Secondo B’Tselem Israele si serve della violenza dei coloni come “strumento” per accaparrarsi le terre palestinesi

Secondo B’Tselem Israele si serve della violenza dei coloni come “strumento” per accaparrarsi le terre palestinesi

Secondo l’Ong israeliana Israele “sostiene e asseconda in toto” i coloni e le loro tattiche di intimidazione che spesso comportano la perdita delle terre agricole e dei pascoli palestinesi.

Redazione di MEE

15 novembre 2021 – Middle East Eye

 

Il governo israeliano si serve della violenza dei coloni come “importante strumento informale” per impadronirsi di terre palestinesi nella Cisgiordania occupata, afferma un’importante organizzazione israeliana di difesa dei diritti umani.

In un rapporto pubblicato domenica B’Tselem spiega che Israele si avvale di due metodi privilegiati per confiscare terre palestinesi in Cisgiordania: l’annessione ufficiale attraverso il proprio sistema giudiziario e le azioni ufficiose di intimidazione e violenza perpetrate dai coloni.

“Lo Stato sostiene ed asseconda in toto questi atti di violenza e i suoi soldati a volte vi partecipano direttamente”, denuncia la Ong israeliana nel suo rapporto.

“Così, la violenza dei coloni è una forma di politica governativa, con l’appoggio e l’incoraggiamento delle autorità statali ufficiali e la loro partecipazione attiva.”

Secondo questo documento i coloni israeliani negli ultimi cinque anni si sono appropriati di quasi 3.000 ettari di terreni agricoli e di pascoli nella Cisgiordania occupata.

“Mi hanno spezzato una gamba”

Attraverso cinque studi di caso per illustrare il modo in cui le sistematiche e costanti violenze perpetrate dai coloni fanno parte della politica ufficiale di Israele, B’Tselem dimostra che le autorità del Paese si servono della violenza dei coloni per procedere ad una “massiccia acquisizione” delle terre palestinesi.

Uno dei casi studiati riguarda la colonia di Ma’on Farm, che è stata costruita illegalmente nel sud della Cisgiordania e si estende su circa 260 ettari. I coloni hanno vessato, colpito e intimidito i palestinesi che utilizzano tradizionalmente questa terra per pascolare il loro bestiame e per le loro coltivazioni, cosa che ha provocato la sua confisca.

Jummah Ribii, di 48 anni, pastore del villaggio di al-Tuwani, ha raccontato a B’Tselem che i coloni hanno cercato per anni di allontanare la sua famiglia dall’agricoltura che le permetteva di nutrirsi. Nel 2018 i coloni l’hanno preso di mira e l’hanno picchiato, ferendolo in modo grave.

“Mi hanno spezzato una gamba e ho dovuto passare due settimane in ospedale e proseguire le terapie a casa”, ha raccontato Ribii alla Ong. “Ho dovuto vendere la maggior parte delle nostre pecore per pagare le cure.”

Secondo B’Tselem Israele legittima la violenza dei coloni sia legalizzando le loro acquisizioni di terre, non impedendo le violenze e non perseguendo i loro autori.

“L’esercito generalmente evita di scontrarsi con i coloni violenti, anche se i soldati hanno l’autorità e il dovere di arrestarli. Come norma generale, piuttosto che affrontare i coloni, l’esercito preferisce cacciare i palestinesi dalle terre agricole e dai pascoli che loro appartengono con tattiche diverse, come decretare delle zone militari chiuse che valgono solamente per i palestinesi o lanciare gas lacrimogeni, granate assordanti e proiettili di gomma, a volte proiettili veri”, elenca B’Tselem.

Moayyad Besharat, responsabile dei programmi e della progettazione dell’Unione dei Comitati di Lavoro Agricolo, riferisce a MEE che gli attacchi dei coloni contro i palestinesi quest’anno si sono moltiplicati, in particolare nel periodo della raccolta delle olive, in ottobre e novembre.

La raccolta delle olive è un’ancora di salvezza per circa 80.000-100.000 famiglie palestinesi nella Cisgiordania occupata. Quest’anno la stagione è stata la più difficile degli ultimi tempi, secondo Besharat che accompagna gli agricoltori come osservatore nei periodi di raccolta.

In linea con il rapporto di B’Tselem, sottolinea le difficoltà cui vanno incontro i palestinesi che vogliono cercare di resistere agli attacchi dei coloni e agli accaparramenti di terre a causa della frequenza con cui i coloni vengono scortati dall’esercito.

 “E’ violenza di Stato”

Anche se i palestinesi documentano e riferiscono regolarmente gli attacchi dei coloni (a volte per vie legali e attraverso libri, rapporti di ricerche e documentari), il governo israeliano non persegue quasi mai i coloni, lamenta il rapporto di B’Tselem.

“L’inazione di Israele persiste dopo gli attacchi dei coloni contro i palestinesi, le autorità fanno tutto il possibile per evitare di reagire a questi incidenti”, scrive l’organizzazione.

“È difficile sporgere denuncia e nei rari casi in cui viene avviata davvero un’indagine, il sistema la insabbia velocemente. Le incriminazioni contro i coloni che feriscono palestinesi sono estremamente rare e quando ciò accade si tratta di reati minori, con sanzioni simboliche per le rarissime condanne.”

Insomma, la mancanza di azione da parte del governo si traduce in un’approvazione de facto, riassume l’Ong.

“La violenza statale – ufficiale o di altro tipo – è parte integrante del regime di apartheid di Israele, che mira a creare uno spazio esclusivamente ebraico tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo”, ritiene B’Tselem.

“La combinazione tra la violenza statale e la violenza ‘non ufficiale’ consente a Israele due cose: garantirsi una smentita plausibile e addebitare la violenza ai coloni piuttosto che all’esercito, ai tribunali o all’amministrazione civile, procedendo intanto allo spossessamento dei palestinesi. Tuttavia i fatti escludono ogni negazione plausibile: quando la violenza avviene con il permesso e l’appoggio delle autorità israeliane e sotto la loro egida, si tratta di violenza di Stato. I coloni non sfidano lo Stato, sono ai suoi ordini.”

 

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)

 




Rapporto OCHA del periodo 20 ottobre – 2 novembre

Il 25 ottobre, durante un’operazione israeliana di ricerca-arresto, condotta nel villaggio di Turmus’ayya (Ramallah), un ragazzo palestinese di 16 anni è morto.

Secondo le autorità israeliane, il ragazzo è caduto, sbattendo la testa a terra, mentre veniva inseguito dai soldati, insieme ad altri palestinesi che avevano lanciato pietre. Testimoni oculari palestinesi hanno segnalato che il ragazzo era stato duramente picchiato dalle forze israeliane; secondo il direttore dell’ospedale dove è stato ricoverato, il suo corpo mostrava segni di violenza.

Il 31 ottobre, nel Campo profughi di Balata (Nablus), durante una disputa familiare che ha innescato diffusi scontri con le forze palestinesi, un palestinese è rimasto ucciso e altri sei sono rimasti feriti. La morte è stata provocata dalla esplosione di un ordigno che l’uomo ucciso stava trasportando. Gli scontri hanno portato alla chiusura di scuole e negozi del Campo, fino alla fine del periodo considerato [da questo Rapporto].

La stagione della raccolta delle olive, iniziata il 7 ottobre, ha continuato a essere turbata da persone note o ritenute coloni israeliani. In nove casi (nel precedente periodo di riferimento erano stati 19), sono rimasti feriti palestinesi, sono stati danneggiati alberi e sono stati rubati prodotti. Cinque degli episodi hanno avuto luogo nel governatorato di Nablus, vicino al villaggio di Burin, dove due raccoglitori di olive sono stati colpiti con pietre e feriti; a Burin, Deir al Hatab e Jalud sono stati rubati raccolti e attrezzi agricoli; a Qaryut è stato vandalizzato un trattore usato per il raccolto. Vicino a Turmus’ayya (Ramallah) sono stati vandalizzati circa 130 ulivi e, a Kafr Qaddum (Qalqiliya), sono stati rubati i frutti di circa 200 ulivi.

Nell’area chiusa dietro la Barriera, in numerosi casi, agli agricoltori è stato impedito l’accesso ai propri oliveti. Le forze israeliane hanno ritardato l’apertura di alcuni accessi agricoli e in alcuni casi hanno impedito agli agricoltori l’attraversamento con veicoli, inducendo alcuni ad astenersi dall’accedere ai loro oliveti, molti dei quali si trovano lontano dall’ingresso.

Nel governatorato di Nablus, altri due episodi correlati a coloni hanno provocato lesioni o danni. Un palestinese è rimasto ferito da una pietra nel corso di scontri scoppiati tra palestinesi di ‘Asira al Qibliya e coloni israeliani che erano entrati nel loro villaggio; le forze israeliane sono intervenute sparando lacrimogeni contro i palestinesi. Nel villaggio palestinese di As Sawiya, aggressori, ritenuti coloni, hanno tagliato pali dell’elettricità e condutture dell’acqua.

In Cisgiordania, in diversi scontri, sono rimasti feriti venticinque palestinesi e un soldato israeliano [seguono dettagli]. Diciotto di questi feriti sono stati registrati a Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante le proteste settimanali contro le restrizioni di accesso e le attività di insediamento; altri quattro durante una protesta contro i tentativi di coloni di stabilire un avamposto vicino a Beit Dajan (Nablus). Un ragazzo è rimasto ferito, durante scontri, nella città di Hebron e, nel governatorato di Tulkarm, un altro palestinese è stato aggredito fisicamente mentre cercava di entrare in Israele attraverso una breccia nella Barriera. Ad Al ‘Isawiya (Gerusalemme Est), un palestinese è stato aggredito fisicamente e ferito durante un’operazione di ricerca-arresto. Non sono stati registrati feriti da arma da fuoco, ma quattro palestinesi sono stati colpiti da proiettili di gomma e due sono stati aggrediti fisicamente, mentre i restanti sono stati trattati medicalmente per inalazione di gas lacrimogeni. All’ingresso del Campo profughi di Al ‘Arrub (Hebron), nel corso di scontri, un soldato israeliano è stato ferito dal lancio di una pietra.

Il 30 ottobre, soldati israeliani hanno aperto il fuoco contro un veicolo palestinese che viaggiava vicino al villaggio di Qabatiya (Jenin): tre minori di 13, 15 e 16 anni, sono rimasti feriti da schegge. Le circostanze dell’episodio non sono ancora chiare.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno effettuato 161 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 126 palestinesi. 37 di queste operazioni sono state registrate a Gerusalemme Est, 23 a Hebron e 21 a Tulkarm.

Il 20 e 22 ottobre, un gruppo armato palestinese di Gaza, ha lanciato tre razzi contro il sud di Israele; successivamente le forze israeliane hanno preso di mira siti militari e aree aperte a Gaza. I razzi [palestinesi] sono caduti in aree aperte o sono stati intercettati. Vicino alla recinzione perimetrale di Israele con Gaza e al largo della sua costa, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in almeno 19 occasioni. In nessuno di questi episodi sono stati registrati feriti.

A causa della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate 41 strutture, sfollando 19 persone e creando ripercussioni su oltre 1.200 (escluso l’episodio evidenziato in “ultimi sviluppi”). Tutti gli sfollati e 37 delle strutture prese di mira si trovavano in 15 Comunità dell’Area C, mentre le altre quattro strutture demolite [delle 41] si trovavano a Gerusalemme Est. Il 28 ottobre, le autorità israeliane hanno tagliato una conduttura, finanziata da donatori, che forniva acqua a 14 Comunità di pastori nell’area Massafer Yatta di Hebron, che ospita circa 1.400 persone, tra cui oltre 600 minori. Tra le altre conseguenze, si prevede che ciò comprometterà le pratiche igieniche e la capacità delle persone di far fronte alla pandemia in corso. Nel governatorato di Gerusalemme, in due delle 18 Comunità beduine, situate all’interno o in prossimità dell’area E1, sono state demolite tre strutture; in quest’area è previsto l’ampliamento dell’insediamento colonico.

Una abitazione è stata demolita e una stanza in un’altra casa è stata sigillata per “motivi punitivi”, provocando lo sfollamento di 18 persone, tra cui 11 minori [seguono dettagli]. Nella casa demolita, a Rujeib (Area B di Nablus), abitava un palestinese accusato di aver accoltellato a morte, lo scorso agosto, un civile israeliano. La sigillatura [della stanza] è stata eseguita a Ya’abad (Area A di Jenin), nella casa di un palestinese accusato dell’uccisione di un soldato israeliano durante un’operazione di ricerca-arresto avvenuta lo scorso maggio.

Un israeliano è rimasto ferito e 11 veicoli israeliani che viaggiavano all’interno della Cisgiordania sono stati danneggiati, secondo fonti israeliane, dal lancio di pietre da parte di aggressori ritenuti palestinesi.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 3 novembre è stata registrata la più vasta demolizione degli ultimi anni: nella Comunità di Humsa Al Bqai’a, le autorità israeliane hanno demolito 83 strutture, sfollando 73 persone, tra cui 41 minori. Il Coordinatore Umanitario [ONU] ha chiesto la fine delle demolizioni illegali.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Come la cima di una collina è diventata l’incubatrice della violenza dei coloni israeliani

Natasha Roth-Rowland

2 gennaio 2020 – +972

Il governo israeliano ha fatto poco per bloccare i coloni religiosi di Yitzhar, la cui ideologia estremista sta promuovendo ondate di violenza contro i palestinesi in Cisgiordania

Il 16 ottobre 2019 coloni mascherati di Yitzhar e degli avamposti circostanti hanno aggredito attivisti israeliani ed ebrei americani, tra cui un rabbino ottantenne, che stavano aiutando i palestinesi nella raccolta delle olive. Tre giorni dopo nella stessa zona coloni hanno attaccato palestinesi che stavano coltivando la propria terra. Nei due giorni seguenti abitanti di Yitzhar hanno aggredito anche reparti della polizia di frontiera israeliana durante una serie di scontri dopo che l’esercito ha arrestato un colono sospettato di aver dato fuoco a un appezzamento di terreno di proprietà palestinese.

Questo scoppio di violenza – avvenuto durante la festa ebraica di Sukkot – è stato uno dei molti avvenuti nella Cisgiordania occupata negli ultimi mesi del 2019. Attacchi contro le forze di sicurezza palestinesi ed israeliane e atti di vandalismo contro proprietà palestinesi, compresi incendi, sono stati segnalati a Gush Etzion [colonia israeliana nella zona centrale della Cisgiordania, ndtr.], Hebron [Al-Khalil, città palestinese nella Cisgiordania meridionale, ndtr.], Bat Ayin [colonia nei pressi di Gush Etzion, ndtr.], Hizma [cittadina palestinese nei pressi di Gerusalemme, ndtr.] e altrove. Benché secondo il ministero della Difesa israeliano quest’anno ci sia stata una riduzione complessiva del numero di crimini di odio da parte di coloni rispetto al 2018, la loro ampiezza e il loro livello di violenza sta aumentando.

Yitzhar si trova nella parte settentrionale della Cisgiordania (in genere denominata “Samaria” in Israele), dove i coloni tendono a raggrupparsi in avamposti sulla cima delle colline sparsi attorno ai centri abitati palestinesi. Questa parte dei territori occupati è particolarmente soggetta alla violenza dei coloni, quindi non è un caso che Ytzhar sia stata al centro del più recente picco di aggressioni dei coloni.

Yitzhar è stata fondata nel 1983 come avamposto militare sulla cima di una collina nei pressi della città palestinese di Nablus e trasformata l’anno seguente in un insediamento civile in base a una direttiva del governo. La colonia originaria era stata fondata su terreni agricoli di proprietà di una serie di villaggi palestinesi, compresi Burin e Huwara, che nel corso degli anni hanno sofferto il peso della violenza dei coloni nella zona. A iniziare dalla fine degli anni ’90 sulla cima delle colline circostanti sono spuntati numerosi avamposti illegali [in base alla legge israeliana, ndtr.].

Dal 2000 Yitzhar è stata sede della yeshiva [scuola religiosa ebraica, ndtr.] “Od Yosef Chai” (Giuseppe vive ancora), nota a lungo per aver insegnato ai propri studenti la liceità – e persino la necessità – della violenza contro i non ebrei. Fondata nel 1982 sotto l’egida di un’organizzazione benefica che vi è stata inclusa nel 1983, per circa 20 anni la yeshiva si è stabilita sul luogo della Tomba di Giuseppe a Nablus, finché è stata trasferita a Yitzhar quando l’esercito israeliano ha smantellato il proprio avamposto militare presso la tomba durante la Seconda Intifada. Durante la sua esistenza la yeshiva e l’accampamento presso la Tomba di Giuseppe sono stati un frequente punto critico e la tomba continua ad essere un luogo di pellegrinaggio per coloni radicali, le cui spedizioni notturne mensili spesso provocano violenze.

Il capo spirituale della yeshiva e delle colonie è il preside della “Od Yosef Chai” Yitzchak Ginsburgh, un rabbino ultraortodosso nato nel Missouri che nel corso della sua carriera ha riunito un seguito numeroso e fedele. I suoi studenti ed accoliti sono stati all’avanguardia nel promuovere e mettere in atto violenze contro palestinesi nel corso degli ultimi dieci anni. E nonostante le condanne espresse dai vertici del governo quando un ulteriore attacco o una pubblicazione che incita all’odio riconduce alla yeshiva di Ginsburgh, essa continua ad essere attiva – tutto ciò mentre continua a ricevere una modesta somma annuale da parte del locale consiglio regionale.

È in buona misura grazie all’insegnamento di Ginsburgh e dei suoi rappresentanti e della violenza che hanno incoraggiato che Yitzhar è diventata famosa come una delle colonie radicali più estremiste. Ma mentre le informazioni sulle aggressioni fisiche da parte dei suoi abitanti spesso fanno notizia, l’ideologia sottesa – e la mancanza di volontà da parte dello Stato di occuparsene seriamente – riceve un’attenzione molto minore.

I non ebrei come “subumani”

Chiunque abbia conosciuto Baruch (Goldstein) ritiene che egli abbia agito in base alla sua personalità ebraica… Non si è trattato della reazione di un ebreo ignorante – che dovrebbe anch’esso essere benedetto – ma di un uomo colto ed esemplare.”

Questa è stata la reazione di Ginsburgh al massacro presso la moschea di Ibrahim/Tomba dei Patriarchi di Hebron nel febbraio 1994, in cui Baruch Goldstein, nato a Brooklyn, ha ucciso a fucilate 29 fedeli musulmani prima di essere picchiato a morte quando il suo fucile si è inceppato. Ginsburgh scrisse la sua dichiarazione in “Baruch HaGever” (Baruch l’uomo/l’uomo è benedetto”), una raccolta di saggi e di elogi funebri pubblicata l’anno dopo l’attacco.

Come molti dei collaboratori al libro, Ginsburgh presenta il terrorismo di Goldstein come una testimonianza del suo valore come essere umano, inseparabile dalla sua carriera come dottore e come esempio di violenza giusta con una profonda ragione e giustificazione teologica. Avvalendosi di una serie di scritture ebraiche, Ginsburgh ha inquadrato la strage al contempo come un atto di protezione degli ebrei, un attacco contro il “male” (in cui i palestinesi sono descritti come l’incarnazione attuale di Amalek, i nemici biblici degli israeliti) e un tentativo di salvaguardare la Terra di Israele per il popolo ebraico.

Al centro dell’ideologia di Ginsburgh ci sono l’accettabilità e la moralità della violenza ebraica contro i non ebrei. Come ha scritto il docente di religione israeliano Motti Inbari, sottesa a ciò c’è la sua concezione dei non ebrei come di fatto “subumani” – implicando che il comandamento “non uccidere”, che riguarda gli esseri umani, si applichi solo agli ebrei.

Questa interpretazione dei Dieci Comandamenti caratterizza un’altra nota pubblicazione uscita da Yitzhar, questa volta ad opera dei seguaci di Ginsburgh, Yosef Elitzur e Yitzhak Shapira – quest’ultimo dirige la yeshiva “Od Yosef Chai”. Il loro libro del 2009, “Torat Hamelech” (“La Torah del Re), allo stesso modo sostiene che il peccato di omicidio riguardi la violenza tra ebrei e ammette esplicitamente l’uccisione di minori e bambini non ebrei se, scrivono, “è chiaro che quando saranno cresciuti ci faranno del male.” Questo libro, come “Baruch HaGever,” ha comportato per i suoi autori accuse di incitamento al razzismo e alla violenza, ma non ne è derivata nessuna azione penale.

Parecchi anni dopo, in un altro incidente Elitzur, dopo aver pubblicato un articolo sul sito di notizie di estrema destra “HaKol HaYehudi” [La Voce Ebraica, ndtr.] gestito da Yitzahr, si è guadagnato un’ulteriore accusa per incitamento alla violenza. L’articolo definiva linee guida che si sarebbero sviluppate in quelli che sono noti come attacchi “prezzo da pagare”, un termine dato a crimini d’odio e violenza commessi da estremisti israeliani contro chiunque osi mettere a repentaglio il progetto di colonizzazione, compresi attivisti palestinesi e della sinistra israeliana. Anche i redattori di “HaKol HaYehudi” sono stati messi sotto accusa con imputazioni simili.

Forse il più noto dei pupilli di Ginsburgh dell’ultima generazione è Meir Ettinger, un dirigente della gioventù della cima delle colline [gruppo di giovani coloni particolarmente violenti, ndtr.] sospettato di coinvolgimento in numerosi reati violenti contro i palestinesi. Ettinger, un ex-studente di Ginsburgh, è un blogger fisso di “HaKol HaYehudi”. Recentemente ha definito Ginsgurgh “il più autentico ebreo al mondo,” e ha affermato: “Quando immagino un leader ebreo, quando immagino il re David, egli assomiglia a Ginsburgh.”

Focolaio di violenza dei coloni

La fede nella violenza moralmente sostenibile e al contempo necessaria non è affatto rara nell’estrema destra israeliana. Il rabbino Meir Kahane, nato a Brooklyn e che ha avuto una storica carriera di violenza spettacolare sia nel suo Paese natale che in quello di adozione [Israele, ndtr.] una volta disse all’intervistatore di una televisione americana che, quando viene condotta per proteggere ebrei, “la violenza è una mitzvah (comandamento spirituale ebraico)”. Il manifesto elettorale del partito Otzma Yehudit (Potere Ebraico), formato dai discepoli del defunto Kahane, mette esplicitamente in rapporto le leggi religiose ebraiche e la “guerra totale” contro i “nemici di Israele”.

Baruch Goldstein, seguace di Kahane e che era stato anche consigliere di un consiglio comunale a Kiryat Arba [colonia di estremisti religiosi nei pressi di Hebron, ndtr.] per il partito Kach [fondato da Kahane, ndtr.], può aver portato all’estremo quell’ideologia, ma essa caratterizza ancora larghi strati della destra religiosa – compresi quanti hanno difeso, e continuano a difendere, la strage di Goldstein a Hebron. Il rabbino Dov Lior, ex-rabbino capo di Hebron e di Kiryat Arba, ha esplicitamente appoggiato il libro “Torat Hamelech.”

Inoltre Ginsburgh non è affatto l’unico rabbino influente ad indottrinare generazioni di studenti delle scuole religiose con motivazioni a favore della violenza interetnica e interreligiosa derivate dalle Sacre Scritture. In effetti in tutta Israele il sistema delle accademie religiose di preparazione al servizio militare – la prima delle quali è nata nella colonia di Eli nel 1988 – probabilmente segue una logica simile, anche se meno esplicita nei programmi di yeshiva come la “Od Yosef Chai”.

Per esempio il rabbino Eli Sadan, capo dell’accademia di Eli, ha paragonato la guerra contro Gaza del 2014 alla narrazione biblica delle battaglie di Sansone contro i filistei, che terminarono con Sansone che a Gaza fece crollare un tempio sulla sua testa e su quella degli oppressori filistei, uccidendoli tutti. Anche innumerevoli rabbini sionisti religiosi hanno citato i palestinesi come nemici biblici dei nostri giorni, con la conseguenza che il loro destino finale dovrebbe essere, e sarà, l’annichilimento.

Eppure Yitzhar e la sua yeshiva sono un caso a parte, non solo per la frequenza con cui i suoi abitanti sono coinvolti o legati alla violenza dei coloni, ma anche per le loro caratteristiche ideologiche. Gli abitanti sono prevalentemente nazionalisti ultraortodossi – noti in ebraico come hardalim (un nome composto tra haredi, ultraortodossi, e leumi, nazionalisti). In questo senso Yitzhar rappresenta una sorta di passaggio generazionale del focolaio di azioni dei coloni estremisti sia contro i palestinesi che contro lo Stato.Tra gli anni ’70 e ’90 il terrorismo ebraico ha avuto origine da gruppi del sionismo religioso e da movimenti come Gush Emunim e il partito Kach, ed ha avuto la propria roccaforte a Kyriat Arba. Lo stesso Kahane è ricordato a Kyriat Arba da un parco con il suo nome, che è anche il luogo della tomba di Baruch Goldstein. Tuttavia gli anni 2000 e 2010 hanno visto emergere un movimento ancora più radicale, che rifiuta quasi integralmente l’autorità dello Stato e che nello scorso decennio è stato dietro ad alcuni degli attacchi più brutali contro i palestinesi. Il volto di questa nuova estrema destra è la gioventù della cima delle colline, per la quale Ginsburgh è la guida spirituale.

Lo stesso Ettinger è emblematico di questo passaggio generazionale, ideologico e geografico dell’avanguardia dell’estremismo di destra israeliano. Proprio come Ginsburgh è stato propagandato come il successore spirituale di Kahane, così Ettinger, nipote di Kahane, ha seguito l’insegnamento del suo mentore ultra-ortodosso più che del suo familiare (nel 2016, durante la detenzione amministrativa di Ettinger in seguito all’attacco incendiario di Duma che ha ucciso tre membri di una famiglia palestinese, Libby Kahane, la vedova di Kahane, ha manifestato il proprio rammarico per il fatto che a suo parere il nipote non abbia seguito le orme del suo defunto marito).

Non un’anomalia

Il governo israeliano ha fatto sporadici tentativi di contrastare il ruolo di Yitzhar nel fomentare la violenza in Cisgiordania. Ma, al di là di qualche azione penale senza seguito contro i leader della colonia, le autorità israeliane non hanno fatto seri sforzi per arginare questa violenza. I soldati israeliani, benché siano stati ripetutamente bersaglio dei coloni, sono stati persino filmati accanto ad abitanti di Yitzhar senza che intervenissero mentre questi aggredivano palestinesi che vivono nei villaggi che si trovano sotto la colonia.

Di tanto in tanto lo Stato ha chiuso temporaneamente le istituzioni della colonia. Ad esempio, alla fine del 2011, dopo che un certo numero dei suoi studenti sono stati collegati ad attacchi contro palestinesi in Cisgiordania, è stata disposta la chiusura della scuola superiore “Dorshei Yehudcha” di Yitzhar. Tuttavia la scuola — il cui responsabile per la formazione è Yosef Elitzur e il cui preside è Yitzchak Ginsburgh — ha tranquillamente riaperto e continua ad essere in funzione fino ad oggi. Nel 2014 le forze di sicurezza israeliane hanno occupato la “Od Yosef Chai”, piazzandosi nella yeshiva per un anno ed obbligandola a interrompere le attività. Tuttavia dopo che l’esercito se n’è andato la yeshiva ha ancora una volta riaperto.

In seguito a ripetuti episodi di violenza guidati dai coloni di Yitzhar, nel 2013 il governo ha tagliato centinaia di migliaia di shekel che versava ogni anno alla yeshiva attraverso il ministero dell’Educazione. Eppure la “Od Yosef Chai” continua a ricevere decine di migliaia di shekel all’anno dal Consiglio regionale della Samaria ed è stata in grado di conservare il suo status di associazione no-profit, consentendole così di ricevere donazioni esenti da tassazione in Israele. Ha ricevuto donazioni esentasse anche dagli Stati Uniti, benché il sito ufficiale della yeshiva (come quello di molte istituzioni di destra delle colonie) sia evasivo riguardo alla provenienza di questi fondi.

Tuttavia la vera questione non riguarda solo una singola colonia nella parte settentrionale della Cisgiordania. La crescente emarginazione sociale della gioventù della cima delle colline ha reso facile per il mondo politico israeliano puntare l’indice contro l’attuale violenza dei coloni – compresa quella di Yitzhar – come un’anomalia, guidata da un’ideologia che i dirigenti politici insistono nell’affermare non abbia posto nel Paese. Ma la farsa delle ormai usurate condanne che vengono esternate in seguito alle azioni più gravi del terrorismo dei coloni nasconde fino a che punto lo Stato consenta tale violenza.

Che si tratti della gioventù della cima delle colline condannata socialmente o dell’élite dei coloni con ottimi rapporti, l’ideologia sottesa della conquista della terra, della purezza etnica e delle leggi teocratiche imposte dalla Bibbia è passata da una generazione all’altra e attraverso le istituzioni dello Stato. La gioventù della cima delle colline sicuramente ha una dimensione più esplicitamente antigovernativa per la sua visione del mondo. Ma rimane il fatto che la sua ideologia è profondamente radicata in una società che dopo più di 70 anni è ancora incapace di affrontare, per non parlare di accogliere e sancire per legge, il concetto di uguaglianza, o di riconoscere i palestinesi come popolo nativo con diritti umani. Finché sarà così, il governo israeliano sarà incapace, e presumibilmente non disposto, a fare più di qualche gesto di facciata per bloccare l’estremismo dei coloni.

Informazioni sull’ideologia del rabbino Yitzchak Ginsburgh e dei suoi seguaci e sulla storia di Yitzhar sono state ricavate dai seguenti libri: Religious Zionism and the Settlement Project: Ideology, Politics, and Civil Disobedience [Sionismo religioso e progetto coloniale: ideologia, politica e disobbedienza civile] di Moshe Hellinger, Isaac Hershkowitz e Bernard Susser (2018); Jewish Fundamentalism and the Temple Mount: Who Will Build the Third Temple? [Fondamentalismo ebraico e il Monte del Tempio: chi costruirà il Terzo Tempio?] di Motti Inbari (2009); Baruch Hagever: Memorial Book for the Holy Dr. Baruch Goldstein, [Baruch Hagever: libro in memoria del santo dottor Baruch Goldstein] a cura di Michael Ben Horin e altri (1995); How Long Will Israel Survive? The Threat From Within, [Per quanto ancora sopravviverà Israele? La minaccia dall’interno] di Gregg Carlstrom (2017).

Natasha Roth-Rowland è dottoranda in storia presso l’università della Virginia, dove fa ricerche e scrive sull’estrema destra ebraica in Israele/Palestina e negli USA. In precedenza ha passato parecchi anni come scrittrice, redattrice e traduttrice in Israele/Palestina e il suo lavoro è stato pubblicato su The Daily Beast, the London Review of Books Blog, Haaretz, The Forward e Protocols. Scrive con il suo vero cognome di famiglia in memoria del nonno, Kurt, che durante la Seconda Guerra Mondiale venne obbligato a cambiare il cognome in ‘Rowland’ per cercare rifugio in Gran Bretagna.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 4 – 17 dicembre 2018 (due settimane)

Dal 9 dicembre, in Cisgiordania si è verificato un crescendo di violenza che ha causato l’uccisione di sette palestinesi e tre israeliani ed il ferimento di 481 palestinesi e 16 israeliani. Ci sono state numerose operazioni di ricerca-arresto, scontri violenti, demolizioni punitive e severe restrizioni di accesso

[entrata/uscita dalla città]. Nella Striscia di Gaza, durante il periodo di riferimento, la situazione è rimasta relativamente calma. In una dichiarazione rilasciata il 16 dicembre, Jamie McGoldrick, Coordinatore Umanitario per i territori palestinesi occupati, ha chiesto “a tutti gli Attori – compresi i gruppi armati, le forze di sicurezza e i civili armati – di astenersi da attacchi contro i civili e da altre azioni che potrebbero aumentare ulteriormente la violenza”, di garantire che “le operazioni di ordine pubblico siano condotte con moderazione e che venga fornita protezione alle ambulanze, ai bambini, alle scuole e ai civili in generale”.

Nel governatorato di Ramallah, due attacchi attuati da palestinesi hanno provocato la morte di un neonato israeliano e di due soldati israeliani, ed il ferimento di altri otto coloni israeliani e di un soldato [qui di seguito il dettaglio]. Il 9 dicembre, un palestinese ha sparato ferendo sette coloni israeliani, tra cui una donna incinta e quattro minori che viaggiavano in auto vicino all’entrata dell’insediamento colonico di Ofra. Il bambino, nato successivamente prematuro con un parto cesareo di emergenza, è morto tre giorni dopo. Il 13 dicembre, vicino all’insediamento avamposto [colonia non autorizzata dal governo israeliano] di Giv’at Assaf, un altro palestinese ha aperto il fuoco in una stazione degli autobus sulla Strada 60, uccidendo due soldati e ferendo un altro soldato ed una colona israeliana. Entrambi gli autori degli attacchi sono riusciti a fuggire.

Sono stati segnalati altri tre attacchi condotti da palestinesi: quattro soldati israeliani sono rimasti feriti; due degli aggressori sono stati uccisi [qui di seguito il dettaglio]. L’11 dicembre, vicino al villaggio di Idhna (Hebron), un palestinese ha guidato la sua auto contro un gruppo di poliziotti israeliani di confine, ferendone uno; l’aggressore è stato ucciso mentre cercava di fuggire. Il 13 dicembre, nella Città Vecchia di Gerusalemme un palestinese ha accoltellato e ferito due poliziotti israeliani di confine e successivamente è stato colpito e ucciso. Il 14 dicembre un palestinese è entrato nell’insediamento di Beit El (Ramallah), dove ha ferito con coltello un soldato israeliano, colpendolo anche con una pietra da distanza ravvicinata; secondo quanto riferito, il giorno seguente si è consegnato alle autorità israeliane.

In varie operazioni di ricerca-arresto e relativi scontri, le forze israeliane hanno ucciso cinque palestinesi, tra cui due sospetti aggressori [qui di seguito il dettaglio]. Il 4 dicembre, nella città di Tulkarm, durante un’operazione militare, un 22enne palestinese disabile è stato colpito alla testa con arma da fuoco e ucciso; secondo fonti palestinesi, nell’area in cui l’uomo è stato ucciso, non c’erano scontri in corso. Le autorità israeliane hanno aperto un’inchiesta. Il 12 dicembre, nella città di Nablus, a seguito di uno scontro a fuoco, le forze israeliane hanno ucciso il presunto colpevole di un attacco compiuto il 7 ottobre, in cui erano stati uccisi due israeliani. Nello stesso giorno, nella città di Surda (Ramallah), un’unità israeliana sotto copertura ha ucciso il presunto autore dell’attacco compiuto nei pressi dell’insediamento colonico di Ofra [vedi sopra]; secondo testimoni palestinesi, nel momento in cui veniva fatto salire sul veicolo militare l’uomo era vivo, con le mani e le gambe ammanettate. Il 13 dicembre, nella zona industriale di Al Bireh (Ramallah), durante un’operazione di arresto, le forze israeliane hanno ucciso un 58enne palestinese che, alla guida dell’auto, nei pressi del suo luogo di lavoro, aveva ferito leggermente un soldato israeliano. Il giorno seguente, durante scontri nel Campo Profughi di Jalazun (Ramallah), un 18enne palestinese è stato ucciso con arma da fuoco.

Inoltre, in questi ed altri scontri per lo più correlati ad operazioni di ricerca-arresto e proteste, sono stati feriti dalle forze israeliane 246 palestinesi, tra cui 52 minori. Nel complesso, le forze israeliane hanno condotto 215 operazioni in cui sono stati arrestati 287 palestinesi. La maggior parte delle vittime e degli arresti è stata registrata a partire dal 13 dicembre. Durante il periodo di riferimento, il 31% delle operazioni ed il 60% dei ferimenti sono avvenuti nel governatorato di Ramallah. Nella città di Nablus, durante scontri seguiti all’ingresso di coloni israeliani in visita alla Tomba di Giuseppe, otto palestinesi sono stati feriti. Di tutti i ferimenti, quasi il 70% è stato causato da inalazione di gas lacrimogeno richiedente cure mediche, il 15% da proiettili di gomma e il 9% da armi da fuoco.

Nella città di Hebron, durante una manifestazione, altri cinque palestinesi sono rimasti feriti e 15 sono stati arrestati dalle forze di sicurezza palestinesi. La manifestazione intendeva commemorare la fondazione del movimento di Hamas. Secondo i media, i manifestanti sono stati aggrediti con manganelli e granate assordanti.

Il 13 dicembre, per diverse ore, l’esercito israeliano ha bloccato le principali vie di accesso e di uscita della città di Ramallah. Alla chiusura del presente bollettino, alcune di queste strade erano ancora chiuse: due ad est (checkpoint DCO) ed una ad ovest (porta di Deir Ibzi). La maggior parte delle altre strade permangono sotto il controllo dell’esercito che effettua ricerche su veicoli e passeggeri, causando pesanti ingorghi stradali; in particolare ai checkpoint di Qalandiya ed Atara.

In conseguenza di due demolizioni punitive, 29 palestinesi sono stati sfollati e altri 80 sono rimasti feriti durante scontri correlati [qui di seguito il dettaglio]. Il 15 dicembre, nel Campo Profughi di Al Amari (Ramallah), l’esercito israeliano ha fatto esplodere e distrutto un edificio di quattro piani, danneggiando gravemente due edifici adiacenti, sfollando un totale di 23 persone, tra cui sei minori. L’edificio in questione era la casa di famiglia di un uomo che, nel maggio 2018, durante un’operazione di ricerca nel Campo, aveva ucciso un soldato israeliano con un mattone. Oltre 80 palestinesi sono rimasti feriti negli scontri durante e dopo la demolizione. Il 17 dicembre, nella città di Tulkarm, il seminterrato e il piano terra di un edificio a tre piani sono stati demoliti, rendendo l’intero edificio pericoloso e sfollando sei persone, tra cui un minore. I piani demoliti ospitavano un palestinese che, il 7 ottobre, aveva ucciso due israeliani (vedi sopra).

Inoltre, in Area C e Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 26 strutture palestinesi, sfollando 18 persone e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 170. Tali demolizioni e sequestri sono stati effettuati a motivo della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele. Delle strutture citate venti erano situate in cinque comunità nell’Area C e le rimanenti in Gerusalemme Est.

Impennata di violenza da parte di coloni israeliani nel corso di proteste ed incursioni seguite ai due attacchi effettuati da palestinesi [vedi sopra]. Durante il periodo sono stati registrati almeno 38 casi di lancio di pietre da parte di coloni israeliani contro veicoli palestinesi, con conseguente ferimento di 12 persone e danni a decine di auto. La maggior parte degli episodi sono avvenuti durante le proteste tenute dai coloni dopo l’attacco del 13 dicembre, quasi la metà delle quali registrate nel governatorato di Ramallah. Alcuni degli episodi hanno anche comportato il blocco di importanti snodi stradali. In un caso, un gruppo di coloni diretti al luogo in cui si teneva una delle proteste, hanno fatto irruzione nel villaggio di Beitin (Ramallah) accompagnati da forze israeliane; qui un palestinese è stato ferito con arma da fuoco. In altri due episodi, nei pressi dei villaggi di Al Maniya e Taqu (entrambi a Betlemme) e nell’abitato di Modi’in Illit (Ramallah) tre uomini palestinesi sono stati aggrediti fisicamente e feriti da coloni. Fonti palestinesi riferiscono che, in due episodi accaduti nei villaggi di Turmus’ayya (Ramallah) e Tuwani (Hebron), coloni israeliani hanno vandalizzato 266 ulivi.

Nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione e sulla spiaggia, sono proseguite le manifestazioni della “Grande Marcia di Ritorno”: un bambino palestinese di 4 anni è morto e altri 557 palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane. Il bambino, colpito da un proiettile ad est di Khan Yunis, durante la manifestazione del precedente venerdì, è morto l’11 dicembre. Secondo il Ministero della Sanità palestinese, di tutti i feriti occorsi durante questo periodo, 102 erano minori e 340 necessitavano di ricovero in ospedale, tra cui 105 persone con ferite da armi da fuoco.

A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 15 casi non collegati alle manifestazioni. Il 10 e 12 dicembre, nelle aree di Rafah e Deir El-Balah, le forze navali israeliane hanno aperto il fuoco contro pescatori, ferendone almeno due e arrestandone sei, tra cui un minore. In tre occasioni, nelle vicinanze della recinzione perimetrale, ad est della città di Gaza e nelle aree settentrionali, forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza e hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e scavi.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, tra Gaza e l’Egitto è stato aperto in entrambe le direzioni per tutto il periodo di riferimento, ad eccezione di quattro giorni. Un totale di 1.517 persone sono entrate a Gaza e 2.737 sono uscite. Dal 12 maggio 2018, il valico è stato aperto quasi continuativamente, cinque giorni a settimana.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Le Forze di Sicurezza israeliane ignorano continuamente gli attacchi razzisti contro gli alunni palestinesi.

Haaretz

maggio 2018

Gli studenti delle colline meridionali di Hebron sono costretti a scegliere tra l’istruzione e la sicurezza mentre un gruppo di rabbini lancia una nuova campagna a loro favore.

■ Da più di dieci anni, i bambini palestinesi sono vittime di violenza su base etnica mentre si recano a scuola.
■ I sospettati sono estremisti israeliani appartenenti ai vicini insediamenti
■ Le forze di sicurezza israeliane spesso e volentieri ignorano gli attacchi
I politici chiudono un occhio davanti a tale disinteresse
■ Una nuova campagna mira a porre fine a questo comportamento scorretto

In mezzo alle violenze dei coloni, andare a scuola è un atto di coraggio:

Per il ventiduenne Ali del villaggio di Tuba, Cisgiordania, decidere di studiare è un modo per reagire. Negli ultimi dieci anni, i coloni estremisti israeliani hanno terrorizzato lui e altri bambini della sua comunità mentre si recavano a scuola nel villaggio di A Tuwani. E continuano ancora oggi. In questi villaggi palestinesi, che cercano di sopravvivere nell’isolata e arida regione della Cisgiordania nota come le colline meridionali di Hebron, la violenza su base etnica e le tattiche di intimidazione contro i bambini sono diventate abituali, ma non meno orribili. Attivisti internazionali scortano i bambini palestinesi verso le loro scuole, e fanno il monitoraggio degli attacchi condotti da estremisti israeliani provenienti dall’avamposto illegale di Havat Maon.

Gli attacchi contro gli studenti palestinesi nella regione sono diventati così usuali che la Commissione per la Tutela dei Minori della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] ha discusso la questione. Ali ha ammesso che, a causa della sua paura, trovava delle scuse per non andare a scuola, e racconta episodi spaventosi in cui i coloni hanno usato i loro stessi figli per tendere imboscate ai bambini palestinesi che vi si recavano. Nonostante ciò, le forze di sicurezza israeliane spesso ignorano gli attacchi contro i palestinesi in generale e contro gli studenti di A Tuwani in particolare (come qui documentato) e il problema va oltre gli attacchi, riguardando anche le risposte inefficienti o del tutto assenti delle autorità israeliane. Per quanto ne sappiamo, le forze di sicurezza non hanno intensificato i tentativi di prendere i responsabili, e nessun sospettato è stato arrestato né tanto meno portato davanti alla giustizia.

Le forze di sicurezza offrono invece una soluzione inadeguata e francamente assurda: una jeep militare per scortare i bambini quando vanno e tornano da scuola ogni giorno. La scorta, il più delle volte, arriva in ritardo, sempre che arrivi. Questa “soluzione” costringe gli alunni palestinesi a scegliere tra la sicurezza e il diritto all’istruzione. Rifiutandosi di permettere che questi estremisti gli impediscano di sviluppare a pieno le proprie capacità, Ali ha superato la sua paura e ha completato le superiori. Oggi sta per laurearsi e considera la sua formazione una sfida diretta alla violenza dei coloni estremisti e all’oppressione con cui ha dovuto confrontarsi vivendo sotto il controllo militare israeliano.

Ora, i “Rabbis for Human Rights” (RHR) [“Rabbini per i Diritti Umani”, ndt.], un gruppo israeliano di rabbini sionisti per i diritti umani, si è unito al collettivo italiano di attivisti “Operazione Colomba” (legato alla chiesa cattolica) per far pressione sul governo israeliano affinché venga posto fine a quella che considerano una vergogna per lo Stato ebraico. Hanno lanciato una campagna di lettere di protesta in cui chiedono agli ebrei americani di indirizzare i loro valori progressisti e la loro influenza politica per fare un appello al governo israeliano affinché sia garantita la sicurezza dei bambini palestinesi che, tra profonda povertà ed emarginazione, ambiscono ad avere un’istruzione.

Rispetto ad altre zone della Cisgiordania, i villaggi dellarea di A Tuwani raramente sono stati coinvolti nel conflitto violento. Questa zona isolata e rurale, in cui spesso le persone vivono in grotte senza elettricità, acqua corrente o altre infrastrutture, è geograficamente, economicamente e culturalmente lontana dal fulcro della società palestinese. Nonostante ciò, i suoi abitanti pagano un caro prezzo per il solo fatto di essere arabi. Israele sta affrontando numerose minacce per la sicurezza che a volte mettono alla prova la sua capacità di aderire ai principi dei diritti umaniosservano i RHR, ma quando parliamo di proteggere gli scolari palestinesi nella tranquilla comunità rurale di A Tuwani, lontana da qualsiasi zona di conflitto, non è possibile concepire alcuna giustificazione logica per questo sconvolgente fallimento morale che esige la nostra indignazione come ebrei e come israeliani”.

Il crimine più facile da risolvere resta, chissà come, irrisolto.

Per loro natura, gli attacchi contro gli studenti di A Tuwani sono il crimine più semplice da risolvere: avvengono su un ben definito, breve tratto di strada che le forze di sicurezza pattugliano costantemente, ad intervalli di tempo sempre uguali e noti (quando i bambini vanno a scuola o tornano a casa) e succedono da anni con le stesse modalità. Inoltre, gli assalitori provengono per lo più da un piccolo avamposto vicino, Havat Maon, la cui popolazione è molto ridotta, quindi i sospetti (per lo più giovani adulti) non sono difficili da individuare. Per giunta, gli assalti sono ampiamente documentati.

Alla luce di tutto ciò, ci si aspetterebbe tutta una serie di arresti e processi per questi delinquenti razzisti. Invece, per quanto ne sa il gruppo per i diritti umani, nessuno è mai stato arrestato in relazione agli attacchi.

Questo fallimento non è il risultato di una mancanza di capacità delle forze di sicurezza. Anzi, le forze di sicurezza israeliane sono giustamente celebri per la cattura di terroristi e criminali, soprattutto in Cisgiordania. Questo fallimento dipende dal fatto che la sicurezza dei palestinesi, anche dei bambini piccoli, viene considerata una questione secondaria. Non si tratta, quindi, semplicemente di atti razzisti di un gruppo marginale di bulli: è piuttosto una politica di applicazione della legge discriminatoria da parte delle forze di sicurezza israeliane e del governo che le supervisiona. Nella nuova campagna, i “Rabbini per i Diritti Umani” fanno appello al mondo ebraico affinché aiuti a porre fine a questa vergognosa violazione dei valori ebraici. “Quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto.”. (Levitico 19).

(traduzione di Elena Bellini)




Un’uccisione pianificata e calcolata di pecore in Cisgiordania

Amira Hass

5 marzo 2018,Haaretz

Lo scorso mese l’aggressione, come centinaia di altre prima di questa, è stata chiaramente finalizzata ad un obiettivo.

La storia di “Haaretz” su ebrei mascherati che hanno aggredito un pastore palestinese e ucciso le sue pecore – nel villaggio di Einabus, a sud di Nablus – ha ottenuto 96 condivisioni su Facebook. Cosa esprimono queste condivisioni, stupore o sostegno all’attacco?

In ogni modo il ricordo del crimine commesso circa due settimane fa, il 21 febbraio, sicuramente è stato completamente cancellato dagli sguaiati titoli di giornale sulle inchieste per corruzione contro il primo ministro Benjamin Netanyahu ed i suoi amici, e messi da parte nel deposito nazionale dell’amnesia ebraica.

Una settimana dopo l’attacco il ventisettenne Zafar Ryan è ancora sotto shock. Suo padre, Mahmoud e i suoi fratelli dicono che non è più lo stesso. Anche lui annuisce quando gli viene chiesto se è ancora sconvolto per quanto successo.

Ma per mettere le cose in chiaro: l’aggressione non gli ha impedito di tornare quasi subito a pascolare il gregge della sua famiglia con qualcuno dei suoi fratelli. Di solito i fratelli vanno al pascolo insieme. Il recinto delle pecore è a poche decine di metri sopra la loro casa, sulla montagna.

Ma quel giorno Zafar è uscito da solo con le pecore. Era mezzogiorno. Le persone dell’avamposto [ebraico] non autorizzato ed illegale in cima alla montagna ne hanno approfittato, afferma suo padre. Sono scese di corsa verso di lui. Cinque di loro, con il volto mascherato, lo hanno colpito con dei randelli sulla testa e sulle mani.

Aveva un bastone da pastore; ha cercato di difendersi e di restituire i colpi, ma loro erano troppi. Altri sconosciuti hanno attaccato il gregge, hanno letteralmente sgozzato qualche pecora, ne hanno colpite e disperse altre.

Un cugino che stava facendo dei lavori di edilizia lì vicino ha visto quello che stava succedendo e ha chiamato immediatamente aiuto. Giovani del villaggio sono corsi per risalire la montagna, da cui stavano scendendo soldati e poliziotti israeliani. Zafar era preoccupato delle pecore che erano scappate. Non era ancora chiaro quante fossero morte, quante ferite e quante scomparse e dove fossero andate.

Zafar è stato portato all’ospedale a Nablus e vi è rimasto fino a sera. La tumefazione sulla sua testa si è ridotta. Aveva lividi sulle mani. La maggior parte delle pecore del gregge era incinta, comprese alcune di quelle che gli aggressor hanno ucciso e alcune di quelle scomparse. Una delle pecore ferite ha partorito un agnellino morto. Non sappiamo se la polizia israeliana ha arrestato i sospetti.

L’attacco non è stato perpetrato da teste calde, né si è trattato di uno sbaglio momentaneo di giovani ebrei altrimenti virtuosi, assolutamente anonimi, che sono stati improvvisamente travolti dal ricordo dei pogrom commessi dai cristiani contro gli ebrei. Questa aggressione contro palestinesi e i loro mezzi di sussistenza, come centinaia di altri che l’hanno preceduta, è stata molto ragionata e calcolata, diretta ad ottenere un obiettivo.

Ogni attacco è caratterizzato da una chiara divisione del lavoro tra tutti quelli che entrano in scena: gli aggressori, l’esercito, il cui compito è di proteggere ogni ebreo, chiunque sia, coloni o visitatori della colonia, compresi quelli che commettono pogrom, ispettori dell’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano nei territori palestinesi occupati, ndt.] in Cisgiordania, in cui lavoro consiste nell’emettere ordini di blocco dei lavori per strutture ebraiche non autorizzate in Cisgiordania, ma il cui dovere è, nella maggior parte dei casi, di non mettere in pratica questi ordini.

Poi c’è la “Suprema Commissione per la Pianificazione” dell’Amministrazione Civile, la cui responsabilità è di mettere attentamente in atto la politica in base alla quale ai palestinesi è proibito costruire, fare un’escursione, piantare e arare sulla loro terra; allora la commissione si impossessa della terra e ne fa omaggio agli ebrei, che costruiranno e prolificheranno su di essa. In seguito ci sono i coloni che non attaccano nessuno ma chiedono una maggiore protezione, anche per gli avamposti. E c’è la polizia, il cui dovere è di ignorare gli attacchi precedenti, e gli ebrei israeliani, la cui responsabilità è di non mettere in relazione un attacco con l’altro o di considerare e quindi difendere la sacralità delle colonie e dei blocchi di colonie. (Secondo la legge internazionale tutti sono illegali).

L’avamposto non autorizzato ed illegale da cui sono scesi gli aggressori è uno dei nove che sono nati nel corso degli anni dalla colonia illegale e autorizzata di Yitzhar. Ogni avamposto è un ulteriore mattone di un altro blocco di colonie. Porta gli ebrei più vicino ai villaggi, agli orti e ai pascoli dei palestinesi.

Un importante livello nella strategia difensiva dell’esercito è l’ordine del comando generale che impedisce ai palestinesi di entrare nelle loro terre, per evitare frizioni con quelli che commettono i pogrom. È così che [si forma] il cerchio territoriale che i nostri ebrei, a testa alta, possono ottenere e quindi seminare o arare o costruire o espandersi ancora un po’ di più. E ancora un po’. E un po’ di più.

Nella fase successiva arriveranno anche vicino alle case dei palestinesi. E allora l’esercito e la polizia di frontiera sono obbligati ad arrivare e ad attaccare con granate lacrimogene e assordanti, e persino con proiettili ricoperti di gomma, i palestinesi che stanno difendendo se stessi, le proprie famiglie e i propri averi.

Tutto è calcolato. La divisione del lavoro ha già dato risultati in tutta la Cisgiordania. Un centimetro qui, un quarto di dunam [unità di misura dei terreni in Palestina, ndt.] o una zona militare di tiro là – ed i palestinesi sono spinti sempre più nelle loro zone urbane.

A proposito, le origini della famiglia Ryan sono nel villaggio palestinese distrutto di Majdal Yaba o Majdal al-Sadiq (a sud dell’attuale Rosh Ha’ayin). Possedeva circa 26.000 dunam (2.600 ettari). Nel XIX° secolo Sheikh Sadiq Ryan costruì un palazzo sulle rovine di una fortezza crociata del luogo. Il palazzo abbandonato tuttora sovrasta la strada.

Il nonno di Zafar aveva un fratello che viveva a Einabus all’inizio della guerra del 1948 [contro gli arabi e da cui nacque lo Stato di Israele, ndt.]. Alcuni dei suoi fratelli si unirono a lui invece di andare in un campo di rifugiati. Ma il nonno morì di crepacuore e di pena per la sua casa.

Il padre, Mahmoud, aprì una tipografia. I suoi figli si formarono come ingegneri meccanici e grafici. Ma la tipografia non è sufficiente per mantenere la famiglia. Circa un anno fa hanno comprato le pecore.

(traduzione di Amedeo Rossi)