Una nuova ondata di avamposti dei coloni sta terrorizzando e cacciando i palestinesi dalle loro terre

Imad Abu Hawash 

8 marzo 2024 – +972 Magazine

I palestinesi in Cisgiordania raccontano di come i coloni israeliani, con il sostegno dei militari, stiano intensificando la loro occupazione delle terre per costruzioni illegali.

Sin dalla fine di dicembre i palestinesi che abitavano nel villaggio di Battir, a ovest di Betlemme nella Cisgiordania occupata, sono stati allontanati da porzioni significative delle loro terre. Semplicemente un gruppo di coloni israeliani un giorno è arrivato nella zona che l’UNESCO ha designato come sito del patrimonio mondiale e fondato un nuovo avamposto con alcune baracche per viverci e tenere il bestiame.

Alcuni coloni e pastori hanno preso il controllo dell’area e iniziato a pascolare le proprie greggi sulle terre del villaggio, impedendo ai palestinesi di raggiungere i pascoli,” ha detto a +972 Magazine Ghassan Alyan, un abitante del villaggio. “Hanno persino fatto volare dei droni fra le nostre greggi per disperderle, minacciando di sparare.” 

Di conseguenza contadini e pastori di Battir hanno completamente perso l’accesso alla terra che era la fonte del loro sostentamento. “È diventato impossibile per i palestinesi raggiungere la zona, i coloni possono sparare contro chiunque vi si trovi. I coloni indossano uniformi militari e si spostano con la protezione dell’esercito,” ha continuato Allyan, osservando che la tendenza dei coloni ad arruolarsi nella riserva dell’esercito nel corso della guerra di Israele contro Gaza ha reso più difficile distinguerli dai soldati.  

La gente del villaggio era solita andare a fare escursioni in questa zona, ma ora nessuno può uscire e godersi la natura,” ha aggiunto Alyan. “I coloni girano in macchina usando le nuove strade sterrate che hanno aperto dopo aver stabilito l’avamposto. Gli abitanti di Battir sono terrorizzati. Nessuno si avvicina a questa zona.” 

Negli ultimi cinque mesi in Cisgiordania ampie estensioni di terra di proprietà palestinese sono state di fatto annesse dai coloni israeliani. In alcune zone come Battir i coloni hanno stabilito degli avamposti completamente nuovi, nove secondo una relazione di Peace Now [organizzazione progressista e pacifista israeliana, ndt.].

Se tutte le colonie israeliane in Cisgiordania sono illegali ai sensi del diritto internazionale, la costruzione di avamposti non autorizzati è tecnicamente illegale persino per la legge israeliana. Ciononostante l’esercito israeliano invariabilmente protegge i coloni e in genere lo Stato permette loro di allacciarsi alla rete elettrica e idraulica, a differenza delle comunità palestinesi sulle cui terre sono costruite. 

E con l’attuale governo israeliano di estrema destra la distinzione è ancora più nebulosa: a dicembre il ministro della Finanze Bezalel Smotrich ha destinato agli avamposti in Cisgiordania circa 19 milioni di euro di fondi statali.  

Nel frattempo, secondo il rapporto di Peace Now, dal 7 ottobre i coloni hanno anche asfaltato o portato avanti la costruzione di almeno 18 nuove strade senza un’autorizzazione governativa preventiva, permettendo l’espansione di colonie e avamposti e isolando nel contempo i palestinesi dalle proprie terre. E in parecchi casi, con la copertura della guerra e la collaborazione attiva o tacita dell’esercito, i coloni hanno semplicemente occupato le terre con la forza, le minacce o i decreti militari. 

Quando la guerra finirà i coloni si saranno allargati drammaticamente’

Il 26 novembre al calare dell’oscurità sul villaggio di Ar-Rihiya, proprio a sud di Hebron, il rumore delle escavatrici riempiva l’aria. “I coloni (dal vicino insediamento di Beit Hagai) hanno cominciato a tracciare una strada sterrata che si estende su centinaia di dunam,” ha detto a +972 Ahmad al-Tubasi, un abitante di Ar-Rihiya. “Abbiamo chiamato varie volte la polizia israeliana e quando è finalmente arrivata gli escavatoristi erano scomparsi. La polizia ha fatto finta di non sapere cosa stesse succedendo.” 

Poche settimane dopo i coloni sono ritornati. Odeh al-Tubasi, un contadino che ara la terra di molti abitanti del villaggio, ha raccontato cosa è successo: “Stavo lavorando alle colture invernali quando, a circa 250 metri di distanza, è apparso un veicolo militare, seguito da un altro bianco da cui sono scesi quattro coloni. Ero attanagliato dalla paura mentre si avvicinavano. Mi sono allontanato velocemente con il mio trattore e sentivo che i coloni urlavano in ebraico, ‘Non ritornare qua, ti è proibito entrare e lavorare. Questa è la nostra terra!’” 

La sequenza di eventi spesso segue questo schema: prima i coloni erigono case mobili su terra palestinese, poi la occupano o costruiscono infrastrutture chiave come strade, di solito senza permessi, e poi, dopo attacchi sostenuti e molestie senza intervento di esercito o polizia, espellono i palestinesi dai terreni. Dagli attacchi guidati da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre, oltre 1.000 palestinesi sono stati forzatamente sfollati in questo modo dai villaggi dell’Area C della Cisgiordania, circa il 60% del territorio sotto il totale controllo di Israele, dove sono situate tutte le colonie e gli avamposti.  

L’anno scorso gli abitanti di Beit Awwa, a ovest di Hebron, si sono trovati nel bel mezzo di questo processo con la costruzione di un nuovo avamposto sulle terre del villaggio. La scorsa estate coloni israeliani dall’avamposto di Havat Negohot, con l’appoggio dell’esercito, hanno cominciato a spianare parecchi dunam di terra e a erigere strutture temporanee a circa 50 metri dalle case dei palestinesi. I coloni hanno bloccato l’unica strada che consente l’accesso a sei case dei palestinesi e ai terreni agricoli, costringendo gli abitanti di quelle case a percorrere strade distanti e sterrate e portare cibo e acqua sulle spalle o a dorso d’asino. 

Dopo il 7 ottobre i coloni hanno tracciato una nuova strada ed eretto altre cinque baracche di alluminio, espandendo ulteriormente l’avamposto. Il comune di Beit Awwa, in collaborazione con gli abitanti, ha presentato alla Corte Suprema israeliana una petizione urgente richiedendo la riapertura delle strade. Il 29 gennaio c’è stata un’udienza ma non è stata raggiunta alcuna decisione. 

Secondo Peace Now i coloni, nel tentativo di collegare il nuovo avamposto alla colonia di Negohot, essa stessa costruita su terre appartenenti a Beit Awwa, hanno continuato a lavorare sulla strada mentre era in corso l’azione legale. La nuova strada è stata illegalmente asfaltata senza un vero permesso di progettazione o costruzione, mentre la strada che viene usata dagli abitanti palestinesi resta chiusa.  

Insediare un nuovo avamposto esacerba le nostre sofferenze,” ha detto +972 Yousef al-Swaiti, il sindaco di Beit Awwa. “Quando la guerra sarà finita i coloni si saranno allargati drammaticamente nelle vicinanze del villaggio. Nessuno potrà andarci. Coloni armati potrebbero sparare a qualsiasi abitante del villaggio che tentasse semplicemente di avvicinarsi alla terra confiscata.” 

Attacchi contro gli abitanti del villaggio sono ormai all’ordine del giorno da parte sia di coloni che di soldati. Il 15 novembre Nouh Kharub è stato aggredito da soldati mentre se ne stava seduto con la famiglia sul terreno davanti a casa a Khallet a-Taha, nella periferia orientale di Beit Awwa. 

Uno di loro mi ha picchiato varie volte con un fucile,” ha raccontato. “Sia i soldati che il colono che li aveva accompagnati ci urlavano contro: ‘È vietato ritornare qui,’ e, ‘Vi uccideremo.’ Ci siamo trovati intrappolati in casa, nessuno di noi poteva ritornare a casa nostra mentre i coloni erigevano un nuovo avamposto a 100 metri di distanza.” 

La stessa sorte è toccata a Mohammad Aqtil: la costruzione dell’avamposto ha impedito a lui e alla sua famiglia di accedere alle terre a Khallet a-Taha. “Fuori casa i miei movimenti e quelli dei miei figli sono limitati,” ha spiegato Aqtil. “Non ci è permesso fare niente sulla terra.

Soldati mi dicono in continuazione, ‘Questa è una zona militare, questa casa non è vostra, queste sono terre demaniali.’ Allo stesso tempo i coloni erigono un avamposto con edifici e tende, circondandolo di filo spinato e collegandolo con una strada asfaltata che porta a Negohot. La costruzione è avanzata rapidamente dopo la dichiarazione di guerra.”

È come se volessero vendicarsi’

Talvolta non è necessaria una nuova costruzione per buttar fuori i palestinesi dalle loro terre. Il 2 gennaio il 48enne Yousef Makhamra del villaggio di Khirbet al-Tha’la, in una parte della Cisgiordania meridionale nota come Masafer Yatta, è uscito per arare la sua terra con altri due contadini palestinesi. A causa dell’impennata in anni recenti degli attacchi in questa zona da parte di coloni e soldati israeliani contro i palestinesi al lavoro sulle proprie terre erano accompagnati da attivisti israeliani come “presenza protettiva”, nella speranza di scoraggiare o almeno documentare tali incidenti. Quel giorno è stato tutto inutile. 

Avevamo cominciato a seminare quando è arrivato un veicolo militare,” ha detto Makhamra a +972. Dalla camionetta sono usciti parecchi soldati israeliani e 3 coloni vestiti con pantaloni militari, uno dei quali era Bezalel Dalia che Makhamra sapeva provenire dall’avamposto di Nof Nesher. 

Si sono lanciati contro di noi e mi hanno ammanettato le mani dietro la schiena e lo stesso hanno fatto con Jamil [un altro contadino],” ha continuato. “Alcuni dei coloni hanno impedito agli attivisti israeliani di fare delle riprese mentre Dalia mi prendeva a calci. “Gli ho detto, ‘Vattene via, sono malato,’ ma ha continuato a prendermi a calci. 

Ho avuto molta paura perché i coloni erano con i soldati,” ha continuato Makhamra. “Era come se cercassero vendetta [per il 7 ottobre]. Uno di loro ha detto, ‘Questa è terra per i coloni.’”

Dopo pochi minuti sono arrivati altri attivisti israeliani e i soldati hanno prontamente tolto le manette a Makhamra e Jamil. Uno degli attivisti ha consegnato ai soldati una decisione della Corte che afferma il diritto dei contadini palestinesi a coltivare la terra. Tuttavia l’ufficiale ha insistito che smettessero di lavorare fino a che qualcuno dell’Amministrazione Civile, il corpo dell’esercito responsabile dell’amministrazione dell’occupazione, potesse confermare che i contadini avevano veramente questo diritto. 

I contadini hanno aspettato parecchie ore prima che arrivasse un rappresentante dell’Amministrazione Civile e li autorizzasse a continuare a lavorare. Ma un’ora dopo, un altro colono, Issachar Mann dell’avamposto di Havat Maon, è arrivato con dei soldati che di nuovo hanno chiesto ai contadini palestinesi di interrompere il lavoro fino a una valutazione dell’Amministrazione Civile, nonostante fosse appena arrivato un rappresentante ad autorizzare i lavori. 

Questa volta non è arrivato nessun altro e dopo altre quattro ore i soldati hanno emesso un ordine militare di abbandonare la zona. Da allora i contadini palestinesi di Khirbet al-Tha’la che, come Makhamra, lavorano terre vicine alle colonie e agli avamposti non sono più stati in grado di raggiungerle. 

Il primo marzo il comandante della divisione cisgiordana dell’esercito israeliano ha emesso un ulteriore ordine militare dichiarando che le terre di Khirbet al-Tha’la vicino alle colonie e agli avamposti sono una zona militare chiusa. L’esercito ha rifiutato di confermare a +972 se l’ordine resta in vigore.

E se i miei bambini fossero stati in casa?’

Raed Yassin e la sua famiglia vivono alla periferia del villaggio di Burqa, a nord ovest di Nablus. La loro casa è situata ad appena 50 metri da un avamposto che in anni recenti è diventato un simbolo del potere dei coloni: Homesh.

All’inizio un insediamento autorizzato dal governo alla fine degli anni ’70 su terre appartenenti agli abitanti di Burqa, è stato uno dei quattro insediamenti nella Cisgiordania settentrionale che Israele aveva abbandonato in concomitanza con il “disimpegno” da Gaza nel 2005. Ma presto i coloni cominciarono a ritornare illegalmente alla colonia smantellata, ricostruendo una yeshiva (scuola religiosa) tutte le volte che le autorità la demolivano.

La loro persistenza ha dato frutti alla fine del 2022 con l’insediamento del governo israeliano di estrema destra che, come uno dei suoi primi ordini del giorno, ha abrogato la Legge del Disimpegno, permettendo quindi ai coloni di entrare legalmente nei territori che erano stati abbandonati. Lo scorso maggio i coloni hanno cominciato lavori di costruzione per espandere la yeshiva, sempre in violazione della legge ma con l’appoggio del ministero della Difesa. Dal 7 ottobre quella costruzione, e gli attacchi contro i palestinesi di Burqa, hanno visto un’impennata. 

L’aggressione più recente è avvenuta il 9 gennaio. “Ero nel mio campo e mia moglie e i bambini erano fuori casa in visita a parenti,” ha raccontato Yassin. “Nel corso della giornata ho ricevuto una chiamata da uno degli abitanti della zona perché i coloni stavano attaccando la nostra casa. Ci sono ritornato di corsa ma quando sono arrivato si erano già ritirati. 

Dalle immagini delle nostre cineprese di sorveglianza ho visto 15 coloni mascherati tagliare la recinzione intorno alla casa, danneggiare i dintorni, rompere i tubi della fogna, sradicare alberi e cercare di togliere le protezioni di finestre e porte,” ha continuato. “Era spaventoso: e se i miei bambini fossero stati a casa?” 

Dall’inizio della guerra Yassin e la sua famiglia sono stati costretti a dormire varie notti a casa di parenti che vivono nel villaggio, ma più all’interno, lontano da Homesh. “Le notti che passiamo a casa io sto sempre sveglio,” ha detto. “Potrebbero venire i coloni e incendiarla.” 

Coloni con uniformi militari controllano tutto’

Anche i palestinesi del villaggio di Qaryut, situato tra Nablus e Ramallah, sono stati privati dell’accesso a una porzione ancora maggiore delle loro terre in conseguenza della violenza dei coloni. 

Qaryut si estende su un’area di circa 20.000 dunam (circa 2000 ettari), la maggior parte classificata come Area C e piantata a olivi. Tuttavia negli ultimi 50 anni il villaggio è stato gradualmente circondato da colonie israeliane: Eli, costruita nel 1984, Shvut Rachel, del 1995 e Shilo del 1979. Collettivamente queste colonie, così come parecchi altri insediamenti recentemente costruiti, hanno confiscato più di 14.000 dunam (1400 ettari) delle terre del villaggio.

Dal 7 ottobre la situazione è ulteriormente peggiorata. “Alla maggior parte della popolazione del villaggio, oltre 3.000 persone, è stato impedito di raccogliere le olive,” si è lamentato Ghassan al-Saher, un abitante del villaggio. “Sia i coloni che l’esercito hanno impedito l’accesso ai terreni, bloccando la strada con del terriccio. I coloni hanno occupato i campi e tagliato numerosi alberi.” 

Secondo al-Saher i coloni hanno deliberatamente distrutto infrastrutture palestinesi nel villaggio. Hanno attaccato una struttura agricola costruita con il sostegno della Croce Rossa Internazionale di cui avevano beneficiato 10 famiglie palestinesi, danneggiando serre, serbatoi dell’acqua e tagliando le tubature dell’acqua. Hanno anche occupato la sorgente di Qaryut, vitale per il villaggio. “L’hanno trasformata in un parco per loro,” ha detto al-Saher. “Chiunque si avvicini alla sorgente rischia di essere ucciso.”

Un altro abitante, Bashar al-Qaryuti, ha aggiunto: “Quando è cominciata la guerra abbiamo perso tutte le terre del villaggio classificate come Area C. La vita nel villaggio si è paralizzata: non possiamo raggiungere le nostre terre nelle vicinanze. Hanno attaccato il villaggio e aperto il fuoco. Molti giovani del villaggio non dormono la notte per paura di un attacco dei coloni. 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




“Fiori nel deserto” e insostenibilità ambientale

Francesca Merz

7 novembre 2019 Nena News

Tra le narrazioni più note vi è quella legata alla “fioritura del deserto”: la tecnologia messa al servizio di zone desertiche. Ma tutto questo ha avuto ed ha un costo eccezionale per l’ambiente, l’acqua e altre risorse naturali.

La narrazione dedicata alla capacità di far fiorire il deserto è certamente molto efficace, efficace a tal punto da essere stata la principale al centro del padiglione israeliano dell’Expo di Milano. Gli articoli che raccontavano dello stupendo padiglione israeliano così si esprimevano Un campo verde verticale, installazioni multimediali e le storie di un popolo industrioso, di tecnologie all’avanguardia e aziende innovative che hanno fatto fiorire il deserto. Queste sono le prerogative del Padiglione Israele a Expo 2015”. “Fields of tomorrow” i campi del domani, ecco il titolo immaginifico e grandioso che raccontava di un popolo e di un’industria che era stata capace di apportare benessere, verde, coltivazioni mai tentate, dove prima era deserto.

Nella prima stanza del padiglione attori e performer interagiscono con il pubblico mentre video sono proiettati alle pareti. La prima parte della mostra racconta la storia e le vite di tre generazioni di contadini che sono riusciti a far fiorire il deserto. Attraverso ricordi, immagini e filmati i visitatori scoprono l’ostinazione pro-attiva degli israeliani ma anche la loro attitudine di fronte alle avversità” L’articolo continua “Una sezione della mostra è dedicata alla Foresta KKL-JNF. Con all’attivo 240 milioni di alberi piantati negli ultimi 70 anni, Keren Kayemeth LeIsrael – Jewish National Fund sta riforestando il paesaggio di Israele e offre nuove chance a ecosistemi a rischio creando una banca di semi, sviluppando nursery botaniche e piantando alberi”. “Israele è un Paese giovane, ma con una tradizione di tremila anni, che attraverso lavoro, ricerca e sviluppo ha saputo rendere fertili molti dei suoi terreni in prevalenza aridi”. Queste le argomentazioni scelte dal governo di Netanyahu per presentare alla vetrina milanese che aveva come slogan “Nutrire il pianeta” l’ennesima storia fatta di molte imprecisioni. E’utile quindi fare un passo indietro e provare a capire con maggiore precisione, come nascono “i fiori nel deserto”. Per sostenere questo sistema di fioritura Israele sta da anni affrontando una delle crisi più ampie sul rifornimento di acqua, il lago di Tiberiade, che era stata la principale fonte d’acqua potabile per Israele, si sta prosciugando.

Da un paio di decenni, resisi conto che il problema stava divenendo assai importante per tutta l’economia dello Stato, le autorità israeliane hanno avviato un piano di desalinizzazione dell’acqua di mare riuscendo a ridurre la quantità di acqua che veniva estratta dal lago per irrigare le vaste coltivazione del deserto. Tiberiade rimane però in condizioni sempre sotto soglia. Il governo israeliano era arrivato a prendere 400 milioni di metri cubi all’anno di acqua, per poter gestire la sempre maggiore richiesta idrica per coltivazioni, allevamenti e colonie con esigenze ben lontane da quel calibrato uso delle risorse che era stato attuato per secoli dalle comunità storiche. È il motivo per cui Israele ha deciso di investire circa 250 milioni di euro per pompare nel lago acqua presa dal Mediterraneo, che dista circa 50 chilometri, e in seguito desalinizzata. È risultata però un’impresa complicata, perché mai nella storia un lago di acqua dolce è stato ri-riempito in questo modo, una volta installate tutte le pompe, ci si aspettava di stabilizzare il livello del lago entro il 2020, obiettivo che appare quanto mai lontano. I lavori fanno parte di un ancora più grande piano del Ministro dell’Energia Yuval Steinitz, che vuole raddoppiare la quantità d’acqua che Israele desalinizza ogni anno, e che al momento è pari a circa 600 milioni di metri cubi.

Il problema dell’acqua, come si può immaginare, è stato vivo sin dall’inizio dell’occupazione, la crescente quantità di popolazione, e le necessità di una popolazione con abitudini occidentali, ha comportato fin dall’inizio la necessità di controllare le risorse idriche del territorio. Il 90 per cento dell’acqua del Giordano viene portata al Negev per il progetto sul deserto, non solo bypassando tutte le necessità dei palestinesi sulla strada, ma sballando completamente tutti gli equilibri naturali. Assolutamente esemplare è l’esempio della valle di Gerico, in cui sono sorte 33 colonie, per la maggior parte specializzate in monocolture molto richieste dal mercato interno e internazionale, come il caffè e il the, piantagioni tipicamente inadatte al luogo, e che tendono ad inaridire terreni, che avrebbero necessità di colture a rotazione. Parallelamente, proseguendo nella valle, le intense monocolture sono invece di ananas, banane, palma da dattero, manghi, avocados. Coltivazioni non endemiche, disadatte alla ciclicità e al naturale rinnovamento del terreno; in tutta la valle di Gerico e non solo, sono completamente scomparsi gli alberi più caratteristici del territorio, ovvero gli alberi di arance, il commercio delle arance, come tristemente ci racconta anche l’esperienza economica siciliana, era troppo poco redditizio rispetto a datteri, manghi o avocados, cibi che oramai con la nuova cultura alimentare sono molto più richiesti e vengono pagati maggiormente.

Il problema idrico rimane tema cruciale della politica e della propaganda elettorale israeliana, tra i vari progetti saltati fuori negli anni, anche la creazione di un canale di comunicazione tra il Mar Rosso e il Mar Morto, progetto difficile e quasi irrealizzabile ma che ha visto molta popolarità anche nelle recenti campagne elettorali, insieme all’altro grande tema: la presa da parte di Israele di tutta la valle del Giordano per ragioni economiche  e strategiche, valle che conserva la maggior parte delle risorse idriche utilizzabili. Questi  progetti di immensa portata, che prevedono la costruzione di pompe idrauliche e la desalinizzazione progressiva delle acque pompate dal mare, sono salutati dalla comunità internazionale con l’afflato salvifico che fa come sempre di Israele il salvatore di un territorio arido, senza invece capire minimamente che questa immensa opera è pensata per arginare i danni irreversibili di uno sviluppo economico insostenibile sul piano ambientale, prosciugando il lago di Tiberiade, il Giordano e conseguentemente il Mar Morto, a causa di una politica dello spreco senza precedenti. Il medesimo discorso fatto per Tiberiade vale ovviamente per il Mar Morto, il calo dei livelli di acqua non è il risultato dei cambiamenti climatici, ma è dovuto all’aumentato uso delle acque degli immissari che dovrebbero rifornire il lago per l’irrigazione, e allo sfruttamento per l’estrazione di minerali. Il bacino è alimentato principalmente dal fiume Giordano, che si immette nel lago a nord, ma il Giordano non ha emissari, dunque se si modifica il suo corso prelevando una ingente parte delle sue acque per l’agricoltura e le colonie, il contraccolpo non solo sul fiume stesso ma anche sul mar Morto è risultato insostenibileil ritiro dell’acqua ha lasciato intere sezioni del lago completamente secche, e questa rapida diminuzione del livello del Mar Morto ha una serie di conseguenze dannose, che vanno dai più elevati costi di pompaggio per le fabbriche che utilizzano il Mar Morto per estrarre il cloruro di potassio, magnesio e sale, ad un accelerato deflusso delle acque dolci sotterrane e circostanti dalle falde acquifere, inoltre, sempre per portare i famosi “fiori nel deserto”, il Giordano da circa cinquanta anni viene sfruttato per irrigazione su larga scala sottraendo gran parte dell’acqua che da sempre alimenta il lago.

Basti pensare che Israele controlla una diga nella parte meridionale del Lago di Tiberiade attraverso la quale può regolare il flusso d’acqua in entrata. Attualmente l’acqua che arriva nel Mar Morto è pari a meno di 30 metri cubi al secondo mentre secondo i dati dei primi anni Sessanta la portata del Giordano era stimata attorno ai 1.300 metri cubi. Ecco il motivo per cui il livello del lago salato è sceso di 27 metri in circa 35 anni, ad un ritmo medio di poco meno di un metro all’anno. L’estensione complessiva del Mar Morto è di oltre 1000 kmq, lungo circa 75 chilometri e largo 15. Fino a circa trenta anni fa si componeva di due bacini comunicanti e uniti tra di loro, oggi, in seguito alla continua evaporazione e al minore contributo idrico dovuto alla variazione del corso del Giordano, per alimentare la straordinaria agricoltura iper-tecnologica che ha fatto fiorire il deserto, il bacino meridionale si è quasi completamente prosciugato, lasciando al posto dell’acqua una vasta distesa di sale. La salinità media delle acque raggiunge il 33.7%, valore elevatissimo se lo confrontiamo con il Mar Rosso che ha una salinità media del 3.8%. Il fiume Giordano si è ridotto a uno stretto ruscello marroncino che gorgoglia verso sud. Una volta 1,3 miliardi di metri cubi d’acqua scorrevano ogni anno attraverso il fiume Giordano. Era largo 25 metri, fiancheggiato da salici e pioppi e pieno di pesci che potevano essere mangiati. Oggi l’acqua del fiume Giordano non proviene più dal Mare di Galilea ma dalle acque reflue, dal deflusso agricolo contaminato e dall’acqua salata che è stata scaricata al suo interno. Uno dei piccoli affluenti del fiume, il torrente di Erode, oggi è contaminato a causa degli allevamenti intensivi e dalle enormi vasche di pesci riempite con mangimi, ormoni ed escrementi di pesci. Poco lontano, la grande diga di di Alumot è ridotta a un semplice tumulo di terra a soli due chilometri da dove il fiume ha avuto inizio. Sul lato settentrionale della diga macchinari pesanti pompano acqua fresca di fiume nel vettore nazionale israeliano, che fornisce agli israeliani da un quarto a un terzo della loro acqua dolce, mentre sul lato meridionale della diga un grande tubo emette acqua di fogna giallo-marrone che gorgoglia e schiuma nel letto del fiume.

Questo è lo scenario del nuovo deserto fiorito, mentre prima certamente il deserto era solo deserto, ma era inutile e inutilizzato solo per i nostri occhi occidentali, era invece un perfetto sistema climatico in equilibrio da millenni, capace di dare cibo in abbondanza e sostentamento ad un popolo, quello palestinese, che, a differenza di quanto ci piace credere, non è mai stato povero, come dimostrano molto bene i reportage dei viaggiatori ottocenteschi, che raccontano di un popolo di pastori, agricoltori, proprietari terrieri, beduini il cui legame con quella terra conosciuta palmo a palmo da secoli, consentiva un equilibrio e una ricchezza in termini di produzione, che ne faceva decantare i fasti dai pellegrini che passavano per quelle terre d’Oriente, le cui memorie di viaggio parlavano di une terra ricca di ogni prelibatezza e prodotto, e i prodotti di quella terra, al contrario di ciò che possiamo immaginare, non erano datteri, non erano avocados, non erano manghi, così richiesti dal recente mercato “bio” internazionale, che si ritiene etico e solidale per il solo essere vegano, ma che davvero poche domande si fa sulle metodologie di produzione di ogni singolo frutto che arriva sulle nostre tavole. Il deserto dunque è fiorito, fiorito grazie a coltivazioni non endemiche che succhiano quantità di acqua che prima serviva per sostentare migliaia di ettari, e ora non basta nemmeno per una singola coltivazione intensiva, fiorito grazie al lavoro minorile e sottopagato, fiorito devastando l’eco-sistema globale,  fiorisce ora per lasciare poi morte e desertificazione nel giro di pochi decenni, eliminando la naturale ciclicità delle coltivazioni, essenziale per preservare il terreno e renderlo coltivabile nel tempo, come già chiaramente visibile dal prosciugamento massiccio del Lago di Tiberiade e del Mar Morto.

La grande quantità di risorse necessarie non è utilizzata solo per le coltivazioni intensive, ma anche in gran parte per la vita delle colonie e degli insediamenti illegali, all’ingresso di ognuna delle colonie che potrete visitare vi si presenterà di fronte una ricca serie di aiuole e fontane. Le colonie del  Neghev sono veri e propri villaggi turistici perfetti, con villette a schiera in stile Florida, grandi centri commerciali, fiori dai mille colori, una immagine distopica, un outlet del benessere nel mezzo del deserto, in cui ogni forma di disordine è stata abolita, dove il “decoro”, parola così abusata di questi tempi, regna sovrano, in cui filari di pini (ebbene sì, i pini, nel deserto) allineati come le coscienze collettive di uno stato di polizia, segnano il punto più elevato di quel concetto di pulizia e decoro tanto caro ai nostri giorni. Decoro e benessere, in contrapposizione con la gioiosa e apparentemente disorganizzata vita che lì, in quelle terre, aveva consentito un equilibrio straordinario tra uomo, ambiente e animali. Il deserto è fiorito, i beduini che vi abitavano sono relegati in campi profughi, gli stessi beduini che da secoli con equilibrio e rispetto per il clima e per la ciclicità delle stagioni preservavano quell’ambiente desertico conoscendo tutte le sue falde acquifere che si rinnovavano nel tempo. Il nostro occhio poco allenato a pensare che un deserto possa essere un luogo di vita, si accontenta di provare ammirazione per chi riesce a far fiorire i tulipani nel deserto, così vedere i fiori e accanto il deserto e le tende dei beduini nella nostra narrazione distorta ci fa pensare ad un miglioramento, è invece un’aggressione scriteriata al territorio, non solo ai danni dei palestinesi, ma di un intero ecosistema, e di un valore paesaggistico destinato a perdersi per sempre, un’aggressione che Israele stesso sta pagando, poiché l’abbassamento del livello del Mar Morto e del lago di Tiberiade sono i primi e più evidenti segnali del grande collasso creato da questa situazione, uno sfruttamento esagerato e non controllato delle risorse del territorio; per questo eccesso di richiesta di risorse non basta nemmeno più utilizzare l’acqua dei pozzi in territorio palestinese, come Israele fa da tempo, avendo posto sotto il suo controllo l’intera rete idrica.

Come ci ricorda Neve Gordon L’80% delle falde acquifere montane, i più vasti bacini d’acqua di queste regioni, è ubicato nel sottosuolo della Cisgiordania, il restante 20% in quello israeliano. Rendendosi conto dell’importanza di questa risorsa vitale, che al momento fornisce il 40% del fabbisogno dell’agricoltura di Israele, e quasi il 50% della sua acqua potabile, dopo la guerra Israele cominciò a modificare lo statuto giuridico e istituzionale dei diritti sull’acqua delle regioni occupate. L’effetto principale di tale trasferimento di poteri fu una pesante limitazione alla trivellazione di nuovi pozzi atti a soddisfare i bisogni degli abitanti palestinesi, in parallelo all’appropriazione di acqua per soddisfare i fabbisogni della popolazione israeliana.

In contrapposizione a questo modello, può essere utile riportare uno dei tantissimi esempi virtuosi di coltivazione e cura del territorio, portato avanti in Palestina, uno degli esempi più significativi è ciò che sta avvenendo nel villaggio di Battir, un luogo che di per sé merita il viaggio, merita per poter respirare modelli economici e sociali differenti.  Battir è una comunità autonoma, un villaggio di circa 4000 persone, situato poco a sud di Gerusalemme, poco lontano da Betlemme,  un paesino dove le colline sono ricoperte di ulivi ed un antico sistema di irrigazione permette al verde di crescere rigoglioso. A Battir ci sono vigneti, alberi di fico, sette sorgenti naturali e terrazze coltivate. Il paese è incastonato in un sistema di valli dove l’agricoltura fiorisce sin dal tempo dei romani e le cisterne dell’epoca sono ancora in funzione, restaurate e tenute funzionanti da una comunità locale attenta e consapevole. Alcune funzionano anche da vasche di pietra dove la gente del posto fa il bagno per rinfrescarsi quando il caldo è troppo torrido. Recentemente Battir è diventato patrimonio Unesco. La comunità autonoma ha fatto una scelta importante, quella di non farsi finanziare da aiuti internazionali, il loro modello di sviluppo si è basato su una condivisione iniziale, la scelta di sedersi intorno ad un tavolo per capire come gestire la terra, anche per loro è stato del tutto nuovo, Vivien Sansor, fotografa e attivista palestinese, è tra le anime del progetto, e ci racconta di come esso sia nato, e di come le persone non fossero abituate a poter scegliere per la loro terra.

A Battir hanno costruito una comunità autonoma, ad essere coinvolte nella gestione dei terrazzamenti le famiglie della comunità, che si occupano di coltivare e manutenere gli antichi terrazzamenti ancora intatti, nessuna occupazione è passata su queste terre, nessuna ruspa, nessuna nuova casetta californiana ha preso il posto delle meraviglie che si possono osservare in questa oasi di bellezza autentica. Ogni famiglia ha il suo lotto di terra, e raziona l’acqua, come era d’uso in quelle comunità fin dall’antichità. L’ Unesco l’ha iscritta nel suo patrimonio, in relazione alle sue terrazze, e ai canali di irrigazione, ed è così che Battir continua a combattere costantemente l’occupazione, tramite la salvaguardia  del suo patrimonio, materiale e immateriale, fatto di reperti, ma anche di tradizioni, e di un paesaggio con colture specifiche, adatte a non far impoverire il terreno, ma anzi capaci di dare nuova linfa ai terreni. E’ stato creato un ecomuseo, un vero e proprio progetto dinamico di supporto alla città. Da qui è ben visibile il clamoroso divario che esiste tra due concetti di mondo, economia, evoluzione completamente differenti. L’occupazione ha inciso e continua ad incidere sul paesaggio, volendolo fare anche quando non è necessario per scopi agricoli o di riconversione di terreni per le monocolture industriali. Dalla collina di Battir questo è subito chiaro: proprio da qui si può scorgere tutta la valle di fronte, sotto il controllo israeliano, e lì, in contrapposizione alla gioia rigogliosa di frutta e verdura delle terrazze di Battir, si può vedere una valle ricoperta di abeti portati dal Nord America, esili, gracili, su un terreno arido, rappresentano ancora una volta la necessità di sostituire una memoria.

L’architettura del paesaggio, così come quella urbana, è uno dei tanti metodi per mistificare la storia, modificando addirittura la flora e la fauna dei luoghi, una globalizzazione anche della natura che è regimentata, modificata, piegata, in una distorsione globale che aiuta la cancellazione di ogni memoria. Battir guarda gli abeti dalle sue cascate d’acqua, e si prepara a crescere: per il prossimo anno (2020) la comunità sta cercando di coinvolgere un numero sempre più alto di contadini per la gestione e la coltivazione dei terrazzamenti, ed anche in questo caso è chiaramente visibile che, oltre che due popoli in conflitto ci sono due modelli di sviluppo contrapposti. Nena News