Annessione della valle del Giordano

I palestinesi della valle del Giordano: “Le nostre terre sono già state annesse”

La promessa di Netanyahu di formalizzare il controllo di fatto di Israele sulla valle del Giordano provoca inquietudine tra gli abitanti palestinesi

di Arwa Ibrahim

12 settembre 2019 – Al Jazeera

 

Ras Ain al-Auja, valle del Giordano – Tra le vaste terre aride della valle del Giordano, che si estendono a nord del Mar morto e a ovest dei confini della Cisgiordania con la Giordania, sorge il piccolo villaggio palestinese di Ras Ain al-Auja.

Se il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu porterà a compimento il suo piano, annunciato martedì, di annettere la valle del Giordano e le zone a nord del Mar morto, il villaggio di circa 350 residenti e i suoi fertili terreni agricoli diventeranno parte di Israele.

Alcuni osservatori hanno liquidato il piano di Netanyahu come una bravata da campagna elettorale prima delle elezioni generali della prossima settimana. Ma gli abitanti di Ras Ain al-Auja dicono che le parole di Netanyahu sono minacciose in quanto il suo piano potrebbe formalizzare il controllo israeliano sulla zona.

“Non è una novità. Le nostre terre sono già state annesse e stiamo vivendo sotto l’occupazione israeliana,” afferma ad Al Jazeera il quarantottenne Ahmed Atiyat, un contadino di Ras Ain al-Auja.

“Tutte queste terre e le palme sono degli israeliani,” dice indicando distese di terre coltivate punteggiate di cespugli verdi e palme da dattero che si estendono verso il Mar Morto.

Il progetto di Netanyahu intende annettere il villaggio e altre parti della valle del Giordano, tuttavia non includerebbe Gerico, la città palestinese più vicina a  Ras Ain al-Auja.

L’annessione di Gerico lo obbligherebbe ad occuparsi là della condizione di migliaia di cittadini palestinesi. L’attuale piano tendenzialmente taglierebbe fuori Gerico da altre città palestinesi nella Cisgiordania occupata.

 

Occupazione di fatto

La popolazione di Ras Ain al-Auja comprende soprattutto contadini che hanno lavorato su quella terra da generazioni. Dicono che risorse idriche in esaurimento e restrizioni alla costruzione e ai collegamenti da parte dell’esercito israeliano hanno reso difficili le condizioni di vita.

“Tutte le nostre sorgenti d’acqua sono sotto controllo israeliano. Abbiamo pochissima acqua potabile, per non parlare dell’acqua per i nostri orti,” afferma Atiyat, che racconta che la sua famiglia si è spostata nella zona dopo essere stata espulsa dall’esercito israeliano dalle sponde del fiume Giordano nel 1967.

Hussein Saida, un altro contadino e membro del locale Comune, è d’accordo.

“Dobbiamo affrontare continue difficoltà, soprattutto quando si tratta di aver accesso e di fare la manutenzione ai nostri pozzi per innaffiare in nostri orti. Essi sono di fatto sotto il controllo israeliano,” dice Saida. Secondo molte Ong palestinesi e israeliane, Israele nega accesso alla terra, all’acqua e all’elettricità ai palestinesi che vivono nella valle del Giordano, così come in altre aree nella Cisgiordania occupata, rendendo le condizioni di vita difficili.

“Israele ha annesso di fatto la zona della valle del Giordano. Gran parte di essa è destinata ad uso militare, per cui i palestinesi non possono viverci. Se lo fanno, vengono espulsi” dice Roi Yellim, direttore della diffusione al pubblico di B’Tselem, una Ong [israeliana, ndtr.] per i diritti umani.

“C’è anche un continuo tentativo da parte di Israele di rendere difficili le condizioni di vita dei palestinesi nella valle del Giordano, in modo che la maggior parte di loro lasci le proprie terre,” aggiunge, sottolineando che tali condizioni vengono applicate in tutta la Zona C, che costituisce il 60% della Cisgiordania occupata.

L’area che Netanyahu progetta di annettere costituisce circa il 30% della Cisgiordania occupata. Più di 65.000 palestinesi e circa 11.000 coloni israeliani illegali vivono nella zona.

Maha Abdullah, una ricercatrice giuridica e avvocatessa di Al-Haq, un’Ong palestinese, dice che queste condizioni potranno solo peggiorare se l’area viene annessa, portando i palestinesi a pensare di lasciare le proprie case. “Queste zone rendono molto all’economia israeliana e quindi conviene sfruttarne le risorse e le terre,” afferma Abdullah. “Al contempo, creare un contesto costrittivo per i palestinesi che vi vivono attraverso la demolizione di case e la fornitura ridotta di acqua e di elettricità spingerà i palestinesi ad andarsene,” dice, facendo un confronto con l’annessione di Gerusalemme est nel 1967.

Ai palestinesi della Gerusalemme est occupata non è stata concessa la cittadinanza israeliana, dato che le annessioni e il loro status rimangono controversi e irrisolti.

Futuro Stato palestinese

Il piano minaccia anche la formazione di un futuro Stato palestinese, in quanto i palestinesi rivendicano i 2.400 km2 della valle del Giordano come confine orientale di un futuro Stato palestinese nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

Saeb Erekat, segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, denuncia il progetto di annessione, dicendo ad Al Jazeera che “seppellirebbe ogni restante prospettiva di una pace e di uno Stato palestinese fattibile e indipendente.”

La minaccia per il futuro della Palestina è avvertita anche ad un livello più locale.

 

“Anche se si trattasse solo di parole, per il momento, il progetto di Netanyahu di annettere le terre più fertili della Palestina e parti di un futuro Stato palestinese è molto pericoloso,” dice ad Al Jazeera Salah Frijat, capo dell’autorità locale di Auja, che è il Comune più esteso da cui dipende

Ras Ain al-Auja. “Ci sono continue violazioni delle nostre terre e delle nostre risorse idriche. Vogliono vederci andar via in quanto la vita diventa più dura e le colonie intorno a noi aumentano,” aggiunge.

Israele ha ripetuto le sue intenzioni di mantenere il controllo militare sulla zona, che ha conquistato nella guerra del 1967, anche se venisse raggiunto un accordo di pace con i palestinesi.

Lo scorso anno il presidente USA Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele. Oltre a ciò la sovranità di Israele sulle Alture del Golan occupate, che le sue forze hanno conquistato dalla Siria nel 1967, ha fatto temere a molti osservatori che prima o poi questo piano possa effettivamente essere messo in atto.

“Anche se quello che Netanyahu ha detto fosse davvero una bravata elettorale, probabilmente procederà a una sorta di annessione perché ha l’appoggio dell’amministrazione di Trump,” sostiene Yellim.

Nonostante queste difficili condizioni e minacce, Atiyat dice che non lascerà mai la sua terra.

“Anche se la vita continua ad essere sempre più dura, moriremo qui piuttosto che andarcene o essere di nuovo cacciati dalle nostre terre,” dice ad Al Jazeera.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 

 




La morte di una neonata beduina

Caccia mortale: famiglia palestinese piange una bambina uccisa mentre scappava da un’incursione dell’esercito israeliano

Come a molti beduini che vivono nella valle del Giordano, i soldati israeliani hanno dato la caccia per anni ai Kaabnahs. Questa volta l’inseguimento è finito in tragedia

Di Shatha Hammad

a Gerico, Cisgiordania occupata

2 settembre 2019 – Middle East Eye

 

Nelle prime ore del mattino del 5 agosto la ventiquattrenne Sara Kaabnah si è svegliata per allattare al seno sua figlia di tre mesi, Hanaa. Ma non si trattava solo di occuparsi di lei.

Sara e tutta la sua famiglia di 16 membri hanno dovuto prendere in gran fretta le proprie cose, compresa la tenda collettiva in cui vivono, e poi mettersi in cammino.

La famiglia beduina, che vive nel villaggio di al-Hadidiya, nel nord della valle del Giordano di Gerico, aveva progettato di spostarsi temporaneamente verso una comunità vicina nota come Jiftlik,  a 40 minuti di distanza.

Trasferendosi, la famiglia sperava di prevenire l’arrivo dell’esercito israeliano per confiscare il loro unico serbatoio d’acqua. I soldati erano andati da loro il giorno prima, avevano fatto fotografie della cisterna per l’acqua e minacciato che sarebbero tornati a sequestrarlo.

Come per altre famiglie beduine che dipendono dall’allevamento come principale fonte di sostentamento, l’acqua per le pecore è indispensabile. Trovare il modo per sfuggire all’esercito israeliano è parte della sopravvivenza della famiglia.

Sara ha preso la piccola Hanaa  tra le braccia ed è partita con la sua famiglia su un trattore, il loro unico mezzo di trasporto. Una parte del gruppo ha guidato le pecore a piedi e un altro ha aspettato fino a quando il trattore fosse tornato a prenderlo.

Ma le cose non sono andate come previsto. Sara ed Hanaa non sono mai arrivate a Jiftlik.

Dato che la famiglia viaggiava nel buio quasi assoluto, due veicoli israeliani hanno urtato il trattore nei pressi di un posto di controllo militare. Il trattore si è rovesciato, Hanaa è caduta dalle braccia di sua madre ed è morta. Sara è rimasta sotto il pesante veicolo.

L’equipe dell’ambulanza israeliana ha subito informato la famiglia che Hanaa era rimasta uccisa nell’incidente. Sua madre è rimasta in coma, inconsapevole che non rivedrà né avrà mai più tra le braccia la sua unica figlia.

“Siamo scappati per paura che ci venisse confiscato il nostro serbatoio, per paura della sete,” ha detto a Middle East Eye  Odeh Kaabnah. “Nostra figlia è morta a causa del fatto che l’esercito israeliano ci insegue in continuazione, ed ora potrei perdere anche mia moglie.”

Con voce tremante e lacrime agli occhi, Odeh spiega che la coppia aveva chiamato la neonata Hanaa, che significa ‘felicità’ in arabo, dal nome di sua madre. È un’ironia della sorte, dice il ventiquatrenne, che Hanaa non abbia avuto l’opportunità di provare e comprendere il sentimento espresso dal suo nome.

Quando Hanaa aveva 10 giorni l’esercito israeliano ha demolito la casa della famiglia. Prima che arrivasse ai due mesi, l’esercito ha di nuovo demolito la loro casa ed ha espulso la famiglia. E quando aveva tre mesi è morta mentre la sua famiglia cercava di scappare dall’ultima operazione dell’esercito contro la loro casa.

“L’esercito israeliano ha demolito le nostre cinque tende e baracche, in cui viviamo o che utilizziamo per ricoverare le pecore,” dice Odeh. L’hanno fatto due volte in un mese, spiega, la prima il 30 giugno e poi il 20 luglio.

 

Beduini nella valle del Giordano

I Kaabnahs riempiono quotidianamente la loro cisterna con l’acqua di una sorgente di una zona vicina. Poi devono riportarla ad al-Hadidiya per uso personale e per far bere le pecore. Questa attività fondamentale richiede almeno un’ora al giorno.

“Se loro (l’esercito israeliano) ci confiscano il serbatoio per l’acqua perderemo le nostre pecore e non potremo più vivere qui. La nostra cisterna per l’acqua e il trattore sono le uniche due cose di cui siamo proprietari e che ci consentono di vivere una vita molto semplice,” dice Odeh.

Al-Hadidiya e molte altre comunità beduine tradizionalmente nomadi nella valle del Giordano sono state bersaglio di politiche israeliane intese a creare condizioni coercitive per spingere le comunità ad andarsene. Queste politiche si sono presentate sotto forma di demolizioni quasi quotidiane, de-sviluppo intenzionale e ostacoli ad ogni tentativo di costruire infrastrutture come servizi idrici o elettrici.

L’espulsione forzata, diretta o indiretta, di una popolazione civile occupata è considerata dalle leggi internazionali un crimine di guerra.

La maggioranza delle comunità beduine della Cisgiordania si trova a vivere in quella che è stata denominata Area C, che copre il 60% della Cisgiordania occupata, come parte degli accordi di Oslo del 1993 firmati tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Da quando gli accordi sono stati firmati l’area è stata sotto totale controllo dell’amministrazione civile e del sistema di sicurezza israeliani. È stata delimitata così per includere le colonie israeliane che ospitano più di 600.000 coloni in Cisgiordania, che per il diritto internazionale sono tutte illegali.

Mentre le colonie israeliane continuano a prosperare, l’esercito israeliano impedisce alla comunità palestinesi dell’Area C di espandersi o persino di rimanere sulla terra in cui vivono attualmente. L’esercito richiede permessi di costruzione per qualunque cosa, dai recinti per gli animali alle case, e nel contempo si rifiuta di concederli. Poi procede a demolizioni punitive delle strutture per la sopravvivenza delle comunità.

 

Politiche dell’acqua

Muayyad Bisharat, il coordinatore della zona nord della valle del Giordano per l’Unione delle Commissioni per il Lavoro Agricolo (UAWC), un’associazione no profit che aiuta contadini e pastori palestinesi, afferma che l’esperienza della famiglia Kaabnah è comune nella valle del Giordano.

In base agli accordi di Oslo circa l’87% delle risorse idriche in Cisgiordania ricade sotto il controllo israeliano. Con le politiche discriminatorie israeliane i palestinesi hanno gravissimi problemi di accesso all’acqua.

Bisharat spiega che la maggioranza dei pozzi sotterranei è stata scavata tra il 1948 e il 1967 durante il governo giordano in Cisgiordania e raggiungono solo la profondità di circa 70 metri. Con il passar del tempo in alcuni dei pozzi l’acqua è diventata salata ed altri si sono asciugati a causa delle politiche israeliane che hanno impedito ai palestinesi di risistemarli ed ampliarli.

Nel contempo le autorità israeliane consentono ai coloni di scavare i loro pozzi a una profondità di 500 metri, pompando grandi quantità di acqua per le colonie agricole e le basi militari.

“Le tubature idriche passano sotto comunità beduine e villaggi palestinesi, ma ai palestinesi è vietato utilizzare quest’acqua. La grande maggioranza è obbligata a comprarla e a trasportarla da lunga distanza, al costo di circa 50 dollari per un serbatoio d’acqua,” dice Bisharat.

In varie occasioni la dirigenza israeliana ha manifestato l’intenzione di conservare il totale controllo della valle del Giordano, che contiene la maggior parte delle ricche risorse naturali della Cisgiordania ed è ritenuta da Israele indispensabile.

“L’esercito ci dà la caccia, le guardie dei coloni ci danno la caccia, l’amministrazione civile israeliana ci dà la caccia e tutti i giorni fa irruzione nelle nostre case. Ci aggrediscono davanti alle nostre famiglie senza ragione,” dice Odeh, aggiungendo di credere che gli attacchi non siano solo fisici ma anche psicologici, intesi a instillare paura nelle famiglie.

In base alle tradizioni beduine Odeh e Sara si sono sposati molto giovani nel 2016. Lui immaginava che la sua vita sarebbe stata molto più stabile, dice.

“Ho costruito una stanza in cemento con un tetto di zinco perché ci andassimo a vivere. Pochi mesi dopo il nostro matrimonio l’esercito israeliano ha demolito la stanza,” dice.

“Da quando ci siamo sposati ed abbiamo formato una famiglia abbiamo sofferto a causa dell’ esercito israeliano e delle sue persecuzioni. La mia vita si è trasformata in paura ed ansia, e in spostamenti da un posto all’altro.”

 

Continue sofferenze

Odeh è riuscito ad andare a trovare sua moglie Sara in ospedale solo una volta, e solo per pochi minuti. Sta aspettando un altro permesso israeliano, di cui ha bisogno per entrare a Gerusalemme, dove lei è in cura nell’unità di terapia intensiva dell’ospedale Hadassah.

“Dall’incidente Sara è in coma. È stata colpita alla testa, ha fratture al cranio e al volto ed emorragie interne nei polmoni,” dice Odeh.

Da una parte teme di perderla. Dall’altra ha paura del momento in cui dovrà dirle della morte della loro figlioletta. Come farà a dirglielo nel momento in cui lei chiederà di Hanaa? Cosa le dirà? si chiede.

Esita prima di riuscire a descrivere com’era ridotta Sara quando è andato a trovarla.

“Era come un cadavere. Niente si muoveva, tranne il suo petto quando respirava. Ho molta paura che muoia.

“Tutto quello che spero in questo momento è che Sara viva, che torni con noi. Abbiamo sofferto troppo, vogliamo solo vivere.”

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 

 




Come i cristiani evangelici rischiano di incendiare il Medio Oriente

Jonathan Cook

8 luglio 2019 – Middle East Eye

TB Joshua è l’ultimo di una serie di predicatori filo-sionisti che si interessano a Israele – e i palestinesi ne pagheranno le conseguenze

Il recente arrivo del più popolare telepredicatore evangelico africano, TB Joshua, per rivolgersi a migliaia di pellegrini stranieri a Nazareth, ha prodotto un insieme di costernazione e di rabbia nella città dell’infanzia di Gesù.

C’è stata un’opposizione generalizzata da parte di movimenti politici di Nazareth, così come tra i gruppi comunitari e i leader religiosi, che hanno invocato un boicottaggio dei suoi due raduni. Si è aggiunto anche il consiglio dei mufti [autorità religiosa islamica, ndtr.], che ha descritto gli eventi come “una linea rossa per la fede nei valori religiosi.”

I raduni di Joshua, che includono episodi di esorcismo in pubblico, hanno avuto luogo in un anfiteatro all’aria aperta su una collina sopra Nazareth originariamente costruita per i fedeli del papa. Il luogo è stato utilizzato da papa Benedetto nel 2009.

Il pastore nigeriano, che ha milioni di seguaci in tutto il mondo e si autodefinisce un profeta, ha sollevato l’ostilità locale non solo perché il suo modello di cristianesimo si allontana di molto dalle più tradizionali dottrine delle chiese mediorientali. Rappresenta anche una tendenza dei cristiani stranieri, guidati da una lettura apocalittica della Bibbia, che si intromettono ancor più esplicitamente in Israele e nei territori palestinesi occupati – e in un modo che aiuta direttamente le politiche del governo israeliano di estrema destra.

Incremento del turismo di cui c’è molto bisogno

Nazareth è la più grande comunità palestinese in Israele sopravvissuta alla Nakba, o catastrofe, del 1948, che cacciò la maggioranza della popolazione autoctona da gran parte della propria patria e la sostituì con uno Stato ebraico. Oggi un quinto dei cittadini israeliani è palestinese.

La città e le sue immediate vicinanze includono la più alta concentrazione di palestinesi cristiani della regione. Ma ha a lungo patito dell’ostilità delle autorità israeliane, che hanno privato Nazareth di risorse per impedire che diventasse una capitale politica, economica o culturale della minoranza palestinese.

La città praticamente non ha terre su cui espandersi o zone industriali per ampliare le proprie risorse economiche, e Israele ha rigidamente limitato le sue possibilità di sviluppare un’adeguata industria turistica. La maggioranza dei fedeli vi passa brevemente per visitare la basilica dell’Annunciazione, il luogo in cui l’angelo Gabriele avrebbe detto a Maria che avrebbe portato in grembo Gesù.

Le autorità municipali di Nazareth hanno approfittato dell’occasione di sfruttare la pubblicità, e le entrate, fornite dalla visita di Joshua. La speranza a lungo termine del Comune è che, se la città potesse attirare almeno una piccola parte dei più di 60 milioni di cristiani evangelici degli USA e gli altri milioni in Africa ed Europa ciò fornirebbe un’enorme spinta all’economia della città.

Dati recenti mostrano che il turismo evangelico verso Israele è costantemente aumentato, rappresentando ora circa un settimo di tutti i visitatori dall’estero.

Giocare con il fuoco

Ma, come indicano le conseguenze negative della visita di Joshua, Nazareth potrebbe giocare con il fuoco incoraggiando questo tipo di pellegrini a interessarsi maggiormente alla regione. La maggior parte dei cristiani locali comprende che gli insegnamenti di Joshua non sono rivolti a loro – e, di fatto, probabilmente li danneggiano.

Il pastore nigeriano ha scelto Nazareth per diffondere il suo messaggio, ma si è trovato di fronte la viva opposizione di quanti credono che stia utilizzando la città solo come scenario per la sua più grande missione – che appare totalmente indifferente al dramma dei palestinesi, sia di quelli che vivono in Israele in luoghi come Nazareth o di quelli sotto occupazione.

A Nazareth le fazioni politiche hanno sottolineato i “legami di Joshua con circoli di estrema destra e dei coloni in Israele.” Egli avrebbe avuto incontri riguardo al fatto di avviare attività nella Valle del Giordano, il luogo in cui si ritiene che sia stato battezzato Gesù, ma anche la spina dorsale agricola della Cisgiordania. L’area è presa di mira dal governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu per l’espansione delle colonie e la possibile annessione, condannando di conseguenza i tentativi di creare uno Stato palestinese.

Una visione dell’Apocalisse

Durante la sua visita in Israele, Joshua ha anche avuto modo di parlare con figure importanti del governo, come Yariv Levin, uno stretto alleato di Netanyahu, che è stato titolare di due ministeri considerati fondamentali dalla comunità evangelica: quello del turismo e quello dell’integrazione in Israele di nuovi ebrei immigrati dagli USA e dall’Europa.

Nella comunità evangelica molti, compreso Joshua, pensano che sia loro dovere incoraggiare gli ebrei a spostarsi dai loro Paesi d’origine alla Terra Promessa per anticipare la fine del mondo, che sarebbe stata profetizzata dalla Bibbia.

Questa è l’Assunzione in cielo, quando Gesù ritornerà per costruire il suo regno sulla terra e i buoni cristiani prenderanno il loro posto al suo fianco. Tutti gli altri, compresi gli ebrei che non si saranno pentiti, è implicito, bruceranno nel fuoco eterno dell’inferno.

Il dirupo sulla valle di Megiddo, dove Joshua e i suoi discepoli si sono riuniti, offre una veduta su Tel Megiddo, il nome attuale del sito biblico di Armageddon, dove molti evangelici credono avverrà presto la fine del mondo.

Accelerare la seconda venuta

Questi cristiani non sono semplici osservanti di un progetto divino rivelato, sono parte attiva, cercando di avvicinare la fine del mondo.

Difatti i traumi del conflitto israelo-palestinese – i decenni di spargimenti di sangue, colonizzazione ed espulsione violenta dei palestinesi – non possono essere compresi separandoli dall’influenza dei dirigenti cristiani dell’Occidente in Medio Oriente nello scorso secolo. Essi hanno progettato in molti modi l’Israele che oggi conosciamo.

Dopotutto i primi sionisti non furono ebrei, ma cristiani. Un forte movimento cristiano-sionista – noto allora come “restaurazionismo” – sorse all’inizio del XIX° secolo, anticipando e influenzando pesantemente la sua successiva controparte ebraica.

La particolare lettura “restaurazionista” della Bibbia comportava che essi credessero che la seconda venuta del Messia avrebbe potuto essere accelerata se il popolo eletto da dio, gli ebrei, fosse tornato alla Terra Promessa dopo 2.000 anni di presunto esilio.

Charles Taze Russell, un pastore USA della Pennsylvania, viaggiò in tutto il mondo dagli anni ’70 dell’Ottocento in poi implorando gli ebrei di fondare un focolare nazionale per sé stessi in quella che allora era la Palestina. Produsse persino un progetto su come uno Stato ebraico potesse essere creato là. Lo fece circa 20 anni prima che il giornalista ebreo viennese Theodor Herzl pubblicasse il suo famoso libro che delineava uno Stato Ebraico.

Il laico Herzl non si interessava molto di dove questo Stato ebraico sarebbe stato fondato. Ma i suoi seguaci – profondamente consapevoli della presa del sionismo cristiano nelle capitali occidentali – concentrarono la propria attenzione sulla Palestina, la Terra Promessa biblica, nella speranza di conquistarsi potenti alleati in Europa e negli USA.

Parola d’ordine per i seguaci di Herzl

L’appoggio dell’impero britannico era particolarmente prezioso. Nel 1840 Lord Shaftesbury, che grazie a sua moglie era in rapporto con Lord Palmerston, in seguito primo ministro, pubblicò sul “London Times” un’inserzione che sollecitava il ritorno degli ebrei in Palestina.

Il sionismo cristiano fu un importante fattore che influenzò il governo inglese nel 1917 per l’emanazione della Dichiarazione Balfour – di fatto un impegno della Gran Bretagna che divenne la matrice per la creazione di uno Stato ebraico sulle rovine della patria della popolazione autoctona.

Scrivendo a proposito della dichiarazione, lo storico israeliano Tom Segev ha osservato: “Gli uomini che l’hanno prodotta erano cristiani e sionisti e, in molti casi, antisemiti.” Ciò perché i cristiani sionisti partivano dal presupposto che gli ebrei non si potessero integrare nei loro Paesi d’origine. Invece avrebbero potuto servire come strumenti del volere di dio, spostandosi in Medio Oriente in modo che i cristiani potessero essere redenti.

Edwin Montagu fu l’unico ministro del governo britannico ad opporsi alla Dichiarazione Balfour, ed era anche l’unico membro ebreo. Avvertì – per buone ragioni – che il documento si sarebbe “dimostrato un terreno comune per gli antisemiti in ogni Paese al mondo.”

Lotta fino all’Assunzione”

Mentre un secolo fa gli ebrei sionisti guardavano alla potenza imperiale britannica perché li appoggiasse, oggi il loro patrono sono gli USA. I portabandiera del sionismo cristiano hanno goduto di una crescente influenza a Washington a partire dalla guerra dei Sei Giorni del 1967.

Questo processo ha raggiunto il suo apice sotto la presidenza di Donald Trump. Si è circondato di una miscela di estremisti ebrei e cristiani sionisti. Il suo ambasciatore in Israele, David Friedman, e il suo inviato in Medio Oriente, Jason Greenblatt, sono ferventi sostenitori ebrei delle colonie illegali. Ma, a quanto pare, alla Casa Bianca ci sono anche importanti cristiani, come il vice presidente Mike Pence e il segretario di Stato Mike Pompeo.

Prima che entrasse nel governo, Pompeo era stato chiaro riguardo alla sua fede evangelica. Nel 2015 ha detto a una congregazione: “È una lotta senza fine…fino all’Assunzione in cielo. Siatene parte. Partecipate alla lotta.”

Lo scorso marzo ha appoggiato l’idea che Trump possa essere stato mandato da dio per salvare Israele da minacce come l’Iran. “Confido che dio stia lavorando qui,” ha detto alla Rete Televisiva Cristiana [CBN una rete televisiva americana di produzione religiosa evangelica molto conservatrice ndtr].

Nel contempo Pence ha affermato: “La mia passione per Israele sgorga dalla mia fede cristiana…È veramente il più grande privilegio della mia vita essere il vicepresidente di un presidente che si preoccupa così profondamente del nostro più prezioso alleato.”

Il gigante addormentato si risveglia.

Lo scorso anno lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme da parte di Trump, svuotando di significato qualunque accordo negoziato del conflitto israelo-palestinese, era inteso a compiacere la sua base cristiana sionista. Circa l’80% degli evangelici bianchi ha votato per lui nel 2016 ed egli avrà bisogno del loro appoggio di nuovo nel 2020 se spera di essere rieletto.

Non a caso la nuova ambasciata USA a Gerusalemme è stata consacrata da due importanti telepredicatori evangelici, John Hagee e Robert Jeffress, noti per il loro appoggio fanatico a Israele – così come per i loro occasionali accessi antisemiti.

Più di un decennio fa Hagee, fondatore di “Cristiani Uniti per Israele”, disse ai delegati di una conferenza organizzata dall’AIPAC, principale gruppo lobbystico di Israele a Washington: “Il gigante addormentato del sionismo cristiano si è svegliato. Ci sono 50 milioni di cristiani che applaudono in piedi lo Stato di Israele.”

Le attività del gruppo di Hagee includono pressioni sul Congresso per dure leggi a favore di Israele, come la recente legge “Taylor Force” che taglia drasticamente il finanziamento USA all’Autorità Nazionale Palestinese, il governo provvisorio palestinese. Il gruppo è anche attivo nel contribuire a far pressione a favore di leggi a livello statale e federale che penalizzino chiunque boicotti Israele. Per gli evangelici USA e altrove Israele è sempre più una questione fondamentale. Un sondaggio del 2015 mostrava che circa i tre quarti credono che avvenimenti in Israele siano stati profetizzati nel Libro dell’Apocalisse della Bibbia.

Molti si aspettano da Trump che completi una catena di eventi messi in movimento da politici britannici un secolo fa – e in numero sempre maggiore sono direttamente coinvolti nella speranza di accelerare il processo.

Legami più stretti con i coloni

La visione israeliana di una “riunificazione degli esiliati” – incoraggiando gli ebrei di tutto il mondo a spostarsi nella regione in base alla “legge del ritorno” – corrisponde perfettamente alla fede dei cristiani sionisti in un progetto divino per il Medio Oriente.

Anche gli sforzi dei coloni estremisti ebrei di colonizzare la Cisgiordania, la maggior parte di un qualunque futuro Stato palestinese, si accorda con la concezione dei cristiani sionisti della Cisgiordania come il “cuore biblico”, un’area che gli ebrei devono possedere prima che Gesù ritorni.

Per queste ragioni gli evangelici stanno sviluppando rapporti sempre più stretti con gli estremisti religiosi ebrei israeliani, soprattutto nelle colonie. Recenti iniziative hanno incluso programmi di studio della Bibbia, on line e presenziali, condotti da ebrei ortodossi, spesso coloni, destinati specificamente a cristiani evangelici. I seminari sono disegnati per rafforzare la narrazione dei coloni, così come per demonizzare i musulmani e, per estensione, i palestinesi.

Il corso più popolare offerto da “Root Source” [Sorgente Principale], una di queste iniziative, è intitolato “Islam: idee e inganni”. Utilizza il Vecchio e il Nuovo Testamento per sostenere l’argomentazione secondo cui l’Islam “è estremamente pericoloso”.

Pochi mesi fa Haaretz, il principale giornale progressista israeliano, ha pubblicato un’inchiesta sul crescente afflusso di volontari e finanziamenti evangelici nelle colonie illegali in Cisgiordania – il principale ostacolo per raggiungere una soluzione dei due Stati.

Una sola organizzazione USA, “Hayovel”, ha portato più di 1.700 volontari cristiani negli ultimi 10 anni per contribuire a una colonia nei pressi di Nablus, nel cuore della Cisgiordania.

Affluisce denaro degli evangelici

Un crescente numero di iniziative simili è stato agevolato da nuove norme introdotte lo scorso anno dal governo israeliano per finanziare gruppi cristiani sionisti come Hayovel perché promuova all’estero le colonie.

È molto più difficile sapere esattamente quanto denaro degli evangelici affluisca nelle colonie, a causa della mancanza di trasparenza riguardo alle donazioni USA fatte da chiese e istituzioni benefiche. Ma l’inchiesta di Haaretz stima che nell’ultimo decennio siano stati investiti più di 65 milioni di dollari.

Dieci anni fa Ariel, una colonia posta nel pieno centro della Cisgiordania, ha ricevuto da John Hagee Ministries [Sermoni di John Hagee] 8 milioni di dollari per un centro sportivo. Un altro gruppo evangelico, “J. H. Israel”, vi ha speso 2 milioni di dollari per un centro per una leadership nazionale.

Altre associazioni benefiche cristiane che storicamente hanno finanziato progetti in Israele stanno sempre più prendendo in considerazione anche l’assistenza alle colonie.

Se un piano di pace di Trump, che dovrebbe essere reso pubblico alla fine di quest’anno, sostenesse l’annessione di parti della Cisgiordania, come ampiamente previsto, probabilmente scatenerebbe un nuovo e anche maggiore flusso di denaro degli evangelici nelle colonie.

Immune alla ragione

Proprio questo è il problema per i palestinesi, e per il Medio Oriente in generale. I cristiani sionisti si stanno ancora una volta immischiando, che si tratti di funzionari del governo, leader o comunità di una chiesa. L’influenza degli evangelici si può riscontrare dagli USA e il Brasile all’Europa, all’Africa e al Sudest asiatico.

I governi europei generalmente hanno preoccupazioni più concrete e pressanti che realizzare profezie bibliche per giustificare politiche di divide et impera in Medio Oriente. Vogliono soprattutto il controllo sulle risorse petrolifere della regione, e possono garantirsele solo attraverso il potere militare per impedire che Nazioni rivali vi si affermino.

Ma l’acritico sostegno di decine di milioni di cristiani in tutto il mondo, la cui passione per Israele è immune alla ragione, fanno il lavoro per quei governi accettando come niente fosse guerre e furto di risorse.

Sia Israele che l’Occidente hanno tratto beneficio dall’aver creato l’immagine di un impavido Stato ebraico circondato da barbari arabi e musulmani decisi a distruggerlo. In conseguenza di ciò, Israele ha goduto di una sempre crescente integrazione nel blocco delle potenze occidentali, mentre ai governi occidentali sono stati offerti facili pretesti per interferire nella regione, direttamente o delegando questa intromissione a Israele.

La ricompensa per Israele è stata l’appoggio incondizionato da parte degli USA e dell’Europa, mentre opprime ed espelle dalle loro terre i palestinesi.

Con una base evangelica dietro di lui, Trump non ha la necessità di offrire argomenti plausibili prima di agire. Può spostare l’ambasciata USA a Gerusalemme o approvare l’annessione della Cisgiordania, o attaccare l’Iran.

Schierarsi contro i nemici di Israele

Da questo punto di vista qualunque nemico Israele sostenga di avere – i palestinesi o l’Iran – diventa automaticamente acerrimo nemico di decine di milioni di cristiani evangelici. Netanyahu comprende la crescente importanza di questa acritica lobby straniera, mentre la posizione sua e di Israele precipita tra gli ebrei USA progressisti, inorriditi dalla deriva verso destra dei governi che vi si susseguono.

Nel 2017 Netanyahu ha detto a una folla di evangelici a Washington: “Quando dico che non abbiamo migliori amici dei sostenitori cristiani di Israele, so che siete sempre stati con noi.” Per i palestinesi questa è una brutta notizia. La maggior parte di questi evangelici, come T.B. Joshua, sono in larga misura indifferenti o ostili al destino dei palestinesi – anche dei palestinesi cristiani, come quelli di Nazareth.

Un recente editoriale di Haaretz ha evidenziato che Netanyahu e i suoi politici stanno ora “adoperandosi per rendere gli evangelici – che appoggiano il rifiuto radicale di Israele riguardo ai palestinesi – l’unica base dell’appoggio americano per Israele.”

La verità è che questi cristiani sionisti vedono la regione attraverso un unico, esclusivo prisma: qualsiasi cosa contribuisca all’imminente arrivo del messia è ben accetta. L’unico problema è tra quanto tempo il “popolo eletto” da dio si riunirà nella Terra Promessa.

Se i palestinesi ostacolano Israele, queste decine di milioni di cristiani stranieri saranno assolutamente contenti di vedere la popolazione autoctona di nuovo cacciata – come lo è stata nel 1948 e nel 1967.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Jonathan Cook

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. È l’autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del Martha Gellhorn Special Prize for Journalism.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La pulizia etnica di Israele in Palestina non è storia – continua ad avvenire

Ben White

22 Maggio 2019 – Middle East Eye

Ciò che avviene in Cisgiordania e a Gerusalemme est non è solo un’occupazione militare.

Le congetture riguardo al “piano di pace per il Medio Oriente” della Casa Bianca continuano a dominare le informazioni sui media israeliani e dei palestinesi; l’ultimo esempio è dato dall’annuncio di un “workshop” a giugno ospitato dal Bahrein per incoraggiare gli investimenti nell’economia palestinese.

Tuttavia, con l’eccezione della Striscia di Gaza – e solo parzialmente e in modo selettivo – viene posta una minima attenzione agli sviluppi sul terreno nei territori palestinesi occupati.

In Cisgiordania e Gerusalemme est il paradigma dell’occupazione militare è insufficiente da solo per comprendere che cosa stia accadendo –vale a dire, una pulizia etnica.

Che cos’è una pulizia etnica?

La recente Giornata della Nakba ha portato – almeno in alcuni ambiti – ad una riflessione sulle espulsioni di massa e sulle atrocità che hanno accompagnato la fondazione dello Stato di Israele. Ma la pulizia etnica non è un evento storico in Palestina: sta succedendo adesso.

In un saggio del 1994 sulla definizione di pulizia etnica, il giurista Drazen Petrovic ha evidenziato “l’esistenza di una sofisticata politica che sottende a singoli eventi”, eventi, o prassi, che possono comprendere diverse “misure amministrative”, come anche violenze sul territorio da parte di attori statali e non statali.

Lo scopo, ha scritto Petrovic, potrebbe essere definito come “una modificazione irreversibile della struttura demografica” di una particolare area, e “il conseguimento di una posizione più favorevole per uno specifico gruppo etnico risultante da negoziati politici basati sulla logica della divisione lungo linee etniche.”

Questa è una corretta descrizione di ciò che sta avvenendo oggi in tutti i territori palestinesi occupati per mano delle forze dello Stato israeliano e dei coloni israeliani.

In parecchie località lo Stato e i coloni stanno lavorando congiuntamente per modificare forzatamente – attraverso “misure amministrative” e violenze – la composizione demografica locale.

Prendete la Valle del Giordano, lungo il lato orientale della Cisgiordania, dove le famiglie palestinesi sono costantemente e ripetutamente evacuate con la forza dalle loro case, a volte per giorni, dalle forze di occupazione israeliane, per esercitazioni di addestramento militare.

Secondo un reportage di Haaretz, gli abitanti di Humsa – per fare un esempio – sono stati evacuati con la forza dalle loro case decine di volte negli ultimi anni. “Anche se ogni volta ritornano”, sottolinea l’articolo, “alcuni di loro sono esausti ed abbandonano le loro case per sempre.”

Non sono incidenti isolati

Nell’aprile 2014 un colonnello israeliano ha detto in una riunione della commissione parlamentare che nelle zone della Valle del Giordano “dove abbiamo significativamente ridotto la quantità di addestramenti, sono cresciute le erbacce” –intendendo indicare con questo termine le comunità palestinesi. “È qualcosa che dovrebbe essere presa in considerazione”, ha detto.

Recentemente un abitante di Khirbet Humsa al-Fawqa – una piccola comunità nel nord della Valle del Giordano – ha detto a Middle East Eye: “Non so se stanno realmente svolgendo un’esercitazione militare. A volte ci fanno evacuare e non fanno niente. Il loro scopo è costringerci a lasciare la zona definitivamente.”

Intanto l’Ong israeliana per i diritti umani B’Tselem all’inizio del mese ha riferito di un “aumento della frequenza e della gravità degli attacchi da parte dei coloni” contro i palestinesi nella Valle del Giordano.

I coloni “minacciano I pastori, li cacciano, li aggrediscono fisicamente, guidano a tutta velocità in mezzo alle greggi per spaventare le pecore e addirittura le travolgono o le rubano”, ha dichiarato B’Tselem, aggiungendo che “i soldati sono di solito presenti durante questi attacchi e a volte vi prendono anche parte.”

B’Tselem ha detto che questi attacchi “non sono incidenti isolati, ma piuttosto parte della politica che Israele applica nella Valle del Giordano.”

Lo scopo è “impadronirsi di più terra possibile, spingendo i palestinesi ad andarsene, scopo raggiunto con varie misure, incluso rendere la vita in quei luoghi così insostenibile e sconfortante che i palestinesi non abbiano altra scelta che lasciare le proprie case, apparentemente ‘per scelta’”.

Questa situazione, sintetizza la Ong, “è fatta di attacchi coordinati di soldati e coloni”, e anche di “un divieto assoluto di sviluppare le comunità palestinesi con la costruzione e l’edificazione di infrastrutture vitali, incluse acqua, elettricità e strade.”

Le comunità palestinesi nella Valle del Giordano sono solo alcune di quelle minacciate dalla politica israeliana di pulizia etnica. Si possono trovare altri esempi nei quartieri palestinesi di Gerusalemme est occupata, come Sheikh Jarrah e Silwan.

Fatti sul terreno

Il 3 maggio Jamie McGoldrick, coordinatore umanitario dell’ONU in Palestina, ha avvertito che le demolizioni a Gerusalemme est da parte delle autorità israeliane “sono aumentate a una velocità impressionante”, con 111 strutture di proprietà palestinese distrutte a Gerusalemme est nei primi quattro mesi del 2019.

In queste comunità palestinesi lo Stato israeliano, la magistratura e le organizzazioni dei coloni fanno sforzi congiunti per espellere – e rimpiazzare – le famiglie palestinesi.

Lo scorso novembre la Corte Suprema israeliana “ha aperto la strada al gruppo di coloni Ateret Cohanim [che intende creare una maggioranza ebraica nei quartieri arabi di Gerusalemme, ndtr.] per proseguire i procedimenti legali per espellere almeno 700 palestinesi che vivono nella zona di Batn al- Hawa” di Silwan. La Ong Ir Amim [associazione israeliana che difende i diritti di tutti gli abitanti di Gerusalemme, ndtr.] afferma che le espulsioni sono fondamentali per “una rapida diffusione di nuovi fatti sul terreno”.

In base a qualunque ragionevole definizione del termine, qui Israele sta portando avanti la pulizia etnica: l’uso di misure amministrative e della violenza da parte di forze statali e di coloni per cacciare i palestinesi dalle loro terre ed infine produrre una trasformazione demografica irreversibile di diverse località.

Così, il governo israeliano – da tempo abituato all’assenza di una chiamata alla responsabilità a livello internazionale per queste prassi – sarà solo molto felice non solo dei contenuti del “piano di pace” USA, ma anche dall’opportuna distrazione che esso fornisce riguardo alla terribile realtà che sta dietro ad ancor più numerosi “fatti sul terreno.”

Ben White

Ben White è l’autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide” [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di “Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Scrive per Middle East Monitor e i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian e altri.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Esperti israeliani e palestinesi redigono una ‘road map’ per salvare l’economia palestinese

Amira Hass, 25 marzo 2017, Haaretz

Circa 2 milioni di palestinesi sono ammassati nei 365 chilometri quadrati della Striscia di Gaza. Nella Valle del Giordano, che conta 1.600 chilometri quadrati, ci sono 65.000 palestinesi (e altri circa 10.000 coloni israeliani). Teoricamente gli accordi di Oslo avrebbero dovuto consentire a molti abitanti di Gaza di spostarsi nella Valle del Giordano – per lavorare nelle infrastrutture e in agricoltura (anche se solo per attività stagionali), nell’edilizia, nel turismo e nell’industria.

Ma in realtà queste due aree palestinesi “contribuiscono” al deterioramento dell’economia palestinese nel suo complesso. In entrambe, la principale ragione del declino sta nelle draconiane restrizioni alla libertà di movimento, di accesso alle risorse e alle possibilità di commercio, costruzione, agricoltura e sviluppo imposte da Israele.

Queste affermazioni non sono affatto nuove, già la scorsa settimana un gruppo di 11 economisti palestinesi ed israeliani ha pubblicato due studi a questo riguardo. Gli studiosi delineano un piano per espandere l’attività economica palestinese nella Valle del Giordano e salvare l’economia di Gaza (prima del 2020, data entro la quale, se nulla cambia, questa enclave isolata sarà inabitabile, come hanno avvertito due anni fa le Nazioni Unite).

Per ragioni di cortesia, e forse perché gli studi sono stati elaborati in collaborazione con la Banca Mondiale, gli autori si occupano di sincere affermazioni di politici israeliani circa il desiderio di vedere un miglioramento nell’economia palestinese. In effetti, i due autori – Saeb Bamya e il professor Arie Arnon che, insieme al dottor Shanta Devarajan, capo economista al MENA (Medio Oriente e Nord Africa, ndtr.) della Banca Mondiale, hanno presentato i documenti mercoledì all’Istituto Truman di Gerusalemme – sono perfettamente coscienti che l’attuale situazione non è solamente il risultato di una casuale serie di errori umani.

Ma è stato il moderatore di una tavola rotonda, l’ex ambasciatore di Israele in Sudafrica Ilan Baruch, a non moderare i termini. “Vi è stata una deliberata politica israeliana tesa a creare deficit”, ha detto. “La comunità internazionale deve essere coinvolta – non come donatore, ma per esercitare pressioni [su Israele].”

Il giorno prima, gli studi sono stati presentati per la prima volta negli uffici della Banca Mondiale nel quartiere Dahiyat al-Barid di Gerusalemme, all’ombra del muro di separazione. Alcuni relatori hanno detto ai funzionari presenti: sono state elargite grosse somme di denaro per determinare un cambiamento, non per perpetuare lo status quo. Ma sembra che il denaro dei contribuenti dei vostri Paesi in realtà rafforzi la situazione di deterioramento. E questo deve cambiare.

A coloro che sono arrivati a pensare al blocco di Gaza come a un dato di fatto e che sono abituati a pensare che la Valle del Giordano appartenga ad Israele, le misure di semplice ricostruzione proposte dagli economisti sembreranno surreali. Permettere il regolare movimento di persone e camion direttamente tra Gaza e la Cisgiordania? Riaprire l’aeroporto di Gaza? Fornire acqua e maggiore elettricità alla Striscia? Ricostruire la flotta di pescatori e costruire un porto? Permettere ai palestinesi di coltivare altri 40.000 dunams ( 24,7 km²) nella Valle del Giordano? Lasciare che vi creino e sviluppino il turismo?

Un approccio differente da Oslo

Sembra inconcepibile. Ma secondo Arnon le raccomandazioni degli studi sono in realtà molto vicine all’approccio prospettato da alti dirigenti militari e della sicurezza israeliani, che comprendono i rischi per la sicurezza contenuti in un’economia palestinese in difficoltà. Quindi queste raccomandazioni sono un ulteriore tentativo di trovare persone responsabili in Israele che possano fare dei passi per scongiurare le disastrose previsioni.

Il Gruppo di Aix, che prende il nome dall’università francese in cui fu fondato nel 2002 (Università Paul Cézanne Aix-Marseille III), è stato creato per delineare scenari socioeconomici per la fase di status finale dei due Stati. Questo approccio è l’opposto di quello degli Accordi di Oslo, in cui sono state indicate in modo molto dettagliato fasi intermedie come percorso per realizzare un’ipotesi che non era definita.

Perciò, per il Gruppo di Aix, i due studi sono un nuovo lavoro che propone passi concreti per salvare e rivitalizzare l’economia a breve e medio termine, indipendentemente dalla situazione dei negoziati sullo status finale e con la consapevolezza della scarsa probabilità che tali colloqui possano ricominciare presto.

Ogni studio utilizza cifre e grafici per illustrare le tendenze economiche. Per esempio, nei 20 anni trascorsi dalla creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese nel 1994, il prodotto interno lordo pro capite a Gaza è stato in media di 1.200 dollari (calcolati a prezzi del 2004). Negli anni migliori, 1998 e 1999, è stato di 1.450 dollari. Il livello più basso è stato nel 2007 e 2008 con solo 900 dollari. Per fare un confronto, a quel tempo il dato è stato di 4.200 dollari in Giordania e di 20.000 dollari in Israele.

Il PIL per lavoratore illustra ulteriormente il peggioramento – da 24.000 dollari nel 2005 a 10.000 dollari oggi. Questo è anche il modo per calcolare la produttività nell’economia.

Secondo gli autori, che citano uno studio della Banca di Israele che ha rilevato che dal 2006 al 2009 l’occupazione nel settore manifatturiero è crollata del 33%, rispetto ad un aumento del 24% nel settore dei servizi, questo drastico peggioramento è dovuto soprattutto al blocco di Gaza. Intanto nel 2015 la disoccupazione giovanile a Gaza è arrivata al 57.6%; il tasso complessivo di disoccupazione è stato del 41%.

Un altro modo per osservare il deterioramento è considerare il valore delle importazioni pro capite. Nel 1997 questo dato era di 800 dollari a Gaza e 1.000 dollari in Cisgiordania. Nel 2015 era di 400 dollari a Gaza e 1.400 in Cisgiordania.

E le esportazioni pro capite? Queste sono sempre state basse. Ma anche questo valore ridotto è diminuito. Nel 2000 le esportazioni erano il 10% del PIL, con 15.255 camion che uscivano da Gaza. Questo dato è sceso al 6.8% nel 2005 (9.319 camion) e a 0 tra il 2008 e il 2010. E’ stato registrato un lieve incremento nel 2015 e 2016, con 1.400 camion in uscita da Gaza ogni anno (grazie all’Olanda, che ha fatto pressioni perché si permettesse a Gaza di esportare all’estero alcune delle sue produzioni agricole).

Scarso sostegno a Gaza da parte dell’ANP

Il blocco israeliano impedisce all’economia di Gaza di beneficiare del movimento di merci e di persone. I costi crescenti abbassano la produttività e scoraggiano gli investitori, oltre alle fatiscenti infrastrutture di Gaza. Gli investitori sono spaventati anche dai rischi militari e politici, sostengono gli autori, che non ignorano un fattore interno: i due distinti governi palestinesi e la rivalità tra Hamas e l’ANP.

Gli autori respingono la ricorrente affermazione dell’ANP che il 40% del suo budget viene investito a Gaza. In base ai loro calcoli, solo il 15% del budget non coperto da entrate doganali e da imposte sul valore aggiunto viene trasferito alla Striscia. Non è un grande aiuto, dicono gli autori, aggiungendo che generalmente le zone ricche sovvenzionano quelle più povere.

Quanto alla paura di Israele del rischio per la sicurezza che comporterebbe allentare il blocco, le argomentazioni degli autori poggiano su una logica elementare: il blocco draconiano non ha impedito ad Hamas di armarsi e non ha impedito i conflitti. La situazione socioeconomica in peggioramento non fa che aumentare il malessere e la rabbia, che alimentano gruppi e idee estremiste. Secondo gli autori un allentamento del blocco in ultima istanza ridurrà il sostegno ad Hamas.

Inoltre scrivono: “Il blocco di Gaza potrebbe non essere solo una punizione per Hamas, ma anche un modo per rafforzare il suo controllo su Gaza. E’ più facile controllare un territorio chiuso che uno aperto, dove le persone possono entrare ed uscire.”

La valle del Giordano non è separata dal resto della Cisgiordania, ma, in base al secondo studio, per 50 anni, e soprattutto negli ultimi 20 anni, Israele ha vietato ai palestinesi l’accesso, la costruzione e lo sviluppo in circa il 75% dell’area, con diversi pretesti: zone di esercitazione militare, riserve naturali, zone di sicurezza, terreni dello Stato. Circa il 90% della terra nella Valle del Giordano rientra sotto l’autorità di 24 colonie. Circa l’80% del territorio è in Area C, sotto l’esclusivo controllo israeliano.

Dei 160.000 dunams (16.000 ha., ndt.) nella Valle del Giordano, i palestinesi ne coltivano solo 42.000 (4.200, ndt). I coloni coltivano tra i 30.000 (3.000 ha, ndt) e i 50.000 dunams (5.000 ha, ndt), ed il resto è vietato ai palestinesi. Riguardo all’accesso all’acqua, questo dato da solo illustra adeguatamente la situazione: la quantità media di acqua usata da un colono è quasi 10 volte maggiore della quantità usata da un palestinese.

Ecco il risultato, secondo lo studio: “Questo sottosviluppo si manifesta in sviluppo rurale limitato e scarsa crescita economica, che produce un aumento della povertà, inadeguate condizioni sanitarie ed igieniche, deterioramento materiale ed ambientale. E’ la conseguenza di tante difficoltà ed ostacoli, compresa l’iniqua distribuzione delle risorse idriche, la distruzione di vitali infrastrutture idriche, mancanza di fognature e notevoli perdite di acqua.”

C’è un altro dato molto eloquente: l’aspettativa media di vita per i palestinesi nella Valle del Giordano è di 65 anni, a fronte di 71.8 nell’intera Cisgiordania.

Gli autori affrontano la questione della sicurezza e le restrizioni di movimento ad essa dovute. Affermano che la sicurezza si ottiene non solo con strumenti militari, ma riducendo la motivazione della parte avversa a lottare contro di te. La situazione di povertà crescente e di qualità della vita in continuo peggioramento crea un focolaio di rabbia e disperazione che potrebbe portare, prima o poi, ad ulteriori cicli di violenza.

Gli autori non trattano della mancanza di sicurezza per i palestinesi, che sono spesso attaccati da esercito e polizia, o dai coloni.

Infatti, proprio in questi giorni, gli abitanti di nuovi avamposti non autorizzati eppure prosperi nel nord della Valle del Giordano stanno facendo uso di intimidazioni e violenze per scacciare pastori e contadini palestinesi da un’ampia zona di territorio. Perciò gli autori farebbero bene ad aggiungere una raccomandazione: adottare metodi per sventare attacchi dei coloni, che probabilmente aumenteranno se le persone responsabili consentiranno ai palestinesi maggiore accesso alle loro terre.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)