il presidente e i rappresentanti della sua amministrazione non abbiano neppure parlato con i palestinesi.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Netanyahu mette gli ebrei gli uni contro gli altri

Akiva Eldar

2 settembre 2020 – Al Jazeera

Mentre procede alla normalizzazione nelle relazioni estere, il primo ministro israeliano sta seminando tensioni etniche in casa

In questi giorni in Israele tutti parlano di “normalizzazione”. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e i suoi sostenitori stanno festeggiando la normalizzazione dei rapporti di Israele con gli Emirati Arabi Uniti (EAU).

Gli opinionisti politici stanno scommettendo su quale sarà il prossimo Stato musulmano che normalizzerà le sue relazioni con lo Stato ebraico: il Bahrain o il Sudan, o presto sarà la bandiera saudita a sventolare nel cuore di Tel Aviv?

Netanyahu, con il generoso aiuto del suo compare presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ha effettivamente colmato con successo la frattura formale tra Israele e i governanti di diversi Stati del Golfo.

Tuttavia, anche se pontifica sulla storica riconciliazione tra Israele e il mondo arabo (mentre inasprisce l’occupazione israeliana sul territorio palestinese), sta lasciando traccia negli annali del popolo ebraico come arci-divisore, che mette gli ebrei gli uni contro gli altri. Il suo talento nel creare spaccature sta rivaleggiando con quello di Trump.

Nel tentativo di liberarsi dell’accusa di corruzione e della possibile incarcerazione, Netanyahu si è ripetutamente presentato come vittima della persecuzione della sinistra liberale, che molti chiamano “l’élite ashkenazita” riferendosi agli ebrei che provengono dall’Europa, tradizionalmente considerati privilegiati rispetto ai loro fratelli provenienti dagli Stati arabi, noti come ebrei mizrahi.

Netanyahu e i suoi seguaci considerano le decine di migliaia di manifestanti che ogni settimana protestano in massa davanti alla porta della sua residenza ufficiale a Gerusalemme come una banda di “mestatori” intenti a spodestare lui e la destra politica. Sono gli stessi appartenenti alle “tribù bianche” che nel 1997, in un rumoroso sussurro all’orecchio dell’anziano rabbino capo sefardita, ha accusato di “dimenticare cosa significa essere ebrei” data la loro propensione per i valori occidentali, liberali e la politica di sinistra.

Usando come portavoce il suo impudente figlio Yair, Netanyahu ha fatto presto a cavalcare l’onda della discussione pubblica del momento e a farla crescere contro le “élite ashkenazite” – nonostante suo padre sia nato a Varsavia e sia stato docente universitario negli Stati Uniti.

Il suo ultimo ricorso a tattiche ciniche riguarda una disputa tra la parte orientale della città di Beit She’an e il vicino kibbutz chiuso di Nir David in merito all’accesso a un tratto del fiume Hasi che attraversa la comunità.

Piuttosto che proporre una soluzione a una ferita socioeconomica vecchia di decenni e ormai purulenta, che ha contrapposto gli ebrei mizrahi che vivono in alloggi angusti ai kibbutzim possessori di terre prevalentemente ashkenaziti, Netanyahu, che possiede una villa sul mare a Cesarea, ha invece alimentato le fiamme. Suo figlio Yair ha twittato contro i fondatori dei kibbutz e la loro condizione privilegiata, definendoli “dannati comunisti che hanno rubato metà delle terre statali a spese delle città di sviluppo “, riferendosi alle città costruite per gli immigrati mizrahi negli anni ’50.

Il movimento dei kibbutz, a lungo considerato baluardo della politica di sinistra in Israele, ha reagito, sottolineando il proprio ruolo pionieristico. “Mentre in Galilea i bambini dei kibbutz stanno in rifugi, il perdigiorno di Balfour pensa sia meglio calunniarci” ha postato su Facebook, riferendosi al giovane disoccupato Netanyahu che vive nella residenza ufficiale del primo ministro in via Balfour a Gerusalemme. “Non andiamo da nessuna parte. Se c’è qualcuno che dovrebbe andare via sei tu, da Balfour.”

Nella sua corsa al potere, Netanyahu non è affatto il primo politico di destra a sfruttare quello che gli israeliani chiamano “il demone etnico”. Il defunto Menachem Begin, primo leader del Likud [lo stesso partito di destra di Netanyahu, ndtr.] a diventare primo ministro, mise gli abitanti delle “città di sviluppo” e dei quartieri urbani poveri, la maggior parte immigrati dal Medio Oriente e dal Nord Africa, contro gli abitanti dei kibbutz (“proprietari di piscine”, come li chiamava), in maggioranza di origine europea.

Tuttavia, se Begin aveva il diritto di accusare il partito laburista dominato dagli ashkenaziti e la sinistra politica – che governarono lo Stato dal 1948 fino alla sua vittoria nel 1977 – di discriminare gli immigrati mizrahi, Netanyahu è a capo di un partito che ha governato Israele quasi senza interruzioni per quattro decenni. Tuttavia, nonostante denunci costantemente il privilegio ashkenazita, il primo ministro israeliano non ha fatto quasi nulla per migliorare le condizioni dei mizrahi.

E’ stato sotto lo sguardo suo e del suo partito, il Likud, che il tasso di laureati tra gli ebrei ashkenaziti di terza generazione è arrivato a essere 1,5 volte superiore a quello dei loro coetanei mizrahi.

Questo divario era già comparso fra le generazioni precedenti perché i mizrahi si indirizzavano a scuole professionali, sulla base della loro origine, indipendentemente dalle capacità, piuttosto che a scuole superiori con maggiori possibilità di raggiungere l’università e migliorare il proprio status sociale.

Tra gli ashkenaziti era il contrario.

Nel corso degli anni, ciò ha determinato un più alto tasso di povertà e scarsa mobilità socioeconomica all’interno della comunità mizrahi.

Begin mobilitava i mizrahi alla lotta politica, e Netanyahu sta facendo lo stesso per minare i guardiani della democrazia israeliana: il ministero della Giustizia, la procura generale, il capo della polizia, i media, le organizzazioni per i diritti umani e i manifestanti contro la corruzione al vertice.

Diversi giornalisti di spicco e docenti universitari hanno preso posizioni alla destra di Netanyahu, del suo governo e dei suoi adulatori in parlamento.

Il più eminente ed esplicito è un analista della televisione Canale 13, il dottor Avishay Ben Haim, diventato il portabandiera di quello che chiama “il secondo Israele”, sinonimo di ebrei mizrahi.

A maggio, quando stava per iniziare il processo per corruzione a Netanyahu, Ben Haim ha dichiarato: “Sono sotto processo,” intendendo che il processo di Netanyahu fosse un complotto del “primo Israele” per vanificare la scelta del primo ministro fatta dagli elettori del “secondo Israele” e per umiliare la “personalità ebrea più ammirata del XXI secolo”.

A luglio, mentre stava facendo un reportage sulle manifestazioni davanti alla residenza di Netanyahu a Gerusalemme, i manifestanti lo hanno identificato e lo hanno coperto di insulti. Uno o due di loro lo hanno chiamato “feccia marocchina” [“marocchino” è il termine dispregiativo per indicare tutti i mizrahi, ndtr.]. Diversi leader di spicco della manifestazione hanno sostenuto che le persone che hanno attaccato e insultato Ben Haim fossero provocatori di destra.

Ciò non ha impedito ad Aryeh Deri – ministro degli Interni e leader del partito conservatore Shas [partito religioso sefardita, ndtr.], che esclude le donne e gli ashkenaziti dalle sue fila – di intervenire rapidamente.

“Non importa che Avishai Ben Haim abbia un dottorato di ricerca, sia stato tenente colonnello in un’unità militare di combattimento, sia un giornalista rispettato: per la gente della società israeliana rimane ‘feccia marocchina’ solo a causa delle sue origini”, ha twittato Deri. “Non chineremo più la testa a simili affermazioni […] Siamo orgogliosi di essere marocchini!” ha dichiarato l’anziano ministro, salito alla ribalta grazie al “demone etnico”, che negli anni ’90 ha radunato manifestanti contro la sua condanna per corruzione, affermando fosse basata su motivi etnici.

Nonostante i tentativi di Netanyahu e dei suoi alleati di presentare le proteste come esclusivamente ashkenazite, la folla che si raduna da mesi davanti alla sua residenza è piuttosto varia. Tra i manifestanti devoti ci sono persone di origini diverse, da giovani donne tatuate a uomini che portano la kippa [copricapo degli ebrei religiosi, ndtr.].

L’opposizione a Netanyahu supera le divisioni etno-religiose. Un recente sondaggio indica che solo il 30 % degli ebrei di confessione tradizionale (che tendono ad essere mizrahi/sefarditi), e solo il 20 % dei laici (che tendono ad essere ashkenaziti) pensa che gli obbiettivi di Netanyahu siano il bene dello Stato o un’ideale. La maggioranza fra i religiosi (52%) e la maggioranza assoluta tra i laici (68%) pensano che Netanyahu sia mosso principalmente dal proprio futuro in tribunale. I suoi elettori più devoti sono membri delle comunità ultraortodosse sia ashkenazite che sefardite.

I tuoi distruttori e i tuoi devastatori si allontaneranno da te” (Isaia 49:17), così il profeta Isaia avvertiva il popolo d’Israele. Da te, non da Dubai e non da Riad. La normalizzazione deve iniziare a casa.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione della redazione di Al Jazeera.

Akiva Eldar è un analista israeliano

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)