Il capo dell’UNRWA ha affermato che il 70% delle vittime di Gaza sono minori e donne

Redazione di MEMO

1 novembre 2023 – Middle East Monitor

Il commissario generale dell’agenzia United Nations Relief and Works Organisation for Palestine Refugees [Soccorso e Lavoro per i Rifugiati Palestinesi] (UNRWA) delle Nazioni Unite Philippe Lazzarini ha affermato che il 70% dei martiri palestinesi che sono stati uccisi dai bombardamenti israeliani in corso sulla Striscia di Gaza dal 7 ottobre sono minori e donne, ammonendo che non c’è alcun posto sicuro a Gaza.

Egli ha sottolineato che stati colpiti chiese, moschee, ospedali, strutture civili che ospitano persone sfollate sono, descrivendo gli attacchi israeliani come una punizione collettiva contro i palestinesi che vivono sotto assedio.

Per parte sua, la direttrice esecutiva dell’United Nations Children’s Fund [Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia] (UNICEF) Catherine Russell ha indicato che l’aggressione israeliana ha provocato l’uccisione di più di 3.400 e il ferimento di almeno 6.300 minori.

Ha aggiunto che questo bilancio dimostra che sono stati uccisi o feriti 420 minori al giorno, evidenziando che “questi numeri dovrebbero sconvolgerci nel profondo.”

[Russell] ha affermato che le incursioni israeliane hanno provocato la completa o parziale distruzione di almeno 221 scuole e di più di 177.000 case.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




A scuola a stomaco vuoto

Ruwaida Amer

18 settembre 2023 – Electronic Intifada

Khitam Salim non riesce a preparare il pranzo che i suoi figli dovrebbero portare a scuola.

Da quando il marito è morto di leucemia quattro anni fa è una mamma single con tre bambini che frequentano la scuola elementare a Rafah, la città più meridionale di Gaza. La scuola, gestita dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati Palestinesi (UNRWA), non riesce a fornire i pasti ai suoi studenti, che quindi devono portarsi dei panini da casa o comprare da mangiare alla mensa.

Per il pranzo dovrebbero spendere quasi un euro al giorno, una somma che la loro mamma non può permettersi.

Nessuno mi aiuta,” dice Salim, che è disoccupata e dipende dall’assistenza sociale. “Le condizioni in cui ci troviamo sono molto difficili. I bambini vedono i loro compagni comprare da mangiare durante l’intervallo e non farlo ha un effetto psicologicamente negativo su di loro.”

Faris Qishta ha cinque figli, tutti frequentano le scuole dell’UNRWA.

Avrebbe bisogno di soldi per comprare le uniformi e il cibo e dice che non riesce a farlo.

Se non fosse per i pacchi di aiuti alimentari che riceve, dice che “la mia famiglia sarebbe morta di fame”. Tuttavia gli aiuti non comprendono i pasti scolastici.

Qishta, che faceva il taxista, ora è disoccupato.

Sono sempre alla ricerca di lavoro anche per pochi shekel per soddisfare le necessità di base dei miei bambini,” aggiunge. “Ma non riesco a trovare niente. I miei figli sono pieni di sogni e quando me li raccontano mi intristisco. Non so se il loro sarà un futuro migliore o se continuerà come ora.”

A Gaza l’UNRWA gestisce una rete di 288 scuole, con circa 300.000 studenti.

Niente colazione

Migliaia di questi bambini vanno a scuola senza colazione e senza soldi per comprarsi da mangiare durante la giornata. Dato che non hanno una dieta appropriata, molti non riescono a concentrarsi adeguatamente durante le lezioni.

L’UNRWA gestiva un programma di pasti gratis nelle sue scuole, ma per limiti di bilancio, il programma generale per le scuole è stato interrotto nel 2014 e ora li offre solo in casi particolari.

Da allora è stata costretta a fare dei tagli di spesa a causa di una grave crisi dei finanziamenti.

Sebbene sia cominciata prima, la crisi si è acutizzata con la presidenza USA di Donald Trump che, per ingraziarsi una lobby filoisraeliana estremista, introdusse tagli drastici agli aiuti all’UNRWA.

Gli USA hanno adottato una posizione più favorevole nei confronti dell’agenzia da quando è arrivato alla Casa Bianca Joe Biden, il suo successore.

Ciononostante i contributi USA sono diminuiti se li si considera su un periodo più lungo: nel 2022 ammontavano a $344 milioni, meno dei $365 che dava annualmente prima dei tagli di Trump nel 2018.

Difficoltà di finanziamento

In tale contesto le difficoltà finanziarie dell’UNRWA restano gravissime.

L’agenzia offre servizi sanitari ed educativi a un totale di circa 6 milioni di rifugiati palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gaza, in Giordania, Siria e Libano.

Facendo affidamento su donatori internazionali l’UNRWA quest’anno avrebbe avuto bisogno di un finanziamento di $1,75 miliardi, di cui ad agosto era stato raccolto solo il 44%.

Philippe Lazzarini, commissario generale dell’UNRWA, all’inizio di questo mese ha dichiarato che l’agenzia ha bisogno di $170-190 milioni “per fornire i servizi essenziali fino alla fine dell’anno.” Altri $75 milioni sono necessari “per continuare a fornire gli aiuti alimentari salvavita a oltre metà della popolazione di Gaza.”

Secondo gli ultimi dati disponibili, Gaza, sottoposta dal 2007 a un blocco israeliano totale ha un tasso di disoccupazione del 46%.

Said Khalid, 10 anni, frequenta la quinta elementare in una scuola dell’UNRWA nel campo profughi Beach a Gaza City.

La sua famiglia non è riuscita a comprargli l’uniforme nuova e il materiale necessario per la scuola alla riapertura dopo le vacanze estive, e inoltre non ha i soldi perché si compri da mangiare alla mensa.

So che mio papà non è avaro,” dice Said. “Se avesse i soldi me ne darebbe un po’ così potrei comprare le cose come fanno i miei compagni di classe, ma lui non ha un lavoro.”

Iyad Zaqout dirige un dipartimento di salute mentale dell’UNRWA.

Ha notato una crescente riluttanza dei bambini a parlare dell’impatto della povertà con i loro counselor. “Alcuni provano un senso di vergogna a rivelare le durissime condizioni in cui vivono le loro famiglie,” dice.

Sarah Jaber, 9 anni, fa la quarta elementare nel campo profughi di Jabalia. Il padre è un falegname, ma è disoccupato da anni.

Chiedo sempre alla maestra se posso stare in classe durante gli intervalli,” dice. “Non voglio vedere gli altri mentre comprano alla mensa, mi fa sentire triste.”

Ruwaida Amer è una giornalista che si trova a Gaza.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Gaza: il carcere israeliano con un milione di minori è in emergenza riguardante la salute mentale

Omar Aziz

19 agosto 2022 – Palestine Chronicle

“Far del male durante un conflitto a qualsiasi bambino è fortemente inquietante”, ha affermato giovedì scorso Michelle Bachelet, l’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, esprimendo allarme per il numero di minori palestinesi uccisi questo mese da Israele.

“L’uccisione e la mutilazione di così tanti minori durante questo anno è inaccettabile“, ha continuato.

Quindi cosa dire del fatto che Israele effettua ogni anno attacchi aerei con una tecnologia militare industrializzata all’avanguardia su un’enclave assediata composta per lo più da minori?

Il diritto umanitario internazionale è chiaro. È proibito lanciare un attacco che potrebbe uccidere o ferire accidentalmente civili, o danneggiare strutture civili, in modo sproporzionato rispetto ai concreti ed espliciti obiettivi militari. Tali attacchi devono cessare,” ha detto Bachelet.

Secondo l’Ufficio centrale di statistica palestinese il 47% dei 2,2 milioni di abitanti di Gaza sono minorenni, altri collocano la percentuale oltre il 50%.

E la popolazione di Gaza è notoriamente ammassata soprattutto all’interno degli otto campi profughi ufficialmente riconosciuti dall’UNRWA, che sono considerati alcuni dei luoghi più densamente popolati al mondo. Eppure ognuno è ancora considerato un obiettivo legittimo da parte degli aerei da guerra israeliani.

Con questa consapevolezza ciò che diventa inequivocabilmente evidente è che ogni bomba che Israele sgancia sull’enclave assediata, crimine di guerra dopo crimine di guerra, viene sganciata con la consapevolezza che i minori sono le probabili vittime.

Che si tratti di minorenni massacrati come “danni collaterali” dei cosiddetti “attacchi di precisione mirati” o colpiti semplicemente per essere palestinesi, proprio come i cinque palestinesi uccisi il 7 agosto da un attacco missilistico mentre si trovavano sulla tomba del nonno nel cimitero di Al-Falluja, a est di Jabalya. Un crimine che l’esercito israeliano ha inizialmente negato di aver commesso, una bugia che le pubblicazioni dei principali organi di informazione occidentali hanno volutamente ripetuto a pappagallo senza esitazione nonostante la comprovata reputazione di Israele di diffondere bugie e disinformazione.

 Minori che non hanno altra scelta che subire ogni ferita inferta dallo sconvolgente potere distruttivo di Israele mentre si trovano imprigionati in questa minuscola striscia di terra.

Le cifre non sono più scioccanti, ma da incubo, distopiche. Una situazione difficilmente credibile per coloro che non hanno assistito in prima persona alla realtà o prestato attenzione alle testimonianze palestinesi.

L’accademico palestinese-americano Yousef Munayyer afferma che è ora di smettere di chiamare Gaza una “prigione a cielo aperto”, ma quello che è veramente: una camera di tortura.

Immaginate un po’: un ambiente progettato con cura per incubare e infliggere traumi psicologici, sofferenza fisica e privazione economica ha prodotto proprio questo. Che sorpresa.

Secondo Save the Children, oggi l’80% dei minorenni di Gaza dichiara di vivere con depressione, dolore e paura.

Nel corso dell’attacco a Gaza del 2014 Israele ha ucciso 547 minorenni palestinesi in sette settimane. Nel maggio 2021 ne ha ucciso 67. E questo mese a Gaza sono stati uccisi almeno 17 minori.

Ma queste non sono le uniche vittime di quell’età a Gaza.

In questo momento a Gaza c’è un milione di minori brutalizzati e traumatizzati da almeno 29 aggressioni militari dal 2003, ognuno con una voce da ascoltare, con una storia da raccontare e una vita che merita molto di più.

Gli ultimi tre giorni dell’attacco sono stati davvero tragici per me. Ho avuto molti flashback delle aggressioni vissute in precedenza.

Mi hanno fatto pensare molto a dove in realtà vivo, alla prigione in cui mi trovo, sapendo che potrei morire letteralmente da un momento all’altro mentre parlo con qualcuno, mentre sono seduto, mentre guardo la TV, mentre penso a qualcosa, perché questo è quello che è successo agli altri ragazzi”.

Ma mentre i minori palestinesi cercavano di riadattarsi alla “normalità” dell’assedio e dell’impoverimento in corso dopo gli attacchi, gli esperti militari israeliani si congratulavano via etere con il primo ministro israeliano Yair Lapid per la sua operazione “pulita”.

Lunedì 9 agosto, parlando alla stazione radio FM del quotidiano Maariv [giornale popolare israeliano, ndt.], il generale Amos Yadlin, ex capo della direzione dell’intelligence militare israeliana ed esperto ricercatore di Harvard, si rallegrava:

È stato un attacco ben riuscito. È stato davvero pulito, abbiamo colpito duramente l’ala militare di Hamas (in seguito si è corretto dicendo che intendeva la Jihad islamica), abbiamo colpito marginalmente degli innocenti e non militanti, neanche un israeliano è stato colpito, ritengo che sia un risultato eccezionale” (in ebraico).

Nel frattempo il giornalista di Haaretz [quotidiano israeliano progressista, ndt.] Amos Harel e Neri Zilber dell’Israel Policy Forum [organizzazione ebraica americana che lavora per una soluzione negoziata a due Stati al conflitto israelo-palestinese, ndt.] in un podcast di un’ora di valutazione degli attacchi del 10 agosto non hanno menzionato le morti di civili palestinesi, elogiando invece i “millimetrici” attacchi di Israele.

Era già noto in quel momento che almeno 15 minori palestinesi erano stati uccisi, mettendo in luce ciò che i palestinesi affermano da decenni: la cancellazione della Palestina e la disumanizzazione dei minori palestinesi sono le fondamenta grottesche su cui fioriscono l’apartheid e la colonizzazione israeliane.

Offrendo il punto di vista di una madre sull’educazione dei figli a Gaza, la scrittrice palestinese e madre di tre figli Rana Shubair racconta a Palestine Deep Dive [Approfondimenti sulla Palestina, rivista on-line palestinese, ndt.]:

Ho cercato di proteggere (i miei figli) dal vedere le immagini in TV, ma l’ambiente in cui vivono i nostri figli non è censurato, il che significa che ovunque andranno vedranno le immagini dei martiri.

Nell’ultima aggressione (del maggio 2021) una delle amiche di mia figlia che si trovava nella sua scuola è stata uccisa. Non credo che le mie figlie l’abbiano mai davvero dimenticata perché una di loro mi dice che la vede sempre nei suoi sogni, ed è molto difficile per loro afferrare semplicemente il concetto o la nozione di morte e tutto il resto. Tutti i bambini qui a Gaza sono molto eroici, va detto, perché sono più maturi della loro età e sono stati costretti ad assorbire cose di cui i bambini di altre parti del mondo non sanno nulla. Chiedete a qualsiasi bambino qui, vi dirà che tipo di aereo ci sta sorvolando, che si tratti di un drone o di un F-16. Conoscono tutta questa terminologia di guerra, ma come genitori, cerchiamo di trovare, credo, i modi giusti per affrontare il trauma dei nostri figli.

Dopo ogni aggressione e dopo ogni mese del continuo rigido assedio di Israele e della conseguente deprivazione economica, la salute mentale dei minori di Gaza continua inevitabilmente a deteriorarsi.

Ad esempio, nel 2018 il 60% di essi riferiva di sentirsi meno al sicuro lontano dai propri genitori ma, secondo Save the Children, poco prima dei recenti attacchi questa cifra ha raggiunto il 90%.

Nel 2018 il 50% dei minorenni riferiva di avere paura e il 55% di provare sentimenti di dolore e pochi mesi prima di questo attacco il 78% affermava di sentirsi spaventato e l’84% di provare sentimenti di dolore.

Si può solo immaginare come si sentono oggi.

Nel corso di una trasmissione di Palestine Deep Dive, il Dr. Yasser Abu Jamei, Direttore del Programma di salute mentale della comunità di Gaza, ha sottolineato la natura persistente degli eventi traumatici che pone un limite all’applicabilità [a Gaza, ndt.] del [termine ndt.] disturbo nel modo in cui viene inteso dalla psichiatria occidentale, come “Disturbo da stress post-traumatico”, rendendo così difficile la vera e propria guarigione.

In primo luogo, la condizione pre-traumatica non consiste in una vita facile, tranquilla, ecc. No, si tratta di un assedio, di un’occupazione, con più di due terzi della popolazione di Gaza nella situazione di rifugiati. E parliamo di decenni. (L’inizio) di ciò non risale solo al 1967, arriva anche al 1948. Ma oltre a questo, vivi sotto assedio, e non solo, ma all’interno di questo assedio sei soggetto ad operazioni su larga scala … e come se ciò non bastasse avverti continuamente dei segnali, cose che ti ricordano gli eventi traumatici che accadono intorno a te. Ascolti il ​​telegiornale e vedi come sia critica la situazione. Guardi il cielo e senti di continuo i rumori intensi dei droni e tutto ciò ti fa tornare alla mente i brutti ricordi.

Poi, nel periodo successivo… non c’è un vero ritorno alla vita normale. C’è di nuovo la vita come al solito sotto l’occupazione, sotto i droni, sotto il blocco ecc. Direi che la tradizionale nozione occidentale di disturbo da stress post-traumatico non è applicabile ad un posto come Gaza, ma direi che la situazione a Gaza è più grave di così. Non possiamo davvero descriverlo semplicemente come un disturbo da stress post-traumatico nel significato comune del termine. No, è molto di più“.

Nel 1991 Israele ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, che afferma che tutti i minorenni hanno i diritti fondamentali alla vita, alla sopravvivenza, allo sviluppo, alla protezione dalla violenza e a un’istruzione che consenta loro di realizzare il proprio potenziale.

Eppure, sotto il suo [regime di] apartheid Israele viola impunemente questa convenzione in tutta la Palestina. Nello stesso Israele le scuole palestinesi o arabe ricevono spesso un finanziamento per ogni alunno quasi sei volte inferiore rispetto alle scuole per studenti ebrei poiché non possono essere ammesse al finanziamento da parte dell’istituzione sionista. Successivamente subiscono discriminazioni nel mercato del lavoro e sono anche soggetti alle 65 leggi razziste di Israele.

In Cisgiordania i minorenni palestinesi sono soggetti a leggi e pratiche discriminatorie. Viene loro regolarmente negato il diritto all’istruzione nel momento in cui vengono costretti ad aspettare ai posti di blocco e le loro lezioni possono essere interrotte in qualsiasi momento dall’esercito israeliano.

Secondo [l’Associazione] Defense for Children International, in Palestina ogni anno circa 500-700 minorenni palestinesi, alcuni dei quali di appena 12 anni, sono detenuti e perseguiti nei tribunali militari israeliani illegali. L’accusa più comune contro di loro è il lancio di pietre.

Il disprezzo di Israele per i diritti più fondamentali dei bambini palestinesi, incluso il diritto stesso alla vita, rivela il proposito di Israele di raggiungere una pace futura per ciò che è veramente, una palese bugia.

Ma non solo,: il travolgente silenzio della comunità internazionale mostra che la disumanizzazione dei bambini palestinesi si estende ben oltre l’apartheid di Stato di Israele.

All’indomani dell’ultimo attacco il presidente Biden ha elogiato Israele per aver “difeso il suo popolo” e i suoi sistemi militari per “aver salvato innumerevoli vite”.

Nel frattempo, questa settimana, i politici conservatori britannici in competizione per diventare il prossimo Primo Ministro, Rishi Sunak e Liz Truss, sembrano entrambi favorevoli al trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme.

Da parte dell’Occidente continua ad essere all’ordine del giorno l’istigazione in luogo delle sanzioni, senza che nulla venga proposto per scoraggiare, ogniqualvolta si verifichino, ulteriori brutali bombardamenti da parte di Israele. Le armi continuano ad affluire e la protezione diplomatica continua a fare scudo contro la giustizia.

Eppure i minori palestinesi, che saranno gli artefici di un futuro veramente stabile, dimostrano continuamente di desiderare ardentemente una vita migliore, libertà, e di niente di meno che una totale liberazione.

Con tassi di alfabetizzazione tra i più elevati a livello mondiale, formazione di compagnie di danza, società di parkour e produzione di artisti di talento come l’astro nascente rapper tredicenne MC Abdel, i minori palestinesi a Gaza stanno offrendo insegnamenti di vita al resto del mondo mentre camminano tra le macerie:

Mi piace sempre sottolineare quel lato positivo di noi che viviamo in una prigione a cielo aperto. Stiamo facendo del nostro meglio qui. Come ho detto, non abbiamo molte opportunità, ma dall’altra parte stiamo cercando di tirar fuori quelle opportunità da tutte le macerie tra cui viviamo da più di 15 anni”, dice Hind a Palestine Deep Dive.

Anche il dottor Yasser Abu Jamei illustra in maniera limpida su Palestine Deep Dive questa verità, raccontando come ha visto i bambini di Gaza indossare con orgoglio gli abiti dell’Eid [Eid Al Fitr, letteralmente “festa della rottura del digiuno”, che segna la fine del Ramadan, ndt.] che non erano stati in grado di indossare nel maggio 2021 a causa degli attacchi di Israele:

Era un abbinamento paradossale. Guidi la tua macchina o cammini per strada, vedi da un lato le macerie, le rovine e le case distrutte, e dall’altro bambini molto ben vestiti che, in mezzo alle macerie, cercano di andare a scuola e ottenere la licenza media ”.

Naturalmente, l’emergenza riguardo alla salute mentale a Gaza e le continue ingiustizie del brutale apartheid e della colonizzazione di Israele non si limitano ai minorenni, ma colpiscono i palestinesi di tutte le età.

Tuttavia ultimamente ciò che è diventato del tutto chiaro è che ogni bomba sganciata da Israele e ogni giorno che l’assedio di Gaza da parte di Israele continua, costituisceono un’ingiustizia intollerabile contro coloro che sono universalmente considerati i più innocenti: i minorenni.

Sotto l’assedio di Israele Gaza continua ad essere una prigione di un milione di minorenni e attendiamo da troppo tempo che i governi di tutto l’Occidente riconoscano finalmente questa verità per porre fine all’impunità di Israele, e che le istituzioni internazionali, comprese le Nazioni Unite, agiscano senza esitazione contro questa situazione.

Omar Aziz è Direttore Associato di Palestine Deep Dive. Ha scritto questo articolo per The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Diritto al ritorno: la Nakba torna nell’agenda palestinese

Ramzy Baroud

23 maggio 2022 – Middle East Monitor

La Nakba è tornata all’ordine del giorno nei programmi palestinesi.

Per circa trent’anni ai palestinesi è stato detto che la Nakba – o Catastrofe – apparteneva al passato. La vera pace richiede compromessi e sacrifici: perciò il peccato originale che ha portato alla distruzione della loro patria storica doveva essere integralmente rimosso da qualunque discorso politico ‘pragmatico’. Erano esortati ad andare avanti.

Le conseguenze di questo cambiamento nella narrazione sono state molto gravi. Disconoscere la Nakba, l’evento più importante che ha plasmato la moderna storia della Palestina, ha comportato più della divisione politica tra i cosiddetti radicali e i presunti pragmatici amanti della pace, come Mahmoud Abbas e la sua Autorità Nazionale Palestinese. Ha anche portato alla divisione delle comunità palestinesi in Palestina e in tutto il mondo relativamente alle impostazioni politiche, ideologiche e di classe.

Dopo la firma degli Accordi di Oslo nel 1993 divenne chiaro che la lotta dei palestinesi per la libertà si stava totalmente ridefinendo e ridelineando. Non si trattava più di una lotta palestinese contro il sionismo e il colonialismo di insediamento israeliano risalente all’inizio del XX secolo, ma di un ‘conflitto’ tra due parti uguali, con uguali legittime rivendicazioni territoriali, che può essere risolta solo attraverso ‘dolorose concessioni’.

La prima di tali concessioni fu l’esclusione della questione centrale del Diritto al Ritorno per i rifugiati palestinesi espulsi dai loro villaggi e città nel 1947-48. Quella Nakba palestinese spianò la strada all’ ‘indipendenza’ di Israele, che venne dichiarata sulle macerie e il fumo di circa 500 villaggi e città palestinesi distrutti e bruciati.

All’inizio del ‘processo di pace’ ad Israele fu chiesto di onorare il diritto al ritorno dei palestinesi, anche se simbolicamente. Israele rifiutò. I palestinesi furono quindi spinti a rimandare quella questione fondamentale a ‘negoziati sullo status finale’, che non si tennero mai. Ciò significò che milioni di rifugiati palestinesi – molti dei quali vivono tuttora in campi profughi di Libano, Siria e Giordania, come anche nei territori palestinesi occupati – furono totalmente esclusi dal dibattito politico.

Non fosse stato per le costanti attività sociali e culturali degli stessi rifugiati, che insistevano sui loro diritti e insegnavano ai loro figli a fare lo stesso, termini quali Nakba e Diritto al Ritorno sarebbero stati del tutto cancellati dal lessico politico palestinese.

Mentre alcuni palestinesi rifiutarono la marginalizzazione dei rifugiati, sostenendo che il problema fosse politico e non meramente umanitario, altri furono disponibili a procedere come se questo diritto fosse irrilevante. Diversi dirigenti palestinesi legati al ‘processo di pace’ ora defunto affermarono esplicitamente che il Diritto al Ritorno non era più una priorità palestinese. Ma nessuno neppure si avvicinò al modo in cui lo stesso presidente dell’ANP Abbas configurò la posizione palestinese in un’intervista del 2012 al Canale 2 israeliano.

La Palestina oggi per me è quella dei confini del 1967, con Gerusalemme est come sua capitale. Così è ora e per sempre…Questa è per me la Palestina. Io sono un rifugiato, ma vivo a Ramallah”, disse.

Abbas aveva completamente torto, ovviamente. Che lui volesse esercitare il proprio diritto al ritorno o no, quel diritto, in base alla Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, è semplicemente “inalienabile”, il che significa che né Israele, né gli stessi palestinesi possono negarlo o rinunciarvi.

Tralasciando la mancanza di integrità intellettuale nel separare la tragica realtà del presente dalla principale causa che ne sta alla radice, Abbas mancò anche di intelligenza politica. Con il suo ‘processo di pace’ in difficoltà e in assenza di qualunque concreta soluzione politica, semplicemente decise di abbandonare milioni di rifugiati negando loro la speranza di vedersi restituire le proprie case, la propria terra o la propria dignità.

Da allora Israele, insieme agli Stati Uniti, ha combattuto i palestinesi su due diversi fronti: primo, negando loro ogni prospettiva politica e, secondo, tentando di annullare i loro diritti storicamente sanciti, soprattutto il Diritto al Ritorno. La guerra di Washington contro l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, UNRWA, rientra nella seconda categoria in quanto lo scopo era, e resta, proprio la distruzione delle infrastrutture giuridiche e umanitarie che consentono ai rifugiati palestinesi di considerarsi un insieme di persone che anelano al rimpatrio, alla riparazione e alla giustizia.

Eppure tutti questi tentativi continuano a fallire. Molto più importante delle personali concessioni di Abbas ad Israele, del bilancio dell’UNRWA in costante calo o dell’insuccesso della comunità internazionale nel ripristinare i diritti dei palestinesi, è il fatto che il popolo palestinese ancora una volta si stia riunificando in occasione dell’anniversario della Nakba, ribadendo così il Diritto al Ritorno per i sette milioni di rifugiati in Palestina e nella diaspora (shattat).

Per ironia della sorte, è stato Israele a riunificare inconsapevolmente i palestinesi intorno alla Nakba. Rifiutando di concedere neanche un metro di Palestina, per non parlare di concedere ai palestinesi di rivendicare alcuna vittoria, un proprio Stato – demilitarizzato o no – o di permettere ad un singolo rifugiato di tornare a casa, ha costretto i palestinesi ad abbandonare Oslo e le sue tante illusioni. L’argomentazione un tempo usuale che il Diritto al Ritorno fosse semplicemente ‘inapplicabile’ non conta più, né per la gente comune di Palestina, né per i suoi intellettuali o le sue elite politiche.

Secondo la logica politica, se qualcosa è impossibile, deve esserci un’alternativa praticabile. Tuttavia, mentre la realtà palestinese va peggiorando sotto il sempre più pesante sistema di colonialismo di insediamento e di apartheid israeliano, ora i palestinesi comprendono di non avere una possibile alternativa se non la loro unità e resistenza e il ritorno ai principi fondamentali della loro lotta. L’Intifada dell’Unità dello scorso maggio è stata l’apice di questa nuova consapevolezza. Inoltre le manifestazioni di commemorazione dell’anniversario della Nakba e gli eventi in tutta la Palestina e nel mondo il 15 maggio hanno ulteriormente contribuito a definire la nuova narrazione secondo cui la Nakba non è più un fatto simbolico e il Diritto al Ritorno è la richiesta collettiva e fondamentale della maggioranza dei palestinesi.

Oggi Israele è uno Stato di apartheid nel vero senso del termine. L’apartheid israeliano, come ogni simile sistema di separazione razziale, mira a proteggere i frutti di quasi 74 anni di folle colonialismo, furto di terra e dominio militare. I palestinesi, ad Haifa, Gaza o Gerusalemme, ora lo comprendono appieno e stanno tornando a lottare sempre più come un’unica nazione.

E poiché la Nakba e la successiva pulizia etnica dei rifugiati palestinesi sono il denominatore comune di tutte le sofferenze dei palestinesi, il termine e le sue fondamenta tornano ad essere al centro di ogni significativa discussione sulla Palestina, come avrebbe sempre dovuto essere.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Nega di essere palestinese o muori

Salman Abu Sitta 

17 marzo 2022 – Middle East Monitor

Nega di essere palestinese o muori.” Questo è il messaggio proposto ai rifugiati palestinesi dall’UNRWA [United Nations Relief and Works Agency, ossia Agenzia dell’ONU per il Soccorso e il Lavoro per i rifugiati palestinesi, ndtr.]. È un messaggio incredibilmente scioccante, contrario al diritto internazionale e al mandato stesso dell’UNRWA. L’UNRWA ha ceduto al ricatto americano per conto di Israele: tagliare i fondi a meno che la Palestina scompaia dai libri e dalla memoria.

Questa è la scoperta a cui siamo arrivati dopo il primo incontro con le scuole UNRWA e, tra tutti i posti, proprio in quelle a Gaza.

A settembre dell’anno scorso la Palestine Land Society [Società Palestinese della Terra] aveva lanciato un concorso fra studenti delle scuole superiori a Gaza con il titolo “Questo è il mio villaggio.” Gli studenti dovevano scrivere un tema sulle loro origini in Palestina, fare una ricerca sulle proprie radici chiedendo a genitori e nonni dei loro villaggi di origine e di come fossero diventati rifugiati durante la Nakba (Catastrofe), come fossero arrivati nei campi dell’UNRWA e di cosa sia il loro Diritto al Ritorno. Gli studenti dovevano ottenere testimonianze autentiche dalle proprie famiglie e dai vicini, condurre la propria ricerca su altre fonti e aggiungere, se possibile, foto, mappe o ricordi familiari.

Le scuole pubbliche di Gaza hanno accolto l’idea e informato gli studenti. Le scuole dell’UNRWA, per ordine del personale straniero, hanno proibito la distribuzione dei volantini di invito dell’UNRWA.

Sfidando la proibizione, abbiamo chiesto ai volontari di distribuire i volantini agli studenti ai cancelli delle scuole. La risposta è stata straordinaria. Hanno presentato domanda 1800 studenti. Prevedibilmente la maggioranza assoluta proveniva da scuole dell’UNRWA.

Quattro dei cinque finalisti erano rifugiati e provenivano da queste scuole. Alla cerimonia di premiazione i rappresentanti dell’UNRWA non si sono presentati. Assolutamente vergognoso!

In tutte le scuole abbiamo distribuito mappe della Palestina che mostrano i villaggi svuotati dei loro abitanti e quelli esistenti nel 1948. Di nuovo le scuole dell’UNRWA le hanno rifiutate per ordini superiori.

Com’è possibile che l’UNRWA volti le spalle al proprio mandato e violi il diritto internazionale?

La risposta, timida, ma poco convincente, è stata che i donatori americani, su istruzione di Israele, avevano seguito pedestremente la compiacente Unione Europea e proibito riferimenti alla storia e alla geografia palestinesi, a città e villaggi palestinesi, alla Nakba e alla pulizia etnica per evitare il taglio dei fondi ai servizi dell’UNRWA.

Un ricatto odioso: nega di essere palestinese e o morirai di fame o i tuoi figli senza le scuole vagheranno per le strade. Far tacere la Palestina, negare i crimini di guerra della Nakba, rinnegare la propria patria, la Palestina, questo è il prezzo che si deve pagare per un po’ di cibo e la privazione di un’identità, destinati a essere per sempre dei rifugiati. Neanche George Orwell avrebbe potuto immaginare un tale scenario, né Shakespeare nel suo Mercante di Venezia.

Ciò è avvenuto in nome della “Neutralità”, in un documento intitolato Framework for Cooperation between the US and UNRWA 2021-2022 (Cooperation Framework), [Quadro di Cooperazione fra gli USA e l’UNRWA 2021-2022] che equipara vittima e carnefice.

Si sa che questo documento nella sua interezza, inclusi gli allegati, definisce gli impegni fra UNRWA e gli Stati Uniti per il 2021 e il 2022 riguardo agli interventi.

Questo Quadro non costituisce un accordo internazionale e non stabilisce alcun obbligo fra le parti giuridicamente vincolante né in base al diritto internazionale né alle leggi nazionali. L’UNRWA non ha alcuna autorità per firmarlo.

Abbiamo scritto a Philippe Lazzarine, Commissario Generale dell’UNRWA, facendoglielo notare e sottolineando come, nelle scuole dell’UNRWA si impedisca agli studenti di sapere dove siano Majdal, Faluja [due villaggi palestinesi spopolati nel 1947-49 che ora si trovano in territorio israeliano, ndtr.], Isdud [l’attuale città israeliana di Ashdod, ndtr.], di cosa sia la Nakba, della cacciata del proprio popolo e della distruzione di 500 villaggi.

Questa è davvero una guerra senza precedenti contro i rifugiati e contro i palestinesi come popolo. Contrasta con il mandato dell’UNRWA, che dovrebbe essere perseguito, come stabilito dalla Risoluzione 302 dell’Assemblea Generale fermo restando il paragrafo 11 della Risoluzione 194.

Va parimenti contro l’Articolo 29(1) della Convenzione dei Diritti del Fanciullo. Cancellare la storia e geografia dei minori, negando o limitando le loro opportunità e diritti di conoscere i propri villaggi di origine, come siano diventati rifugiati, il loro diritto al ritorno e il motivo per cui è loro negato, viola tutti e cinque i commi dell’Articolo 29(1) della Convenzione.

Inoltre contravviene alle disposizioni contro le discriminazioni della Convenzione per l’Eliminazione di tutte le forme di Discriminazione Razziale – CERD (articoli 5(e)(v)) e, in base alla Convenzione per la Soppressione e la Punizione del Crimine di Apartheid (articolo 2(c)), è uno degli indicatori dell’apartheid. Fin dagli anni ’80 l’applicabilità ai palestinesi di entrambe le convenzioni è stata ampiamente analizzata dalla commissione ONU della Dichiarazione dei diritti umani (a cominciare dalla CERD) e più recentemente dal rapporto dell’ESCWA [Commissione Economica e Sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale] e dai rapporti di ONG locali e internazionali come Amnesty International, Human Rights Watch e B’tselem.

Lo Statuto di Roma del 1998, la base giuridica della Corte Penale Internazionale, definisce come criminali di guerra anche i complici dei criminali di guerra. Mettere a tacere i crimini di guerra rientra fra queste violazioni. Perciò stendere un velo di silenzio sulla storia e sulla geografia palestinesi è un crimine di guerra.

Abbiamo anche scritto a Moritz Bilagher, direttore ad interim dell’’UNRWA – dipartimento Istruzione, e ad altri funzionari. Ci è stato suggerito di intitolare la mappa della Palestina da distribuire “Palestina storica.” Qui stiamo spaccando il capello in quattro. Etichettare la mappa con la dicitura “Palestina storica” annulla la distinzione fra Palestina come luogo geografico e Palestina come Stato.

La Palestina è la patria dei palestinesi da almeno 2.000 anni. Il suo popolo è conosciuto in tutto il mondo come “palestinesi”, anche nei documenti dell’UNRWA.

La Palestina come Stato è una questione politica, non sta all’UNRWA prendere una decisione in materia. Né la Palestina né Israele come Stati hanno dei confini generalmente riconosciuti, o sono riconosciuti universalmente dagli Stati membri dell’ONU.

I comitati popolari nei campi profughi hanno protestato contro questa azione con modalità che senza dubbio con il tempo si amplieranno. Un gruppo di avvocati di diritto internazionale sta mettendo a punto una memoria ufficiale sul tema che potrebbe portare a una petizione presso il Consiglio per i Diritti Umani.

Noi invitiamo tutti coloro che sono interessati a protestare contro il ricatto USA e l’asservimento dell’UNRWA.

Mandate le vostre proteste a:

UNRWA Commissioner General Philippe LazzarineLazzarini@unrwa.org

UNRWA Acting/ Head, Education Dpt, Moritz BilagherM.bilagher@unrwa.org

UNRWA Head of External Relations, Tamara AlrifaiT.alrifai@unrwa.org

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




“La guerra non è finita”: le bombe inesplose nella Striscia di Gaza

Maha Hussaini, Frank Andrews

25 settembre 2021 – Middle East Eye

A causa dei residui bellici inesplosi delle bombe israeliane molti abitanti di Gaza “rivivono la battaglia ogni giorno”

Molte settimane dopo la fine dell’ultimo bombardamento israeliano sulla Striscia di Gaza, il 9 giugno, Ahmed al-Dahdouh di 16 anni è andato a cercare il suo fratellino Obaida a casa di suo zio a al-Zeitun, un quartiere orientale di Gaza.

Obaida, di 9 anni, si è rivolto a suo fratello mentre ritornavano attraverso il giardino ombroso della loro casa: “Ho trovato delle schegge di bomba”.

Ahmed ha visto che teneva qualcosa in mano.

Gli ho chiesto che cosa fosse e lui l’ha gettata per terra”, racconta Ahmed a Middle East Eye. È esplosa.

Obaida ha fatto qualche passo con aria smarrita, prima di cadere. “L’ho seguito”, prosegue Ahmed, “poi entrambi abbiamo perso conoscenza.”

E’ stato verso le 18 che il loro padre, Salahuddin, ha sentito l’esplosione.

Ha trovato Ahmed che tentava di tamponare con la mano una ferita che suo fratello aveva sul collo. Salahuddin l’ha toccata e ha sentito un sottile pezzo di metallo che gli è rimasto in mano.

La ferita era molto profonda. Quando ho cercato di tamponarla, ci sono entrate tre dita”, dice Salahuddin

Poco dopo un medico dell’ospedale al-Shifa ha operato Obaida per cercare di salvargli la vita.

Anche Ahmed è stato operato. L’esplosione aveva frantumato delle ossa e dei vasi sanguigni nel suo dito mignolo, che ha dovuto essere amputato. Porta sempre una benda e ha delle piastre di platino nella mano.

In terapia intensiva in un altro reparto dell’ospedale, mentre due dei suoi zii aspettavano nell’entrata, Obaida ha smesso di respirare alle 3.

Correvo da uno all’altro dei miei figli, ma sapevo che la situazione di Obaida era senza speranza – che era in stato di morte cerebrale”, racconta Salahuddin.

I medici gli hanno spiegato che il detonatore inesploso di una bomba aveva ucciso suo figlio. Hanno individuato le schegge nel suo collo e nella colonna vertebrale.

Salahuddin ha le lacrime agli occhi mentre ricorda il suo ultimo pranzo con Obaida prima dell’esplosione: avevano mangiato riso al latte per dessert.

Gli ho detto di darmene un po’”, racconta Salahuddin, con la voce rotta dall’emozione. Obaida ha risposto: “Ci sono un sacco di altri piatti. Quello è il mio.”

Poi “gli ho chiesto di restare con me, ma lui mi ha detto che voleva andare giù da suo fratello Ahmed”, ricorda Salahuddin.

Non lo dimenticheremo. Fin da quando era piccolo sorrideva sempre. Anche quando lo si rimproverava, lui sorrideva.”

Sepolte sotto le macerie

Non tutte le bombe esplodono completamente al momento dell’impatto. I raid aerei si lasciano dietro dei detriti esplosivi, a volte bombe intatte, nelle strade, sepolte sotto le macerie o gli edifici.

Munizioni inesplose, anche vecchie di molti decenni, possono esplodere all’improvviso se le si sposta.

Se incidenti come quello che ha ucciso Obaida al-Dahdouh sono relativamente rari, i residui esplosivi delle bombe sganciate da Israele costituiscono una grave minaccia per l’esistenza dei gazawi nell’enclave assediata.

Negli ultimi tre anni la Striscia di Gaza ha registrato circa un incidente al mese causato da residui esplosovi di guerra”, dice a Middle East Eye Suhair Zakkout, portavoce del Comitato Internazionale della Croce Rossa a Gaza.

Secondo l’ONU 41 persone sarebbero state uccise e 296 ferite da questi residui tra il 2009 e il 2020.

Le munizioni inesplose disseminate nella Striscia di Gaza dopo ogni bombardamento israeliano hanno altre gravi conseguenze. Alcuni abitanti devono abbandonare le proprie case e scuole, non possono più guadagnarsi da vivere e hanno persistenti problemi psicologici.

Secondo ‘Euro-Med Human Rights Monitor’, a maggio, nell’arco di 11 giorni, quando i razzi lanciati da gruppi di miliziani (tra cui Hamas) da Gaza verso Israele hanno ucciso 13 persone, Israele ha scatenato 2.750 attacchi aerei e 2.300 granate contro la Striscia di Gaza, uccidendo 248 palestinesi, di cui 66 bambini. Entrambe le parti sono suscettibili di aver commesso crimini di guerra.

La squadra di sminatori del Ministero dell’Interno di Gaza non ha tenuto il conto del numero di residui esplosivi rinvenuti dopo l’offensiva di maggio.

Tuttavia lo sminatore Mohamed Miqdad ha dichiarato a MEE che dall’inizio dell’ultimo bombardamento l’unità ha svolto 1.170 missioni allo scopo di eliminare gli ordigni inesplosi e controllare le case alla ricerca di resti esplosivi.

D’altra parte, gli sminatori hanno identificato 16 bombe inesplose tuttora profondamente sepolte sotto le case, i terreni e i negozi in tutta la Striscia di Gaza.

A giugno l’ONU ha stimato che il 30% delle macerie provocate dall’offensiva, pari a circa 110.000 tonnellate, era stato portato via. Le rovine che non sono ancora state ispezionate restano molto pericolose, soprattutto per i bambini che giocano e per gli adulti che cercano di recuperare i propri effetti personali.

Vestigia di guerra

Il 12 maggio verso le 8 gli agenti di intelligence israeliana hanno chiamato Saadallah Dahman, di 62 anni, e sua moglie nella loro casa del campo profughi di Jabaliya nel nord di Gaza, per informarli che il loro edificio stava per essere bombardato.

Ci hanno detto che avevamo dieci minuti di tempo e che gli aerei da guerra erano già sopra la casa”, racconta Dahman a MEE.

Una bomba Mark-84 di 925 chili ha demolito il lato sinistro dell’edificio. Una seconda si è abbattuta sui cinque piani del lato destro per poi sprofondare di parecchi metri nel suolo senza esplodere.

Dopo mesi si trova ancora nel terreno.

Le sei famiglie dell’immobile – 36 persone, di cui 22 bambini – sono tuttora sfollate. La maggior parte affitta delle case nelle vicinanze.

Nessuna organizzazione tiene il conto di quanti gazawi tra le migliaia ancora sfollate dall’offensiva di maggio non possono rientrare nelle loro case a causa di munizioni inesplose. Lo stesso accade per i dati relativi alle scuole tuttora chiuse a causa di questi ordigni.

Comunque gli sminatori hanno informato MEE che quattro scuole gestite dall’Ufficio di Soccorso e Lavoro delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi in Medio Oriente (UNRWA) sono state chiuse definitivamente a causa delle bombe sepolte in profondità nel loro terreno. Il portavoce dell’UNRWA non ha risposto alle nostre domande.

Queste bombe sono molto più difficili da eliminare.

Bombe interrate in profondità

Il Servizio di Azione Antimine delle Nazioni Unite (UNMAS) coadiuva le autorità di Gaza nello smaltimento delle bombe interrate in profondità. Queste si incuneano profondamente nel suolo (una volta Mohamed Miqdad ne ha vista una a 18 metri sotto terra) e a volte occorrono parecchie settimane per localizzarle, disinnescarle e poi estrarle da terra ed eliminarle. Le 16 bombe tuttora disseminate nell’enclave dopo il bombardamento sono tutte interrate in profondità.

Un buon numero di esse sono probabilmente delle Mark-84 (MK-84), un tipo di bomba molto utilizzata da Israele durante la più recente offensiva, nonostante comporti un rischio elevato di danni collaterali.

Un video dell’UNMAS girato a Gaza nel 2017 mostra il servizio antimine dell’ONU impegnato a creare una specie di galleria mineraria per accedere ad una MK-82 (più piccola). Gli sminatori, che devono infilarsi sotto terra per disinnescare una bomba prima di poterla estrarre, hanno a volte bisogno di ossigeno e i tunnel possono cedere.

Tuttavia lasciare le bombe nel suolo non è un’alternativa praticabile.

Anzitutto perché potrebbero esplodere. Se qualcuno costruisce su un terreno e tocca accidentalmente una bomba profondamente interrata, ciò potrebbe distruggere un intero quartiere.

Inoltre, se le voragini lasciate dove sono (i crateri possono essere larghi 15 metri) non vengono riempite, “le persone e i veicoli possono facilmente cadervi dentro”, spiega Miqdad, della squadra di sminamento.

Più difficile da quantificare, ma non meno urgente: l’impatto psicologico provocato dal fatto di sapere che sotto la superficie si nasconde una bomba.

Bilancio psicologico

A maggio, il giorno prima dell’entrata in vigore del cessate il fuoco, una Mark-84 sganciata dagli israeliani ha squarciato il tetto della casa di Ramzi Abu Hadayed a Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza e si è schiantata in una stanza. Secondo la famiglia l’aviazione israeliana non aveva dato alcun preavviso. L’esercito israeliano non ha voluto rispondere alle domande relative a questo incidente.

Gli sminatori riferiscono che durante la caduta il detonatore della bomba si è rotto ed è esploso separatamente, lasciando intatto il resto del missile.

Grazie al cielo il razzo non è esploso”, ha detto la suocera di Abu Hadayed, visibilmente scossa, in un’intervista che è circolata su Facebook.

Quando la bomba è caduta i cinque bambini della famiglia si trovavano al piano terra.

Abbiamo sentito l’esplosione e la gente ha detto che il missile non era esploso. Siamo andati a vedere e abbiamo trovato il missile sul letto”, racconta. “Quando l’ha visto mia figlia è svenuta”

Secondo lo psichiatra Yasser Abu Jamei, che dirige il programma di salute mentale di Gaza (GCMHP) gli oltre due milioni di abitanti di Gaza sono stati probabilmente tutti traumatizzati dai bombardamenti israeliani nel corso degli anni.

Tutti hanno visto un bombardamento o ne hanno constatato gli effetti – gli edifici distrutti nei vari quartieri”, dice a MEE.

Per riprendersi dal trauma la persona colpita deve convincersi che il fatto traumatico è passato, che non succederà più e di essere assolutamente al sicuro”.

Ma a Gaza le persone non hanno questo livello di sicurezza perché rivivono in continuazione gli eventi traumatici.”

Per esempio, i droni israeliani li sorvolano costantemente.

Un altro esempio: le bombe inesplose. Se esplodono, si tratterà di un altro evento traumatico…E se non esplodono, resteranno dentro le case e gli abitanti sapranno che sono là e quindi non si sentiranno mai al sicuro.”

Secondo i dati pubblicati dall’UNMAS prima dell’ultima offensiva di maggio, l’anno scorso 1,9 milioni di gazawi presentavano un aumentato rischio di esposizione ai residui esplosivi di guerra.

Alcuni tuttavia diventano insensibili al pericolo. Dopo i recenti bombardamenti sono stati fotografati dei bambini seduti su bombe inesplose, spesso alla presenza di adulti, nonostante i gravi rischi.

Altri hanno l’impressione di non avere altra scelta che rischiare una possibile esplosione.

Mezzi di sussistenza perduti

Per esempio, parecchi raccoglitori di metallo di Gaza vivono in condizioni talmente difficili che non hanno altra scelta se non continuare.

Secondo l’UNMAS fanno parte delle categorie professionali ad alto rischio, come anche gli agricoltori, che possono capitare sopra residuati esplosivi appena sotto la superficie del loro terreno – cosa che può risultare anche tossica.

Altri non possono affatto lavorare a causa di questi ordigni sparsi sul terreno.

Il primo giorno dell’ultima offensiva israeliana, il 10 maggio, Taha Shurrab ha chiuso il suo negozio di abbigliamento femminile, situato sui due primi piani di un immobile residenziale in un affollato mercato di Khan Younis, al sud di Gaza.

Dieci giorni dopo un abitante del piano superiore del negozio gli ha telefonato: gli israeliani hanno dato loro 15 minuti per evacuare l’edificio.

Ho deciso di restare a casa”, confida il commerciante di 44 anni. “Non volevo vedere la mia merce e i miei soldi bruciare davanti a me. Gestivo questo negozio insieme ai miei fratelli dall’età di 15 anni.”

Quella sera, due ore dopo l’attacco, gli sminatori lo hanno chiamato chiedendogli di farli entrare [nel negozio]. Cercavano una bomba inesplosa.

Quando sono entrati e hanno visto i resti e i buchi nel soffitto e nel pavimento, hanno confermato che la bomba era ancora sette o otto metri nel sottosuolo”, racconta.

Shurrab non è autorizzato a riaprire il suo negozio fino a che il missile non sarà stato rimosso. Ha dato dei vestiti ad altri commercianti da vendere, ma non ha ancora abbastanza denaro per pagare l’affitto.

Dire questo mi rattrista. Sono un commerciante conosciuto, non un mendicante.”

Muhammed al-Hindi, uno dei proprietari dell’immobile, possiede sei negozi e dieci appartamenti, che ospitavano una cinquantina di persone, attualmente sfollate.

Quasi tutti i giorni i nostri vicini ci chiamano per sapere quando la bomba sarà rimossa. Hanno paura, soprattutto perché la zona è molto popolata”, precisa.

Nonostante il pericolo, le autorità non possono interdire l’intera zona: migliaia di persone frequentano il mercato ogni giorno.

I commercianti intorno a noi continuano a venire ad aprire le loro bancarelle tutti i giorni. Effettivamente, cos’altro possono fare?”, si chiede al-Hindi.

Decenni di residui bellici

Gli sminatori a volte si imbattono in bombe inesplose di attacchi israeliani che risalgono a molti anni prima, anche parecchi decenni.

La guerra del 2014 da sola ha lasciato 7.000 residui esplosivi.

Lo scorso aprile gli sminatori hanno trovato una bomba al fosforo bianco che risale all’offensiva del 2009. L’utilizzo di tali bombe in zone civili costituisce un crimine di guerra.

Il Ministero dell’Interno di Gaza conserva tuttora dai 50 ai 60 di tali ordigni in cisterne d’acqua (il fosforo bianco reagisce all’ossigeno) in un deposito in una zona disabitata di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, dove secondo le autorità non viene minacciata in alcun modo la sicurezza degli abitanti. Se esse non se ne sono ancora sbarazzate è a causa della mancanza di fondi e di competenze tecniche.

Secondo Mohamed Miqdad gli abitanti della Striscia di Gaza – soprattutto gli agricoltori delle zone adiacenti alla frontiera con Israele – trovano a volte dei missili inesplosi conficcati nel terreno.

Tre anni fa a Khan Younis abbiamo eliminato delle mine degli egiziani negli anni ‘70”, spiega a MEE riferendosi a quella che gli arabi chiamano la “guerra di ottobre” e gli israeliani “la guerra del Kippur”.

Queste bombe presentano un minor rischio di esplodere dopo dieci giorni dal loro sganciamento, dice, perché la loro batteria di riserva si esaurisce. Ma gli “ordigni esplosivi non hanno una precisa data di scadenza, possono durare 150 anni.”

Nel 2019 due persone sono morte quando una bomba della seconda guerra mondiale è esplosa in un garage in Polonia.

Mancanza di attrezzature

Quando vengono chiamati gli sminatori, questi portano gli ordigni in un sito di stoccaggio provvisorio e procedono ad una esplosione controllata.

Il loro lavoro quotidiano in genere non costa molto, ma implica tempo e può essere rischioso.

Quattro sminatori sono stati uccisi nell’agosto 2014 quando la bomba israeliana sulla quale stavano lavorando è esplosa. Anche due passanti sono rimasti uccisi, come pure due giornalisti: Simone Camilli (italiano) e Ali Abu Afash (palestinese).

Miqdad spiega che la sua squadra è carente di materiale, “in particolare bulldozer, attrezzature di protezione e veicoli per il trasporto di esplosivi”.

La squadra non ha attrezzature specifiche, indumenti di protezione, caschi di sicurezza e neanche robot per un controllo a distanza”, elenca. “Manca anche il materiale per scavare. L’occupazione israeliana vieta l’importazione di questi beni.”

Noi attualmente utilizziamo veicoli normali per trasportare le bombe inesplose e ciò costituisce un rischio enorme per la squadra e per gli abitanti.”

In un video girato a maggio si può vedere la bomba Mark-84 che ha colpito la casa di Abu Hadayed a Khan Younis senza esplodere mentre viene caricata con una gru sul pianale di un camion.

Ma dopotutto che cosa possiamo fare?”, si chiede Miqdad. “È un lavoro umanitario. Noi operiamo per evitare morti e feriti.”

Gli sminatori hanno confermato di avere eliminato anche dei residui esplosivi di razzi lanciati dai miliziani palestinesi che non avevano raggiunto il bersaglio.

Il posto sbagliato”

Secondo l’ONG britannica ‘Action on Armed Violence’ [Azione contro la Violenza Armata] (AOAV), le bombe moderne utilizzate nei conflitti mancano il bersaglio circa il 5% delle volte, a seconda di diversi fattori, in particolare il loro stoccaggio e la loro fabbricazione. Solo l’esercito israeliano sa qual è esattamente il tasso di bombe inesplose. Il suo portavoce non ha risposto ad una domanda a questo proposito.

Tuttavia la MK-84, la bomba più vista dagli sminatori durante l’offensiva di maggio, potrebbe avere un tasso di mancata esplosione molto più alto.

In un’intervista del 2016 Dani Peretz, vice presidente per la progettazione nelle Israeli Military Industries [Industrie Militari Israeliane, che ormai fanno parte della Elbit Systems, una delle principali industrie belliche israeliane, ndtr.], ha ammesso che le MK-84 modificate con Joint Direct Attack Munitions (o JDAM) teleguidati non erano esplose per circa il 40% delle volte durante la guerra del Libano del 2006. Questi JDAM sono congegni sviluppati dagli americani che consentono di guidare le bombe con GPS e sono utilizzati dalle forze israeliane.

L’attrezzatura “modifica il comportamento delle MK-84”, ha spiegato.

Questo significa che in certi casi “la bomba ha raggiunto il suo bersaglio, ma…ha colpito il posto sbagliato” e oltretutto “il detonatore si è staccato dalla bomba e questa non è esplosa.”

Di conseguenza la società ha sviluppato una nuova bomba, la MPR-500, che colpisce e distrugge il 95% dei suoi bersagli – molto più della MK-84, efficace solo al 60% – e che è molto meno a rischio di causare danni collaterali.

Gli sminatori ci hanno detto di non aver trovato prove di utilizzo di MPR-500 a maggio, diversamente dal 2012 e 2014, benché le forze israeliane avessero confermato che queste ultime facevano parte del loro arsenale.

Il fatto che Israele sembri aver deliberatamente sganciato bombe imprevedibili e difettose su Gaza solleva molte domande riguardo alla proporzionalità del suo ultimo bombardamento, considerando soprattutto che ha a disposizione armi descritte come più precise.

Se l’esercito israeliano ha deciso di utilizzare bombe meno precise e maggiormente a rischio di malfunzionamento, ciò dimostra un disprezzo della possibilità di evitare vittime civili”, dichiara a MEE Murray Jones, un ricercatore dell’AOAV.

Rivivere la battaglia”

La famiglia al-Rantissi, la cui casa ad ovest di Gaza è stata colpita da bombe israeliane verso le 4 del 18 maggio senza preavviso, continua ad essere sfollata a causa di un missile inesploso tuttora conficcato sotto l’edificio.

Dopo l’attacco due membri della famiglia, un’adolescente di 14 anni e un giovane di 27, presentano sintomi da stress post-traumatico.

Affittiamo una casa vicino alla nostra in attesa che il missile sia rimosso, ma non ci troviamo bene qui e abbiamo l’impressione di essere dei senzatetto. Preferiremmo vivere sopra il missile piuttosto che subire questo sfollamento”, confida a MEE Muhammed al-Rantissi.

Gli esperti stranieri di esplosivi che sono venuti a vedere la bomba ci hanno detto che avrebbero scavato a mano un buco per rimuoverla perché in casi come questo non possono utilizzare attrezzature pesanti.

Abbiamo fretta che venga rimosso. Ma è come le promesse di ricostruzione di Gaza, tutto viene sempre rimandato a più tardi e non succede niente”, aggiunge.

Finché il missile rimane nella nostra casa la guerra non è finita, riviviamo la battaglia ogni giorno.”

Rakan Abed El Rahman e Hossan Sarhan di Middle East Eye hanno contribuito a questo reportage.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Secondo la corte israeliana gli abitanti di Sheikh Jarrah devono “raggiungere un accordo” con i coloni che vogliono sfrattarli

Yumna Patel

3 maggio 2021Mondoweiss

Le famiglie di Sheikh Jarrah che lottano per rimanere nelle loro case hanno detto di “respingere con fermezza” l’accordo proposto dalla Corte Suprema di Israele, “perché queste sono le nostre abitazioni e i coloni non sono i nostri padroni di casa“.

Decine di palestinesi del quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est occupata, che domenica 2 maggio avrebbero dovuto essere cacciati con la forza dalle loro case, hanno avuto dalla Corte Suprema israeliana altri quattro giorni per “raggiungere un accordo” con i coloni israeliani che stanno tentando di impossessarsi delle loro case.

Nell‘udienza di domenica in merito a un ricorso presentato dalle famiglie di Sheikh Jarrah contro il loro sfratto, un giudice della corte suprema ha deciso di rinviare la sentenza sull’appello a giovedì 6 maggio.

Nel frattempo il tribunale ha ordinato alle sei famiglie, circa 27 persone, di “mettersi d’accordo” con gli stessi coloni che da decenni tentano di sfrattarli con la forza dalle loro case.

In una dichiarazione le famiglie di Sheikh Jarrah hanno affermato che il giudice “ha ordinato che ‘entrambe’ le parti raggiungano un ‘accordo’ in base al quale le famiglie di Sheikh Jarrah riconoscano la proprietà della terra rivendicata dal movimento dei coloni e paghino l’affitto a tali organizzazioni”.

Le famiglie hanno dichiarato di “respingere con fermezza” i termini di tale accordo, “perché queste sono le nostre abitazioni e i coloni non sono i nostri padroni di casa”.

Nella dichiarazione si legge: “Il sistema intrinsecamente ingiusto dei tribunali coloniali israeliani non prende in considerazione la possibilità di mettere in discussione l’illegalità della proprietà da parte dei coloni e ha già deciso a favore dell’espropriazione delle famiglie”, e si aggiunge che la corte ha elaborato il procedimento giudiziario in modo da “stemperare la resistenza popolare e la protesta dell’opinione pubblica contro questi tentativi espansionistici e colonialistici”.

“Poiché la minaccia di espulsione dalle nostre case rimane come prima imminente, continueremo la nostra campagna internazionale rivolta a fermare questa pulizia etnica”, affermano le famiglie.

Il membro della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] Ahmad Tibi, che ha partecipato all’audizione, ha riferito su Twitter che ciò che sta accadendo a Sheikh Jarrah” non è una questione di proprietà immobiliare ma politica al fine di ebraicizzare Sheikh Jarrah e Gerusalemme est”.

“In Israele esistono due sistemi giudiziari, uno per gli ebrei … e uno per i palestinesi”, afferma Tibi.

Da decine di anni le famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah sono sotto attacco in virtù di una disputa giudiziaria con i coloni israeliani, dopo che organizzazioni dei coloni hanno accampato dei diritti sulle loro case utilizzando una serie di leggi israeliane che consentono agli ebrei di rivendicare il possesso di proprietà palestinesi che un tempo, prima del 1948, erano abitate da ebrei.

Sebbene le famiglie, che sono state sistemate nel quartiere come profughi sulla base di un progetto residenziale istituito nel 1957 dall’UNRWA e dal governo giordano, contestino la validità delle rivendicazioni dei coloni sulle loro case, i tribunali israeliani si sono costantemente pronunciati a favore dei coloni.

Dagli anni ’90 l’associazione di destra dei coloni Nahalat Shimon International si è impegnata con forza per lo sgombero degli abitanti palestinesi di Sheikh Jarrah e la successiva sostituzione di questi con nuclei di coloni israeliani.

Finora nel quartiere il gruppo ha portato a termine con successo tutti i suoi tentativi e, con il sostegno del tribunale distrettuale israeliano e il pieno supporto da parte delle autorità israeliane, ha spostato più di 67 palestinesi da Sheikh Jarrah e continua a premere per un imminente spostamento di circa altri 87.

Oltre alle sei famiglie minacciate di espulsione immediata, un tribunale distrettuale israeliano ha anche stabilito all’inizio di quest’anno che altre sette famiglie del quartiere dovrebbero lasciare le loro case entro il 1° agosto.

In totale solo quest’anno 58 persone, inclusi 17 bambini, saranno sfollate con la forza da Sheikh Jarrah per far posto ai coloni ebrei.

Nel corso delle ultime settimane i palestinesi di Sheikh Jarrah hanno intensificato la loro lotta per salvare le loro famiglie dallo sfratto con una campagna sui social media per #SaveSheikhJarrah, sit-in e manifestazioni quotidiane nel quartiere.

Durante il fine settimana diverse manifestazioni in solidarietà con le famiglie si sono svolte a Gerusalemme e in tutta la Cisgiordania.

Sempre nel corso del fine settimana sono diventati virali i video della polizia israeliana che reprime manifestazioni pacifiche e confisca le bandiere palestinesi insieme al video di un colono israeliano che si introduce nella proprietà di una famiglia palestinese del quartiere.

Il video dello scambio verbale tra il colono e la palestinese proprietaria della casa, nel momento in cui il colono dice ai proprietari “se non la rubo io la ruberà qualcun altro”, ha suscitato indignazione sui social media.

Domenica sera gli abitanti palestinesi di Sheikh Jarrah hanno organizzato un sit-in e un iftar [il pasto serale consumato dai musulmani che interrompe il digiuno quotidiano durante il mese del Ramadan, ndtr.] all’aperto per interrompere insieme il loro digiuno come testimonianza della loro presenza continua nel quartiere. La loro manifestazione, che era del tutto pacifica, è stata rapidamente repressa dall’esercito israeliano che ha disperso il raduno e sparato granate assordanti contro i gruppi di palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Gaza: cronaca della pandemia, tra voci e verità

Asmaa Rafiq Kuheil

4 marzo 2021 – Chronique de Palestine

Il 25 agosto era previsto il mio colloquio per il lavoro dei miei sogni: insegnare inglese all’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati [palestinesi].

Ho lavorato sodo in vista di questo colloquio. Per quasi un mese mi sono rifiutata di consultare le reti sociali, che spesso non sono altro che perdite di tempo! Ho aperto Facebook per non più di cinque minuti al giorno per vedere gli aggiornamenti di ‘We Are Not Numbers’ (Non Siamo Numeri, sito in cui palestinesi di Gaza raccontano le proprie esperienze, ndtr.) e verificare la posta importante su Messenger.

Il giorno prima del colloquio sono andata a dormire alle 22, per svegliarmi all’una del mattino per continuare la mia preparazione. L’elettricità era interrotta. Il mio ventilatore aveva la batteria quasi scarica in quella notte molto calda e tutta la mia famiglia nella nostra casa “al buio” dormiva. Mi sono fatta una tazza di caffè solubile, ho recitato due Rakaat [preghiere islamiche), poi ho acceso la torcia del mio cellulare ed ho cominciato a studiare nel nostro ampio soggiorno.

Come al solito ero sola, con il piccolo fascio di luce sul mio quaderno in mezzo all’oscurità. L’unico rumore era la voce dei grilli che arrivava dalla finestra.

Non so perché, alle 4,20 ho improvvisamente pensato che potevo dare uno sguardo a Facebook usando una scheda internet comprata da mio fratello. La connessione non era molto buona, ma volevo controllare qualche consiglio relativo al mio colloquio, dato che esiste un gruppo su Messenger a tale scopo.

Mi sono connessa e davvero vorrei non averlo fatto. Tutti si affrettavano a parlare delle ultime notizie: quattro persone a sud della Striscia di Gaza erano risultate positive al coronavirus, di cui abbiamo timore da tanto tempo. (Io pensavo davvero che noi lo avessimo scampato, “grazie” al rigido blocco cui siamo sottoposti.)

Sul momento non volevo credere a ciò che leggevo…finché non ho ricevuto un messaggio dell’UNRWA che diceva che tutti i colloqui, compreso il mio, erano stati annullati. Subito mi sono sentita molto male, ma poi mi è venuta voglia di saperne di più sul modo in cui il coronavirus era entrato a Gaza e ho rapidamente messo da parte i miei problemi personali.

Ho letto la storia di Heba Abu Nadi, una gazawi che aveva attraversato il valico di Erez per andare a Gerusalemme con la sua figlioletta ammalata, che doveva essere operata all’ospedale El-Makassed in quella città.

Inizialmente le autorità israeliane di occupazione le hanno rifiutato il permesso di transito da quel posto di controllo e lei ha finito per tornare a casa dopo aver trascorso quattro ore a tentare di accompagnare sua figlia.

Immaginate quanto abbia potuto sentirsi disperata…

Il giorno dopo ha tentato nuovamente di attraversare il blocco e questa volta ha avuto il permesso di uscire. In seguito ha fatto il test ed ha saputo di avere il coronavirus….

Questa sfortunata donna si è ritrovata ovunque sulle reti sociali. Alcuni la insultano per aver infettato i membri della sua famiglia mettendo in pericolo tutta Gaza. Altri pregano per lei. Altri ancora fanno sgradevoli battute!….

Quanto a me, mi metto al suo posto. Come sta ora sua figlia? Come si sente Heba, quando tutti la criticano come se lei fosse la causa della disastrosa situazione di Gaza? O come se si trattasse di un complotto israeliano per distruggere Gaza di cui quindi lei non sarebbe che una vittima?

Oh, gente di Gaza! Smettetela di prendervela con questa povera madre! Noi non sappiamo tutto ciò che è accaduto. Lei deve essere molto infelice, preoccupata per sua figlia e forse si rimprovera terribilmente per aver messo in pericolo quattro membri della sua famiglia.

Anche prima di quest’ultima catastrofe la vita era molto peggiorata a Gaza. Non abbiamo più di quattro ore di elettricità al giorno e adesso siamo tutti in quarantena, il che aggiunge al danno anche la beffa.

Un messaggio su Facebook è stato come il sale su una ferita aperta: una ragazza di fuori Gaza ci diceva che ormai il COVID-19 è una cosa normale e che non c’è motivo di preoccuparsi.

Ma Gaza non è simile a nessun altro luogo! Gaza, questo punto minuscolo sulla mappa con due milioni di persone, non ha che un solo grande ospedale, dove recentemente sono state identificate molte persone contagiate, costringendo ad evacuare un intero reparto.

Sapete che i nostri medici rischiano la vita per un salario mensile di 300 dollari? Sì, cari lettori, 300 dollari, non 3.000. E migliaia di altri in questo periodo non ricevono alcun salario.

Il giorno dopo mio padre ha detto al mio fratellino Hamza di andare a comprare dell’acqua in bottiglia, perché ne avevamo poca. (L’acqua del rubinetto non è potabile in sicurezza). Ma mio padre ha ordinato a Hamza di restare poi in casa, dicendogli che gli avrebbe vietato di uscire se glielo avesse di nuovo chiesto. Rendendoci conto che era la nostra ultima occasione per molto tempo, tutti noi avevamo scritto un lungo elenco di altri prodotti di cui avevamo bisogno e che si trovavano nell’unico supermercato aperto nella nostra zona.

Per strada Hamza ha visto solo poliziotti che controllavano per impedire spostamenti non urgenti.

Intanto mio padre ascoltava la sua radiolina portatile accesa, cercando le notizie sul COVID. Mia sorella Walaa’, che studia per il Tawjihi (diploma di scuola secondaria generale) e che continua a studiare per gli esami finali, ha paura del prossimo futuro. Non sa se deve studiare, sedersi insieme a noi o parlare con i suoi amici di come hanno trascorso la giornata.

I miei fratelli e sorelle più giovani sono contenti che la scuola sia chiusa. Sono ancora troppo giovani per capire che cosa sia il coprifuoco.

Quanto a mia madre, cucina del manakish (la nostra versione della pizza, condita con timo e olio d’oliva). Lo fa sempre durante le guerre ed altre situazioni di emergenza. (E scommetto che non è la sola…in ogni casa ci sono tonnellate di timo e il manakish non costa molto se se ne cucinano grandi quantità). Le due cose sono diventate sinonimi.

Mi viene in mente improvvisamente il tema – che aveva vinto il premio – che avevo scritto per il concorso di scrittura We are not Numbers COVID-19. In questo testo affermavo che Gaza si è rivelata essere il luogo più sicuro al mondo per quanto riguarda la pandemia. Quando l’ho scritto pensavo paradossalmente che l’orrendo blocco israeliano di Gaza, che impedisce la maggior parte degli spostamenti all’interno e all’estero, per una volta ci avrebbe tenuti “al sicuro”, mentre gli altri avrebbero dovuto subire l’epidemia.

Il mio articolo stava per essere pubblicato, ma adesso ne vale la pena? E in caso affermativo, verrà letto? Oppure io sarò presa in giro e ridicolizzata come la povera Heba?

In ogni caso io mi atterrò alla mia convinzione che questi miserabili giorni finiranno – non semplicemente per la speranza, ma piuttosto per la mia fede profonda nel nostro dio e che tutto ciò che lui “scrive” è per il nostro bene, per quanto miserevole possa apparire a prima vista!

Asmaa’ Rafiq Kuheil, palestinese di Gaza, da tre anni è professoressa di inglese. Lavora come assistente di progetto presso l’UNRWA, dove contribuisce a costruire la propria Nazione con tutti i mezzi a sua disposizione. La sua arma è la scrittura.

27 août 2021 – WeAreNotNumbers – Traduction : Chronique de Palestine

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Palestina. Macchinazioni contro un diplomatico svizzero dell’UNRWA

Baudouin Loos

11 gennaio 2021 – Orient XXI

Documentario

La carriera di Pierre Krähenbühl alla testa dell’agenzia dell’ONU per l’aiuto ai rifugiati palestinesi si è brutalmente interrotta nel 2019. In gioco c’erano accuse che si sono dimostrate ampiamente infondate, come ha appena dimostrato un documentario della televisione svizzera. Il contesto pone interrogativi, dal momento che l’UNRWA è presa di mira dall’amministrazione Trump e dal governo Netanyahu.

Questo articolo è stato integrato, per maggiori dettagli, l’11 gennaio 2021.

Può succedere che informazioni importanti per la reputazione di alcune persone rimangano confidenziali, provocando loro un grave danno. È quanto è avvenuto nel 2020 con le conclusioni di un’inchiesta commissionata dal segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres riguardo alle gravi accuse rivolte contro lo svizzero Pierre Krähenbühl, all’epoca commissario generale dell’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, UNRWA secondo l’acronimo inglese. Quest’ultimo aveva finito per dare le dimissioni nel novembre dello stesso anno in seguito a pressioni da parte dei suoi capi. Un’inchiesta giornalistica della televisione svizzera RTS [radiotelevisione pubblica svizzera in lingua francese, ndtr.] ha recentemente svelato le conclusioni dell’inchiesta dell’ONU mai divulgate, che abbiamo potuto leggere e dalle quali risulta che l’alto funzionario svizzero è stato assolto dalla maggior parte delle accuse che pesavano su di lui, salvo qualche inadempienza di scarsa importanza. Un ritorno a una questione da cui emana un forte fetore geopolitico.

Nepotismo, discriminazioni, abuso d’autorità…”

Il primo rapporto data dicembre 2018. Interno all’UNRWA, doveva quindi rimanere confidenziale e finire solo nell’ufficio di António Guterres, che ha peraltro rapidamente deciso di avviare un’inchiesta per verificare le accuse imbarazzanti che conteneva. Queste accuse sono state comunque divulgate e la stampa se ne è appropriata, perché era una bomba: in effetti l’autore del testo, l’olandese Lex Takkenberg, capo dell’ufficio etico dell’UNRWA, vi denunciava tra le altre cose “comportamenti inopportuni di carattere sessuale, nepotismo, rappresaglie, discriminazioni e altri abusi d’autorità, commessi per fini personali, per reprimere legittime divergenze d’opinione.”

principale accusato: Pierre Krähenbühl, a cui inoltre è stato rimproverato di intrattenere una relazione sentimentale con una collaboratrice. In tutto il mondo la stampa lo ha dovuto constatare: “L’UNRWA è nella tormenta,” come hanno titolato numerosi giornali. Esortato dal segretario generale dell’ONU perché si mettesse in aspettativa in attesa delle conclusioni dell’inchiesta da lui promossa, Krähenbühl si è sentito sconfessato e il 6 novembre 2019 ha preferito dare le dimissioni. Fine della vicenda.

Durante l’estate 2020 il governo svizzero ha ricevuto il rapporto che ha chiuso l’inchiesta dell’ONU. Un lavoro serio di 129 pagine, nel quale ex-poliziotti analizzano in modo minuzioso le mail e gli SMS dei quadri dell’agenzia ONU coinvolti. Ma la gestione di Pierre Krähenbühl non è affatto rimessa in discussione. Niente corruzione, nessun rapporto sentimentale inopportuno. Tra tutte le accuse non restano da indagare che tre casi di reclutamento da parte dell’agenzia. Poca cosa, alla fine. Né il ministero degli Esteri svizzero né l’ufficio del segretario generale dell’ONU hanno reso pubblico questo rapporto d’inchiesta che ha liberato Pierre Krähenbühl dalla maggior parte delle colpe che gli erano state rimproverate. Certo, questo tipo di rapporti non è destinato ad essere reso pubblico, ma, poiché era in gioco l’onore di un uomo ed erano state rese note le accuse che avrebbero dovuto rimanere confidenziali e che doveva affrontare, sarebbe stato corretto fare altrettanto con le conclusioni dell’inchiesta ufficiale. È qui che intervengono Xavier Nicol e Anne-Frédérique Widmann, due giornalisti di RTS. Il loro reportage è stato trasmesso in Svizzera lo scorso 17 dicembre nel quadro del programma “Temps présent” [Tempo Presente]. Il documentario, intitolato Israël-Palestine : un Suisse dans la tourmente [Israele-Palestina: uno svizzero nella tormenta] dà ampiamente la parola, tra gli altri, a Pierre Krähenbühl.

Chi vuole togliere di mezzo l’UNRWA?

Il contesto geopolitico di questa vicenda potrebbe evocare un complotto. Contro Pierre Krähenbühl? Certamente, ma soprattutto, attraverso lui, contro l’UNRWA, che alcuni vogliono togliere di mezzo. Il governo israeliano di Benjamin Netanyahu da parecchio tempo non nasconde più che desidera la scomparsa dell’agenzia per i rifugiati palestinesi.

Per lui l’UNRWA incarna una causa: il diritto al ritorno di questi rifugiati, che egli rifiuta radicalmente. Ed essa rimane un richiamo perpetuo a un passato che si preferisce rimuovere: la partenza, il più delle volte obbligata, di oltre 700.000 abitanti palestinesi nel 1948 e la loro spoliazione durante avvenimenti che portarono alla creazione di Israele.

Ufficialmente Israele rimprovera invece alla rinfusa all’agenzia di perpetuare “l’illusione” di un ritorno dei rifugiati in quello che è diventato Israele, di avere al proprio interno numerosi militanti di Hamas, di fornire un’istruzione che sparge odio contro Israele, che promuove la lotta armata e persino il terrorismo, ecc.

Con l’arrivo di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti nel gennaio 2017 il governo israeliano si è trovato a godere di un sostegno politico americano di una portata senza precedenti su tutte le questioni, compresa quella dei rifugiati palestinesi. Il miliardario americano ha chiesto rapidamente a suo genero Jared Kushner, noto per la sua vicinanza con l’estrema destra israeliana, di concepire un “piano di pace” per risolvere finalmente il conflitto israelo-palestinese. Cosa aveva previsto per i rifugiati? Una mail dell’11 gennaio 2018 inviata a vari funzionari dell’amministrazione Trump, tra cui Jason Grenblatt, l’inviato speciale della Casa Bianca in Medio Oriente, presenta il pregio della chiarezza, come ha rivelato il 3 agosto 2020 il sito americano ForeignPolicy.com [autorevole bimestrale statunitense di politica internazionale, ndtr.]: “È importante fare un tentativo sincero ed onesto per ostacolare l’UNRWA”, scrive Kushner. “Questa agenzia perpetua lo status quo, è corrotta e non contribuisce alla pace. Il nostro obiettivo non può essere lasciare le cose stabili e come sono adesso. Forse bisogna rischiare di rompere le righe strategicamente per avanzare.”

È stato dato il via. Il governo americano è anzi passato ai fatti, riducendo nel 2018 in modo drastico il suo aiuto all’UNRWA, passando da un contributo di 364 milioni di dollari (296 milioni di euro) a 65 milioni (53 milioni), che l’anno successivo sono stati persino azzerati. Con un bilancio globale che superava gli 850 milioni di dollari (691 milioni di euro), la drastica riduzione del contributo americano si è dunque rivelata drammatica per il funzionamento dell’agenzia umanitaria, che dà lavoro a circa 30.000 palestinesi al servizio di 5.5 milioni di rifugiati distribuiti in tutto il Medio Oriente, dalla Siria a Gaza passando per il Libano, la Giordania, Gerusalemme est e la Cisgiordania. Ormai si sa anche quello che il “piano di pace” di Jared Kushner, reso pubblico in pompa magna il 28 gennaio 2020 a Washington, prevedeva per l’UNRWA, cioè la sua pura e semplice soppressione. Come volevasi dimostrare.

Un uomo da distruggere

Pierre Krähenbühl rappresentava un ostacolo incombente lungo il cammino degli americani e degli israeliani mobilitati per programmare la morte dell’agenzia specializzata dell’ONU? Il documentario non arriva fino a questo punto. Mostra il diplomatico ginevrino, solo in prima linea, schierato contro le mire ostili della potente coppia americano-israeliana. Una cosa sembra in ogni caso evidente: nel 2018 lo svizzero aveva moltiplicato i viaggi, le iniziative e le riunioni per rimpinguare le casse dell’UNRWA. E il suo successo si è rivelato altrettanto efficace quanto imprevisto, dato che quell’anno 43 Paesi o istituzioni avevano accettato di aumentare i propri finanziamenti per coprire il deficit. Per giunta Pierre Krähenbühl non ha esitato a difendere con le unghie e con i denti la sua agenzia, anche davanti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dove, in diretta da Gaza, aveva contraddetto gli oratori americano e israeliano. Il diplomatico svizzero non si era quindi fatto solo degli amici dal suo arrivo alla testa dell’UNRWA il 1 aprile 2014, proveniente dal Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR).

D’altronde a partire dal 2018 aveva constatato che nel suo stesso Paese una personalità in vista, il ministro degli Affari Esteri Ignazio Cassis, si era schierato tra gli avversari dell’agenzia che dirigeva. Quest’ultimo era iscritto tra i membri del gruppo di amicizia con Israele nel parlamento svizzero. Aveva assunto il suo incarico il 1 novembre 2017. Nella primavera del 2018, di ritorno da un viaggio in Medio Oriente in cui aveva incontrato Pierre Krähenbühl a Amman, sull’aereo che li riportava a casa Ignazio Cassis ha confidato le sue impressioni ad alcuni giornalisti. “Per me si pone la domanda: l’UNRWA fa parte della soluzione del problema?” si era chiesto. Ed ha precisato la sua opinione: “Finché i palestinesi vivranno in campi di rifugiati, vorranno tornare nella loro patria. Appoggiando l’UNRWA, teniamo in vita il conflitto. È una logica perversa, perché in realtà tutti vogliono porre fine al conflitto.”

Affermazioni che avevano indignato l’ex-diplomatico svizzero Yves Besson, un ex-direttore dell’agenzia in questione: “Oggi l’UNRWA è ciò che rimane dell’interesse della comunità internazionale a favore dei palestinesi e dei loro rifugiati,” ha dichiarato al sito swissinfo.ch. “Inoltre dire una cosa simile non ha niente di oggettivo, perché questo argomento è stato un ritornello di Israele e degli Stati Uniti.”

Accuse fondate su … “timori”

Di fatto gli aspetti del linguaggio adottato dal ministro svizzero sembravano usciti direttamente dalle cancellerie israeliana e americana. Quindi molto logicamente quando nel 2019 il rapporto interno dell’UNRWA ha messo il capo dell’agenzia sul banco degli imputati, Ignazio Cassis non ha alzato un dito per aiutarlo: al contrario, ha ordinato la sospensione dell’aiuto svizzero all’UNRWA. D’altronde questo rapporto non presentava prove contro il diplomatico svizzero, ma diffondeva solo un certo numero di accuse raccolte all’interno dell’agenzia. Del resto Lex Takkenberg, che aveva firmato questo testo, che come si è visto non ha resistito al vaglio dell’indagine approfondita chiesta in seguito a New York da António Guterres, nel documentario di Xavier Nicol et Anne-Frédérique Widmann riconosce che le accuse che aveva ripreso si basavano soprattutto su conversazioni con una ventina di membri dell’UNRWA che facevano riferimento a “timori” (“concerns”).

Oggi Pierre Krähenbühl ha voltato pagina, non senza amarezza. “Sarebbe il minimo che gli Stati Uniti e la Svizzera prendessero posizione riguardo alla mancanza di fondamento del rapporto (che mi ha accusato) e riconoscessero quello che abbiamo passato,” dice alla fine del documentario sulla vicenda. Il pesante silenzio delle autorità svizzere e dell’ONU, che hanno rifiutato di parlare ai giornalisti svizzeri e che non volevano rendere pubbliche le conclusioni dell’inchiesta dell’ONU favorevole a Pierre Krähenbühl, non testimoniano in ogni caso a loro favore.

Quanto all’UNRWA, ora diretta da un altro svizzero, Philippe Lazzarini, continua più che mai a dibattersi in inestricabili problemi di bilancio, come dimostrano la sua impossibilità di pagare i salari del mese di novembre 2020 ai suoi dipendenti e i suoi dubbi riguardo a dicembre. L’arrivo di Joe Biden al governo a Washington il 20 gennaio 2021 porterà a una revisione della posizione americana riguardo all’agenzia umanitaria? La risposta, importante per la sua sopravvivenza, arriverà forse molto presto.

Baudouin Loos

Giornalista, Bruxelles.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




La malnutrizione affligge Gaza

Isra Saleh el-Namey 

27 agosto 2020 – Electronic Intifada 

Muhammad Abu Amra ha il diabete e non può permettersi le cure: avrebbe bisogno di due iniezioni di insulina al giorno, ognuna a circa 6 euro. Il suo debito con due farmacie cresce in continuazione.

Muhammad vive con la famiglia a Deir al-Balah, cittadina situata nel centro della Striscia di Gaza. La casa è in pessime condizioni, con buchi nei muri e sul soffitto.

Durante l’estate il caldo è stato insopportabile, i suoi cinque bambini hanno subito molte punture di zanzare. Mi sento impotente e senza speranza,” dice Muhammad, 33 anni. “Ho sempre più responsabilità, ma a causa della mia salute, non riesco a occuparmene. E la situazione economica della mia famiglia è molto grave.”

Muhammad, disoccupato, e la moglie Mansoura hanno pochi soldi per comprare da mangiare.

Alle volte devo prendere cose essenziali, pannolini, fazzolettini, sale e zucchero e lo devo fare a credito,” dice Mansoura a cui è stato proibito l’ingresso in un supermercato fino a quando non salderà il suo debito di circa 170 euro.

La maggior parte dei pasti che preparo per i bambini si basa sulle verdure più economiche che riesco a trovare, patate e melanzane,” aggiunge Mansoura.

Mangiamo carne rossa o pollo solo ogni sei mesi. I nostri bambini non bevono latte, sono veramente preoccupata che, a lungo andare, ciò danneggerà la loro salute.”

Ogni tre o quattro mesi la famiglia Abu Amra riceve un pacco con farina, riso e olio per cucinare dall’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che fornisce aiuto ai rifugiati palestinesi.

Secondo Mansoura il contenuto del pacco dura a malapena un mese

La varietà scarseggia

A Gaza la malnutrizione è un problema serio denunciato da uno studio recente dell’agenzia del Programma alimentare mondiale che ha rilevato che l’86% dei bambini con meno di 5 anni che vive vicino al confine fra Gaza e Israele non ha una dieta minimamente accettabile.

A Gaza, secondo il Programma alimentare mondiale, il 28% delle donne durante l’allattamento ha dei livelli troppo bassi di ferro nel sangue.

In una loro precedente relazione e anche secondo altri gruppi che forniscono aiuti si è rilevato che gli abitanti hanno reagito alla difficile situazione economica riducendo la varietà del cibo.

Secondo le Nazioni Unite più del 68% dei due milioni di abitanti soffre di insicurezza alimentare, definita come la condizione di non avere accesso o non avere i soldi per comprare il cibo necessario per condurre una vita sana ed attiva.

La malnutrizione è stata una delle conseguenze del rigido blocco imposto da Israele. Attivisti per i diritti umani hanno documentato che nel 2008 Israele ha elaborato un piano con lo scopo di ridurre la quantità di cibo disponibile a Gaza.

Aziza al-Kahlout, la portavoce del ministero per gli affari sociali a Gaza, ha detto che negli ultimi mesi i problemi sono peggiorati. Le restrizioni imposte a causa della pandemia hanno portato a un aumento della disoccupazione.

Molti hanno perso la loro fonte di reddito, gli autisti che non hanno più passeggeri, gli operai delle fabbriche e di altre attività che sono state chiuse” dice al-Kahlout. “Tutti questi e le loro famiglie hanno urgentemente bisogno di aiuti in questi momenti difficili.”

Poiché le autorità di Gaza hanno problemi finanziari, è necessario un maggiore supporto da parte di donatori internazionali “per impedire alla situazione umanitaria di peggiorare,” conclude al-Kahlout.

Secondo la Federazione Generale Sindacale palestinese almeno 50 fabbriche hanno chiuso e si sono persi circa 4000 posti di lavoro.

I poveri diventano sempre più poveri

Mahmoud al-Lili ha una bancarella di snack nel campo profughi di Maghazi e prima della pandemia guadagnava un po’ più di 4 € al giorno.

Adesso il ventiseienne talvolta non guadagna nemmeno un euro: le attività sono crollate dall’inizio dell’anno, quando le autorità hanno imposto le restrizioni.

Vivo in una piccola casa con genitori, sorelle e fratello sposato,” dice al-Lili. “Faccio del mio meglio per guadagnare qualche soldo così qualche volta c’è qualcosa per la cena. Siamo una famiglia povera, ma la crisi ci ha resi ancora più poveri.”

Samir al-Sayid, 56 anni, ha vari problemi di salute, inclusa la pressione alta. La sua famiglia di 9 persone vive in una casa di due stanze nel campo profughi di Bureij.

Non lavoro e non posso occuparmi della mia famiglia,” dice Samir. “Per vivere facciamo affidamento principalmente sugli aiuti umanitari.”

I pacchi dell’UNRWA sono essenziali per la sua famiglia.

Quando ne riceviamo uno, pianifico attentamente su come sfruttarlo al meglio e farlo durare il più possibile,” dice Siham, la moglie di Samir. “Non posso comprare gli ingredienti per preparare la maggior parte dei piatti che i nostri bambini vorrebbero. Cucinare per la mia famiglia è un constante incubo.”

Isra Saleh el-Namey è una giornalista di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)