Un viaggio diventato un calvario

Dima Ghanim

26 aprile 2021 WeAreNotNumbers

È difficile viaggiare nel deserto del Sinai in agosto, zanzare e particelle finissime di sabbia trasportate da folate di vento bollente caldo entrano nella macchina. Il sole allunga le sue braccia ardenti che si infilano dentro la gabbia metallica e opprimono i nostri corpi sudati.

Il taxi guadagna velocità, ma appena le gomme stridono per l’entusiasmo, i freni rispondono con un altro stridio e la velocità si riduce rapidamente: un altro checkpoint. Il motore dell’auto ottiene un riposo sgradito ogni cinque minuti, quando ci imbattiamo in un posto di blocco dopo l’altro.

Guardo fuori dal finestrino posteriore e seguo la nostra lenta avanzata. Punti di domanda volteggiano nell’aria torrida. Quanto ci vorrà prima che le gomme della macchina fondano? Abbiamo percorso abbastanza chilometri così il viaggio non si prolungherà durante la notte?

Le peculiari abilità degli autisti di confine

Gli autisti di confine non sono come quelli di taxi. Sono sempre in lotta con il tempo, passano giornate o settimane lontano dalle loro famiglie, in una corsa per portare e prendere passeggeri. Sanno a memoria i livelli di difficoltà di ogni checkpoint. Li vedo afferrare i loro cellulari e comunicarsi l’un l’altro i nuovi ordini sulle strade. Hanno i loro trucchi per trattare con i soldati dei checkpoint.

Il piano B può essere un’alternativa se sei disposto a correre il rischio di deviare dalla strada principale. Qualche volta si suggerisce di prendere un’altra via, cosa che può essere facilmente rifiutata se ci va troppo tempo e se nel viaggio di ritorno non ci sono passeggeri paganti. Funziona così per tentare di sfruttare ogni istante.

Mi dispiace per voi,” dice l’autista egiziano, interrompendo il silenzio. “Che dio vi assista in quello che state subendo. Tempo fa di solito portavamo i passeggeri dal valico di confine di Rafah al Cairo in cinque ore.” [valico tra Gaza e l’Egitto, aperto sporadicamente dalle autorità egiziane, ndtr.]

Le scene folli al confine

Sei ore prima al confine egiziano, le persone sembravano uno stormo di uccelli che sbattevano le ali. Si affollavano nello stanzone dell’attraversamento di Rafah, attenendosi al protocollo in maniera concertata, cercando di conservare la risorsa principale del loro viaggio, il tempo.

I miei familiari avevano ognuno un compito: compilare i nostri documenti di viaggio, fare la fila, ottenere i timbri e stare attenti ai bagagli. Dopo aver consegnato i passaporti, c’era solo da aspettare. L’attesa diventava sempre più insopportabile con i nuovi arrivati che si ammassavano nella sala e la torre sempre più alta di passaporti impilati davanti agli ufficiali. 

Finalmente uno si è alzato per chiamare i nomi di quelli i cui passaporti erano stati timbrati, la gente è saltata su dalle sedie o si è bloccata sorpresa mentre si aggirava nell’ufficio (non si erano mai allontanati per paura di non sentire quando il proprio nome sarebbe stato chiamato). Per quelli non ancora chiamati è cominciata un’altra condanna all’attesa, mentre quelli che avevano sentito la chiamata della salvezza erano liberati dalla gabbia. Ma non erano completamente liberi, anche se avevano provato la gioia di avanzare fino alla gabbia successiva.

Comunque la gioia poteva rapidamente essere strappata via. Una signora, la cui famiglia era stata costretta nel 1948 a fuggire da Giaffa, la propria patria, per andare in Siria, per poi scappare dalla guerra in Siria per subirne un’altra a Gaza, aveva optato per un altro scenario per il futuro dei figli. Dopo una lunga notte di attesa e speranza, lei, i suoi quattro figli (incluso quello che stava scalciando nella sua pancia, impaziente di vedere la luce) e l’anziana mamma avevano avuto autorizzazione di incamminarsi sul loro incerto futuro. Ma era destinata a portare questa responsabilità da sola, perché al marito era stato vietato di unirsi a loro.

No! Non me ne andrò senza di lui!” gridava a squarciagola. 

 “Dovete andare,” ha detto tranquillamente il padre alla sua famiglia. “Non preoccupatevi. Io vi seguirò fra poco.” Controllava la propria disperazione, i bambini si aggrappavano al loro papà con calde lacrime salate che scorrevano sulle loro guance rosate.

I palestinesi hanno provato ogni tipo di perdita al punto che non sono più in grado di esprimerla a parole. Ironicamente, ai loro occhi, determinazione e paura della perdita racchiudono tutto. L’ho visto negli occhi della nonna. Erano come un rubinetto non completamente chiuso con gocce pesanti che si accumulavano sull’orlo e poi cadevano. Uno dei bambini le si era avvicinato e le picchiettava la mano che sembrava una pergamena, fissandola negli occhi senza dire una parola. Il piccolo affetto da autismo aveva dei problemi a comunicare, ma aveva provato empatia verso le sofferenze e l’infelicità di un altro essere umano e stava manifestando compassione con il linguaggio più semplice ed espressivo.

Confini e checkpoint sono una parte integrale di ciò che siamo come palestinesi. Possono aprire le porte all‘opportunità di far parte del mondo e di testimoniarne la diversità. O possono buttare la chiave della porta in acque profonde, rimandandoci indietro con cuori pesanti di delusione. In entrambi i casi, confini e posti di blocco restano un modo sicuro e crudele di ricordare occupazione e blocco.  

Sulla nostra lunga, lunga strada

Dopo dodici ore di attesa al confine, avevamo i nostri passaporti timbrati e ci siamo avviati in taxi per Il Cairo, sapendo di avere davanti a noi altre sfide e molte altre ore. “Non pensare. Ignora tutto quello di cui sei stata testimone, come se questa giornata non fosse mai esistita,” dice mio padre, assurdamente.  Essere un palestinese significa adattarsi a ogni difficoltà in cui ci imbattiamo. Impariamo ad acclimatarci al cambiamento del labirinto di sentieri e programmi: se davanti a te c’è un muro, scava e riappari dall’altro lato come un mago. Noi affrontiamo con cuore risoluto ogni difficoltà che ci si presenta.

Ora, dopo quattro ore di fermate e ripartenze, di viaggi da checkpoint a checkpoint, abbiamo raggiunto quello più difficile che dovevamo attraversare prima di mezzanotte per non dormire in macchina fino alla mattina dopo. Una fila di auto era ferma in attesa del proprio turno di un’ispezione dettagliata il che significava che sì, avremmo passato la notte qui.

La mattina dopo quando siamo ripartiti, ho deciso di liberarmi di tutti i pensieri negativi guardando un film che avevo scaricato: “Schindler’s List”. Ho accettato il consiglio di mio padre e mi sono distratta dalIa corsa piena di interruzioni guardando questo film e pensando alla tragedia vissuta dagli ebrei tedeschi. Il protagonista, Oscar Schindler, piange per non aver venduto tutti i suoi beni e aver riscattato una vita in più perché sfuggisse a una morte inevitabile. L’Olocausto è considerato il più noto esempio di pulizia etnica fomentata da nazionalismo estremista nella storia. Ma, come palestinesi, noi siamo esposti quotidianamente a successive ripetizioni di pulizia etnica. Il più recente di tali progetti è il trasferimento degli abitanti di Sheikh Jarrah [quartiere arabo della città occupata, ndtr.] a Gerusalemme, per ordine del tribunale israeliano in favore dei coloni. Quello che sta succedendo a Sheikh Jarrah è un frammento di una visione più ampia per cancellare i palestinesi dalla terra tramite l’occupazione. L’occupazione sfrutta l’Olocausto per i propri scopi politici di oggi e maschera i feroci atti odierni compiuti contro il popolo nativo.

Io non so da quanto tempo questi pensieri mi girano per la testa. Tuttavia, il rumore del motore dell’auto mi riporta alla realtà. Fa ritornare la gioia di essere in viaggio. Ma altrettanto improvvisamente, il rumore cessa. Dopo due giorni di strada per andare da Gaza al Cairo, sono finalmente all’aeroporto proprio come qualsiasi altro viaggiatore, sto godendo della libertà di tenere in una mano il biglietto dell’aereo e nell’altra l’euforia.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’ingegnosità di Gaza arriva su Marte

Ahmad Abu Shammalh, Gaza

11 aprile 2021 – wearenotnumbers

Il 18 febbraio 2021 ho ricevuto con gioia la conferma che il mio nome era atterrato su Marte. Era stato inciso col laser su un chip delle dimensioni di un’unghia inserito nel rover chiamato Perseverance, che aveva completato con successo il suo viaggio verso il Pianeta Rosso. (Due anni prima, la NASA aveva lanciato una campagna “Manda il tuo nome su Marte”, e io insieme ad altri da tutto il mondo avevamo fatto domanda.)

Quel giorno ho continuato a leggere avidamente tutto ciò che potevo trovare in Internet su Perseverance e su come si stava comportando nel nuovo ambiente. Oltre alla mia gioia per questo risultato scientifico è arrivata un’altra incredibile sorpresa. La mia pagina Facebook è stata inondata da immagini di un individuo in particolare, un palestinese di Beit Hanoun, una città di Gaza al confine settentrionale, il responsabile dell’elettronica e dell’energia per l’elicottero che Perseverence ha trasportato su Marte. Ho controllato altre piattaforme di social media e ci ho trovato lo stesso individuo anche lì. Loay Elbasyouni era molto popolare in Palestina!

Onestamente ho problemi a fidarmi dei media, quindi ho voluto verificare di persona. Ho cercato il suo nome e ho trovato il suo account Instagram. Così gli ho mandato un messaggio e lui mi ha risposto. Mi è sembrato molto modesto e ha incoraggiato il mio interesse per l’industria spaziale. Ecco la sua storia.

Imparare da solo

Loay Elbasyouni è nato in Germania da due palestinesi di Beit Hanoun. Suo padre era uno studente di medicina e nessuno dei suoi genitori aveva la cittadinanza tedesca. Quando Loay aveva quasi sei anni, la sua famiglia tornò a Gaza per una visita, ma Israele requisì i documenti del padre e la famiglia rimase bloccata nella Striscia di Gaza.

Loay ha dovuto adattarsi a quel nuovo ambiente, imparare a scappare dalle jeep militari israeliane e sperimentare rumori e scene di occupazione che i bambini della sua età in altre parti del globo non devono sopportare.

Quando era in quarta elementare scoppiò la Prima Intifada e la sua scuola dell’UNWRA [agenzia dell’ONU per i profughi palestinesi, ndtr.] chiuse, così iniziò a studiare in casa. Quando suo padre tornava a casa dai lunghi turni come chirurgo, Loay cercava di porgli quante più domande possibile. Ma soprattutto doveva imparare da solo. Si innamorò dell’elettronica e imparò costruendo circuiti e riparando apparecchi rotti.

Perseverance: la perseveranza fa di Loay un ingegnere elettronico

Quando Loay si diplomò al tawjihi (liceo), suo padre voleva che diventasse chirurgo come lui, ma il figlio rispose: “Non voglio vivere negli ospedali”. A quel tempo, l’accordo di Oslo aveva reso più facile viaggiare di quanto sia adesso, quindi nel 1998 andò nella Terra dei Sogni per conseguire una laurea in ingegneria elettronica presso l’Università del Kentucky.

Ma nella vita reale gli Stati Uniti non erano così da sogno; Loay dovette abbandonare l’università tra il 2001 e il 2002 per lavorare fino a 100 ore alla settimana e guadagnare denaro per tornare a scuola. Andò all’Università di Louisvillle per conseguire la laurea e il master in informatica e ingegneria elettronica. Tornò a Gaza solo una volta, nel 2000.

Loay faceva gli straordinari in almeno cinque lavori diversi per riprendere gli studi e pagare le bollette. “È stata un’esperienza difficile”, dice, “ma mi ha insegnato molto”, e così ha perseverato – dopotutto, è un palestinese!

Dopo la laurea, Loay iniziò a lavorare per start-up e aziende private specializzate in auto elettriche ed energie rinnovabili. Allora non c’era la Tesla [azienda statunitense specializzata nella produzione di auto elettrichepannelli fotovoltaici e sistemi di stoccaggio energetico, ndtr.], e queste auto erano un progetto da fantascienza, quindi la maggior parte di queste aziende fallirono, ma non Loay! Entrò a far parte di una società aerospaziale pubblica che gli offrì l’opportunità di lavorare con la NASA su un progetto sperimentale per costruire il primo velivolo che atterrasse su Marte. L’elicottero di Perseverance si è sviluppato dalle idee, dai progetti e dagli effettivi sforzi di costruzione di Loay e dei suoi colleghi.

Costruire Ingenuity [ingegno] richiedeva ingegno

Loay è stato responsabile della parte elettrica ed elettronica di potenza di Ingenuity, inclusa la responsabilità del sistema di propulsione. Ciò ha comportato la progettazione del controller del motore, dell’invertitore, del servocontrollo, del motore stesso e del sistema di segnalazione.

Una grande sfida per il gruppo di lavoro è stata quella di progettare un sistema elettronico che potesse funzionare nell’ambiente molto freddo e ad alta radiazione di Marte. Un’altra sfida era capire come costruire un motore che potesse fornire all’elicottero una portanza sufficiente nell’atmosfera estremamente rarefatta del Pianeta Rosso. Il motore doveva essere il più leggero possibile e con la massima resistenza, generazione di energia ed efficienza.

Molti consideravano impossibile costruire un elicottero a due pale da 1,8 chilogrammi (4 libbre) in grado di sollevarsi su un pianeta con poca o nessuna atmosfera, ma Loay e il suo team hanno lavorato instancabilmente per realizzare il loro progetto. L’elicottero è stato chiamato Ingenuity ed è stato messo nella pancia di Perseverance all’ultimo momento. Ora è sulla superficie di Marte e sta per prendere il volo.

Ingenuity è ciò che la NASA chiama un prototipo: sta testando nuove capacità e quindi ha una missione limitata. Secondo la NASA, “Ingenuity è dotato di quattro pale in fibra di carbonio appositamente realizzate, disposte su due rotori che ruotano in direzioni opposte a circa 2.400 giri al minuto, molte volte più veloci di un elicottero passeggeri sulla Terra. Dispone inoltre di celle solari, batterie e altri componenti innovativi.

Loay mi ha parlato di alcuni dei “messaggi” nascosti dalla NASA all’interno di Ingenuity, come il codice binario stampato sul paracadute di Perseverance che elenca i nomi dei membri del team, e un pezzo del tessuto del velivolo originale dei fratelli Wright. Questo collega il primo aereo che ha volato sulla superficie della Terra al primo aereomobile a volare sulla superficie di Marte. Entrambi testimoniano la determinazione dell’umanità nel sogno di volare e nel realizzare quel sogno.

I palestinesi possono farcela

Ora Loay sta lavorando ad altri progetti tecnologici top-secret e innovativi. Trovo quella di Loay una storia di successo e un modello, e lo è anche per molti giovani palestinesi. Lui trova questo fantastico e nella nostra chat su Instagram mi ha augurato buona fortuna.

L’improvvisa fama di Loay tra i palestinesi è iniziata con la pubblicazione su Facebook e LinkedIn della sua foto con l’elicottero e la squadra. Poi i suoi cugini, la sua famiglia allargata, e poi tutto il mondo arabo e molte agenzie di stampa hanno raccontato i dettagli. È stato intervistato ovunque in Medio Oriente, e questo lo ha fatto sentire bene con se stesso, col suo lavoro e con la sua patria in Palestina e nel mondo arabo. A Beit Hanoun è stato appeso uno striscione che accoglieva i numerosi visitatori accorsi per congratularsi con la famiglia. L’amore che ha ricevuto dai palestinesi è stato un grande dono e mi ha detto che i suoi colleghi sono gelosi delle manifestazioni di sostegno che ha ricevuto.

Loay è convinto che i palestinesi possano fare tutto ciò che sognano. Le loro condizioni sono difficili, dice, ma la loro ingegnosità e perseveranza sono più forti. Possono raggiungere le stelle e catturarle. È in arrivo il primo astronauta palestinese e l’Agenzia Spaziale Palestinese non è solo un sogno. Possiamo farlo e lo faremo – e niente potrà mai cambiare questo.

La squadra di Beit Hanoun posa con un poster dedicato all’impresa di Loay

Nota del redattore: Ingenuity è programmato per prendere il volo il 14 aprile o intorno a quella data. L’evento storico si può seguire su NASA TV.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Mettere a tacere le persone non condurrà alla pace

Shahd Safi

1 aprile 2021 We Are Not Numbers

Questo contributo è stato scritto nell’ambito della collaborazione con Jewish Voice for Peace per protestare contro la censura da parte di Facebook delle voci dei palestinesi e dei loro sostenitori

Tre guerre. Aggressioni e invasioni troppo numerose per tenerne il conto. Tentativi di proteste spente nel sangue. Acqua che non si può bere. Niente lavoro. E come se questo non bastasse, violenza fra le mura domestiche.

Una persona come affronta tutto ciò? Col passar del tempo io ho letteralmente cominciato ad aver paura di tutto: ricordare il passato, pensare al futuro, conoscere gente nuova, provare ad amare. Spesso avevo persino paura di uscire di casa, e quando incontravo gente nuova, mi tremavano mani e gambe.

La tutela della salute mentale è complicata a Gaza; molti qui sono riluttanti a chiedere aiuto, io no. Il problema è che non potevo permettermelo. Un tempo avevo paura di parlare apertamente del mio conflitto interiore, ma adesso lo sto affrontando. We Are Not Numbers [Non Siamo Numeri, piattaforma fondata nel 2015 per ospitare le storie personali dei palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana o in campi profughi, ndtr] collabora con USA Palestine Mental Health Network [Rete USA per la Salute Mentale in Palestina, formata da operatori professionisti, ndtr] per fornire “interlocutori” ed io sono molto grata di poter contare finalmente su un ascolto professionale.

Non c’è modo di sfuggire alla cause delle mie angosce mentali -che, come ho imparato, consistono essenzialmente nell’esperienza di essere cresciuta e rinchiusa a Gaza. Che la mia stessa identità di profuga palestinese abitante a Gaza rappresenti in sé una specie di disturbo mentale è profondamente doloroso.

Ora mi rendo conto che anche la violenza domestica a cui ho assistito da giovane è in qualche modo collegata al nostro trauma culturale. I miei genitori sono stati troppo duri con me ed i miei fratelli, ma sono arrivata a comprendere il dolore, la paura, l’instabilità tramandati attraverso le generazioni dai miei nonni, sradicati durante la Nakba, fino ai miei genitori per arrivare infine a me. I traumi non curati possono alimentare una sorta di narcisismo, così ora riesco quasi a simpatizzare con i miei genitori. E riesco anche a perdonarli.

Oggi io vivo nella stessa paura ed instabilità. E’ quasi impossibile spiegare quanto sia spaventosa la situazione economica a Gaza. Non siamo autorizzati ad esportare quasi niente, le merci che siamo obbligati ad importare (perché non possiamo produrle qui) sono carissime, spesso di pessima qualità. In generale la gente è così povera che i consumi non sono in grado di sostenere un vero e proprio mercato interno.

Per quanto mi riguarda, è difficile per la mia famiglia pagare le mie tasse universitarie; altri due miei fratelli vanno all’università. Sono sempre stata una studentessa creativa ma ultimamente sto perdendo l’entusiasmo perché è davvero difficile concentrarmi sulle lezioni quando vedo la sofferenza nelle persone che amo.

E intanto è dall’infanzia che sogno di viaggiare. E’ il mio più grande desiderio. La mia anima anela a viaggiare. Voglio vivere quell’esperienza ma a causa del blocco di Israele sembra proprio che non riuscirò a realizzare il mio sogno. Ho vissuto in tante zone di quel “paesone” che è Gaza ed i miei occhi hanno necessità di godersi qualche posto nuovo. Voglio sentire aria nuova, fresca, pulita.

Voglio amare la vita. Ho paura di vivere, ma non voglio che siano le mie paure ad avere il controllo. Sto facendo del mio meglio per comprendere i miei timori in modo da gestirli in maniera sana. Ma è una lotta. Sono arrivata ora ad essere in sovrappeso di quasi dieci chili. In parte ciò è dovuto a “fame nervosa”, ma ho anche capito che molto di ciò che mangiamo non è salutare e la causa di questo è la povertà. E’ più facile trovare fast food e farinacei che alternative fresche e salutari.

Condividere dettagli così personali è difficile ma è parte del mio percorso di guarigione, così come lo sono progetti quali We Are Not Numbers e la sua cooperazione con Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace, organizzazione statunitense antisionista che cerca di cambiare la politica degli USA al fine di raggiungere pace e giustizia in Israele e Palestina, ndtr].

Non otterremo mai giustizia se ebrei e palestinesi non si comprenderanno a vicenda. Ma come farlo se Facebook ed altri social media ci bloccano quando ci trovano “offensivi”? C’è bisogno di PIU’ comunicazione, non di meno! Questo è vitale per la mia salute personale – e anche per una comunità internazionale che bene o male deve vivere in pace.

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)




Con la grazia, la fede e una macchina fotografica

Noor Abdo

24 gennaio 2021- Wearenotnumbers

Nato durante la prima Intifada, Momen aveva solo una settimana di vita quando l’occupazione israeliana gli uccise il padre lasciandolo orfano nella Palestina occupata. Da quando è nato niente gli è stato facile. Lottando contro il dolore emotivo e fisico per tutta la vita, Momen ha tracciato un sentiero tutto suo.

Fotografo in divenire

Momen Faiz ha scoperto la sua passione per la fotografia da ragazzo quando viveva ad Al Shejayeh, un’area di confine nella zona est di Gaza. È un posto strategico per fotografare le rivolte e l’oppressione che avvenivano nell’area. Ha fatto i primi tentativi con una macchina fotografica che gli avevano prestato perché non ne aveva una sua. Questo gli ha offerto l’opportunità di stringere rapporti con un gruppo di fotografi e giornalisti. Ha ascoltato i loro consigli su dove mettersi per scattare le foto ed è così diventato un esperto a trovare l’angolazione giusta da cui catturare le immagini.

Momen ha cercato di comprarsi l’equipaggiamento, ma era troppo caro. Ha cominciato a lavorare come fotografo freelance per agenzie internazionali, la prima è stata Domtex.

Momen si è sempre trovato vicino alle zone dove di solito avvenivano gli attacchi perché casa sua è nei pressi del confine.

Da teenager, Momen aveva grandi sogni e visioni: diventare famoso e andarsene da Gaza, la più grande prigione a cielo aperto mai esistita, e riuscire a mostrare il suo talento al mondo. Tutto quello che sapeva del mondo esterno gli veniva dalla TV e dalla radio. Voleva girare il mondo. Ma il blocco aveva altri piani.

Adesso non posso andare” 

Una fredda mattina di settembre, Momen stava digiunando in occasione del Giorno di Arafah, il giorno prima di Eid- Al-Adha [importanti festività religiose islamiche, ndtr.], mentre andava in missione per riprendere la lotta dei commercianti palestinesi. A loro non restava altra scelta che scavare dei tunnel per poter svolgere una normale attività commerciale a causa delle restrizioni imposte dall’occupazione israeliana nelle zone di confine. Per Momen fare delle foto era solo un’altra sfida e stava gironzolando per trovare l’angolatura perfetta da cui scattare le immagini.

In un attimo Momen venne gettato a terra da un missile proveniente da un aereo da ricognizione israeliano che l’ha preso di mira direttamente e intenzionalmente. Il ventunenne perse conoscenza e sentì che l’anima stava abbandonando il suo corpo. Ma, mentre la vita gli stava passando davanti agli occhi, sentì una voce che lo implorava di andare avanti e di mettersi di nuovo in piedi. In quel momento, tutto quello che Momen disse a se stesso fu: “Non posso andarmene ora …. Non ho ancora fatto niente per la Palestina.”

L’inizio di una nuova vita

L’incidente capitato a Momen avvenne nel novembre 2008, durante un altro attacco israeliano contro Gaza durante l’operazione “Caldo Inverno” [dal 29 febbraio al 3 marzo 2008], durante la quale vennero usate contro civili inermi armi bandite a livello internazionale come le bombe al fosforo, e si lasciò dietro distruzioni massicce e un alto numero di morti. 

Fuori dalla sua finestra tutto stava crollando, ma Momen era sotto anestesia e non sentiva nulla. Non sapeva dove si trovasse o cosa gli fosse successo. Quando riprese conoscenza, gli dissero che era nell’ospedale Al-Shifa. Tutto cominciò a essere più chiaro, ma continuava a non sentire nulla. Allungando la mano per toccare le ferite sulle sue gambe, Momen non le trovò, non c’erano più!

I chirurghi avevano dovuto amputare entrambe le gambe sopra il ginocchio dato che la loro condizione continuava a peggiorare a causa della scarsità di attrezzature mediche dell’ospedale. La cancrena si era sviluppata e si era estesa a entrambe le gambe. Momen sarà confinato su una sedia a rotelle per il resto della sua vita. Per lui la possibilità di ottenere delle protesi è ridottissima a causa della continuazione del blocco e del peggioramento della situazione economica della Striscia. Ha passato 25 giorni nell’ospedale Al-Shifa prima di essere trasferito in Arabia Saudita per la riabilitazione.

La macchina fotografica, la mia migliore amica

Appena fuori dall’unità di terapia intensiva, la prima cosa che Momen ha cercato è stata la sua migliore amica, la macchina fotografica. Era l’ultimo raggio di speranza che aveva. La strinse al cuore sussurrandole: “e adesso non abbandonarmi.”

Momen parla della sua macchina fotografica: “Mi ha confessato che si sentiva frustrata perché scattava immagini di crimini di guerra contro civili disarmati, donne e bambini, sapendo di non poter cambiare la realtà di quello che stava succedendo …Poteva solo scattare immagini e aiutarmi silenziosamente a condividerle con il mondo e così non essere altro che una testimone.”

Un raggio di speranza

Dopo otto mesi di cure in Arabia Saudita, il destino aveva un piano per cambiare la vita di Momen, che aveva attirato una grande attenzione mediatica perché il suo percorso era eroico: sopravvissuto a un attacco brutale, entrambe le gambe amputate e ora determinato a ricostruirsi una vita, sempre sorridendo!

In mezzo a tutto quello che gli stava succedendo notò un reporter che spiccava fra gli altri. Una rifugiata palestinese che aveva passato tutta la sua vita in Arabia Saudita ed era molto interessata a raccontare la storia di Momen. La passione di Dima, la sua fiducia in sé e il suo coraggio hanno fatto innamorare follemente Momen. E lei non ha avuto alcun dubbio quando Momen le ha chiesto di sposarla, pur sapendo molto bene che sarebbe stato difficile lasciare la famiglia e iniziare una nuova vita a Gaza.

E adesso?

Consolato dall’amore, Momen adesso aveva una ragione per andare avanti. Dima l’ha motivato a non arrendersi, lei è stata la sua luce al fondo del tunnel che l’ha spinto, insistendo che sarebbe ritornato ancora più forte.

Con la sua sedia a rotelle e la macchina fotografica Momen ha dato un significato nuovo alla parola perseveranza. Si è rifiutato di stare a letto e ogni giorno si è alzato e ha affrontato la vita. Momen ha scelto di vivere. Ha attraversato paesaggi urbani diversi per scattare foto e non ha avuto paura di salire su auto, edifici, bulldozer, qualsiasi cosa che si frapponesse fra lui e la migliore inquadratura. La sua sedia a rotelle e la macchina fotografica sono diventate parti integranti del suo corpo.

La prima mostra internazionale di Momen è stata in Italia nel 2016. Ovviamente non ha potuto essere presente perché non gli è stato concesso un visto di viaggio. Ha partecipato via Skype e tenuto un discorso per suscitare interesse a favore della lotta palestinese.

La macchina fotografica di Momen era fiera di lui. Avevano ancora una lunga strada da percorrere insieme, ma questo era un primo passo importante nel mondo delle esposizioni internazionali. Dopo quella mostra, è stato conosciuto a livello internazionale ed è riuscito a pubblicare su varie piattaforme altri lavori che documentano la lotta quotidiana dei palestinesi.

In giro per il mondo in sedia a rotelle

Dopo che la sua richiesta di visto era stata respinta varie volte e a causa delle chiusure dei confini, Momen finalmente è riuscito a lasciare Gaza per partecipare alla sua prima mostra in Malesia. Il viaggio fino all’aeroporto internazionale del Cairo è stato movimentato e arrivato là non è stato facile muoversi nell’aeroporto con una sedia a rotelle. Ha dovuto aspettare otto giorni dentro l’aeroporto fino a quando il visto è stato accettato.

La famiglia di Momen è rimasta a Istanbul mentre lui era presente per la prima volta in Malesia alla sua mostra nel 2018.

Al suo ritorno a Istanbul, alla ricerca di una nuova opportunità, ha deciso di restare là.

Sfortunatamente nel 2019, ha perso il lavoro e non ha più percepito lo stipendio. Si trattava di un salario speciale conferito a chi era stato ferito durante la guerra e impossibilitato a lavorare. Questa perdita ha messo in pericolo lui, sua moglie e i loro quattro bambini.

Perché stava succedendo a loro? Tutte le difficoltà che Momen si era trovato davanti non erano colpa sua. Ogni peso che lo opprimeva dipendeva dal fatto che era un palestinese che voleva vivere libero.

A Momen e alla sua famiglia non è rimasta altra scelta che cercare un posto che li avrebbe accolti. All’inizio del 2020 hanno fatto domanda di visto per visitare l’Arabia Saudita e partecipare al pellegrinaggio della Umrah. Ovviamente non sapeva che il Covid-19 avrebbe colpito il mondo, bloccandolo là. Dato che il loro visto stava per scadere, hanno cercato un modo per ritornare in qualsiasi posto li accettasse. Data l’estrema difficoltà di ottenere un visto in un simile momento non trovavano altro che porte chiuse.

Catturare la verità a Gaza

Oggi, dopo sette difficili mesi, Momen e la sua famiglia sono finalmente nella Striscia di Gaza con i loro cari.

La fotografia per Momen, non è solo un hobby, è il suo modo di evadere, uno strumento che gli ha dato le ali per volar via dal blocco di Gaza. La macchina fotografica è dedita a fare il suo dovere, documentare in modo trasparente l’occupazione della Palestina. E, sebbene qualche volta sia stanca, non si arrende mai. Come Momen.

Insieme sono una coppia perfetta, nessuno lascia mai l’altro e insieme trasmettono un messaggio di determinazione, resilienza e patriottismo. Non smetteranno mai di lottare per far sentire la voce della Palestina.

Nonostante le difficoltà quotidiane, con i suoi obiettivi, sulla sua sedia a rotelle e con un sorriso sul volto capace di ispirare chiunque lo veda, Momen continua a catturare la verità.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




Signor Blinken, noi condividiamo storie familiari simili

Mona AlMsaddar

20 gennaio 2021 – We Are Not Numbers

Gaza

Una lettera aperta ad Antony Blinken, che sta per essere designato Segretario di Stato del presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Quando ha accettato la sua nomina, Blinken ha ricordato il suo patrigno Samuel Pisar, che era uno dei 900 bambini della sua scuola a Bialystok, in Polonia, ma l’unico [fra loro] sopravvissuto all’Olocausto dopo quattro anni [trascorsi] nei campi di concentramento. Ha continuato col ricordare la fuga di Pisar da una marcia della morte [si riferisce ai movimenti forzati di decine di migliaia dei prigionieri dai campi di concentramento polacchi che nell’inverno del 1944-45 stavano per essere raggiunti dalle forze sovietiche, verso altri lager all’interno della Germania, ndtr.] nella Germania controllata dai nazisti, dopo di che il ragazzo fu salvato da un soldato afro-americano. Poco prima di essere trasportato su un carro armato, Pisar “cadde in ginocchio e disse le uniche tre parole in inglese che conosceva, che sua madre gli aveva insegnato prima della guerra: “God bless America” [Dio benedica l’America, ndtr.]. (Questa storia rivela perché non sorprende che Blinken, nel corso della sua audizione di conferma, abbia detto ai senatori che non è sua intenzione riportare l’ambasciata degli Stati Uniti da Gerusalemme a Tel Aviv e abbia affermato che gli Stati Uniti riconoscono Gerusalemme come capitale di Israele.)

Caro signor Blinken,

credo che le persone rinascano mediante le loro sofferenze. Esse apprezzano meglio ciò che è utile per sopravvivere e imparano a trovare la felicità anche nei momenti più banali perché sanno quanto essa valga.

Seguo le notizie e quando lei è stato nominato ho voluto approfondire la mia conoscenza riguardo al suo passato e al perché lei la pensi in questo modo, in quanto, se sarà confermato dal Senato degli Stati Uniti, lei avrà molta influenza sulla mia vita. Lei, più di quasi ogni altro politico americano, guiderà le relazioni del suo Paese sia con Israele, che controlla la mia patria, sia con i palestinesi, che vivono sotto il suo tallone. Sono rimasta commossa e rattristata da quanto è successo al suo patrigno durante la seconda guerra mondiale. Sono profondamente dispiaciuta per il terrore e la perdita che ha vissuto come unico sopravvissuto tra i 900 bambini della sua scuola a Bialystok, in Polonia. E poi fuggire da una delle famigerate “marce della morte” di Hitler! Rabbrividisco al pensiero.

Ogni tragedia è unica. Ma leggere dell’esilio forzato del suo patrigno mi fa venire in mente i miei nonni materni e il loro trasferimento forzato in seguito alla fondazione di Israele nel 1948. Noi la chiamiamo Nakba (catastrofe). Come il suo patrigno i miei nonni sono stati costretti a lasciare la loro casa a causa della loro razza e religione.

Il padre di mia madre, Ahmad, all’epoca aveva solo 12 anni. Suo fratello, Ibrahim, ne aveva 15 e sua sorella solo 7. La loro famiglia viveva a Faja, un piccolo villaggio vicino a Giaffa, nell’attuale Israele. Oggi non c’è più. È stato inglobato nella città israeliana di Petah Tikva, che non mi è permesso visitare. L’assedio israeliano mi impedisce di lasciare Gaza, tanto più di entrare nella terra che la famiglia dei miei nonni ha chiamato patria per secoli.

Il mio bisnonno, Mohammad, era un uomo molto alto con gli occhi verdi come un limone non ancora maturo. Aveva una parte calva al centro della testa, quindi si pettinava i capelli in maniera tale da coprirla, ma in modo gradevole da vedere. Era l’unico a Faja ad avere una bicicletta. Vi pedalava con la sua amata moglie, Fatima, seduta in braccio. Sono cresciuti in una società tradizionalista, ma lui si è innamorato di lei da distante. Erano cugini e lui l’aspettava quando lei andava a prendere l’acqua, guardandola da lontano. Più tardi, quando si sono fidanzati e poi sposati, hanno lavorato la terra insieme negli aranceti.

Quella serena esistenza cessò nel 1947, quando le bande israeliane aprirono il fuoco contro il caffè del villaggio e le persone sedute all’interno. Erano tutti preoccupati per quello che avrebbe potuto accadere in seguito. Ma nessuno avrebbe mai immaginato che sarebbero stati costretti a fuggire dal loro amato villaggio e che non vi sarebbero più tornati!

La notte, nei miei sogni, posso ricostruire la loro fuga forzata, sulla base delle storie che mi raccontano i miei nonni. Loro erano solo dei bambini, come il suo patrigno, Signor Blinken. Correvano sotto la minaccia dei bombardamenti e camminavano a fatica per lunghe distanze da un villaggio all’altro, dormendo in tenda, incerti su cosa avrebbero mangiato o bevuto il giorno successivo. I miei bisnonni erano convinti che il loro esilio sarebbe stato solo temporaneo, ma mio nonno e i suoi fratelli ebbero nostalgia di casa sin dal primo giorno. Ancora oggi, quando li guardo negli occhi, riesco quasi a vedere Faja, lì che aspetta con i suoi aranci.

Il mio bisnonno amava giocare a seega (un gioco da tavolo egiziano simile agli scacchi) con i suoi amici sotto l’albero di eucalipto camaldulensis (noto anche come eucalipto rosso). Più tardi, come rifugiato nella città di Rafah, a Gaza, lui e uno dei suoi amici hanno continuato a giocare insieme fino alla morte del suo vecchio compagno di giochi. Quello era il loro modo di ricordare il loro villaggio.

Nel 1977 il mio bisnonno riuscì a visitare Faja, o meglio le sue rovine, con i suoi nipoti, compresa mia madre! La scuola frequentata da suo figlio Ahmad (mio nonno) non c’era più. E così il parco giochi del luogo. L’unica cosa che ritrovarono della Faja che conoscevano fu il solitario albero di eucalipto, che immaginavano sarebbe riuscito a sopravvivere, nell’attesa che i suoi giovani amici tornassero a giocare a seega sotto la sua chioma. Mia madre, Aysha, mi ha detto che quando suo padre vide l’albero si sedette sotto di esso e pianse! Avrebbe voluto restare lì per sempre, ma non poteva perché il suo permesso di permanenza rilasciato dagli israeliani stava per scadere. Il permesso di tornare nella terra di proprietà della sua famiglia era valido solo per una volta e per poche ore!

Posso chiederle di mettersi nei nostri panni? Chiuda gli occhi e immagini di voler tornare a casa dei suoi nonni. Ma l’ufficiale dell’aeroporto non glielo permetterà. Oppure, nella migliore delle ipotesi, può entrare in città solo per poche ore. Se rimanesse di più, verrebbe punito, probabilmente sbattuto in prigione. Come si sentirebbe, ci pensa? Definirlo crepacuore non è sufficiente a descrivere quello che provo ogni giorno.

Sono una ragazza palestinese di 25 anni per metà rifugiata (la famiglia di mio padre è nata qui), a cui non è mai stato permesso di lasciare il campo di concentramento di Gaza. Potrebbe pensare che sia eccessivo chiamarlo così, ma consideri: non siamo autorizzati a gestire un porto o un aeroporto e possiamo partire solo via terra se ci viene concesso un raro permesso. Tutto quello che so degli aeroplani riguarda i droni e i caccia a reazione. Conosco persino la differenza tra un F16 e un F35. Mentre scrivo questo il suono dei bombardamenti è tanto forte nel mio cuore. Non ci è permesso guadagnarci da vivere con le esportazioni. Abbiamo l’elettricità solo dalle quattro alle otto ore al giorno a causa della scarsità di carburante e la maggior parte della nostra acqua non è potabile perché non possiamo ricostruire i nostri impianti di trattamento delle acque reflue.

La nostra Nakba non è rimasta limitata al 1948. Continua ogni giorno che siamo costretti a vivere in queste condizioni. Quindi, per favore, signor Blinken, quando nei prossimi mesi prenderà decisioni sulla politica riguardante Israele e i palestinesi si ricordi della mia famiglia. Stiamo cercando in ogni modo di vivere e sopravvivere. Venga a trovarci per vedere di persona. Sarà mio ospite. Forse potremmo persino insegnarle il seega.

Fiduciosi saluti,

Mona AlMsaddar

Un’altra sopravvissuta alla guerra

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Le difficoltà di diventare medico a Gaza

Fouad Jaber

11 gennaio 2021 – We are not numbers

Cosa hai detto? Cosa è successo? Perché nessuno me l’ha detto” chiedevo ansiosamente. “Non volevamo che ti preoccupassi,” replicò mia madre.

Mio padre aveva avuto un infarto e la mia famiglia non me l’aveva detto per risparmiarmi paura e tristezza. Fortunatamente i dottori erano intervenuti appena in tempo e dio l’aveva salvato. Solo dopo mia madre mi chiamò per dirmi: “Negli ultimi giorni tuo padre è stato in un reparto di terapia intensiva.”

In questo periodo l’assedio ha limitato enormemente i miei movimenti dentro e fuori dalla Striscia di Gaza e per me è stato difficile. Durante i sette anni in cui ho studiato medicina in Egitto, mi è stato impedito di ritornare, eccetto alcune volte. A un certo punto non ho potuto viaggiare per quattro anni di fila.

Mi sono perso il matrimonio del mio miglior amico Abdullah. È stata dura guardarlo sullo schermo di un computer e fare le mie congratulazioni solo virtualmente. Finalmente nel 2015 il confine si è aperto e ho colto l’occasione di ritornare a Gaza. Ero felicissimo di essere vicino ai miei cari e alla mia comunità. Sono stati giorni felici, era bellissimo stare con i miei genitori e i miei fratelli. Abbiamo visto vecchi amici e mangiato cibo tradizionale. Finalmente potevo mangiare di nuovo falafel e shawarma.

Il confine si chiude

Gaza è un posto dove la felicità dura solo un attimo. Sono rimasto bloccato a Gaza perché le autorità militari, senza alcun preavviso, hanno chiuso il confine. La nostra università in Egitto ha riaperto i cancelli, ma noi non siamo potuti ritornare per completare i nostri studi. Immagina l’interruzione senza speranza dei nostri sogni. In quei giorni mi sembrava di camminare in una foresta e di aver smarrito la via. Il mio amico mi ha detto: “Non possiamo fare niente e possiamo perdere l’anno. E se restiamo bloccati qui svanirà il sogno che stiamo inseguendo.”

Allora io ho suggerito: “Ragazzi, perché non creiamo una pagina Facebook per far arrivare le nostre voci ai responsabili?” Ci siamo resi conto che avremmo dovuto fare tutto quello che potevamo e che non avevamo nulla da perdere, ma tutto da guadagnare. Almeno avremmo avuto una possibilità di salvare futuri dottori, pensavo fra me e me. Così abbiamo lanciato una pagina per farci sentire e ottenere i nostri diritti elementari come altri studenti in giro per il mondo.

Abbiamo invitato tutti gli studenti “bloccati” a una riunione pacifica per reclamare i nostri diritti all’educazione. Più di 100 studenti si sono riuniti a Al-Jondi Al-Majhol, una piazza molto conosciuta nel centro di Gaza. Abbiamo portato molti manifesti e cartelli sulla nostra catastrofe. Quel giorno molti canali televisivi hanno trasmesso l’evento. Personalmente ho rilasciato due interviste, una a una stazione locale e l’altra a un canale internazionale. Dopo una lotta di quattro mesi, nonostante i rischi, siamo riusciti a viaggiare.

Carenza di opportunità

Nel 2019, sono andato a Gaza per passare il Ramadan con la mia famiglia: per molti anni non avevo potuto condividere questo momento spirituale con loro. L’altro scopo di questa visita era di valutare le opportunità di fare il tirocinio medico a Gaza.

Quello che ho scoperto è stato uno shock. La carenza di risorse mediche mi avrebbe impedito di imparare quello che volevo nei nostri ospedali locali e di guadagnare uno stipendio soddisfacente. I miei sogni erano svaniti. Mi sentivo come sprofondare negli abissi dell’oceano senza riuscire a respirare.

Ihab, uno dei miei amici, faceva turni di 8 ore e guadagnava $300 al mese. Sebbene il suo sia un impiego temporaneo per sei mesi, l’esempio mi ha rivelato la dura realtà che i neo-laureati devono affrontare se vivono a Gaza. “Questo stipendio basta appena per coprire i costi del trasporto,” mi ha detto Ihab. Anche il mio fratello maggiore Ahmed stava facendo tirocinio all’Ospedale Europeo di Gaza, nel sud della Striscia, e aveva lo stesso basso salario di Ihab.

Dolore per Gaza e determinazione

Dopo aver scoperto tutte queste difficoltà, ho deciso che avrei sepolto le mie aspirazioni di fare il tirocinio nella Striscia di Gaza. Sono invece stato stimolato ad andare negli USA nella speranza di trovare opportunità di studio. Fortunatamente, alla fine di gennaio 2020, sono stato ammesso a un tirocinio di due mesi alla Cleveland Clinic in Ohio. Ero elettrizzato dal sistema prestigioso che offrivano. Questo sentimento, ovviamente, era in contraddizione con la tristezza suscitata dal nostro sistema sanitario. Israele controlla le risorse mediche che entrano a Gaza e questa enorme carenza di equipaggiamento si nota molto chiaramente (per esempio, la carenza di un numero sufficiente di ventilatori durante la pandemia da COVID).

Dopo due mesi di intenso tirocinio mi sono trasferito in California. Ora faccio parte di un progetto di ricerca con un professore molto famoso. Sono negli USA da nove mesi e il sogno di aiutare gli altri e di sviluppare le mie potenzialità è appena cominciato.

Io credo al fatto di non porre limiti alle sfide, ma piuttosto nello sfidare i tuoi limiti. Il mio sogno di lavorare e vivere a Gaza un giorno si realizzerà. Mi sforzo di essere un buon esempio e un modello di riferimento per chi verrà dopo di me, voglio mostrare loro che perseveranza e fiducia possono portare lontano. Il mio obiettivo finale è di passare la mia competenza clinica e le mie capacità alle generazioni future e di aiutare i meno privilegiati nella mia comunità. Voglio essere in grado di aiutare i pazienti là con la mia abilità di medico e questo sogno finalmente sembra a portata di mano.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Palestina a colori

Mohamed Shurrab

10 dicembre 2020 – We are not numbers

Gaza

La bandiera del mio Paese racconta la nostra storia attraverso i colori. Verde, nero, rosso e bianco: ognuno rappresenta miriadi di storie palestinesi, esperienze che hanno fatto di noi quelli che siamo e che potremmo diventare.

Verde

Il verde era il colore dominante dovunque nel mio amatissimo Paese. È il colore preferito degli agricoltori, il colore del raccolto. Significa duro lavoro, ma anche soddisfazioni e riposo. Purtroppo il verde è stato rubato dalla nostra terra. L’occupazione israeliana ha sradicato le distese di ulivi, sostituendole con colonie – i nostri bei ricordi verdi sono diventati grigio cemento.

Avevo solo 5 anni quando Israele nel 2008 scatenò la prima delle sue tre principali guerre contro Gaza, oggi comunemente chiamata il Massacro di Gaza (“Operazione Piombo Fuso” per gli israeliani). Durò tre settimane e causò la morte di 1.417 palestinesi.

Il terzo giorno ero intento a giocare con le figure del mio supereroe quando il silenzio sembrò avvolgere l’intero quartiere. Era la calma prima della tempesta. Improvvisamente un suono acuto squarciò l’aria, scuotendo la nostra casa come un budino. Il mio giocattolo a forma del verde e muscoloso Hulk cadde a terra. Era un attacco aereo israeliano. Le mie sorelle corsero sul balcone a vedere dove fosse caduto il missile questa volta. Non era il primo, ma era il più vicino. Io saltai in braccio a mia madre, chiedendole che cosa fosse successo, anche se ora mi rendo conto che nulla potrebbe davvero spiegare le nostre vite. Un fiume di lacrime scorreva sul suo viso ed aveva la paura negli occhi.

Persone cattive hanno bombardato la casa dei nostri vicini”, rispose piangendo. “Che razza di persone può uccidere e bombardare?”

Pensai tra me: “Se Hulk esistesse davvero non lo permetterebbe mai.”

Fuori dalla nostra finestra si levò il fumo, tracciando una scia di fumo dalle macerie che lo avevano prodotto. Odio le macerie che seppelliscono la nostra infanzia. Le nostre conversazioni quotidiane riguardano la guerra, il blocco e le sanzioni. Abbiamo visto i nostri amici uccisi, portati via prima della loro ora.

Nella guerra del 2008 le forze di occupazione hanno ucciso 400 bambini in meno di un mese. Mi addolora ogni singola vita persa, ma credo che quelli tra noi che sono ancora vivi hanno qualcosa per cui lottare: il nostro futuro.

Nero

Il nero è simbolo di eleganza – e anche di oppressione, distruzione e cenere. Le forze israeliane ci colpirono nuovamente nel 2012, la più breve delle guerre, ma a suo modo non meno distruttiva.

Avevo 10 anni. Ero andato a comprare il pane per il pranzo e stavo tornando a casa. Giravano voci che stesse per iniziare una nuova guerra, perciò cercavo di camminare in fretta. All’improvviso un aereo sganciò un missile di avvertimento – che esplodeva dai 5 ai 10 minuti prima del colpo “vero”, e doveva servire come gentile avviso di abbandonare la propria casa. Non vedevo distintamente l’aereo, ma il razzo si vedeva abbastanza chiaramente. Sono impallidito, con gli occhi sbarrati. L’adrenalina che avevo in corpo fu più forte del mio spavento e mi permise di correre velocemente a casa, come un lampo. Aprii la porta e vidi la mia famiglia che mi aspettava, pregando che la pace del Signore mi proteggesse. Mi abbracciarono forte.

Rimasi a casa per tutta la durata della guerra, ma ero comunque traumatizzato. Per due settimane persi ogni interesse per qualunque cosa, anche per il disegno, il mio passatempo preferito. Ero triste, depresso e inerte. La guerra durò una settimana, ma la sofferenza durò molto più a lungo. Però avevamo qualcosa per cui lottare: il nostro futuro.  

Rosso

Il rosso è il colore del sangue, noto anche come il sangue degli shaheeds (i martiri). La nostra storia è intrisa di esso. Ma se dobbiamo morire perché altri vivano, che la nostra morte sia un atto di preghiera. Potete indovinare che cosa successe in seguito, vero? Il 2014 con un’altra nuova guerra, più memorabile e devastante delle precedenti.

La mia città perse tutti i suoi colori, tranne il rosso. Furono distrutti edifici, abbattuti alberi. Tutto era cenere nera e grigia, tranne il sangue rosso di oltre 2.700 gazawi uccisi. Durante quella guerra altri 100.000 rimasero senza casa.

Trascorsero 51 giorni in cui vedemmo madri piangere la perdita dei figli, edifici crollare qua e là come gocce d’acqua, persone vivere per strada mangiando rifiuti, ragazzi perdere braccia e gambe.

Ancora oggi l’immagine dei carri armati e aerei da guerra israeliani che invadono la mia città occupa la mia mente, comparendo negli incubi. A volte attraversa la mia mente la domanda: “Perché noi?”. Mentre la maggior parte dei bambini del mondo gioca a calcio e sogna di diventare pompiere, i bambini di Gaza vengono uccisi e molti vivono per strada.

Mi deprime vedere ragazzini che hanno fatto esperienza di guerra e politica.

Bianco

Il bianco rappresenta la sacralità dei nostri luoghi santi. Ma il ricorrente sacrilegio di Israele ha profanato ciò che restava di bianco nel nostro Paese. Gli israeliani costruiscono colonie accanto ai nostri luoghi santi e ci impediscono di pregarvi.

Ciononostante voglio seminare speranza. Perciò mi attengo al fatto che il bianco è anche il colore dell’ottimismo:

Bianco è il mio sogno che un giorno saremo liberi.

Bianco è il mio sogno che un giorno la mia città fiorirà come Singapore.

Bianco è il mio sogno che un giorno vivremo in pace.

Bianco è il mio sogno che coloro che sono ancora vivi conquisteranno il futuro che si meritano.

Tutor: Ben Gass

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’israeliana Fauda: un’immorale e strumentale rappresentazione trasforma la sofferenza dei palestinesi in spettacolo

Orly Noy

7 gennaio 2020 Middle East Eye

La terza stagione di una popolare serie TV tratta delle operazioni nell’assediata Striscia di Gaza

La serie TV Fauda (in arabo ‘caos’) tratta la storia di un’unità israeliana segreta, la mistaravim, i cui commandos svolgono missioni nei territori palestinesi occupati facendosi passare per arabi.

Tra le serie israeliane più di successo mai trasmesse, lo show ha vinto numerosi premi, sia in patria che all’estero. Ha debuttato nel 2015 e l’anno seguente Netflix lo ha acquistato, dopodiché Fauda è diventata un enorme successo internazionale.

Il giornalista Avi Issacharoff e l’attore Lior Raz hanno creato la serie, basata in parte sulle loro esperienze nell’unità d’assalto Duvdevan dell’esercito israeliano. Tra i consulenti dello show figuravano Gonen Ben-Yitzhak, ex coordinatore della sicurezza israeliana e commando scelto, e Aviram Elad, un altro graduato della Duvdevan.

Impudente arroganza

Le prime due stagioni erano incentrate sulle operazioni segrete dell’unità nella Cisgiordania occupata. La terza stagione, che è appena iniziata, si occupa delle operazioni a Gaza. Prima che l’attuale stagione andasse in onda, i produttori hanno lanciato un’aggressiva campagna pubblicitaria che ha riempito le strade di Israele di enormi manifesti.

Ogni volta che passo in macchina accanto a uno di questi cartelloni pubblicitari o mi fermo ad un semaforo vicino ad uno di essi, tremo di vergogna.

L’immagine pubblicitaria della nuova stagione raffigura il volto dagli occhi di ghiaccio, contuso e insanguinato di un attore accanto al messaggio “Benvenuti a Gaza”, scritto in inglese ma in lettere ebraiche. Lo guardo e penso all’incredibile cinismo, all’impudente arroganza di questo scherno.

Benvenuti a Gaza. Benvenuti nel ghetto i cui accessi Israele ha bloccato per più di un decennio, infliggendo a oltre due milioni di persone una morte lenta. Questo evidentemente è il nuovo gioco virtuale per soddisfare il bisogno di emozioni degli spettatori israeliani, realizzato in inglese per enfatizzare lo spirito americano di questo devastante spettacolo.

Un sito di informazioni ebreo di destra ha descritto la nuova stagione in questo modo: “Fauda ed i suoi agenti segreti mistaravim guidati da Doron (Lior Raz) ritornano per un’altra stagione tesa ed emozionante. La loro principale missione questa volta è di danneggiare l’infrastruttura di Hamas che opera da Gaza e far fuori il locale comandante dell’ala militare di Hamas.”

Gaza: un mito per gli israeliani

Nuove sfide da brivido piene di suspense e nuove audaci missioni. Come in un raffinato gioco al computer, lo spettatore può mettersi comodo ed essere trascinato dallo spettacolo, protetto attraverso lo schermo dalle scene drammatiche che si svolgono a Gaza. La brutale situazione di due milioni di persone sotto assedio diventa semplicemente il set della vicenda.

Di per sé proprio l’assedio di Gaza diventa la migliore pubblicità per la serie TV. Grazie ad un altro lungo anno di blocco, Gaza è diventata una sorta di mito per gli israeliani: non del tutto reale, nel senso che ci vivono vere persone, eppure è contemporaneamente molto spaventoso e minaccioso.

L’ignoranza dei comuni israeliani fiorente dietro lo schermo oscuro imposto da Israele su Cisgiordania e Gaza e il terrore primordiale che genera sono i principali elementi del segreto del successo di questa serie.

Ancora più grottesco è come il seguire intensamente le storie dei “nostri meravigliosi ragazzi” a Gaza non impedisca alla maggior parte degli spettatori di Fauda di sostenere, nelle discussioni politiche, “Ma noi abbiamo lasciato Gaza! Là non c’è più occupazione!”. Al tempo stesso applaudono ogni esecuzione, arresto o subdola imboscata che vedono sui loro schermi televisivi. Ci siamo ritirati da Gaza, ma che grande lavoro stiamo facendo là!

Questa alienazione include anche una sorta di esotizzazione dei palestinesi sotto occupazione. Per la stragrande maggioranza del pubblico ebreo israeliano non solo l’azione che si svolge nella Gaza assediata, ma anche le parti della serie che si svolgono in Cisgiordania descrivono luoghi al di là di montagne di oscurità. Nablus, Ramallah, Jenin – tutte sono diventate simboli del regno del male in cui i nostri ragazzi coraggiosamente entrano ed escono, piuttosto che vitali città ad un passo da dove viviamo.

Ricordo molto bene la prima volta che ho fatto visita ad un amico a Jenin. All’inizio non riuscivo a capire le istruzioni che mi dava. Non mi sembrava logico di dover solo prendere l’ auto e guidare dritto fino da lui. Ero stupefatto nello scoprire quanto breve e facile fosse la strada.

Spaventoso ed esotico

Fauda non solo si basa sulla paura dei luoghi palestinesi, ma la amplifica, la legittima e la normalizza. I palestinesi sono raffigurati come creature esotiche che abitano luoghi dove solo i commandos si arrischiano ad avventurarsi. Il sionismo è riuscito a trasformare i palestinesi in personaggi esotici nella loro stessa patria.

Un argomento chiave che emerge in molte discussioni su Fauda è che questa serie in realtà rappresenta un programma umano, persino di sinistra, perché “mette in scena la complessità” e mostra che anche le persone sull’altro lato sono esseri umani.

Questo punto vale la pena di essere preso in considerazione per un momento, per poter valutare ciò che dice di noi come israeliani, se dopo così tanti anni di violento dominio su milioni di palestinesi emarginati abbiamo bisogno che ci si rammenti che anche loro sono esseri umani. Ma la pecca morale più grave di questa argomentazione è la simmetria che dichiara: guarda, ci sono persone su entrambi i lati.

Data la realtà imperante a Gaza, che anni fa un rapporto dell’ONU ha previsto sarebbe stata inabitabile entro il 2020 – una previsione avveratasi in anticipo – non esiste simmetria.

Da un lato c’è un luogo la cui esistenza per decenni è stata schiacciata da un regime di violenza, povertà, distruzione e morte, condotto da uno dei più potenti eserciti del mondo; sul lato opposto, quell’esercito mantiene un controllo assoluto sul destino dell’altro, senza nessuna intenzione di smettere.

Indescrivibili sofferenze

Fauda è stata creata da persone che svolgono un ruolo attivo in questo regime di controllo ed abuso. Questa serie TV è il prodotto di quella collaborazione e in quanto tale è per definizione illegittima.

E’ immorale trasformare la sofferenza della vittima in spettacolo per il carnefice. E’ immorale cedere ad un’assuefazione all’adrenalina a spese di coloro che sono nel mirino delle nostre armi. Gaza non è il set di una serie televisiva; è un luogo reale con persone reali che vivono indescrivibili sofferenze che noi israeliani imponiamo loro ogni giorno.

Sì, è importante conoscere ciò che succede a Gaza mentre si disintegra sotto l’assedio, ma non attraverso uno spettacolo per le masse. Potremmo, per esempio, ascoltare le voci dei giovani gazawi stessi attraverso l’importante sito web “We are not numbers” (“Non siamo numeri”).

E’ facile dire “al diavolo la politica e la moralità”, oppure “non c’è altra scelta che seguire la corrente” – ma si può sempre scegliere. Possiamo, per esempio, rifiutare di collaborare nel trasformare le vittime in divertimento per gli occupanti o in spettacolo per la comunità internazionale – proprio la stessa comunità internazionale che ha permesso che l’occupazione perpetuasse queste violazioni per così tanti anni.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Orly Noy è una giornalista ed attivista politica che vive a Gerusalemme

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)