Alcune fonti rivelano che Israele sta monitorando i dati statunitensi sugli attacchi dei coloni per contrastare le sanzioni

Yuval Abraham

14 febbraio 2024 – +972

Fonti di intelligence affermano che Israele cerca di contrastare le informazioni inviate privatamente agli Stati Uniti dall’Autorità Palestinese poiché teme provvedimenti contro i coloni violenti in Cisgiordania.

+972 Magazine e Local Call hanno appreso che negli ultimi mesi Israele ha monitorato le informazioni fornite agli Stati Uniti dall’Autorità Palestinese riguardo alla violenza dei coloni nella Cisgiordania occupata.

Fonti dell’intelligence israeliana hanno detto ad entrambe le testate di aver monitorato le informazioni passate attraverso canali privati dall’Autorità Palestinese all’Ufficio del Coordinatore della Sicurezza degli Stati Uniti per Israele e l’Autorità Palestinese (USSC) di Gerusalemme al fine di “capire cosa sanno gli Stati Uniti della violenza dei coloni”. L’intenzione, hanno spiegato, non è quella di agire contro gli autori dei reati ma di evitare che le informazioni raccolte “si trasformino in sanzioni”.

I funzionari statunitensi, che hanno confermato che funzionari dell’Autorità Palestinese hanno inviato una grande quantità di informazioni all’USSC sugli episodi di violenza dei coloni, hanno detto a +972 e Local Call che queste informazioni hanno contribuito in parte alla decisione del presidente Joe Biden all’inizio di questo mese di imporre sanzioni contro quattro coloni noti per aver attaccato palestinesi e attivisti israeliani di sinistra. I funzionari hanno aggiunto che le informazioni hanno portato negli ultimi mesi all’inclusione di decine di altri coloni in una “lista nera” che vieta loro l’ingresso negli Stati Uniti.

L’USSC è stato istituito nel 2005 ed è responsabile delle relazioni tra gli Stati Uniti e le forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese, nonché del coordinamento della sicurezza tra Israele e l’Autorità Palestinese. Dal novembre 2021 l’ufficio è diretto dal tenente generale Michael R. Fenzel che, secondo le fonti, sta lavorando attivamente per prevenire la violenza dei coloni, con la consapevolezza che essa mina la stabilità regionale e indebolisce lo status dell’Autorità Palestinese agli occhi dell’opinione pubblica palestinese.

Vogliamo sapere cosa sanno gli americani”, ha detto una fonte israeliana a +972 e Local Call. “L’obiettivo è sapere cosa ci può succedere quando Fenzel arriverà e chiederà ragione di questi casi. Non si tratterebbe di inseguire i coloni e arrestarli: ecco perché molte persone qui si sono sentite a disagio. La preoccupazione per ciò che sanno gli americani deriva dal [comprendere] che intendono fare qualcosa con queste informazioni”, ha continuato la fonte. “Qui tutti conoscono il nome di Fenzel. Gli americani chiedono conto a Israele e gli israeliani si sentono in imbarazzo. Il fatto che ci venga chiesto di cercare informazioni indica che Israele non ha buone risposte”.

Secondo un’altra fonte israeliana che ha parlato con +972 e Local Call, i ranghi politico-diplomatici in Israele vedono la crescente preoccupazione internazionale per la violenza dei coloni come “pressione politica”, e stanno quindi cercando di dimostrare che la portata del fenomeno non è così ampia come sostengono gli americani. Ecco perché, ha detto la fonte, “stiamo lavorando per contribuire a confutare queste accuse o evitare che si trasformino in sanzioni. Il ceto politico è preoccupato che vengano adottate tutte le tipologie di azioni internazionali che costringeranno Israele ad affrontare questo problema”.

Probabili ulteriori sanzioni

+972 e Local Call hanno ottenuto copie dei materiali che i funzionari dell’Autorità Palestinese avevano raccolto e inviato all’USSC. Questi materiali, che non sono disponibili al pubblico e sono stati trasmessi attraverso canali privati, includono rapporti con una breve descrizione di centinaia di incidenti violenti avvenuti in Cisgiordania dopo il 7 ottobre.

Queste informazioni sono utili agli Stati Uniti perché fanno luce sulla portata del fenomeno della violenza dei coloni. A differenza delle informazioni raccolte dall’ONU, ad esempio, che si concentrano principalmente sui casi in cui le persone vengono uccise o ferite o in cui si verificano danni alle proprietà, l’Autorità Palestinese documenta sistematicamente anche casi di minacce ed espulsioni dai pascoli.

In totale i funzionari dell’AP hanno fornito all’USSC i dettagli di centinaia di episodi di violenza da parte dei coloni a partire dal 7 ottobre. Questi includono espulsioni da piccoli villaggi e frazioni palestinesi, attacchi incendiari, sparatorie che hanno ucciso otto palestinesi, circa 100 casi in cui i coloni hanno aperto il fuoco contro i palestinesi o le loro case e centinaia di attacchi contro pastori palestinesi, comprese minacce e atti vandalici.

La maggior parte degli incidenti si sono verificati nell’Area C che costituisce due terzi della Cisgiordania ed è sotto il pieno controllo militare e civile israeliano, dove almeno 16 comunità palestinesi sono state allontanate dall’inizio della guerra dalla violenza dei coloni.

L’USSC non si basa esclusivamente sulle informazioni trasmesse dall’Autorità Palestinese, ma piuttosto raccoglie testimonianze delle violenze da parte dei coloni da varie fonti, tra cui l’ONU, e poi condivide questi casi con le agenzie di sicurezza israeliane per chiedere loro di adottare misure per fermare la violenza. Secondo i funzionari statunitensi la decisione di Biden di imporre sanzioni è il risultato della mancanza di un’efficace azione israeliana in merito.

Una fonte con conoscenza diretta del processo all’origine delle recenti sanzioni statunitensi ha detto a +972 e Local Call che è probabile un altro annuncio di sanzioni economiche da parte della Casa Bianca, che potrebbe includere anche coloni israeliani di alto livello e alti funzionari pubblici con un passato di violenza contro i palestinesi. Secondo la fonte anche la “lista nera” dei coloni soggetti a divieto di viaggio potrebbe ampliarsi e il numero finale potrebbe raggiungere “centinaia di coloni”.

Secondo un’altra fonte, un alto funzionario statunitense, le sanzioni economiche imposte contro quattro coloni dall’ordine esecutivo di Biden del 1febbraio sono state formulate dopo un’indagine approfondita che includeva la raccolta di informazioni da varie fonti e non si basava esclusivamente sull’USSC. Il fascicolo su ciascuno di questi coloni, ha detto la fonte, contiene prove inequivocabili del coinvolgimento nelle violenze che confermano le accuse contro di loro.

Nel suo ordine esecutivo Biden ha scritto che “la situazione in Cisgiordania, in particolare gli alti livelli di violenza estremista dei coloni, lo sfollamento forzato di persone e villaggi e la distruzione di proprietà ha raggiunto livelli intollerabili e costituisce una seria minaccia alla pace, alla sicurezza e stabilità della Cisgiordania e di Gaza, di Israele e della più ampia regione del Medio Oriente”. La dichiarazione includeva anche dettagli sui reati commessi dai quattro coloni: David Chai Hasdai, Einan Tanjil, Shalom Zicherman e Yinon Levi.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in risposta a queste sanzioni ha affermato che “Israele agisce ovunque contro i trasgressori, non c’è quindi bisogno di misure eccezionali per questi eventi”. Ma secondo un’indagine condotta dal gruppo israeliano per i diritti umani Yesh Din, il 97% dei 1.664 fascicoli della polizia israeliana aperti tra il 2005 e il 2023 riguardanti la violenza dei coloni sono stati chiusi senza condannare alcun colono. Nell’81% circa dei casi i fascicoli sono stati chiusi perché la polizia non ha identificato prove o colpevoli.

Nel dicembre dello scorso anno il segretario di Stato Antony Blinken dichiarò che gli Stati Uniti avevano iniziato a inserire nella lista nera i “coloni estremisti” a cui sarebbe stato vietato l’ingresso nel paese. Questo annuncio aveva innescato una reazione a catena, con diversi Stati europei che avevano seguito l’esempio e, secondo quanto riferito, l’Unione Europea sta valutando la possibilità di imporre proprie sanzioni per impedire ai “coloni estremisti” di entrare nel territorio dell’UE. All’inizio di questa settimana, il Regno Unito ha annunciato le proprie sanzioni contro quattro coloni (solo uno dei quali tra i quattro presi di mira dall’ordine di Biden), e la Francia ha imposto un divieto di viaggio a 28 coloni di cui non ha dato i nomi.

+972 e Local Call hanno contattato il portavoce dell’ambasciata americana per un commento, il quale ha risposto: “Secondo la nostra politica non commentiamo questioni di intelligence e vi rimandiamo al governo di Israele”. L’ufficio del primo ministro israeliano ha rifiutato di commentare.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Guerra Israele-Palestina: lo scopo di Israele è molto più sinistro del ripristino della ‘sicurezza’

Richard Falk

3 novembre 2023 – Middle East Eye

Israele ha colto questa opportunità per realizzare le ambizioni territoriali sioniste nel mezzo della ‘nebbia di guerra’ provocando un’ultima ondata di catastrofico spossessamento dei palestinesi

Antonio Guterres, Segretario Generale dell’ONU è stato recentemente messo alla gogna da Israele per aver affermato un’ovvietà quando ha osservato che l’attacco di Hamas del 7 ottobre “non è avvenuto in un vuoto”.

Guterres ha richiamato l’attenzione di tutto il mondo sulla lunga storia di gravi provocazioni criminose israeliane nella Palestina occupata che avvengono sin da quando divenne la potenza occupante dopo la guerra del 1967. 

 All’occupante, ruolo che ci si aspetta essere temporaneo, è affidato in tali circostanze il mantenimento del diritto umanitario internazionale assicurando la sicurezza e l’incolumità della popolazione civile occupata, come esplicitato nella Quarta Convenzione di Ginevra.

Israele ha reagito con tale rabbia alle osservazioni di Guterres, assolutamente appropriate e accurate, che potevano essere interpretate solo implicando che Israele “se lo doveva aspettare” alla luce dei suoi gravi e vari abusi contro il popolo nei territori palestinesi occupati, i più plateali a Gaza, ma anche in Cisgiordania e Gerusalemme. 

Dopo tutto, se Israele potesse presentarsi al mondo come vittima innocente dell’attacco del 7 ottobre, un episodio in sé stesso ricolmo di crimini di guerra, potrebbe ragionevolmente sperare di ottenere carta bianca dai suoi sostenitori in Occidente per vendicarsi a piacimento, senza preoccuparsi di essere limitato dal diritto internazionale, dall’autorità dell’ONU o dalla morale comune. 

Invece Israele ha reagito all’attacco del 7 ottobre con la sua tipica abilità nel manipolare il dibattito globale che influenza l’opinione pubblica e guida la politica estera di molti e importanti Paesi. Qui tali tattiche sembrano quasi superflue, dato che gli Usa e l’UE hanno rapidamente concesso una totale approvazione in bianco a qualsiasi cosa faccia Israele in risposta, per quanto vendicativa, crudele o estranea a ripristinare la sicurezza del confine israeliano. 

Il discorso di Guterres all’ONU ha avuto un impatto così eclatante perché ha fatto scoppiare il palloncino israeliano dell’innocenza costruita ad arte secondo cui l’attacco del 7 ottobre è arrivato inaspettatamente. Escludere il contesto ha distolto l’attenzione dalla devastazione di Gaza e dall’assalto genocida contro la sua popolazione di 2.3 milioni di persone, prevalentemente innocenti e da lungo tempo perseguitate.

Incredibili falle

Ciò che trovo strano e inquietante è che da quel giorno questo fattore è stato raramente preso in considerazione, nonostante il consenso sul fatto che l’attacco di Hamas sia stato possibile solo per le incredibili falle nelle capacità israeliana di intelligence e di rigida sicurezza sui confini, che si supponevano seconde a nessuno.

Invece di un giorno dopo pieno di furia vendicativa, perché l’attenzione in Israele e altrove non si è concentrata nell’attuare interventi di emergenza per restaurare la sicurezza di Israele tappando queste costose falle, ciò che sembrerebbe il modo più efficace per garantire che nulla di simile al 7 ottobre possa ripetersi?

Io posso capire la riluttanza del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a sottolineare questa spiegazione o a sostenere questa forma di risposta che equivarrebbe a una confessione della sua personale corresponsabilità per la tragedia traumaticamente subita da Israele quando i combattenti palestinesi si sono riversati oltre il confine. 

Ma quella d’altri in Israele e fra i governi suoi sostenitori?

 Indubbiamente Israele con tutta probabilità sta impiegando tutti i mezzi a sua disposizione, con un senso di urgenza, per tappare queste incredibili falle nel suo sistema di intelligence e per rimpolpare il suo potenziale militare sui relativamente brevi confini di Gaza. 

Non è necessario essere un genio della sicurezza per concludere che occuparsi in modo affidabile di questi problemi di sicurezza farebbe di più per prevenire e scoraggiare futuri attacchi di Hamas che questa continua saga che infligge punizioni devastanti contro la popolazione palestinese di Gaza, tra cui in pochissimi fanno parte dell’ala militare di Hamas. 

 Furia genocida

A settembre Netanyahu, in un discorso all’ONU durante il quale ha parlato di una nuova pace in Medio Oriente fra le prospettive di una normalizzazione Israele-Arabia Saudita, ha fornito ulteriore plausibilità a tali speculazioni presentando una mappa del Medio Oriente senza includere la Palestina, cancellando di fatto i palestinesi dalla propria patria. La sua presentazione rappresenta un diniego implicito del consenso dell’ONU sulla formula dei due Stati come una roadmap per la pace. 

Nel frattempo la furia genocida della risposta israeliana all’attacco di Hamas sta facendo infuriare il mondo arabo, anzi tutto il mondo, persino i Paesi occidentali. Ma dopo più di tre settimane di spietati bombardamenti, assedio totale e uno spostamento forzato di massa, la decisione di Israele di scatenare questo torrente di violenza contro Gaza deve essere ancora contrastata dai suoi sostenitori in Occidente. 

In particolare gli USA stanno sostenendo Israele presso l’ONU usando il loro veto quando necessario al Consiglio di Sicurezza e votando quasi senza nessuna condivisione da parte di Paesi importanti contro un cessate il fuoco all’Assemblea Generale. Persino la Francia ha votato la risoluzione dell’Assemblea Generale e il Regno Unito ha avuto un minimo di decenza e si è astenuto, entrambi probabilmente reagendo pragmaticamente alla pressione popolare che sale da grandi e infuriate dimostrazioni di piazza a casa. 

Nelle reazioni alle tattiche israeliane a Gaza si è anche dimenticato che, fin dall’inizio, questo governo estremista ha iniziato una serie scioccante di violente provocazioni nella Cisgiordania occupata. Molti hanno interpretato questo palese scatenarsi di violenza dei coloni come parte dell’obiettivo del progetto sionista mirante ad ottenere la vittoria su ciò che resta della resistenza palestinese. 

Ci sono poche ragioni per dubitare che Israele abbia deliberatamente reagito in modo sproporzionato al 7 ottobre nell’iniziare immediatamente una risposta genocida, soprattutto se il suo proposito era di distogliere l’attenzione dall’escalation della violenza dei coloni in Cisgiordania, esacerbata dalla distribuzione da parte del governo di armi “ai gruppi di sicurezza civile”. 

Il piano finale del governo israeliano sembra porre fine una volta per tutte a fantasie di partizione dell’ONU, al servizio dell’obiettivo massimalista sionista di un’annessione o di una totale sottomissione dei palestinesi cisgiordani.

In effetti, per quanto possa sembrare macabro, la leadership israeliana ha colto l’occasione del 7 ottobre “per finire il lavoro” commettendo un genocidio a Gaza, con la scusa che Hamas è un pericolo tale da giustificare non solo la sua distruzione, ma questo attacco indiscriminato contro l’intera popolazione. 

La mia analisi mi porta a concludere che la guerra in corso non sia principalmente per la sicurezza a Gaza o contro le minacce alla sicurezza poste da Hamas, ma piuttosto per qualcosa di molto più sinistro e incredibilmente cinico. 

Israele ha colto questa opportunità per soddisfare le ambizioni territoriali sioniste nel mezzo della ‘nebbia di guerra’, provocando un’ultima ondata di catastrofico spossessamento dei palestinesi. È di secondaria importanza se chiamarla “pulizia etnica” o “genocidio” anche se ci sono i requisiti per definirla la maggiore catastrofe umanitaria del XXI secolo. 

In effetti il popolo palestinese è perseguitato da due convergenti catastrofi: una politica e l’altra umanitaria.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Richard Falk, studioso di diritto internazionale e relazioni internazionali, ha insegnato presso la Princeton University per quarant’anni. Nel 2008 è stato nominato alle Nazioni Unite per sei anni come Relatore speciale per i diritti umani dei palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Guerra Israele-Palestina: coloni e soldati “commettono gravi abusi” su palestinesi e attivisti

Redazione di MEE

19 ottobre 2023 – Middle East Eye

Sulla base di un report di Haaretz tre palestinesi e cinque attivisti israeliani di sinistra detenuti, legati, picchiati e umiliati sessualmente dalle forze israeliane

Uno degli uomini, Mohammed Matar, 46 anni, noto come Abu Hassan, ha riferito ad Haaretz che quanto hanno vissuto è stato simile alle torture e agli abusi sui prigionieri perpetrati dalle forze statunitensi nella prigione irachena di Abu Ghraib.

I palestinesi sono stati rilasciati in serata da funzionari dellAmministrazione Civile, lorgano di governo israeliano nella Cisgiordania occupata. Sono stati portati all’ospedale di Ramallah gravemente feriti e dopo aver subito il furto della maggior parte delle cose in loro possesso, tra cui un’auto e dei contanti.

Un portavoce dell’esercito israeliano ha detto ad Haaretz che è stata aperta un’indagine sull’incidente e che come risultato un comandante è stato rimosso.

I Palestinesi denudati e torturati dai coloni. Foto (social media)

Lo stesso giorno degli attivisti israeliani di sinistra giunti sul posto con un bambino sono stati aggrediti e trattenuti per diverse ore.

I soldati e i coloni hanno minacciato di ucciderli e hanno continuato a picchiare alcuni di loro. Gli attivisti, che sono stati rilasciati dopo tre ore di prigionia, hanno raccontato che a un certo punto un giovane colono in abiti civili è stato incaricato di sorvegliarli.

La violenza dei coloni

Abu Hassan e Mohammed Khaled, 27 anni, entrambi dipendenti dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) che avevano trascorso sette settimane a Wadi al-Siq in aiuto degli abitanti, hanno riferito al giornalista di Haaretz Hagar Shezaf che erano già saliti in macchina per lasciare il villaggio quando sono arrivati i coloni e i soldati in uniforme militare, tutti armati e per la maggior parte a volto coperto”.

Secondo quando riferito da Abu Hassan e Khaled i coloni, dopo averli catturati, bloccati a terra e legate le loro mani con delle corde hanno iniziato a picchiarli con le armi, tenendo la loro testa bloccata al suolo e calpestandoli.

Sono stati mostrati alcuni coltelli, secondo i coloni e i soldati di proprietà dei palestinesi, ma che secondo questi ultimi erano stati introdotti nei loro bagagli.

I prigionieri palestinesi hanno detto ad Haaretz che durante la loro prigionia ad un certo punto è sopraggiunto del personale che ha dichiarato di far parte dello Shin Bet, lagenzia di sicurezza interna israeliana, che li ha interrogati e commesso abusi su di loro. Lo Shin Bet ha negato le accuse.

I tre palestinesi detenuti e torturati hanno riferito che era difficile distinguere i coloni dai soldati.

I prigionieri affermano che dopo una prima fase della detenzione sono stati condotti con gli occhi bendati e le mani legate con filo d’acciaio in un edificio vuoto.

“Ci hanno messo a pancia in giù e uno di loro ha portato un coltello e ci ha strappato i vestiti”, dice Abu Hassan ad Haaretz. Siamo rimasti solo in mutande”.

Hanno continuato a picchiarci, afferma Khaled. Ci hanno picchiati anche con un tubo di ferro e dei coltelli. Mi hanno colpito ovunque, sulle mani, sul petto e sulla testa. Ovunque. Ci hanno spento addosso le sigarette, hanno cercato di strapparmi le unghie”.

Abu Hassan dice che la sua faccia è stata sbattuta nella spazzatura ed escrementi che coprivano il pavimento dell’edificio. Sono stati interrogati e gli è stato chiesto ripetutamente dove intendessero “effettuare l’attacco con i coltelli” che sostenevano fossero in nostro possesso. Riferiscono di aver anche subito domande personali sulle loro famiglie.

La violenza è continuata per tutto il tempo, dice Abu Hassan ad Haaretz. Ci hanno versato addosso dellacqua, ci hanno urinato addosso. Dopodiché qualcuno con in mano un bastone ha provato a ficcarmelo nel sedere. Ho resistito con tutte le mie forze finché non ha desistito”.

Secondo i due palestinesi dopo circa sei ore sono stati portati fuori dall’edificio pieno di escrementi, a piedi nudi e in mutande. Non erano a conoscenza della presenza di un terzo palestinese, Majed, che era stato legato con una corda e a cui era stato sequestrato il telefono e che in seguito ha trascorso due notti in ospedale.

I tre palestinesi sono stati rilasciati in serata.

“Tutti gli arabi sono una merda”

Secondo il report nel frattempo cinque attivisti israeliani di sinistra sono stati trattenuti per ore dai coloni.

Quando ci hanno visto, hanno iniziato a inseguirci, ha riferito ad Haaretz uno degli attivisti. “Alcuni di loro erano in uniforme, o per metà in uniforme e per metà in abiti civili, ma i veicoli erano civili.”

Abu Hassan dice ad Haaretz che pensava di essere stato preso di mira e sottoposto ad abusi così gravi in quanto conosciuto tra i coloni come attivista che aiuta le comunità di pastori della zona.

“Hanno voluto trasmettere due messaggi: primo, che gli ebrei sono furiosi in seguito [ai fatti riguardanti, ndt.] la Striscia di Gaza, secondo, che noi arabi non dobbiamo osare a metterci contro di loro”, prosegue.

Ho detto loro che ero contro Hamas e contro la Jihad islamica palestinese ma a loro non interessava. Hanno detto che tutti gli arabi sono una merda e che dovremmo essere mandarli in Giordania. Ciò che è accaduto non ha nulla a che fare con la legge, lordine o la condotta di un Paese civile. Si tratta semplicemente di gang coordinate”.

Gli eventi si svolgono in un contesto di crescente violenza e tensione in Cisgiordania a causa della guerra israelo-palestinese in corso.

Le forze israeliane hanno imposto un rigido blocco in tutta la Cisgiordania, chiudendo le città, posizionando barriere e blocchi di cemento agli ingressi di villaggi e città e sparando sui manifestanti.

Dal 7 ottobre, dopo lo scoppio della guerra a seguito di un attacco a sorpresa condotto da Hamas contro Israele, hanno ucciso decine di civili palestinesi e ne hanno arrestato almeno 870. Allo stesso tempo, gli attacchi dei coloni sono aumentati del 40%.

Dallo scoppio della guerra nella Cisgiordania occupata sono state uccise almeno 72 persone mentre a Gaza sono morte almeno 3.785 persone e 1.400 in Israele.

Martedì scorso, due giorni prima dellattacco contro i palestinesi e gli attivisti di sinistra, il ministro israeliano di estrema destra della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir ha annunciato che il suo ministero è in procinto di acquistare 10.000 fucili per armare le squadre di sicurezza civile anche negli insediamenti coloniali in Cisgiordania.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I pogrom funzionano: gli sfollamenti sono già in atto

B’Tselem

21 Settembre 2023 – B’Tselem Publications

Da decenni Israele mette in pratica una serie di misure programmate per rendere invivibile la vita all’interno di decine di comunità palestinesi in tutta la Cisgiordania. Ciò fa parte di un tentativo di costringere gli abitanti di queste comunità ad andarsene via, apparentemente di propria iniziativa. Una volta raggiunto questo scopo lo Stato potrà realizzare il suo obiettivo di impossessarsi del territorio. Per raggiungere questo obiettivo Israele vieta ai componenti di queste comunità di costruire case, strutture agricole o edifici pubblici. Non consente loro di collegarsi alle reti idriche ed elettriche o di costruire strade e quando, non avendo altra scelta, lo fanno Israele minaccia la demolizione, passando spesso alle vie di fatto.

La violenza dei coloni è un altro strumento utilizzato da Israele per creare ulteriori tormenti ai palestinesi che vivono in queste comunità.

Sotto lattuale governo tali aggressioni sono notevolmente peggiorate trasformando la vita in alcuni luoghi in un incubo senza fine e negando agli abitanti qualsiasi possibilità di vivere con un minimo di dignità. La violenza ha privato gli abitanti palestinesi della loro capacità di continuare a guadagnarsi da vivere. Li ha terrorizzati al punto da temere per le loro vite e ha inculcato in loro la consapevolezza che non c’è nessuno che li protegga.

Questa realtà non ha lasciato a queste comunità altra scelta e molte di loro si sono sradicate, abbandonando le proprie abitazioni per luoghi più sicuri. Vivono in simili condizioni decine di comunità sparse in tutta la Cisgiordania. Se Israele continuasse questa politica tutti gli abitanti potrebbero essere sfollati, permettendo a Israele di raggiungere il suo obiettivo e di impossessarsi della loro terra.

Lo sfondo

Decine di comunità di pastori palestinesi sono sparse in tutta la Cisgiordania. Poiché Israele classifica queste comunità come non riconosciute, non consente loro di collegarsi alle reti idriche ed elettriche o al sistema stradale. Israele considera inoltre illegalitutti gli edifici costruiti in queste comunità (case, edifici pubblici e strutture agricole) ed emette ordini di demolizione nei loro confronti, che in alcuni casi esegue. Alcuni edifici sono stati demoliti e ricostruiti più volte.

Negli ultimi anni i coloni hanno costruito con laiuto dello Stato decine di avamposti e piccole fattorie vicino a queste comunità e da allora la violenza contro i palestinesi che vivono nellarea è aumentata, con un’impennata particolare sotto lattuale governo. Durante questi attacchi violenti, diventati una terrificante routine quotidiana, i coloni mandano via i pastori e gli agricoltori palestinesi dai loro pascoli e campi, aggrediscono fisicamente gli abitanti delle comunità, entrano nelle loro case nel cuore della notte, danno fuoco a proprietà palestinesi, spaventano il bestiame, distruggono i raccolti, compiono dei furti e bloccano le strade. Gli abitanti palestinesi hanno anche riferito che i coloni hanno aperto le valvole dei serbatoi dell’acqua e hanno condotto le loro greggi a bere nei bacini idrici palestinesi.

In tali circostanze gli abitanti di queste comunità non hanno più potuto continuare a recarsi nei loro pascoli e campi agricoli. In alcuni luoghi, in assenza dei palestinesi, i coloni hanno iniziato a coltivare i loro campi sotto la protezione dei soldati. In altri luoghi i coloni hanno iniziato a far pascolare le greggi di loro proprietà in pascoli che fino a poco tempo fa erano stati utilizzati dai pastori palestinesi. Senza accesso ai pascoli, i palestinesi sono stati costretti ad acquistare a costi elevati foraggio e acqua per le loro greggi, il che ha causato perdite finanziarie significative, distruggendo di fatto i loro mezzi di sussistenza.

Lattuale governo gioca un ruolo significativo in questo stato di cose. Sebbene non abbia introdotto restrizioni riguardo alla costruzione e demolizione di case palestinesi e alluso della violenza da parte dei coloni per prendere il controllo della terra palestinese, conferisce piena legittimità alla violenza dei coloni contro i palestinesi incoraggiando e sostenendo pubblicamente i responsabili. Membri di questo governo sono stati in passato artefici di tali violenze. Ora sono loro le persone incaricate di programmare la politica. Stanziano i fondi che finanziano la violenza e sono responsabili dellapplicazione della legge sui coloni che attaccano i palestinesi.

Questo governo non si preoccupa nemmeno di esprimere quelle vuote condanne che un tempo si udivano dopo questi atti di violenza, elogiando al contrario i coloni violenti. Laddove i governi precedenti insistevano nel mantenere in piedi la farsa di un sistema giudiziario efficiente nell’indagare e perseguire gli israeliani che provocassero dei danni ai palestinesi, i membri di questo governo sono impegnati a cancellarne ogni traccia, con un ministro che chiede di cancellare Huwarah” [il ministro delle finanze Bezalel Smotrich a proposito del pogrom nella città palestinese nella Cisgiordania settentrionale, ndt.], membri dei partiti della coalizione che visitano in ospedale un israeliano sospettato di aver ucciso un palestinese e ministri che si rifiutano di condannare la violenza, il tutto tollerando e giustificando un pogrom dopo l’altro nelle comunità palestinesi.

Le prime a subire le conseguenze di questo cambiamento sono le comunità palestinesi più isolate e vulnerabili. Queste comunità vivono nelle condizioni più elementari, circondate da avamposti di insediamento coloniale i cui abitanti hanno carta bianca per far loro del male impunemente. Se i palestinesi di comunità più consolidate come Turmusaya e Um Safa non hanno ricevuto alcuna protezione mentre i soldati e gli agenti di polizia spalleggiavano i responsabili dei pogrom, che speranza hanno gli abitanti di sperdute comunità di pastori? Il timore per la loro stessa sopravvivenza, la consapevolezza che insieme ai propri figli essi siano stati abbandonati al loro destino, il tutto perdendo le fonti di reddito, li ha, comprensibilmente, privati della possibilità di continuare a vivere nelle loro comunità e li ha costretti ad andarsene.

Le comunità sfollate

Negli ultimi due anni almeno sei comunità della Cisgiordania sono state costrette a sfollare.

Quattro delle comunità vivevano a nord e nord-est di Ramallah. Alcuni dei loro componenti abitavano su terreni di proprietà di altri palestinesi che avevano accettato di lasciarli vivere lì dopo la loro cacciata da altri luoghi in Israele e in Cisgiordania. Negli ultimi anni, con laiuto dello Stato, attorno a queste comunità sono stati creati diversi avamposti coloniali residenziali e agricoli israeliani, il primo dei quali, Michas Farm, è stato fondato nel 2018. Come altrove in Cisgiordania, questi avamposti coloniali sono stati quasi immediatamente collegati alle reti idriche ed elettriche, nonché alla rete stradale. Hanno goduto dellimmunità dalle demolizioni e i loro abitanti lavorano in pieno concerto con i militari, che forniscono loro protezione. Alcuni di questi avamposti sono stati realizzati in aree dove, ufficialmente, non può essere costruita alcuna comunità, poiché Israele le ha dichiarate zone di tiro, ma hanno comunque ricevuto il sostegno dello Stato.

Le quattro comunità sfollate in quest’area sono:

  • Ras a-Tin: Il 7 luglio 2022, i circa 120 componenti di questa comunità, circa la metà dei quali minorenni, se ne sono andati via. La comunità venne fondata alla fine degli anni ’60 da palestinesi che Israele aveva sfollato dalle colline a sud di Hebron su terreni palestinesi di proprietà privata e registrati appartenenti ai residenti di Kafr Malik e al-Mughayir. Nel corso degli anni, lamministrazione civile ha emesso ordini di demolizione contro alcuni edifici degli abitanti e fino ad oggi Israele aveva demolito tre edifici non residenziali della comunità. L’Amministrazione Civile aveva emesso un ordine di demolizione anche per la scuola costruita dagli abitanti della comunità. Nel 2018 vicino alla comunità è stata costruita Michas Farm, un avamposto di insediamento coloniale, e in seguito alla sua fondazione gli abitanti della comunità hanno segnalato un aumento significativo di episodi di violenza, tra cui molestie, furti, atti di vandalismo e violenze verbali, che sono diventati una routine quotidiana.

  • Ein Samia: il 22 maggio 2023 gli ultimi abitanti rimasti della comunità di Ein Samia costituita da 28 famiglie per un totale di circa 200 componenti, hanno abbandonato le loro case. La comunità si stabilì in quel sito su terreni dati in affitto dagli abitanti della vicina Kafr Malik nel 1980, dopo essere stata costretta dagli israeliani a sfollare più volte da altre località. Nel corso degli anni l’amministrazione civile ha emesso ordini di demolizione contro alcuni edifici degli abitanti e fino ad oggi Israele ha demolito 21 case della comunità, che ospitavano 83 persone, tra cui 52 minori, oltre ad altri 28 edifici non residenziali. LAmministrazione Civile ha inoltre emesso un ordine di demolizione per la scuola della comunità, utilizzata da circa 40 bambini. Nell’ottobre 2022 il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha respinto una petizione presentata dagli abitanti del luogo perché ne venisse sospesa la demolizione. Gli abitanti se ne sono andati prima che l’ordine di demolizione fosse eseguito. Anche gli abitanti di Ein Samia hanno segnalato un aumento significativo della violenza dei coloni a partire dal 2018. Una settimana prima che la comunità se ne andasse, la polizia ha confiscato agli abitanti decine di pecore e capre con la falsa accusa che fossero state rubate ai coloni. Durante la notte i coloni sono entrati nella comunità, hanno attaccato gli abitanti e la scuola, hanno fatto volare un drone sopra di loro e hanno dato fuoco ai pascoli. Inoltre hanno lasciato libero il loro gregge nei campi agricoli della comunità e gli animali hanno consumato lintero raccolto.

  • al-Baqah: Il 10 luglio 2023 33 persone, tra cui 21 minori, sono state costrette a sfollare. Il 1 settembre 2023 è stata allontanata anche lultima famiglia rimasta, composta da 5 persone di cui un minore. La loro partenza è stata preceduta da attacchi quotidiani da parte di coloni che avevano costruito una fattoria a circa 50 metri dalle case della comunità, avevano installato pannelli solari, si erano collegati alle infrastrutture idriche che servono il vicino avamposto di Neve Erez e avevano preso il controllo della via di accesso della comunità alla strada principale. I coloni facevano anche pascolare il loro gregge, che contava tra 60 e 70 capi di pecore, nei pascoli della comunità e molestavano i pastori del luogo che portavano al pascolo le proprie greggi. Il 7 luglio 2023, intorno alle 6,30, una tenda della comunità, più isolata rispetto alle altre, è stata incendiata. La famiglia in quel momento era fuori, poiché sin dalla fondazione dell’avamposto trascorreva le notti altrove per paura di attacchi da parte dei coloni. La famiglia ha visto l’incendio da lontano e ha chiamato la polizia, ma non è intervenuto nessuno.

  • al-Qabun: La comunità, che ospitava 12 famiglie per un totale di 86 residenti, tra cui 26 minori, è stata costretta a sfollare all’inizio dell’agosto del 2023. La comunità viveva in quel luogo dal 1996, dopo che Israele, nei primi anni ’50, aveva costretto i suoi componenti a lasciare il deserto del Negev. Nel corso degli anni lamministrazione civile ha emesso ordini di demolizione contro alcuni edifici degli abitanti e fino ad oggi Israele ha demolito sei case che ospitavano 41 persone, tra cui 18 minori, e 12 edifici non residenziali. Nel febbraio di questanno i coloni hanno realizzato un avamposto vicino alla comunità, allinterno di unarea che Israele aveva dichiarato zona di tiro. Gli abitanti hanno riferito di essere stati perseguitati dai coloni, che giravano intorno alle loro case fino ad entrarvi, arrivavano a tarda notte a cavallo e in fuoristrada, li intimidivano, si impossessavano dei loro campi coltivati e gli impedivano di portare al pascolo il loro gregge.

Nelle colline a sud di Hebron almeno altre due comunità sono state costrette a sfollare con la forza. La prima era Khirbet Simri, una frazione di due famiglie appartenenti a due fratelli con un totale di 20 componenti, di cui otto minorenni. Nel 1998 in cima alla collina dove viveva la comunità venne fondato l’avamposto coloniale di Mitzpe Yaire e ne seguì un aumento delle violenze. I coloni importunavano i membri della comunità, li minacciavano, entravano nelle loro case e impedivano loro di far pascolare le greggi. Nel 2020 i coloni hanno portato una mandria di bovini, che hanno pascolato su un terreno utilizzato dagli abitanti della comunità. Nel luglio 2022 questi hanno deciso di andarsene.

La seconda comunità ad andare via è stata Widady a-Tahta, anch’essa composta da 20 abitanti, tra cui 12 minori. La comunità viveva nel sito da circa 50 anni. Circa due anni fa i coloni hanno realizzato un avamposto a circa 500 metri dalle case della comunità. Da allora, i coloni hanno ripetutamente bloccato laccesso dei componenti della comunità ai pascoli attorno alle loro case, anche utilizzando un drone per spaventare e disperdere il gregge. Inoltre coloni armati penetravano ripetutamente a tutte le ore nelle case degli abitanti, in alcuni casi con un cane, aggredendo i componenti della comunità, picchiandoli e minacciandoli con le armi. Inoltre, circa un anno fa l’Amministrazione Civile ha emesso ordini di demolizione di tutti gli edifici del piccolo borgo: tre strutture residenziali e un recinto per il bestiame. Il 27 giugno 2023 due coloni armati sono entrati nella comunità e hanno minacciato uno degli abitanti che stava portando al pascolo le sue pecore vicino a casa. È fuggito per chiedere aiuto ai familiari e i coloni hanno cercato di rubare le pecore, ma quando hanno visto gli abitanti avvicinarsi le hanno abbandonate e sono tornati all’avamposto. La famiglia ha contattato la polizia, ma questa si è rifiutata di aiutarli. Dopo questo incidente la famiglia è giunta alla decisione che il pericolo era troppo grande e hanno dovuto andarsene.

Parte di una politica di lunga data

Queste comunità non hanno preso la decisione di lasciare tutto senza un motivo. È il risultato diretto della politica di Israele, progettata per raggiungere questo esatto risultato: costringere i palestinesi a sfollare e ridurre il loro spazio vitale per trasferire la loro terra in mani ebraiche. La politica si basa su una serie di restrizioni, misure e pratiche abusive da parte dello Stato e dei suoi rappresentanti, con vari livelli di durezza e perseguite sia ufficialmente che ufficiosamente.

Il percorso ufficiale: restrizioni estreme ad edilizia e ampliamento

Israele di fatto vieta ai palestinesi edilizia e ampliamento nellArea C [sotto controllo civile e di sicurezza israeliano, ndt.], che comprende il 60% della Cisgiordania. Larea ospita 200.000-300.000 palestinesi, migliaia dei quali vivono in decine di comunità di pastori e agricoltori. Sebbene la maggior parte degli abitanti palestinesi della Cisgiordania viva nelle aree definite A e B dagli Accordi di Oslo, firmati circa 30 anni fa sotto forma di intesa ad interim quinquennale, tutti i palestinesi sono colpiti dal divieto di costruire. Il motivo è che quando furono firmati gli Accordi di Oslo le Aree B[sotto controllo civile palestinese e di sicurezza israeliano, ndt.] e A [sotto totale controllo palestinese, ndt.] erano già in gran parte popolate, mentre le aree con un potenziale di sviluppo urbano, agricolo ed economico rimanevano per lo più nellArea C, e da allora la popolazione palestinese è quasi raddoppiata.

Per impedire l’edilizia palestinese nellArea C Israele ne ha stabilito il divieto per circa il 60%, assegnando diverse definizioni legali ad aree vaste (e talvolta sovrapposte): il terreno statalecomprende circa il 35% dellArea C, i campi di addestramento militare (zone di tiro) comprendono circa il 30%, le riserve naturali e i parchi nazionali coprono un altro 14% e le giurisdizioni degli insediamenti coloniali comprendono un altro 16% della stessa area. Israele sta conducendo una guerra incessante contro i palestinesi che vivono in queste aree, allontanandoli ripetutamente dalla loro terra con falsi pretesti, come l’addestramento militare, demolendo le loro case e confiscando le loro proprietà.

Nel restante 40% dellArea C Israele, che ha il controllo pieno ed esclusivo sull’edificazione e pianificazione in Cisgiordania, impone restrizioni estreme a edificazioni e ampliamenti. LAmministrazione Civile si rifiuta di preparare piani regolatori per la stragrande maggioranza delle comunità palestinesi in questarea. I pochi piani regolatori approvati dall’Amministrazione Civile, che rappresentano meno dell’1% dell’Area C e in aree in gran parte già edificate, non soddisfano i criteri di pianificazione accettati oggi nel mondo.

Le probabilità che un palestinese riceva un permesso di costruzione, anche su un terreno di proprietà privata, sono minime. Secondo i dati forniti dallAmministrazione Civile a da Peace Now [movimento progressista pacifista non-governativo israeliano, ndt.] nel decennio tra il 2009 e il 2018 sono stati approvati solo 98 permessi per costruzioni residenziali, industriali, agricole e infrastrutturali su 4.422 domande di autorizzazione presentate (2%). Secondo i dati forniti alla ONG israeliana Bimkom, su 2.550 domande presentate tra il 2016 e il 2020 ne sono state approvate 24 (meno dell1%). Il numero di domande di permesso presentate non riflette necessariamente le esigenze edilizie dei palestinesi, dal momento che la maggior parte dei palestinesi non si prende più la briga di presentare domande di permesso di costruzione, sapendo che verranno comunque respinte.

La mancanza di piani regolatori impedisce non solo ledilizia residenziale ma anche la costruzione per scopi pubblici, come scuole e strutture mediche, nonché le infrastrutture, compresi i collegamenti alla rete stradale e alle reti idriche ed elettriche. A causa del cambiamento climatico le restrizioni sulle infrastrutture rendono di anno in anno la vita più difficile per gli abitanti palestinesi. Non solo Israele nega agli abitanti il collegamento alle infrastrutture ma impedisce loro anche di prendersi cura dei propri bisogni in modo indipendente, vietando lo scavo di cisterne per lacqua e linstallazione di impianti solari e confiscando regolarmente i serbatoi dellacqua. Senza collegamenti allacqua corrente il consumo di acqua in queste comunità è di 26 litri al giorno per persona, equivalente al consumo di acqua nelle zone disastrate e circa un quarto dei 100 litri al giorno per persona raccomandati dallOrganizzazione Mondiale della Sanità.

Date queste condizioni i palestinesi sono costretti a promuovere l’ampliamento delle loro comunità e a costruire le loro case senza permessi. Lo fanno non perché siano criminali ma perché non hanno la possibilità di costruire legalmente. L’Amministrazione Civile emette ordini di demolizione contro questi edifici, talvolta con successiva messa in atto. Secondo i dati di BTselem, tra il 2006 e il 31 luglio 2023 Israele ha demolito in Cisgiordania 2.123 case. A causa di queste demolizioni 8.580 persone, tra cui 4.324 minori, hanno perso la casa. Durante questo periodo Israele ha demolito anche 3.387 edifici non residenziali.

Pertanto, utilizzando uno sterile vocabolario giuridico e di pianificazione urbana e agganciandosi a ordini militari e leggi sulla pianificazione e sull’edilizia, Israele riesce a cacciare i palestinesi dalle vaste aree che sono oggetto delle sue mire e a confinarli in aree più piccole dove tiene in sospeso le loro vite e applica politiche volte a negare loro qualsiasi sviluppo. I palestinesi sono costretti a vivere in una costante incertezza riguardo al loro futuro e nella paura senza fine che si presenti il personale dellamministrazione civile per consegnare ordini di demolizione o per demolire ciò che hanno già costruito. Vivono in uno stato di costante deprivazione, in condizioni che non possono essere paragonate a quelle degli insediamenti coloniali costruiti vicino alle loro comunità e spesso sulle loro terre.

Il percorso non ufficiale: la violenza dei coloni

Laccaparramento di terre da parte di Israele viene perseguito anche attraverso atti quotidiani di violenza compiuti da bande di coloni che operano senza timore di conseguenze, armate, sostenute, incoraggiate e finanziate dallo Stato, direttamente o indirettamente. Questi atti di violenza fanno parte di unampia strategia progettata per costringere i palestinesi dallArea C a sfollare.

Negli ultimi anni sono state create in tutta la Cisgiordania circa 70 fattorie agricole. Avviare unazienda agricola richiede molte meno risorse rispetto alla costruzione di un insediamento coloniale e attraverso il pascolo di pecore e bovini queste aziende agricole consentono una facile acquisizione di vaste aree che si estendono su migliaia di dunam, che di solito contengono pascoli, risorse idriche e terre coltivate dai palestinesi. I coloni che vivono in queste fattorie terrorizzano i palestinesi che abitano vicino a loro.

Le tattiche principali utilizzate dai coloni comprendono l’occupazione dei pascoli facendovi pascolare pecore e bovini, la corsa di quad contro greggi palestinesi e il sorvolo di droni per spaventare e disperdere gli animali, l’uso della violenza fisica contro gli abitanti palestinesi delle comunità, nei pascoli, nei campi coltivati e allinterno delle loro case, e il danneggiamento delle fonti dacqua.

Usando queste tattiche i coloni sono riusciti ad allontanare pastori e agricoltori palestinesi dai campi, dai pascoli e dalle fonti dacqua su cui hanno fatto affidamento per generazioni e a prenderne il controllo. Una ricerca condotta da B’Tselem circa due anni fa ha rilevato che cinque piccole fattorie di coloni, con solo poche decine di abitanti, di solito una famiglia o due e alcuni giovani, hanno preso il controllo di un’area che si estende per un totale di oltre 28.000 dunam (1 dunam = 1.000 metri quadrati) di terreni agricoli e pascoli utilizzati dalle comunità palestinesi per generazioni.

I militari, che sono ben consapevoli di queste azioni, evitano di affrontare i coloni violenti per una questione politica mentre invece a volte partecipano essi stessi a questi atti o proteggono i coloni a distanza. Linerzia di Israele continua dopo che si sono verificati gli attacchi dei coloni contro i palestinesi, dato che le autorità preposte allapplicazione della legge fanno tutto il possibile per evitare che qualcuno risponda a questi incidenti. Le denunce sono difficili da presentare e nei pochissimi casi in cui vengono effettivamente aperte le indagini il sistema le insabbia rapidamente. Non vengono quasi mai presentate accuse contro i coloni che danneggiano i palestinesi, e quelle che vengono stilate di solito citano reati minori, con sanzioni simboliche comminate nel raro caso di una condanna.

Non è una novità. La violenza commessa dai coloni contro i palestinesi è stata registrata fin dai primi giorni delloccupazione in innumerevoli documenti e dossier governativi; migliaia di testimonianze di palestinesi e soldati; libri; rapporti di organizzazioni palestinesi, israeliane e internazionali per i diritti umani e migliaia di storie dei media. Questa documentazione ampia e coerente non ha avuto praticamente alcun effetto sulla violenza dei coloni contro i palestinesi, che da tempo è diventata parte integrante della vita sotto loccupazione in Cisgiordania.

Questa politica ha lasciato i palestinesi senza alcuna protezione, negando loro persino il diritto di difendersi dalle persone che invadono le loro case. Quando i palestinesi cercano di respingere lattacco dei coloni, anche lanciando pietre, i soldati che fino a quel momento erano rimasti a guardare o avevano partecipato allattacco sparano contro di loro lacrimogeni, granate stordenti, proiettili di metallo rivestiti di gomma e persino proiettili veri. In alcuni casi i palestinesi vengono anche arrestati e alcuni vengono incriminati.

Lo Stato legittima non solo la violenza contro i palestinesi ma anche le conseguenze di questi atti, consentendo ai coloni di rimanere sulla terra che hanno sottratto con la forza ai palestinesi. Lesercito proibisce ai palestinesi di entrare in quelle aree e lo Stato sostiene pienamente gli insediamenti coloniali realizzati su di esse. Decine di avamposti, anche agricoli, costruiti senza permesso ufficiale vengono lasciati in piedi, mentre Israele fornisce sostegno attraverso i ministeri, la Divisione per gli Insediamenti dellOrganizzazione Sionista Mondiale e i consigli regionali in Cisgiordania. Inoltre lo Stato sovvenziona gli sforzi finanziari negli avamposti coloniali, comprese le strutture agricole, fornisce sostegno ai nuovi agricoltori e alla pastorizia, assegna lacqua e difende sul piano giuridico gli avamposti coloniali nel caso di petizioni a favore della loro rimozione.

Così è iniziato il trasferimento forzato, ed è così che Israele continua ad impegnarsi per rendere miserabile la vita di chi abita nelle comunità situate nelle aree ambite, fino al punto che non possono più restarvi e le abbandonano, lasciando le loro case e la loro terra allo Stato. Questa politica viene attuata utilizzando due binari paralleli. Da un lato, sotto l’egida delle ordinanze militari, dei consulenti legali e della Corte Suprema lo Stato sfratta i palestinesi dalle loro terre. Sull’altro binario i coloni usano la violenza contro i palestinesi, aiutati e incoraggiati e talvolta con la collaborazione delle forze statali. Questa politica ha portato al trasferimento forzato di almeno sei comunità, ma molte altre in tutta la Cisgiordania sperimentano la stessa brutalità e sono sotto minaccia immediata di espulsione.

Questa è una politica illegale che implica per Israele il crimine di guerra del trasferimento forzato. Il diritto internazionale, che Israele è obbligato e si è impegnato a rispettare, vieta il trasferimento forzato degli abitanti di un territorio occupato, indipendentemente dalle circostanze. Il fatto che questo caso particolare non comporti che i soldati arrivino nelle case degli abitanti e li costringano fisicamente ad andarsene è irrilevante. Creare un ambiente coercitivo che non lasci agli abitanti altra scelta è sufficiente per ritenere Israele responsabile di questo crimine.

Queste comunità non vengono costrette a sfollare a causa di disastri naturali o altre circostanze inevitabili. È una scelta che il regime dell’apartheid sta facendo per realizzare il suo obiettivo di Cin tutta l’area compresa tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questo regime considera la terra come una risorsa destinata esclusivamente al popolo ebraico, e quindi la terra viene utilizzata quasi esclusivamente per lo sviluppo e l’espansione delle colonie ebraiche esistenti e per la creazione di nuove.

Pertanto opporsi ai trasferimenti in corso è un dovere e, ovviamente, non vi è alcun obbligo di continuare a collaborare all’attuazione delle politiche che li guidano. Segmenti crescenti dellopinione pubblica israeliana hanno recentemente dichiarato il loro rifiuto di prestare servizio nellesercito in un Paese non democratico. Non c’è niente di più degno del rifiuto ad essere partecipi nell’esecuzione di un crimine di guerra e nellattuazione di una politica di trasferimenti.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La sovranità illegale sulla terra palestinese

Mella Jongebloed

27 agosto 2022 – Mondoweiss

La violenza dei coloni a Hebron svela il vero volto coloniale del progetto sionista, e il mondo non può continuare a guardare mentre esso va avanti.

Passa un gruppo di undici giovani coloni, di età compresa tra i quindici e i diciotto anni. Li accompagnano due soldati a piedi e li affianca un veicolo militare. Lungo il ciglio della strada ci sono degli avamposti dove i soldati tengono sempre le armi pronte. I coloni ci dicono in ebraico qualcosa che non capiamo, i loro volti mostrano un’arroganza che non si addice alla loro età. Lungo la strada, a pochi metri, vediamo uno di loro sputare addosso a un palestinese che siede sulle scale davanti a casa sua. Nel passargli davanti pensiamo che quell’uomo sia muto. Borbotta parole incomprensibili, indica con le braccia i coloni, apparentemente sconvolto ma incapace di dire cosa sia successo.

È il giugno del 2022. Ho preso una pausa dai miei studi e sto trascorrendo tre mesi a Hebron, dall’inizio di maggio all’inizio di agosto. Sono solidale con la causa palestinese da quando ho appreso dell’occupazione nell’ambito dei miei studi sul Medio Oriente. Ma per diventare credibile nella difesa di questa causa ho voluto vivere la situazione in prima persona.

E l’ho sperimentata.

Dai piccoli gesti di violenza, come sputare addosso a un palestinese, danneggiare le finestre delle case palestinesi e far chiudere i battenti agli esercizi commerciali, fino a quasi uccidere un uomo disarmato nella sua terra, la vita a Hebron è piena di violenza da parte dei coloni. Fino ad oggi in Cisgiordania, sebbene la presenza di coloni sia illegale, i progetti di colonizzazione sono cresciuti e si sono intensificati. A Hebron circa 800 coloni ebrei vivono nel cuore della Città Vecchia. Al di fuori della città vecchia, negli insediamenti chiamati Kiryat Arba e Giv’at Ha-Avot, risiedono altri 8.000 coloni.

I palestinesi sono impotenti contro i coloni che, contrariamente a loro, possono portare i mitra a tracolla e sono costantemente scortati da un numero sproporzionato di soldati. I coloni agiscono come i sovrani illegali del territorio palestinese, rendendo la vita dei palestinesi insopportabile anche nella piccola porzione di Palestina su cui sono stati lasciati sopravvivere. Dato che Israele cerca di impedire ai turisti di recarsi in Cisgiordania intimidendoli è mio dovere testimoniare ciò che ho visto.

Nuovi vicini

Il 28 luglio dei coloni hanno occupato una casa palestinese all’inizio di via Shuhada. Questa strada era il principale centro di vita di Hebron, fino a quando non fu in gran parte chiusa ai palestinesi dopo il massacro del 1994 nella moschea di Ibrahimi, quando Baruch Goldstein, un medico estremista sionista, uccise 29 palestinesi in preghiera. La sua tomba è ancora visitata e venerata dai coloni.

La casa occupata dai coloni è una delle più belle della strada. Le pietre gialle sembrano aver preso il colore dal sole e dalla casa si può vedere la Moschea Ibrahimi e il resto della Città Vecchia.

Il primo giorno centinaia di coloni sono saliti lungo le scale di metallo appena installate che conducono alla casa di proprietà palestinese. Vengono costantemente sorvegliati da una ventina o una trentina di soldati, posizionati sul tetto, sui balconi e intorno alla casa. Quando sul tetto un gruppo di giovanissimi coloni tira fuori la prima bandiera israeliana, i vicini palestinesi osservano intimiditi.

Già accerchiati da 21 posti di blocco militari da ogni lato, con telecamere montate su ogni muro e con a fianco una casa di proprietà di coloni, crescerà la presenza di coloni e soldati violenti e, insieme, le violazioni dei diritti umani che sono parte integrante della vita quotidiana. Un palestinese che abita di fronte alla casa dice che ha già difficoltà a dormire. I coloni spesso bevono molto e maltrattano i vicini palestinesi. Ci lanciano pietre e ci maledicono, dice.

Souvenir in frantumi

Um Mahmoud, che vive con il marito e i figli accanto ai coloni, subisce tali molestie almeno ogni settimana. Solo due giorni fa alle 22:00 i coloni hanno lanciato pietre e bottiglie di birra contro la loro casa.

Durante le feste ebraiche i soprusi sono più gravi che mai. “L’anno scorso hanno lanciato uova, verdure marce e frutta, e hanno mandato in pezzi un sacco di cose”, spiega. “L’albero di limoni, le piante, le finestre, tutto è stato danneggiato e hanno lanciato pietre contro la nostra auto di famiglia”.

“I soldati, quando arrivano, spesso non fanno nulla o arrestano uno di noi”, spiega Um Mahmoud. Suo figlio Said, di 18 anni, è rimasto in prigione un mese e mezzo, e suo figlio Wadia, di 17 anni, una settimana. “Riesci a immaginare quali effetti hanno queste cose su un adolescente?” Sospira.

Nelle vecchie strade di Hebron la violenza dei coloni aleggia sopra la vostra testa. Sassi, sedie rotte, bottiglie vuote e quant’altro sono sparsi sulle reti tese sopra le strade a protezione degli abitanti. Un negoziante mi dice che i coloni gettano continuamente acqua sporca dalle loro finestre danneggiando i prodotti dei commercianti. Uno di loro, Bader Tamimi, ha un negozio proprio di fronte a un insediamento coloniale ebraico. I soldati controllano da una torre di guardia il suo negozio che viene regolarmente attaccato dai coloni. Il 9 agosto hanno iniziato a lanciare pietre contro il negozio, i commercianti e i clienti.

Il lancio di pietre era più intenso del solito. Siamo andati a cercare i soldati perché li fermassero, ma dopo essere usciti dalla loro postazione hanno iniziato a spararci addosso lacrimogeni e granate stordenti”.

Tour dei coloni

Questa non era la prima volta. Durante i settimanali “tour dei coloni” gruppi nutriti di coloni scortati da soldati visitavano la città vecchia di Hebron e il più delle volte molestavano i palestinesi lungo strada. Il negozio di Bader è stato spesso preso di mira a sassate. Mi mostra i lacrimogeni scagliati contro il suo negozio.

“Sia i coloni che i soldati vogliono renderci impossibile lavorare qui, o anche solo condurre le nostre vite”, dice.

Incastrati tra i coloni

La famiglia al-Ja’bari abita esattamente tra gli insediamenti coloniali di Kiryat Arba da una parte e Giv’at Ha-Avot dall’altra. Un sentiero che collega gli insediamenti attraversa proprio il loro terreno. Nel 2006 i coloni hanno posizionato sulla terra di al-Ja’bari una grande tenda con la funzione di sinagoga. Nonostante una sentenza del tribunale israeliano del 2015 secondo cui la tenda avrebbe dovuto essere rimossa, l’esercito ha permesso ai coloni di continuare a usarla. Ogni sabato accorrono a decine, mentre nelle festività ebraiche il numero sale a centinaia. Le Nazioni Unite hanno documentato molteplici attacchi alla famiglia da parte dei coloni: dagli spari al lancio di pietre, all’irruzione dentro casa, fino al vandalismo. I coloni hanno anche rubato bestiame e raccolti. Secondo la famiglia, a causa delle aggressioni da parte dei coloni ogni loro componente ha dovuto in una qualche circostanza essere ricoverato in ospedale. Ultimo il 64enne Abdul Karem al-Ja’bari.

Tubo di ferro

Nel corso di un tour politico da lui guidato l’attivista e difensore dei diritti umani Badia Dwaik ci ha informato di una aggressione avvenuta contro gli al-Ja’bari il giorno prima, il 17 giugno. Dwaik ha deciso di non portarci in quella zona di Hebron per motivi di sicurezza. Circa una settimana dopo sono andata con Badia a visitare Abdul Karem al-Ja’bari, chiamato anche Abu Anan. Aveva testa e braccio bendati. Più calmo di quanto ci si potesse aspettare, ci ha raccontato cosa era successo.

Ogni anno Abu Anan raccoglie le sue olive, e così stava facendo anche quest’anno. Alcuni soldati hanno attraversato il suo terreno, seguiti da un gruppo di coloni. Uno dei coloni camminava da solo. Secondo Abu Anan il suo aggressore era il figlio del direttore del consiglio dell’insediamento coloniale di Kiryat Arba e faceva parte di un gruppo di coloni che lo avevano minacciato una settimana prima. Erano andati via dopo che Abu Anan ha chiamato la polizia. Questa volta il colono si è fermato sul luogo in cui lui stava raccogliendo le sue olive. E’ rimasto lì per un po’ e sembrava studiare la situazione. Poi si è allontanato, continuando a camminare fino a raggiungere la propria casa nell’insediamento coloniale.

Inginocchiato e con gli occhi rivolti a terra, Abu Anan ha proseguito la raccolta e non ha notato il gruppo di coloni che si avvicinava alle sue spalle. Uno dei coloni lo ha colpito alla nuca. Il telefono di Abu Anan era caduto a terra, quindi ha raccolto il telefono, si è alzato e si è voltato, guardando negli occhi il suo aggressore. Questi indossava una maschera, ma i suoi vestiti erano riconoscibili; era lo stesso uomo. Il colono aveva nelle mani un tubo di ferro, la cui estremità era affilata come un coltello. Ha colpito Abu Hanan sulla testa. Al.Ja’bari a causa dell’adrenalina non sentiva ancora la profonda ferita nella sua testa. Si è accorto che dietro al colono ce n’erano all’incirca altri dodici con in mano dei bastoni.

Sangue e spray al peperoncino

L’aggressore di Abu Anan aveva nell’altra mano uno spray al peperoncino e ha iniziato a spruzzarglielo in faccia, ma Abu Anan è riuscito a farglielo cadere di mano con il telefono. Poi il colono lo ha colpito di nuovo in testa con maggiore violenza. Ha poi raccolto una pietra di circa cinque chili e l’ha lanciata contro Abu Anan, che ha alzato la mano per difendersi e si è ritrovato con un braccio rotto.

Nel frattempo gli occhi di Abu Anan iniziavano a bruciare. Erano stati raggiunti dallo spray al peperoncino e il sangue che usciva della ferita alla testa fluiva fino agli occhi. Mentre Abu Anan cercava di scappare il colono lo ha colpito alla testa un’ultima volta, per poi scappare con un gruppo di altri coloni che avevano assistito alla scena nei pressi dell’ingresso dell’insediamento coloniale. Con una mano fratturata e il sangue che sgorgava dalle tre profonde ferite alla testa, al-Ja’bari ha iniziato a correre in strada fino alle porte di Kiryat Arba. Ha gridato aiuto in ebraico ai soldati.

Abu Anan è morto”

I soldati israeliani hanno chiamato un’ambulanza, ma quando è arrivata l’ambulanza israeliana è comparso sul luogo uno dei più famigerati coloni di Kiryat Arba, Ofer Hanna. Secondo Abu Anan, questi ha impedito a chiunque, compreso il personale dell’ambulanza, di prestare aiuto. Ofer ha iniziato ad inventare una storia, dicendo che al-Ja’bari era stato aggredito perché era entrato nella tenda, situata sul suo terreno, che funge da sinagoga. Nel frattempo è arrivata un’altra ambulanza israeliana, oltre a otto soldati e alla guardia di sicurezza dell’insediamento. Dalle 9 alle 10 del mattino non è stato prestato ad al-Ja’bari nessun primo soccorso. Gli operatori dell’ambulanza erano evidentemente spaventati da Ofer e rimanevano semplicemente a guardare. Terrorizzata per suo marito, il cui sangue dall’estremità della mano scorreva giù per tutto il corpo, la moglie di al-Ja’bari ha chiamato la Mezzaluna Rossa Palestinese. Alla fine è arrivata un’ambulanza palestinese e ha trasportato al-Ja’bari in ospedale.

Nel frattempo, sotto gli occhi dei figli di al-Ja’bari, i coloni avevano tirato fuori un grande altoparlante davanti alla stazione di polizia dell’insediamento, situato a una cinquantina di metri dalla casa di al-Ja’bari. Cantavano “Abu Anan è morto”.

Impunità dei coloni

I medici hanno detto ad al-Ja’bari che non potevano credere che fosse ancora vivo. Sono stati necessari trenta punti di sutura alla testa. Il suo braccio è stato interamente ingessato. I medici gli hanno prescritto cinquanta giorni di riposo.

Ma non è morto. Quando la notizia ha raggiunto i coloni un gruppo di una ventina di persone ha iniziato ad attaccare la casa di al-Ja’bari, come si può vedere dalle riprese delle telecamere di sicurezza dell’abitazione. Le pietre sono finite sul tetto e hanno colpito il muro. Un colono ha cercato di distruggere l’auto di uno dei figli di Abu Anan. Quando la moglie di Abu Anan, Samira al-Ja’bari, ha chiamato la polizia, i coloni sono scappati.

Domenica l’amministrazione civile israeliana ha chiamato al-Ja’bari e gli ha proposto di sporgere denuncia alla stazione di polizia. Il governatore militare ha detto che i responsabili dovevano essere puniti. La polizia israeliana ha radunato in una stanza i coloni presumibilmente coinvolti, in quanto tutti inquadrati dalle telecamere posizionate dagli israeliani a ogni angolo di strada. Al-Ja’bari ha indicato con precisione chi aveva fatto cosa. Tra i presenti c’erano tre figli di Itamar Ben-Gvir, avvocato e membro della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.]. L’ufficiale di polizia ha detto ad Abu Hanan: sono sicuro che stai dicendo la verità. Questi coloni dovrebbero andare in prigione. Il giorno successivo, dopo aver trascorso una notte in carcere, tutti i coloni sono stati rilasciati senza accusa.

Restare a guardare

Oltre il 90% dei casi di violenza dei coloni rimane impunito, come riporta l’organizzazione israeliana per i diritti umani Yesh Din. Che stiano lanciando pietre contro negozi e case palestinesi, sputando e imprecando contro i palestinesi, prendendo illegalmente il controllo di case di proprietà palestinese o tentando di uccidere un anziano palestinese, i coloni sono protetti dai soldati e raramente puniti per i loro crimini. Con questo i soldati israeliani a Hebron stanno inviando un messaggio al mondo intero: noi stiamo a guardare mentre i padroni illegali della Cisgiordania fanno quello che vogliono.

Gli stranieri tendono a confortarsi al pensiero che questi coloni debbano essere i più estremisti, e non tutti gli israeliani siano come loro. Ma il numero crescente di israeliani che si trasferiscono in insediamenti illegali in Cisgiordania e i ricchi benefici che ricevono dal loro governo suggeriscono che questi coloni non appartengano al versante più estremista dello spettro [politico] israeliano, ma facciano piuttosto parte della famigerata prima linea del piano con cui Israele intende estendere il suo progetto coloniale.

Una sporca impresa coloniale

Naturalmente la colonizzazione della Cisgiordania è un’estensione della precedente occupazione delle terre colonizzate nel 1948, ora conosciuta come “Israele propriamente detto” e ampiamente accettata come status quo. Ma chi ricorda ancora gli oltre 400 villaggi e città palestinesi che vi furono cancellati, e chi ricorda ancora i 750.000 palestinesi che furono cacciati dalle loro case durante la Nakba del 1948? Vedere la situazione in Cisgiordania chiarisce come il 78% della Palestina storica, rappresentato dai territori colonizzati nel 1948, non sia mai stato abbastanza.

Tutti coloro che ancora sostengono la soluzione dei due Stati chiudono un occhio sul fatto che Israele non ha mai mostrato alcun rispetto per la sovranità dei palestinesi. Come dimostrano la violenza dei coloni e l’accanita protezione nei loro confronti da parte dei soldati, la pulizia etnica dei palestinesi continua ogni giorno e l’obiettivo finale del progetto sionista è cacciarli tutti dalla Palestina storica, anche da quel poco di terra che resta loro.

Non sorprende che Israele cerchi di impedire ai turisti di andare in Cisgiordania; qui il marciume e l’abiezione del progetto sionista sono messi a nudo, sotto gli occhi di tutti gli spettatori. L’ho visto e continuerò a raccontare queste storie finché il mondo non somiglierà più ai soldati che stanno a guardare.

Mella Jongebloed

Mella Jongebloed è una giornalista e blogger, studiosa di Studi Medio Orientali e Filosofia.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele combatte contro i suoi figli migliori: gli ex soldati che hanno il coraggio di parlare

Zehava Galon

1 agosto 2021 – Haaretz

L’Agenzia delle Entrate si è arresa alla pressione da parte delle organizzazioni di destra e ha chiesto che venissero tolti dal proprio edificio i cartelli messi da Breaking the Silence [‘Rompere il silenzio’ – organizzazione non governativa israeliana fondata nel 2004 da militari contrari all’occupazione, ndtr.] per una campagna con cui chiedeva al ministro della Difesa e al ministro della Pubblica Sicurezza di agire in modo deciso contro la violenza dei coloni. Tale violenza è un evento quotidiano e il suo obiettivo è il terrore, in modo da espellere i palestinesi dalle proprie terre con la forza combinata dei coloni e dell’esercito e convincerli che non c’è motivo di ritornarvi. Se i palestinesi non coltivano la terra per parecchi anni, il governo la passerà ai coloni. E ora un altro ramo del governo si è unito ai teppisti mascherati di Yesha [l’alleanza dei comuni delle colonie illegali israeliane nella Cisgiordania occupata, che funge da guida informale per il movimento dei coloni. ndtr.] (Giudea e Samaria).

Qualche parola sui soliti sospetti: il rapper Yoav Eliasi, alias The Shadow [l’Ombra], è un noto teppista, coinvolto nel 2014 nell’organizzazione di attacchi contro attivisti di sinistra durante l’operazione “Margine Protettivo” contro Gaza. Arieh King, vicesindaco di Gerusalemme, diventò famoso nel 2014 quando, dopo l’assassinio di tre giovani studenti della yeshiva [scuola religiosa ortodossa ebraica, ndtr.], aveva invocato “i nostri Fineas” [un’allusione al personaggio biblico noto per il suo fanatismo, ndtr.] per punire i palestinesi, poche ore prima che tre persone autoproclamatesi fineasisti’ rapissero e uccidessero dandogli fuoco un quindicenne, Mohammed Abu Khdeir. C’è poi un attivista di destra, Shai Glick, che orgogliosamente si fa chiamare “una specie di terrorista.” Queste tre perle sono oggi la faccia dello Stato di Israele.

La decisione gli si è ritorta contro: l’Agenzia delle Entrate non aveva alcuna autorità legale di rimuovere i cartelli. E così sono stati tolti l’ultimo giorno della campagna e l’organizzazione Breaking the Silence è stata rimborsata dell’intera somma spesa per la campagna che continuerà. È comunque una giornata funesta quella in cui un’autorità ufficiale in Israele dichiara che la battaglia contro il crimine ideologico è un “atto politico”.

Lo Stato di Israele sta combattendo in modo determinato contro i suoi figli migliori, i soldati che hanno prestato servizio nei territori, ma che, diversamente dalla maggioranza dei loro colleghi, sono rimasti così scioccati da quello che hanno visto e che sono stati costretti a fare che hanno deciso che nessuno avrebbe più dovuto farlo. Hanno denunciato il regime quotidiano di orrori della dittatura militare nei territori, non tanto gli omicidi, che sono relativamente rari, ma piuttosto la sistematica, silenziosa, tacita violenza. Fino a quando non hanno rotto il silenzio.

E a causa di questo sono perseguitati. Attivisti dell’organizzazione sono stati attaccati ripetutamente. Il regime di occupazione israeliano protesta e sostiene che stanno raccontando al mondo quello che hanno visto, come se non fosse il mondo che finanzia le Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] e sostiene il regime di occupazione. Contro di loro è stata approvata una legge con lo scopo di impedire loro di parlare agli studenti.

Anche questa, come la battaglia per la rimozione dei cartelli, gli si è rivoltata contro. Eppure, appellandosi a questa legge, la galleria Barbur [centro culturale e artistico indipendente, ndtr.] a Gerusalemme che ospitava Breaking the Silence, è stata chiusa dal Comune. Shai Glick si è vantato di aver messo in guardia la polizia sulla violenza prevista agli eventi dell’organizzazione, il che ha offerto alla polizia la scusa per annullarli.

Gli ebrei sono sempre stati in prima linea nelle lotte per i diritti umani, ovunque e contro ogni regime oppressivo. I rabbini hanno marciato accanto a Martin Luther King quando era molto pericoloso farlo perché i suoi sostenitori finivano ammazzati. E qui, proprio nello Stato degli ebrei, si butta nel cestino questa straordinaria tradizione. Lo Stato ebraico vuole così disperatamente la terra dell’Area C in Cisgiordania che si mette alla testa di chi cerca di far arretrare la rivoluzione dei diritti umani cominciata dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Come se non avessimo imparato nulla dal periodo in cui i regimi potevano trattare i propri cittadini come pareva loro. Verrà il giorno in cui quelli di Breaking the Silence saranno degli eroi e tutta la comunità che incoraggiava attacchi contro di loro abbasserà lo sguardo. Ma come ci libereremo dalla vergogna?

(traduzione dall’inglese Mirella Alessio)




I coloni israeliani incendiano una moschea nella città di Al-Bireh in Cisgiordania

Redazione di MEE

27 Luglio 2020 Middle East Eye

Slogan razzista scritto sui muri dell’edificio nell’ultimo attacco “del prezzo da pagare” contro i palestinesi

Secondo l’agenzia di stampa Wafa dei coloni israeliani hanno organizzato un assalto incendiario contro una moschea palestinese nella città di Al-Bireh, vicino alla città di Ramallah, nella Cisgiordania occupata.

I bagni e i sevizi igienici della moschea di Al-Bir wa al-Ehsan sono stati incendiati, e lasciati bruciare e distruggere dal fuoco, ma non è stato riportato nessun ferito.

Gli incendiari hanno imbrattato le pareti della moschea con graffiti che dichiarano “Assedio ad arabi e non ebrei” e “la terra di Israele è per il popolo di Israele”.

Il sindaco del comune di Al-Bireh, Azzam Ismail, ha detto a Wafa che i coloni israeliani sono entrati in città nelle prime ore del mattino di lunedì e, oltre ad innescare l’incendio, hanno imbrattato con graffiti e slogan razzisti le pareti interne della moschea,.

I residenti di Al-Bireh si sono accorti dell’incendio intorno alle 3 del mattino prima che i vigili del fuoco lo estinguessero e la polizia palestinese arrivasse per indagare sull’incidente.

Al-Bireh è circondato dagli edifici della colonia israeliana di Biet El a nord e dall’insediamento coloniale illegale di Psagot a sud. Ad ovest della cittadina si trova la città palestinese di Ramallah.

La moschea di Al-Birr wa al-Ehsan si trova ai margini della città.

Husam Abu al-Rub, il referente del awqaf [fondazione di matrice religiosa con fini sociali e benefici, ndtr.] dell’Autorità palestinese e del Ministero degli affari religiosi, ha condannato l’attacco dicendo: “È un un atto criminale e razzista di cui è responsabile il governo d’occupazione, dal momento che sostiene questi gruppi terroristici”, riferendosi a Israele.

A gennaio, i coloni israeliani hanno dato alle fiamme una moschea e scritto slogan anti-arabi sulle sue mura nel sobborgo dj Sharafat a Gerusalemme Est occupata.

Tali atti vandalici da parte dei coloni israeliani contro le comunità palestinesi sono attacchi noti come il prezzo da pagare” e sono usati per intimidire i residenti e affermare la supremazia ebraica nei territori che Israele ha occupato militarmente dal 1967.

Gli attacchi “il prezzo da pagare” sono diventati sempre più comuni in Cisgiordania.

Includono il taglio di pneumatici e le scritte con la vernice di slogan anti-arabi sulle automobili, aggressioni contro palestinesi, incendi dolosi contro proprietà e luoghi sacri e abbattimenti di alberi appartenenti a agricoltori palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rapporto OCHA del periodo 2 – 15 giugno

In Cisgiordania, a motivo della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate 70 strutture di proprietà palestinese, sfollando 90 persone e creando ripercussioni su almeno oltre 280.

Ciò rappresenta un aumento del 250% rispetto alla media settimanale di strutture prese di mira dall’inizio dell’anno (10). 61 delle strutture colpite erano situate in Area C, e 9 [delle 61] erano state fornite come assistenza umanitaria. Tra le aree più colpite c’è Massafer Yatta, nel sud di Hebron, dove le autorità israeliane hanno demolito 17 abitazioni, cisterne e strutture collegate al sostentamento. Questa zona è designata da Israele come “Zona di tiro” per le esercitazioni militari israeliane, ed i suoi 1.300 residenti devono affrontare un contesto coercitivo che li mette a rischio di trasferimento forzato. Nove delle 70 strutture colpite si trovavano a Gerusalemme Est; quattro di queste sono state demolite dai medesimi proprietari palestinesi, al fine di evitare oneri imposti dalla municipalità e possibili danni ad altre strutture adiacenti o ad effetti personali. Nel contesto della pandemia in corso, l’aumento delle demolizioni e degli sfollamenti desta serie preoccupazioni.

In Cisgiordania, 25 palestinesi, tra cui nove minori, sono rimasti feriti in scontri con forze israeliane. Dei 25 feriti, 22 sono stati registrati durante le ormai consuete dimostrazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya), tenute per protestare contro le restrizioni di accesso e l’espansione degli insediamenti. Dei tre rimanenti, uno è rimasto ferito nei pressi di Tubas, durante una protesta contro la prevista annessione ad Israele di parti della Cisgiordania, e due durante operazioni di ricerca-arresto svolte nel quartiere Al Isawiya di Gerusalemme Est e nella città di Qabatiya (Jenin). Rispetto alle cause delle lesioni, dodici dei feriti sono stati colpiti da proiettili di metallo rivestiti di gomma; dieci hanno inalato gas lacrimogeno (e sono stati sottoposti a trattamento medico); due sono stati aggrediti fisicamente ed uno è stato colpito da una bomboletta di gas lacrimogeno.

Durante il periodo in esame [2-15 giugno], le forze israeliane hanno effettuato 120 operazioni di ricerca-arresto, arrestando circa 190 palestinesi. Di queste operazioni, 28 sono state svolte a Gerusalemme Est, 26 nel governatorato di Hebron, 15 nel governatorato di Ramallah e le rimanenti in altre località della Cisgiordania.

Nella Striscia di Gaza, in aree adiacenti alla recinzione perimetrale israeliana ed al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in almeno 35 occasioni, presumibilmente per imporre le restrizioni di accesso. Non sono stati segnalati feriti. In altre cinque occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia, ad est di Gaza, Beit Lahiya, Jabaliya e Rafah ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

Un gruppo armato palestinese ha lanciato un missile verso Israele, a seguito del quale le forze israeliane hanno bombardato alcuni siti militari ed aree aperte vicine alla recinzione perimetrale. Questi attacchi reciproci non hanno causato feriti, ma i siti di Gaza bombardati hanno subito danni. Inoltre, per la prima volta dopo diversi mesi, da Gaza sono stati lanciati un certo numero di palloncini incendiari verso il sud di Israele; non sono stati segnalati danni.

L’uscita di pazienti palestinesi da Gaza attraverso il valico di Erez è pregiudicata dalla sospensione, attuata dall’Autorità Palestinese (PA), di ogni forma di coordinamento con le Autorità israeliane. Quest’ultima misura è stata adottata [dalla PA] in risposta all’intento di Israele di annettersi parti della Cisgiordania. A partire dal 21 maggio, l’Autorità Palestinese concorda con Israele solo l’uscita di casi eccezionali di pronto soccorso. In qualche caso, richieste di uscita di pazienti sono state inoltrate alle Autorità israeliane da Organizzazioni per i Diritti Umani. Dall’11 marzo, nel contesto delle restrizioni imposte per contenere la pandemia di COVID-19, il valico di Rafah con l’Egitto è stato completamente chiuso per chi voleva uscire da Gaza, compresi i pazienti.

Dieci palestinesi sono rimasti feriti e almeno 90 alberi di ulivo e dieci veicoli sono stati vandalizzati da aggressori ritenuti coloni israeliani [segue dettaglio]. Tra i feriti c’è una bambina di dieci anni che, nella Città Vecchia di Gerusalemme, spinta da un colono, è rimasta ferita ad un occhio. I rimanenti nove feriti palestinesi sono stati colpiti da pietre o malmenati in varie località: vicino agli insediamenti di Asfar (Hebron) e Homesh (Nablus); vicino alla Comunità di pastori di Khirbet Tana (Nablus), nella zona del Mar Morto e nell’Area (H2) controllata da Israele della città di Hebron. In quest’ultimo caso, ripreso da una telecamera, un soldato israeliano ha fermato l’aggressione, aiutando il palestinese a fuggire. In due episodi verificatisi nei villaggi di Burin (Nablus) e Kafr ad Dik (Salfit), coloni hanno dato fuoco o abbattuto almeno 90 alberi. Inoltre, nei villaggi di Jamma’in, As Sawiya e Lifjim (tutti a Nablus), Al Mughayyir (Ramallah) e Kifl Hares (Salfit), nonché in Area H2 di Hebron, aggressori (si presume si tratti di coloni) hanno vandalizzato veicoli, tende e strutture idriche. In altri sei casi, coloni hanno pascolato le loro pecore su terreni appartenenti agli agricoltori della Comunità di Qawawis (Hebron), danneggiando almeno 2 ettari di colture stagionali.

Secondo una ONG israeliana, tre israeliani sono rimasti feriti e 17 veicoli hanno subito danni a seguito del lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani che percorrevano strade della Cisgiordania.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




In mezzo alla pandemia aumentano del 78% le aggressioni dei coloni

Tamara Nassar

11 aprile 2020 electronicintifada

In piena pandemia di COVID-19 nella Cisgiordania occupata si registra un forte aumento della violenza dei coloni israeliani contro i palestinesi.

Anche dopo che il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha chiesto un cessate il fuoco globale per ostacolare la diffusione della pandemia, Israele ha ucciso due palestinesi, incluso un bambino, e incrementato gli attacchi.

Israele ha continuato i suoi “raid militari in Cisgiordania, condotto arresti diffusi e detenzioni amministrative, ha permesso gravi accessi di violenza da parte dei coloni e ha continuato la sua draconiana chiusura della Striscia di Gaza”, ha affermato l’organizzazione per i diritti palestinesi Al Haq.

Nelle ultime due settimane di marzo, il numero di aggressioni dei coloni contro i palestinesi è stato del 78% superiore al solito, secondo il gruppo di monitoraggio dell’ONU OCHA.

Durante questo periodo, “almeno 16 assalti di coloni israeliani hanno ferito cinque palestinesi e causato gravi danni materiali”, ha riferito l’OCHA.

Anche se Mohammad Shtayyeh, primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha ordinato un isolamento di due settimane a tutti i residenti palestinesi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, la sua decisione non ha avuto alcun impatto sui circa 800.000 israeliani che vivono negli insediamenti illegali.

Quei coloni condividono strade, negozi di alimentari e distributori di benzina con i palestinesi, sottoponendoli spesso a molestie verbali, aggressioni fisiche e danni materiali.

Le forze israeliane “non sono intervenute per prevenire i comportamenti illeciti, fornendo invece sostegno e protezione ai coloni, garantendo che tali individui non venissero chiamati a rispondere dei loro atti e consolidando l’attuale regime di impunità”, ha affermato Al Haq.

I coloni godono di un’impunità pressoché totale per le violenze che commettono contro i palestinesi, il che li incoraggia ad aumentare le aggressioni.

Oggetto di continui assalti, i palestinesi si stanno sforzando di prendere tutte le precauzioni sanitarie contro la pandemia di coronavirus. In effetti, i coloni stanno sfruttando l’isolamento per aumentare le loro violenze con poche resistenze da parte dei residenti palestinesi.

Assalto a un cimitero

Giovedì i coloni israeliani hanno vandalizzato le lapidi del cimitero palestinese nel villaggio di Burqa in Cisgiordania.

Ghassan Daghlas, che controlla le attività dei coloni nella Cisgiordania settentrionale, ha riferito all’agenzia di stampa palestinese WAFA che i coloni sono entrati nel villaggio attraverso l’adiacente e già evacuato insediamento israeliano di Homesh.

Homesh è stata liberata dai suoi residenti israeliani nel 2005 come parte del presunto “disimpegno” israeliano a Gaza e in diversi villaggi della Cisgiordania. La terra, che apparteneva al villaggio di Burqa, fu dichiarata zona militare e chiusa negli anni ’70.

Il mese scorso i coloni hanno picchiato e lanciato pietre contro un contadino che lavorava la propria terra nella zona di Homesh.

“Uno di loro aveva in mano una pistola”, ha detto ad Al Haq Ali Mustafa Mohammad Zubi, 55 anni.

“Ogni volta che provavo ad alzarmi e correre via mi buttavano a terra, mi picchiavano e mi aggredivano verbalmente.”

Colpito con un’ascia

Inoltre, un palestinese è stato ricoverato in ospedale dopo che i coloni israeliani lo hanno assalito con un’ascia il 24 marzo nel villaggio cisgiordano di Umm Safa, a ovest di Ramallah.

Un colono stava entrando con una mandria di 50 mucche in un uliveto a ovest del villaggio.

Otto residenti del villaggio, accompagnati dal vice capo del consiglio locale, Naji Tanatrah, sono andati a chiedergli di lasciare il villaggio. Mentre stava per ritirarsi, cinque coloni armati sono arrivati su due veicoli con asce e almeno un fucile e hanno preso ad aggredire Tanatrah, riferisce B’Tselem.

Un colono ha colpito Tanatrah alla testa con l’ascia, facendolo cadere a terra sanguinante. I coloni hanno continuato a picchiare il 45enne che giaceva sanguinante a terra.

Alcuni abitanti sono riusciti a recuperare Tanatrah e spostarlo in un ospedale di Ramallah, dove è stato operato e gli è stata diagnosticata una frattura al cranio.

“Ho trascorso cinque giorni in ospedale e me ne sono andato appena ho potuto, temendo di contrarre il coronavirus” avrebbe detto Tanatrah, come riferisce il quotidiano israeliano Haaretz.

Il giorno successivo, decine di coloni hanno tentato di entrare nel villaggio di Einabus, sempre nella zona di Nablus.

Contemporaneamente i coloni attaccavano un pastore nel villaggio di al-Tuwani, nelle colline a sud di Hebron. Il 27 marzo sei coloni, alcuni armati, hanno attaccato il pastore mentre stava pascolando il suo gregge, riferisce B’Tselem. Uno dei cani dei coloni lo ha morso al braccio e all’addome; è stato portato in una clinica medica dove l’hanno vaccinato contro la rabbia.

Il giorno seguente i coloni hanno lanciato pietre contro tre abitanti che tornavano ad al-Tuwani.

Altri abitanti del villaggio sono arrivati per aiutarli finché sono giunti i militari israeliani e hanno lanciato candelotti di gas lacrimogeno contro gli abitanti del villaggio.

Le forze israeliane hanno arrestato tre abitanti del villaggio, rilasciandone due su cauzione.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Perfino in una pandemia Israele non tratta i suoi sottoposti come uguali

Hagai el Ad, direttore B’Tselem

30 marzo 2020 +972 Magazine

2 aprile 2020 Cultura è Libertà

Un paese guidato da un primo ministro etnocentrico e razzista alle prese con una minaccia universale che colpisce tutte le persone sotto il suo controllo.

In un discorso alla nazione di metà marzo, il Primo Ministro di Israele Benjamin Netanyahu ha cercato goffamente di rivolgersi a tutte le persone che vivono sotto l’effettivo controllo del Governo – compito difficile dato che l’idea stessa va contro le sue convinzioni fondamentali.

In difficoltà nel trovare le parole giuste per rivolgersi al suo pubblico, Netanyahu se ne è uscito così: “Possiamo farlo insieme. Tutti i cittadini, tutti i residenti, chiunque mi stia ascoltando ora, seguano queste linee guida e raggiungeremo il nostro obiettivo. “

Se tutte le persone che vivono nel territorio sotto il controllo di Israele fossero considerate uguali, Netanyahu non avrebbe dovuto dividerle in tre categorie per parlare direttamente con loro. Eppure è esattamente così che funziona il regime israeliano; non è né umanistico né universalistico e si basa sulla attribuzione di diritti e libertà diversi a persone diverse in base alla loro classificazione.

Traduciamo. L’enfasi di Netanyahu su “tutti i cittadini” era, a quanto pare, un raro tentativo di riconoscere non solo i cittadini ebrei, ma anche quelli palestinesi di Israele. Riferendosi a “tutti i residenti“, il primo ministro ha incluso oltre 300.000 non cittadini palestinesi che vivono nell’annessa Gerusalemme est. Il suo vago appello a “chiunque mi stia ascoltando ora” ha lasciato intendere che i soggetti palestinesi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza potrebbero essere entrati a forza nella coscienza del primo ministro.

Sono tutti tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo: cittadini, residenti e soggetti. Tutto sommato, 14 milioni di persone che non condividono gli stessi diritti.

Normalmente Netanyahu non conta né i residenti né i soggetti. Omette allegramente circa cinque milioni di persone – tutte palestinesi – il cui ruolo nel sistema è obbedire ai diktat israeliani. Di solito cerca anche di trascurare i cittadini palestinesi di Israele, che costituiscono oltre un quinto della cittadinanza del paese e che ha definito “sostenitori del terrorismo”. Ciò significa che il primo ministro conta abitualmente solo la metà delle persone che vivono sotto le regole del suo governo, tutti cittadini ebrei.

Eppure questi sono tempi insoliti. Il rischio per la salute costituito dal coronavirus non obbedisce ai decreti israeliani. In effetti, mina gli stessi pilastri del regime israeliano, perché non distingue tra diverse classi di persone. Un primo ministro con una visione del mondo particolaristica, etnocentrica e razzista si trova di fronte a una minaccia universale.

Netanyahu sicuramente comprende il pericolo che questo virus rappresenta. Si rende conto che dopo aver spostato centinaia di migliaia di cittadini ebrei in circa 250 insediamenti in Cisgiordania – dove vivono in mezzo a 3 milioni di soggetti palestinesi – questa lotta non può essere vinta senza un approccio universalistico. Se sceglie di non prendere in considerazione tutti i milioni di persone che condividono questa terra, il virus si diffonderà e sconfiggerà tutti.

Netanyahu deve anche sicuramente sapere che nella Striscia di Gaza bloccata, ci sono condizioni mature per un’orribile diffusione della pandemia. Israele ha dimostrato il suo potere di tagliare Gaza dal resto del mondo attraverso i suoi 13 anni di assedio. Ciò potrebbe aver allontanato Gaza dal mondo in difficoltà; ma all’interno di una delle strisce di terra più densamente popolate della terra, quanto realistico è il distanziamento sociale come mezzo per combattere una pandemia?

Nel nord Italia, un sistema sanitario occidentale è crollato e il bilancio delle vittime ha raggiunto il 10 percento di tutte le persone infette. A Gaza, il sistema sanitario era crollato molto prima del primo paziente COVID-19 a seguito della politica israeliana. Se metà della popolazione rinchiusa a Gaza fosse contagiata, un tasso di mortalità del 10% significherebbe la morte di 100.000 persone.

Ovviamente, la retorica razzista e la visione del mondo del primo ministro si estendono oltre i suoi discorsi. Anche adesso, Netanyahu continua a incitare contro i cittadini palestinesi di Israele e minare la legittimità della loro rappresentanza politica. Circa 140.000 residenti palestinesi che vivono in quartieri oltre la barriera di separazione a Gerusalemme si svegliano ogni giorno con la paura di essere tagliati fuori dalla loro città e dal sistema sanitario che dovrebbe prendersi cura di loro e delle loro famiglie.

Nel frattempo, i soldati israeliani continuano a opprimere i palestinesi in Cisgiordania, alcuni ora indossando equipaggiamento medico protettivo. Al checkpoint di Maccabim, gli agenti di polizia hanno lasciato un lavoratore palestinese che mostrava sospetti sintomi del coronavirus sul ciglio della strada. La violenza dei coloni aumenta, senza sosta.

Questo è ciò che Netanyahu avrebbe dovuto dire a chiunque stesse ascoltando il suo discorso: che “un virus che non distingue tra nessuno, felice o triste, ebreo o non ebreo” (come ha detto) è per definizione un pericolo universale. Che questo tipo di minaccia va fronteggiata da una politica universalista che “non distingue tra nessuno”. Che sradicherà la divisione tra cittadini, residenti e soggetti. Che tutti sono esseri umani che hanno bisogno di essere protetti. Che difendere tutti noi è sua responsabilità.
Netanyahu, ovviamente, non dirà nulla del genere. Non può dirlo perché è un razzista. Il razzismo corrompe sempre l’anima, ma molte volte il prezzo può essere pagato anche con vite umane. Questo è uno di quei momenti.

Hagai El-Ad è il direttore esecutivo di B’Tselem: il Centro informazioni israeliano per i diritti umani nei territori occupati.

traduzione Alessandra Mecozzi