Come nelle carceri israeliane i prigionieri palestinesi sono vittime di incuria

Lubna Abdelwahab Abuhashem

29 0ttobre 2022 We are not Numbers

Souad al-Amour, 65 anni, ha atteso a lungo il rilascio del figlio, Sami al-Amour, detenuto dal 2008. Le sue speranze, tuttavia, sono state distrutte perché Sami è morto in una prigione israeliana.

Il 39enne detenuto palestinese, condannato a 19 anni, è morto nel 2021 per un disturbo cardiaco. L’Israel Prison Service (IPS) [il servizio carcerario israeliano, sotto la giurisdizione del Ministero della Pubblica Sicurezza, è responsabile della supervisione delle carceri in Israele, ndt.] ha affermato che Sami aveva una malattia cardiologiaca congenita. “Nel corso dei 25 anni in cui ha vissuto con me Sami non è mai andato in ospedale per disturbi cardiaci”, racconta Souad. Ogni giorno si arrampicava e scendeva dalla erta collina a forma di cono vicina alla nostra casa”.

Souaad sapeva solo che in prigione suo figlio soffriva di problemi di stomaco e ipertensione. Nessuno sa come sto vivendo adesso. Non posso credere che sia morto. Non me lo sarei mai aspettato; non sapevo che negli ultimi tre mesi la sua salute si fosse deteriorata”, dice Souad.

Hussain al-Zuraei, un ex detenuto che si è trovato per un po’ insieme a Sami nella stessa prigione, ha detto a The Palestine Chronicle: Negli ultimi giorni Sami pesava 37 chilogrammi pur non conducendo nessuno sciopero della fame. Era strano. Abbiamo lottato con l’IPS affinché ricevesse le cure necessarie”.

Il giorno prima della sua morte l’IPS ha trasferito Sami all’ospedale con il Bosta, il veicolo carcerario israeliano con sedili di metallo, dove i detenuti palestinesi restano ammanettati per tutto il tragitto. E’ stato costretto a trasportare da sé la sua borsa con i vestiti.

Sami e gli altri detenuti sul Bosta hanno dovuto aspettare ore davanti all’ingresso per motivi di sicurezza. I detenuti hanno detto a Hussain che durante l’attesa le condizioni di Sami sono peggiorate, per cui hanno picchiato rumorosamente contro il metallo per far venire un’infermiera o chiunque altro. Nessuno ha risposto.

Hassan Kenita, a capo del dipartimento per gli affari dei detenuti e degli ex detenuti dei governatorati meridionali, ha detto a The Palestine Chronicle: Sami è un vivido esempio di una politica di incuria sanitaria. Logicamente, si dovrebbero seguire le procedure più immediate per portare un paziente in ospedale. Se avessero avuto davvero l’intenzione di salvarlo, le cose sarebbero andate diversamente. Invece lo hanno trasferito col Bosta, che non è attrezzato per i pazienti”.

Souad non ha ancora ottenuto il corpo di suo figlio poiché l’IPS rifiuta la richiesta di rilascio di un cadavere fino a quando non ha scontato tutti gli anni della pena.

Aspetto il suo corpo. Voglio vederlo. Piango fino all’ultima lacrima ogni giorno, si lamenta sua madre. Cosa accadrebbe se lo rilasciassero dal momento che è morto? Prendetevi cura degli altri detenuti. Mio figlio è morto. Eppure sono tanti i detenuti ancora nelle carceri”.

Ancora viva solo per aspettare

In lacrime, una madre palestinese ricorda come continui a contare insonne i giorni e le ore nell’attesa del prossimo incontro con suo figlio. Ogni due mesi compie un lungo ed estenuante viaggio di nove ore per fargli visita per 45 minuti.

La madre del detenuto israeliano chiede a Palestine Chronicle di non menzionare il suo nome poiché l’IPS le impedirebbe di far visita a suo figlio, condannato all’ergastolo, e per la preoccupazione che la pubblicazione delle sue sofferenze all’interno del carcere possa dar luogo a delle rappresaglie nei suoi confronti.

Nella mia ultima visita, il 23 agosto 2022, sembrava così stanco e mi ha detto che era rientrato dalla clinica tre giorni prima. C’era stato per essere sottoposto a ventilazione polmonare in seguito ad un attacco d’asma”, dice la madre del detenuto. Nel sentire questo non ho potuto fare a meno di scoppiare in lacrime. Non sono vicino a lui. Nessuno dei suoi fratelli è con lui”, afferma con dolore.

Suo figlio, in prigione dall’età di vent’anni, prima della detenzione non soffriva di alcuna malattia. Tuttavia ora, dopo aver scontato 21 anni di pena, soffre di ulcera allo stomaco, attacchi d’asma, anemia ed emorroidi. Ha subito quattro operazioni per le emorroidi ma tutte senza successo; non riesce ancora a sedersi correttamente.

“Ad ogni visita, gli dico: ‘Voglio rompere questo vetro che ci separa.’ Voglio solo allungare la mano verso mio figlio e toccarlo. È mio figlio e non posso toccarlo”, dice.

La madre è consapevole di non avere informazioni complete sulla vita in prigione di suo figlio. Mio figlio non mi dice tutto per evitare che io non mi abbatta”.

Tuttavia, Peraltro Alaa AbuJazer, un ex detenuto e rappresentante dei detenuti per il periodo 2006-2021, ha affermato che secondo le statistiche del 2019 il 90% dei detenuti nelle prigioni israeliane soffre di diversi tipi di problemi allo stomaco. La carne di pollo che mangiano i carcerati è disgustosa e non nutriente. Non ha nulla a che vedere col pollo”, dice Alaa.

Alaa spiega perché molti detenuti soffrono di anemia ed emorroidi: Una volta al mese ogni detenuto può acquistare tre chilogrammi di frutta e verdura. Quindi, ognuno compra circa due chili di verdure come cipolle e patate e un chilo di frutta. E a ciascuno di noi vengono consegnati a proprie spese 180 grammi di un qualche tipo di frutta al giorno. Per sentirci sazi facciamo affidamento principalmente su riso e pane”.

Tanti hanno le emorroidi poiché nel periodo dell’istruttoria i detenuti dormono per terra, che è umida. Con il pretesto di “motivi di sicurezza” le finestre delle stanze della prigione sono troppo piccole quindi il vapore proveniente dalla cucina e dalle docce calde le riempie. Non c’è ventilazione, così tanti detenuti hanno attacchi d’asma.

Mohammed Abuhashem, ricercatore legale presso il Centro palestinese per i diritti umani, ha chiarito: La Quarta Convenzione di Ginevra, nei suoi articoli (89-92), impone allo Stato detentore l’obbligo di garantire il diritto alla salute dei carcerati fornendo loro la necessaria assistenza medica, nonché condizioni sanitarie adeguate, tra cui un’alimentazione corretta ed equilibrata, misure di prevenzione sanitaria e strutture di detenzione adeguate. Tali diritti non possono essere alienati in nessun caso, nemmeno col pretesto di ragioni di sicurezza”.

Alcuni detenuti contraggono l’influenza molte volte senza essere curati. Quando diciamo loro che qualcuno ha l’influenza, dicono che deve prendere un antidolorifico e bevande calde. L’infiammazione in sede polmonare non trattata si aggrava e si trasforma in un attacco d’asma”, rivela Alaa.

La madre racconta che in una delle visite suo figlio le ha detto che se verrà rilasciato vuole che lei gli prepari delle verdure ripiene, una torta di spinaci e somaqia, un piatto palestinese. Continuo a pregare Allah di lasciarmi vivere fino a quando non verrà rilasciato per potergli preparare tutto il cibo che gli manca, dice la madre.

Kenita dice: Nel 1987 Ibrahim Alyan, un ex detenuto, ha sofferto di disturbi cardiaci e ha subito un intervento chirurgico a cuore aperto che ha avuto successo. È ancora vivo ed è molto attivo. Oggi, sotto i nuovi governi israeliani che impongono nuove politiche, se un detenuto ha l’ipertensione o il diabete, ci si aspetta il peggio: la morte. Nonostante Israele sia ora sicuramente più evoluto in campo medico che in passato”.

Abuhashem aggiunge: Le testimonianze secondo cui i detenuti subiscono le conseguenze di una sistematica e intenzionale incuria medica costituiscono forti indizi sulla possibile configurazione di crimini di guerra e potrebbero equivalere a un genocidio contro i detenuti palestinesi; tuttavia devono essere raccolte delle prove che dimostrino tali crimini. L’IPS deve aprire le carceri ad ispezioni e indagini internazionali in modo che il mondo intero possa sapere cosa sta succedendo contro i detenuti palestinesi all’interno delle carceri israeliane”.

Questo articolo è co-pubblicato insieme con Palestine Chronicle.

(tradotto dall’inglese da Aldo Lotta)




Dejà vu, in bianco e nero

Malak Reyad Alhaw

5 agosto 2022 –WeAreNotNumbers

Striscia di Gaza – L’odore di incenso si sprigiona dall’incensiere dorato in una sottile scia di fumo a zig zag. Mi piace quell’odore. La pace della mente, i complimenti che ricevo quando cucino un piatto gustoso e l’odore di incenso sono rituali indispensabili del venerdì.

C’è un altro evento che può rendere il 5 agosto un venerdì davvero eccezionale: è il giorno del matrimonio di mio cugino!

Mamma, qual è il vestito più carino? Quello bianco avorio o quello nero?” chiedo ansiosamente. “Quello nero”, mi risponde.

Mentre sollevo il vestito nero in modo da accostarlo a quello bianco avorio, una piccola mano mi batte sulla spalla. Mi giro piano e guardo in basso. È la mia nipotina Malak di 5 anni, una bimba dagli occhi luminosi, le guance rosse e affascinanti fossette. Mio fratello ha chiamato sua figlia come me perché sono l’unica sorella nella famiglia. Io e lei abbiamo in comune non solo il nome, ma anche il modo di parlare e sorridere e la timidezza.

Zia Malak, zietta, voglio accompagnarti, per favore”. Mi chino e la guardo negli occhi chiari; non riesco a dire di no quando li guardo. “Certo, cara”, rispondo. “Prima lascia che la mamma ti vesta.”

Le chiedo di andare piano mentre scendiamo le scale. Non sopporterei che si ferisse o si facesse male.

Una fiamma improvvisa si riflette nel vetro della finestra, seguita immediatamente da un devastante bombardamento. Non è una scia di fumo, è una massiccia nube nera insieme ad una fiammata rossa. Non spande incenso, ma polvere soffocante con terribili schegge e odore di esplosivo.

Sono una giovane di vent’anni di Gaza, che ha vissuto l’esperienza di cinque guerre israeliane. Quel che posso fare è chiudere gli occhi e fare un profondo respiro. Con gli occhi chiusi mi rivedo piccola e terrorizzata. Sono una bambina di sei anni in preda al panico, che chiede alla mamma: “Quando finirà l’operazione Piombo Fuso *?” Mia mamma risponde calma: “Andrà tutto bene”.

Sento delle grida e allora apro gli occhi. È mia nipote Malak che sta gridando come una pazza. Corre da me e mi si getta in grembo; mi abbraccia stretta. Posso sentire il suo cuore battere forte e il suo corpo tremare. Cerca aiuto da me, una protezione.

La mia calma e il mio contegno tranquillo la rassicurano. Non sa che dietro questa calma c’è una lotta violenta; non sa che dentro di me sto gridando e piangendo, proprio come lei. Non sa che mi ritrovo dentro l’operazione Piombo Fuso, cercando di assumere l’atteggiamento tranquillo di mia madre per darmi sollievo.

Le faccio una carezza e le dico: “Andrà tutto bene”. Lei annuisce più volte.

Un quarto d’ora dopo la piccola Malak si addormenta in braccio a me, stringendo con la manina la mia camicetta. La guardo in viso da vicino: le fossette sono sparite, le sue guance rosse sono diventate sottili e giallastre. La piccola Malak cede al sonno ed io ai miei pensieri.

Mi rendo conto che l’ennesima tortura che una persona può subire è fingere di star bene mentre affronta un conflitto interiore. Questa è la situazione degli adulti di Gaza durante ogni aggressione israeliana.

Mi rendo conto che il pensiero di trascorrere un venerdì eccezionale per via di un matrimonio è un errore di calcolo. A Gaza gli attacchi israeliani e le aggressioni possono verificarsi in ogni momento. Massacri e genocidi possono essere compiuti ogni volta che stanno per svolgersi le elezioni israeliane. I riti del venerdì possono essere rovinati da un inatteso scoppio di violenza.

Dopotutto, ogni abitante di Gaza è fatalmente segnato, sia che scelga di indossare il vestito bianco o quello nero. Uno è la divisa nera del lutto e l’altro è la bara bianca del martire.

* ‘Operazione Piombo Fuso’ è il nome che Israele ha dato alla sua guerra contro Gaza del 2008-09.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Le ripercussioni del trauma: Gaza, agosto 2022

Agosto 2022 – Wearenotnumbers

Sono praticamente le stesse notizie, gli stessi eventi, le stesse sensazioni di impotenza e di debolezza. Tutto quanto è familiare. Dai bambini uccisi senza pietà alla tristezza per i giovani le cui vite sono state strappate via a causa del trauma, alle donne che lasciano dietro di sé i propri figli. Mi sento svuotata dal continuare a scrivere della situazione a Gaza. Niente è cambiato. L’ultima aggressione contro Gaza è finita proprio ieri, ma la sofferenza è continua. Sono sicura che quelli che sono fisicamente sopravvissuti hanno perso qualcosa dentro di sé, o forse sono morti nell’anima. Cerchiamo di resistere a tutto questo, ai traumi, alle sconvolgenti perdite dei nostri cari. Dopotutto siamo persone. Dobbiamo chiedere che le aggressioni finiscano. Di fatto dobbiamo chiedere a Israele di smettere quello che sta facendo, che pare sia impossibile da ammettere per molti occidentali. Israele non è stato affatto provocato, eppure questa volta ci hanno massacrati senza ritegno.

Pochi giorni fa mi sono svegliata con la notizia che Gaza era sotto attacco. La prima cosa che ho pensato è stata: non c’è nessuno che ci aiuti. Ed è tristemente vero. Sono grata che questa pesante aggressione sia durata solo tre giorni, ma chi riporterà in vita i bambini che sono morti? Chi riporterà in vita Khalil Abu Hamada, figlio unico consegnato ai suoi genitori dopo 15 anni e sei cicli di fecondazione in vitro? Immaginate di avere un bambino dopo 13 anni di matrimonio e molti tentativi di rimanere incinta. Poi immaginate che dopo 19 anni dalla sua nascita lo perdiate! Chi curerà Soad Hassouna, che si era laureata con una media alta ed è stata recentemente registrata mentre parlava della sua aspirazione a diventare dentista, dai traumi che deve subire ora perché la sua casa è stata colpita da un attacco aereo? È stata ritrovata proprio fra le macerie. È stata tirata fuori, ma non si sa se sopravviverà. Ha anche perso suo fratello.

I bambini di Gaza sono abituati agli incidenti di guerra

Le mie piccole figlie ricordano vividamente la precedente aggressione,” dice Deema Aydieh. “Hanno aperto le finestre prima ancora che glielo dicessi io. Sapevano che in questo modo la nostra casa sarebbe stata più sicura, i vetri non si sarebbero rotti e non sarebbero andati in frantumi attorno a noi.

Hanno preparato i loro vestiti per la preghiera e mi hanno chiesto di impacchettare le nostre carte e le nostre cose importanti in modo da non dimenticarle se avessimo dovuto scappare improvvisamente da casa.

Per un momento mi sono sentita come se le mie bambine avessero acquisito troppo rapidamente anni di saggezza, benché i loro sogni e speranze siano molto semplici. Volevano solo essere al sicuro. Tutto ciò che volevano proteggere erano i loro vestiti e giocattoli favoriti e i soldi risparmiati dallo scorso Eid [festa religiosa musulmana, ndt.], che pensavano di utilizzare per comprare materiale scolastico. La loro infanzia è un insieme di innocenza e saggezza, cose che raramente vanno insieme. Ma è Gaza, la terra dei paradossi,” aggiunge.

È assolutamente chiaro che tali aggressioni, in altre parole, diventano traumi dolorosi che i bambini della Striscia di Gaza conoscono molto bene. Io stessa sono una sopravvissuta all’età di cinque anni e posso ricordare il momento in cui ero davanti alla finestra di un’aula scolastica e vidi la carne di esseri umani volare nell’aria durante un attacco aereo dei nostri occupanti israeliani. Ricordo lo shock e il freddo che avvolse il mio corpo. In quel momento tutto divenne bianco nella mia mente, tutto si fermò e c’era solo vuoto. Da allora la vita non è stata realmente importante, perché mi sono resa conto di quanto poco valiamo per il resto del mondo. Avvenne durante la seconda aggressione contro Gaza. Ricordo che ciò successe quando ero in una scuola della United Nations Relief and Works Agency [UNRWA, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, ndt.]. Per me è paradossale che esse vengano considerate rifugi sicuri, mentre Israele colpisce bambini, civili, moschee e persino scuole. In un attacco non ci sono posti sicuri a Gaza, e i gazawi lo sanno molto bene.

Le aggressioni israeliane contro i gazawi li lasciano traumatizzati

Una volta, mentre stavo parlando a una terapista, Cheryl Qamar, le chiesi se fosse vero che ogni gazawi soffre di disturbo da stress post-traumatico, o PTSD. Mi ha risposto che ogni essere umano che sperimenta questo tipo di incidenti soffrirà probabilmente di PTSD, quindi c’è una notevole probabilità che tutti i gazawi ne patiscano. Ha aggiunto che potremmo soffrire anche di CPTSD (disturbo da stress post traumatico complesso) in conseguenza del fatto di aver sperimentato traumi prolungati o ripetuti.

Ricordo quando la mia amica Raya ha visitato Gaza e mi ha chiesto cosa avessero ragazze e ragazzi di Gaza, perché tutti abbiamo paura dei gatti. Non ne sono sicura, ma penso che sia a causa del fatto che i traumi si manifestano in noi attraverso paure e fobie. Anch’io l’ho notato, in quanto sono solita aver paura dei gatti e anche di molte altre cose, ma, grazie a Dio, ho superato molte delle mie fobie e sto cercando di superare quelle che mi rimangono.

I giovani di Gaza si interrogano sulla loro situazione e sul loro destino

Mi domando se uccidere civili in tempo di guerra sia permesso, anche se per ragioni di autodifesa, e mi domando come possa essere accettabile uccidere Alaa Qadoum, di cinque anni. Alaa era solo una bambinetta e non era mai stata un pericolo per nessuno. Quest’anno l’avrebbero iscritta all’asilo.

Mi domando come possa essere in qualche modo vantaggiosa per Israele l’uccisione di Daniana Alamour, ventiduenne studentessa all’università Al-Aqsa. Daniana aveva la mia stessa età e viveva nel mio quartiere, studiava dove studio io. Entrambe amavamo l’arte, però lei era più intelligente e talentuosa, e prima di morire aveva fatto una serie di bellissimi ritratti e li aveva appesi nella galleria d’arte del nostro quartiere. Se agli occhi di Israele è lecito ucciderla, allora può essere molto probabile che uccidano anche me nelle future aggressioni.

Mi domando chi dovrebbe essere chiamato terrorista: Ashraf Al Qesi, che non ha esitato a consentire alla Difesa Civile Palestinese di demolire parte della sua casa per salvare i suoi vicini dopo che edifici accanto al suo erano stati distrutti dagli attacchi aerei israeliani, o chi spara contro i civili dal cielo.

La sofferenza che Israele provoca a Gaza non si limita alle aggressioni, ma va oltre. Israele ha imposto dal 2007 un blocco totale contro di noi. Qui alla gente non è consentito viaggiare se non per scopi specifici come salute e studio, e nonostante ciò possa essere la ragione, ho incontrato molti palestinesi che soddisfacevano le condizioni richieste a cui Israele non ha consentito di lasciare Gaza. Alcuni di essi hanno tentato invano molte volte di avere il permesso da Israele.

Mi ha fatto molto male quando il mio amico Hossam Abu Shammala ha detto di volersene andare all’estero perché in quel modo avrebbe vissuto una vita dignitosa. Intendeva dire che vivere a Gaza è una forma di umiliazione, ed è difficile da ammettere, però è vero. Ci vogliono un’incredibile forza, coraggio, spirito e resilienza per riuscire a vivere in un posto simile. Non si sa nemmeno quale sia il nostro destino di giovani. Quando guardiamo al futuro, tutto quello che vediamo è un caos totale. Non è che siamo intrinsecamente confusi o persi, è la situazione qui che ci rende infelici. Eppure cerchiamo di resistere e di trarre il meglio da questa situazione. Cerchiamo di vivere serenamente nella più grande prigione a cielo aperto del mondo, non sapendo quale crimine abbiamo commesso. Cerchiamo ogni giorno di avere speranza e ci riusciamo. A volte è molto duro, ma noi siamo dei sopravvissuti.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’immagine astratta del mio mondo

Nada Almadhoun

Striscia di Gaza – Wearenotnumbers

 

Pioveva quel giorno di dicembre quando, addossata a un muro sbriciolato di Omar Mukhtar Street a Gaza, aspettavo un’amica. Guardavo le gocce di pioggia cadere ed ero affascinata dalla scena: davanti a me c’era un muro sopravvissuto non solo ai conflitti antichi, ma anche a quello oggi al centro della mia vita e di quelle di tutti i palestinesi. Dentro questo vecchio muro c’erano tante storie che volevo raccontare con la mia arte.

Tornata a casa il mio sguardo è caduto sulla tela bianca intonsa appoggiata sul cavalletto nella mia camera da letto. Volevo realizzare un quadro realistico del muro, ma più dipingevo più diventava astratto. Un paradosso intrigante. Una volta finito mi è subito piaciuto da morire! Sebbene non sia uno dei miei migliori, ogni volta che lo guardo scopro significati segreti. Talvolta mi comunica la nostalgia per il tempo passato con gli amici che hanno lasciato Gaza per studiare all’estero. I suoi colori mi fanno venire in mente quelli del vecchio caffè dove, per l’ultima volta, io e il gruppo dei miei amici ci siamo incontrati e promessi di non essere tristi e di non piangere. È stata l’ultima promessa che ci siamo fatti prima di essere assorbiti dalle nostre vite. Anche se mi tengo in contatto con i miei amici, il quadro mi ricorda di quanto abbia bisogno di stare con loro e quando questo succede la nostalgia lascia il posto alla solitudine.

Quasi sempre però il dipinto mi rammenta che sono intrappolata dentro ai muri che circondano Gaza. Mi ricorda di quando avevo 17 anni ed ero superfelice perché avevo ricevuto una borsa di studio per un campo estivo per studenti delle superiori all’University of North Georgia. Io e tutti gli altri giovani di Gaza che conosco sogniamo un’opportunità simile, un’occasione per fare un’esperienza in un’altra parte del mondo. Ma da Gaza per andare negli Stati Uniti bisogna passare dalla Giordania perché in Palestina non c’è un aeroporto e agli abitanti di Gaza  è proibito volare da Israele. Per andare in Giordania avevo bisogno di un permesso di ingresso e anche di un nullaosta giordano.

Dopo che la Giordania me li ha rifiutati entrambi senza spiegazioni sono sprofondata in una grave depressione. Era la prima volta che mi capitava. Mi sentivo intrappolata, senza speranza di fuga. Prima che la Giordania mi negasse l’ingresso avevo un sogno, ma da allora credo sia inutile persino sognare. Non essere andata negli USA per il campo estivo quando ero una ragazzina è solo una delle conseguenze dell’occupazione israeliana della Palestina e del suo blocco di Gaza.

Quando guardo il mio quadro, la prima cosa che vedo sono muri dietro muri. Questo mi ricorda i muri invisibili della prigione che privano i gazesi dei loro diritti più elementari. La superficie annerita con cui ho reso il vecchio muro è una metafora delle vite deprimenti che noi palestinesi viviamo: a Gaza la disoccupazione è elevata, supera il 50%, e parecchi dei miei amici hanno cercato un lavoro per mesi senza alcun successo. Adesso abbiamo otto ore di fornitura elettrica al giorno. Ci sono stati periodi in cui il nostro accesso alla rete elettrica era ridotto a quattro ore. Non è mai sufficiente per vivere le nostre vite come vorremmo.

Le due strisce che si intrecciano e formano quattro angoli in basso a sinistra del mio quadro mi ricordano gli angoli della mia casa e le volte in cui ci siamo rifugiati lì durante gli attacchi israeliani. Uno che non dimenticherò mai è avvenuto la notte di Eid al-Fitr [festa per la fine del Ramadan, ndtr.]. Il bombardamento era intenso e c’erano esplosioni ovunque nella Striscia. Anche se ero già sopravvissuta a tre attacchi precedenti contro Gaza e pensavo di essermi abituata, quel giorno è stato veramente terrificante. Per prepararci, se ci fosse stata un’esplosione vicino a casa o se fossimo stati avvertiti che la nostra casa sarebbe stata bombardata dopo pochi minuti, io e la mia famiglia abbiamo raccolto le nostre carte di identità, passaporti e altri documenti importanti. Quella è stata una notte strana e diversa. Mi sono sentita obbligata a ispezionare ogni angolo della mia casa per mettere in salvo i ricordi delle nostre vite nel caso in cui quelli fossero i miei ultimi momenti nella nostra casa.

Guardando il quadro mi tornano in mentre altri muri che raccontano altre storie, come quella della mia amica Sally che ha visto la sua casa distrutta da un attacco israeliano. Quando è successo Sally ha solo detto: “Grazie a Dio è stato solo un danno economico, nessuno è rimasto ucciso.”

La mia opera non mi ricorda solo sofferenze e avversità. Il colore bianco che ho spennellato in mezzo e sul fondo della tela rappresenta la speranza. Ho ancora speranza, una speranza fondata sulla dedizione mia e degli altri giovani palestinesi di acquisire un’istruzione, di lavorare sodo per il nostro Paese e, un giorno, di metter fine all’occupazione.

Mi piace il modo in cui la mia opera racconta così tante storie. Mi piace che non imponga una narrazione precisa, ma che offra piuttosto frammenti di qualcosa di misterioso eppure familiare. Guardando il quadro sotto questa luce mi accorgo che rivela l’essenza della lotta palestinese come è incisa sui muri reali e invisibili di Gaza, muri che mi ricordano non solo la sofferenza provata durante l’assedio di Gaza o la paura sotto i precedenti attacchi israeliani, ma anche la speranza che un giorno la Palestina sarà libera.

NOTA. Il contenuto pubblicato dal sito WANN e dalle piattaforme social non è editato da Euro-Med Monitor [Euro-Mediterranean Human Rights Monitor Monitoraggio Euromediterraneo dei Diritti Umani, organizzazione non governativa con sede a Ginevra, ndtr.]. Esso rappresenta solo le opinioni dell’autrice e non riflette in alcun modo le politiche e le posizioni di Euro-Med Monitor

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’infanzia perduta di Ahmad Manasrah

Fedaa Alsoufi

16 marzo 2022 – We are not Numbers

Striscia di Gaza

Nota editoriale: questo articolo è una ricostruzione immaginaria di una giornata in carcere di Ahmad Manasrah, basata sui fatti come desunti da informazioni tratte da reportage, articoli di giornale ed una conferenza stampa rilasciata da suo padre nel marzo 2022.

Ahmad si sveglia solo in una buia cella del carcere di Ramla. Cerca di alzarsi, ma le mani ammanettate e le gambe incatenate rendono difficile qualunque movimento. E’un altro giorno in cui si sente annegare entro le quattro mura scure della cella, che opprime il suo sguardo e lo intrappola insieme ai suoi sogni.

Passa 23 ore in compagnia dei fantasmi dei soldati israeliani che lo hanno costretto con la forza ad ammettere di aver accoltellato un colono a 13 anni, quando non aveva né la forza fisica né la capacità mentale neanche di pensare di mettere le mani su un’altra persona. Quegli stessi soldati disumani gli hanno dato del bugiardo quando ha gridato: “Non riesco a ricordare. Portatemi da un medico, sono diventato pazzo. Per amor del cielo, credetemi!” Può uscire dalla cella solo un’ora al giorno, in cui riesce a godere della luce del sole e a respirare un po’ d’aria. Gli è impedito di comunicare con altri prigionieri palestinesi e gli sono vietate le visite dei familiari.

Cerca di passare le dita sulle doloranti ferite al collo per massaggiarle ed alleviarle, ma non fa che peggiorare il dolore. La frattura alla testa, che gli ha provocato un ematoma al cervello, gli impedisce di pensare al presente, consentendogli soltanto di rivivere frammenti di ricordi dei coloni israeliani che lo picchiano colpendolo alla testa e lo portano via su una macchina della polizia gridando a lui tredicenne: “Muori, muori, muori!”. Ricorda il suo sangue che si sparge su quella terra che conosce come le sue mani. La stessa terra ha accolto il corpo del suo cugino quindicenne Hasan, dopo che è stato ucciso per sbaglio quello stesso giorno.

Gli passano un piatto di cibo attraverso una finestrella nella porta della cella. Lui prende il piatto, ma pensa solo ai giorni in cui sua mamma gli preparava i suoi piatti preferiti. Li metteva in un elegante piatto bianco sul tavolo di famiglia e poi lo chiamava per venire a mangiare. Il disgustoso cibo del carcere è un modo per umiliarlo, mentre a casa era la maniera in cui sua mamma mostrava il proprio amore per lui e i suoi fratelli. Le prigioni israeliane trasformano ogni cosa bella che una persona abbia vissuto in un incubo spaventoso da cui cercare di fuggire.

Sente l’incessante suono delle sirene e gli insulti verbali delle guardie, ma l’unico suono che cerca di ascoltare è il cinguettio dei suoi canarini nel cortile della sua casa a Beit Hanina. Si chiede se i suoi uccellini sentano la sua mancanza e piangano per lui, proprio come faceva lui quando uno di loro se ne era andato. L’occupazione può rubare la loro libertà di attraversare il cielo e impedire loro di migrare a sud?

Adesso sono le 9 di sera. Cerca di pensare alle storie che un giorno racconterà ai suoi bambini. Gli dirà che gli israeliani lo hanno accusato di aver accoltellato un colono? O che lo hanno detenuto deliberatamente fino a quando ha compiuto 14 anni in modo che potesse essere ingiustamente giudicato come un adulto ed imprigionato per nove anni e mezzo? Dirà ai suoi figli che gli israeliani gli hanno vietato di sostenere gli esami di scuola superiore nel 2020, dopo che aveva passato un anno a studiare per questo? Si chiede se possa guarire dai disturbi mentali contro cui ora combatte, quando i lividi su tutto il suo corpo gli dicono che è impossibile. Come può parlare degli interrogatori brutali, delle violenze fisiche e psichiche subite e delle lotte psicologiche che deve sostenere con i demoni israeliani che non scompaiono mai?

Ahmad non è pazzo. Lo hanno fatto impazzire i maledetti israeliani. La sua salute sta peggiorando. E’ devastato dalle terribili condizioni del carcere e dai metodi senza fine di interrogatorio, dalla privazione del sonno e del riposo. Il barbaro Stato colonialista lo sta uccidendo lentamente. Soffre di continue emicranie e di forti dolori che gli provocano la perdita di controllo del sistema nervoso. Gli danno delle cure sbagliate e gli impediscono di ricevere un adeguato trattamento medico, cosa che peggiora la sua condizione. Gli israeliani lo trattano come un terrorista e un “criminale” sul quale intendono vendicarsi.

Ahmad non può più sopportare la fatica della sua mente, che lo ammorba con pensieri tossici. Trova rifugio nell’immaginarsi sotto l’ampio cielo blu, che vede riflesso nelle onde abbaglianti del Mediterraneo. Crea un’immagine di sé stesso che distende il suo corpo dolorante, il suo cuore palpitante e la sua mente intorpidita sulla sabbia dorata. Spera che il suo cuore possa trovare il modo di tornare alla normalità, come quando era un ragazzino che correva tra i campi occupandosi dei suoi uccellini e contando le stelle con la mente lucida.

Ahmad pensa ai suoi otto compleanni rimandati, alle migliaia di abbracci persi di sua madre e di suo padre e ai milioni di spericolate avventure giovanili che avrebbe dovuto vivere. Cerca di trovare tracce della sua infanzia, ma non ci riesce, perché non è mai esistita.

Per sostenere la liberazione di Ahmad, per favore firma l’appello

16 marzo 2022

TutoreSarah Jacobus

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




A Gaza i minori devono scegliere fra lavorare o patire la fame

Aseel Kabariti

26 settembre 2021We Are Not Numbers

Ci sono varie forme di lavoro minorile. Molti pensano a un bambino in fabbrica, ma talvolta è un ragazzino adorabile che al mercato ti tira per la manica. 

Per favore, vuole comprare un po’ della mia menta?”, mi chiede un ragazzino con un bel sorriso e un taglio di capelli decisamente cool.

Era una giornata di sole e il mercato di Al-Shejaiya risuonava di rumori: la gente si affollava intorno ai banchi, le voci dei venditori e compratori che discutevano sui prezzi. In tutto quel frastuono io e la mia sorellina riuscivamo a stento a sentirci. Stavamo facendo la spesa per il Ramadan quando è saltato fuori il ragazzo.

Invece ti farò una foto,” ho risposto, immortalando il suo sorriso radioso.

Mia sorella ha suggerito di postarla su Instagram, ma io ho esitato. Postare una foto carina avrebbe normalizzato questo tipo di lavoro infantile oppure attirato un’attenzione quanto mai necessaria?

Lavoro minorile a Gaza

Secondo un rapporto UNICEF del 2018 almeno un terzo delle famiglie palestinesi vive sotto la soglia di povertà e la disoccupazione nella Striscia di Gaza è attestata al 53,7%. Dall’inizio della pandemia la situazione è solo peggiorata. Di conseguenza il numero di minori che lavorano nei negozi di famiglia o come venditori ambulanti è cresciuto drammaticamente. A ogni angolo delle strade più popolari di Gaza City c’è almeno un bambino che prega i passanti di comprare qualsiasi cosa stia vendendo. Molti di loro non hanno scelta; quello che riescono a guadagnare potrebbe essere l’unica fonte di sostentamento della loro famiglia.

Il lavoro minorile è sempre un male?

L’Organizzazione Internazionale del Lavoro definisce lavoro minorile ogni attività lavorativa “che priva i bambini e le bambine della loro infanzia, delle loro potenzialità e dignità e che danneggia il loro sviluppo fisico e mentale.” La Convenzione sull’età minima del 1973 “fissa a 15 anni (13 per i lavori leggeri) l’età minima generale per lavorare.”

Per fare l’avvocato del diavolo, queste definizioni, seppure moralmente ben intenzionate, non considerano le specifiche condizioni ed esperienze personali di un bambino lavoratore. Ci sono tre punti importanti da prendere in considerazione.

Primo, le organizzazioni internazionali hanno fissato l’età senza tener conto delle specifiche circostanze di ogni Paese. Ci sono molte famiglie a Gaza che dipendono totalmente dai figli per contribuire a fornire il supporto essenziale per sbarcare il lunario come comprare cibo e acqua. Se qui si seguissero le leggi internazionali e questi ragazzi non potessero lavorare, alcune famiglie morirebbero letteralmente di fame. Davanti alla scelta fra farli lavorare o lasciar morire di fame dei familiari, voi cosa scegliereste?

Secondo, ci sono doppi standard quando si tratta di decidere se il lavoro di un minore è un bene o un male. Per esempio, la società accetta che i minori lavorino come modelli, musicisti e attori, ma non in un negozio o magazzino. L’argomento principale è che quest’ultimo tipo di occupazione depriva i bambini della loro infanzia e non li aiuta a migliorare le proprie competenze.

Ma lavorare in un negozio o vendere qualcosa a un cliente può in realtà aiutarli a imparare e crescere, migliorare la comunicazione, la capacità di essere un leader e un buon venditore. E il lavoro può insegnare ai minori molte cose pratiche che non imparerebbero frequentando la scuola media e che potrebbero aiutarli a ottenere lavori migliori in futuro. Terzo, lavorare e andare a scuola non si escludono a vicenda. Anzi quasi tutti la frequentano. E lavorare può aiutarli nel loro percorso educativo, specialmente in questo periodo in cui è necessaria una connessione internet, soprattutto dopo lo scoppio del COVID-19 che ha spostato quasi tutta l’istruzione online.

Cosa dovremmo fare?

Il ragazzino che io e mia sorella abbiamo incontrato al mercato è stato costretto a passare la sua infanzia lavorando. Condizioni sociali, politiche ed economiche che non può controllare hanno definito la sua vita. Non dovrebbe lavorare per far sopravvivere la propria famiglia, ma la soluzione non è criminalizzare il lavoro minorile a Gaza. Si dovrebbe invece sostenere lo sviluppo economico e creare lavoro, insieme a un sostegno educativo e sociale per questi minori. E per quelli che devono lavorare ci sono alcuni benefici educativi e non dovrebbero necessariamente essere considerati in modo diverso da quelli di ogni bambino attore o musicista.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Amici, studenti-prigionieri

Israa Musaffer

6 settembre 2021 – We Are Not Numbers

Sto parlando della libertà che non ha prezzo, la libertà che è essa stessa il prezzo”.

La citazione di Ghassan Kanafani è la prima cosa che mi è venuta in mente quando ho saputo che miei colleghi ed amici erano stati imprigionati.

Alla fine del 2019 ho iniziato il mio ultimo semestre all’ università di Birzeit, nella Cisgiordania palestinese, seguendo con ansia le mie lezioni in attesa del giorno della laurea. Tuttavia le circostanze hanno impedito che questa gioia si realizzasse ed una di tali circostanze è stato l’arresto dei miei amici.

Vedevo questi colleghi ogni giorno al campus dell’università, sentivo le loro voci, le loro risa e il loro chiamarsi per nome a vicenda. Ma le forze militari israeliane ci hanno di fatto impedito di vedere i loro sorrisi nel campus universitario ed hanno impedito alla luce del sole di raggiungere i nostri occhi.

I miei amici erano impegnati nelle elezioni studentesche, ma gli israeliani non hanno fornito chiare motivazioni per il loro arresto, salvo desumere nel corso degli interrogatori che erano membri di un gruppo terroristico.

L’amore per la nostra patria è forse un crimine per cui uno studente universitario possa essere imprigionato e impossibilitato a terminare il suo percorso di studi?

La nostra nazionalità palestinese è un peccato per il quale meritiamo di essere puniti ogni giorno?

Noi resistiamo, amiamo la vita e risplendiamo nonostante le sofferenze. Ecco come è la vita di uno studente palestinese quando viene deliberatamente privato dell’attività accademica.

Io non ho vissuto direttamente la dura esperienza del carcere, ma ho compreso la sua amarezza quando ho parlato con i miei amici ed ho ascoltato da loro la sofferenza fisica e psicologica che hanno patito nelle buie celle.

Lo spirito della resistenza

Vedevo spesso il mio amico Amir Hazboun ridere nel campus universitario, solido come l’acciaio, un amico fedele per i suoi compagni. Hazboun era al suo quarto anno di università, si stava specializzando in ingegneria meccanica.

Nei primi momenti dell’arresto provi una forte paura, soprattutto se è la tua prima esperienza”, mi ha poi detto Amir. “Non sei abituato ad avere un fucile puntato contro di te e ad essere gettato violentemente a terra. In questi momenti inizia l’ignoto. Cominci a porti domande del tipo: Sto sognando? Dove andrò? Mi picchieranno? Come mi comporterò durante l’interrogatorio? Ti attraversa la mente una sequenza di immagini e ricordi.

Dopo un certo tempo in cui subisci pestaggi e violenze, incominci a cercare di non spezzarti, anche se ti senti sopraffatto. Quanto alle manette e agli occhi bendati, dopo un po’ incominci a cercare di adattarti. Non puoi camminare se non c’è uno dei soldati che ti tiene e cammina con te, e allora hai una sensazione di impotenza e debolezza. Ti buttano fuori al freddo per ore: allora ogni prigioniero sente di perdere le forze poco a poco, ma cerca anche di mantenere la calma e in tutto il periodo di detenzione loro tentano di isolarti e di indebolirti, con tutta la sofferenza che ne deriva. Il prigioniero cerca di mantenersi saldo ricordando alcuni episodi e situazioni che dimostrano la sua forza, e l’amore della gente per lui, e questo aiuta nella fase di scontro.”

Uno studente di soli vent’anni merita questi tormenti? Qualunque altra persona li merita?

Ricordo le elezioni universitarie in quel semestre e le attività studentesche di quel periodo, l’atmosfera democratica in tutta l’università e gli studenti che esprimevano il desiderio di scegliere i propri rappresentanti di fronte all’amministrazione dell’università. La partecipazione degli studenti nel processo decisionale è uno dei loro diritti all’interno dell’università, perciò perché l’occupante israeliano persegue gli studenti per la loro legittima partecipazione politica?

Ho molti amici e colleghi ancora in carcere, soggetti a violenze quotidiane, soprattutto nel corso degli interrogatori in cui possono essere soggetti a forme brutali di tortura fisica e psicologica.

Sottoposti a interrogatori brutali

Q.M. era uno studente al terzo anno, specializzando in scienze informatiche, quando è stato arrestato il 2 settembre 2019. Ha trascorso un anno e mezzo in un carcere in Israele. Anche lui ha subito una dura esperienza fin dal momento dell’arresto.

Mi ha chiesto di non usare il suo nome per esteso per via delle minacce che gli studenti universitari palestinesi subiscono ogni giorno a causa dell’occupazione.

Durante la nostra conversazione Q.M. mi ha spiegato come si è svolto il suo brutale arresto, improvviso e scioccante, quando la porta di casa sua è stata sfondata. Ha descritto la violenza e le grida, oltre alla pressione psicologica e le percosse fisiche di fronte alla sua famiglia.

Una delle cose che mi hanno detto che mi è rimasta in mente”, dice”, è questa: ‘Voi palestinesi non siete niente e non diventerete mai esseri umani in tutta la vostra vita. Voi siete animali e a noi piace darvi la caccia’”.

Q.M. ha descritto la paura e l’angoscia che ha provato durante gli interrogatori, quando venivano fatti i nomi dei suoi amici e familiari per fargli pressione perché confessasse qualcosa che non aveva fatto. “Durante il mio arresto, mentre mi caricavano sulla jeep militare, i soldati hanno appositamente nominato alcune persone che conosco che non erano agli arresti. Parlavano di un’operazione a cui ritenevano che io avessi partecipato. Hanno registrato un video di loro che mi accusano in ebraico di far parte del gruppo che ha compiuto questa operazione” – stavano cercando di spingerlo a confessare – “ma io sono riuscito a capire di che cosa stavano parlando perché conosco l’ebraico. Aspettavo il momento in cui avrei potuto difendermi. Ho detto che non avevo fatto nulla del genere perché non vi avevo assolutamente partecipato.”

Gli aspetti peggiori del trattamento israeliano durante l’arresto e la detenzione sono i problemi di salute e psicologici che patiscono i detenuti. “Durante l’interrogatorio mi hanno rotto parecchi denti e il dolore era molto forte, per cui non potevo mangiare il cibo che mi portavamo”, racconta Q.M. “Per tutto il periodo dell’interrogatorio ho sofferto per un dente rotto senza ricevere le cure necessarie. Mi davano solo un analgesico al giorno e quando ho finito l’interrogatorio mi hanno portato in una misera clinica dove mancavano gli standard sanitari di base e dove mi hanno estratto i denti senza alcuna anestesia.”

Amir e Q.M. sono solo due tra i tanti. Alla fine di marzo 2021 il numero di prigionieri e detenuti nelle carceri israeliane è arrivato a circa 4.450, comprese 37 prigioniere donne. Tre di loro sono giovani colleghe dell’università, mentre ci sono circa 140 minori detenuti.

L’occupazione israeliana crea ostacoli alla nostra vita di studenti universitari e siamo in ogni momento passibili di essere arrestati senza accuse.

Tutto ciò richiede l’intervento delle organizzazioni per i diritti umani. Le voci degli studenti palestinesi devono essere ascoltate. Io sono una studentessa palestinese. Ho il diritto di portare a termine la mia educazione in modo pacifico ed ho il diritto di sentirmi sicura all’interno delle mura universitarie. È mio diritto alzare la voce e dire: “Merito una vita decente, non sono un numero che viene citato nelle notizie dei quotidiani.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




I tormenti di un medico

Hanan Abukmail

28 giugno 2021 – We Are Not Numbers

Sono passate settimane dalla fine della quarta guerra di Israele contro Gaza. E anche se il mondo è andato avanti, qui a Gaza siamo rimasti a raccogliere i cocci. Ed io? Mi ritrovo a mettere in discussione la mia decisione di fare il medico. Forse è sufficiente leggere una sezione del mio diario per capire perché.

In questi giorni il mio ospedale è pervaso dall’odore del sangue e della morte. Come descriverlo, se non siete mai stati in sua presenza? L’odore è paragonabile al fumo, mi penetra le cellule senza permesso, mi fa sentire debole e nauseata. A volte sono costretta a fuggire in un’altra stanza prima di poter fare ritorno.

Mi rivedo nel 2014, quando ho iniziato il percorso per diventare medico. Quello che è stato il più lungo attacco militare di Israele fu devastante, ma mi ispirò a inseguire il mio sogno d’infanzia di diventare un angelo bianco.

Ed ora eccomi qui sette anni dopo, medico sopravvissuto ad un altro brutale attacco israeliano, a farmi le seguenti domande. Per quanto tempo ancora il mio cuore potrà sopportare di essere testimone dell’uccisione di tutte queste vite? Perché sono nata in questo Paese? Perché ho scelto questa professione?

L’inimmaginabile si ripete

Lo scorso 15 maggio, in piena notte, l’aviazione di Israele ha attaccato un edificio residenziale di proprietà della famiglia di Abu Hatab. L’unico sopravvissuto al genocidio di un’intera famiglia è un bambino di cinque mesi.

Il giorno dopo questa distruzione è iniziata la peggiore notte di bombardamenti. Shimaa’ Abu Alaouf, studentessa ventunenne al terzo anno di odontoiatria, è stata uccisa. Avrebbe dovuto sposarsi il mese dopo con l’uomo che amava, Anas. Probabilmente sognava il giorno della sua festa di laurea, il lavoro di dentista, dei bimbi da crescere in una casa sua. Ma invece la futura sposa, insieme con il suo amore e le sue passioni, è finita sepolta dagli attacchi aerei israeliani che ne hanno distrutto la casa.

I nostri ospedali sono sommersi dall’ingente numero di vittime. L’ospedale di Al-Shifa, che è quello centrale nella Striscia di Gaza, ha una capacità di 250 posti letto soltanto. Tuttavia negli ultimi giorni questa capacità è stata di gran lunga superata. Registriamo una grave carenza nella banca del sangue centrale. Non abbiamo abbastanza posti letto, non abbiamo abbastanza sangue.

Il mio negozio di fiori preferito in via Al-Wehda è stato bombardato. Compravo qui ogni fiore da regalare ai miei cari e lo accompagnavo ad un biglietto che diceva: “Abbi cura di te, caro/a.” Ci andavo spesso, non fosse altro per guardare i fiori. Ora non ci sono fiori da vedere né fiori da regalare né messaggi di affetto da mandare.

Più di dieci famiglie sono state cancellate dal registro dell’anagrafe. Ripeto: oltre dieci intere famiglie non ci sono più.

Prima mi addormentavo presto e non vedevo l’ora di andare al lavoro. Mi imponevo di cancellare i miei pensieri e di aprire il cuore ad ogni passo che facevo. Respirando a pieni polmoni nella luce del mattino, al mio arrivo in ospedale mi sentivo allegra, rinnovata e pronta ad iniziare la giornata.

Ma adesso il rumore del mio pianto è più forte del suono dei razzi che cadono sulla testa del mio popolo.

La paura per i sopravvissuti

Ore dopo, guardo e aspetto mentre le persone vengono estratte dalle macerie. I vivi e i morti aspettano di essere trovati.

La maggior parte delle persone che curo in ospedale quasi non riescono a credere di essere vive. I loro visi sono affranti e sconvolti. Ho paura per i miei pazienti. Ho paura per i superstiti trovati fra le macerie. Ho paura per le loro famiglie. I danni mentali che derivano dal trauma di essere letteralmente sepolti prima di essere alla fine salvati sono enormi: battito cardiaco accelerato, inalazione di polvere e tossine, lacerazioni alla pelle causate dalle schegge e la persistente paura di essere intrappolati senza venire mai trovati. Alcuni dei superstiti si dissanguano lentamente e muoiono a pochi minuti dalla rianimazione. Come affronteranno la situazione i familiari che li stavano aspettando?

Per noi che viviamo sotto l’occupazione di Israele e sotto la minaccia di venire bombardati in qualsiasi momento, il tempo che intercorre fra la vita e la morte è solo questione di minuti.

In continuazione Israele viola i nostri diritti umani e le convenzioni internazionali prendendo di mira civili disarmati e presidi sanitari. Sappiamo che la guerra ritornerà, se non l’anno prossimo, quello successivo o quello ancora dopo. Ho paura e faccio tutto ciò che posso per sopravvivere e servire il mio popolo.

Tuttavia, al di là della mia paura, abbiamo visto e toccato con mano la solidarietà e la speranza da parte di una comunità internazionale di attivisti e altri sostenitori. Questo ci dà la speranza che ci serve per andare avanti e continuare a lottare.

 (traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)




Che genere di resistenza fareste?

Basman Derawi

7 giugno 2021 – We Are Not Numbers

Caro mondo,

che genere di resistenza volete che io faccia? Armata, disarmata, o niente del tutto, solo morire in silenzio in modo da non disturbarti?

Che genere di resistenza fareste voi se la vostra casa fosse stata rubata, se la vostra vita fosse solo un grumo nelle mani di qualcun altro? Di qualcuno che dice che il suo dio gli ha promesso la vostra terra?

Caro mondo,

immagino di camminare nelle strade di Sheikh Jarrah e trovare Yacoub (il colono) sulla porta della mia casa, che mi ordina di demolire la mia stessa casa, pezzo dopo pezzo, o di pagarlo perché lo faccia mentre io sto a guardare.

Immagino i giornalisti arrestati semplicemente perché fanno il loro lavoro, documentano i nostri tentativi di resistere, e i capi della protesta, arrestati nelle loro case, circondati da pericoli.

Non è così diverso da qui, quando cammino per le strade di Gaza, immerse nel buio (non c’è elettricità). Sento i droni che sibilano nelle mie orecchie. Vedo i calcinacci di un edificio, sento l’eco spettrale di bambini che piangono, la loro casa finita in un’esplosione di polvere.

Una guerra è finita, un’altra arriverà.

Caro mondo, non ho forse il diritto di resistere? L’occupazione è sempre giusta? Voi non fareste lo stesso se foste nei miei panni?

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Un “figlio” di Gaza che lascia il segno nel mondo  

Israa Mohammed Jamal

 

1 maggio 2021 – We Are Not Numbers

 

Al centro di Gaza City si trova piazza Palestine, luogo di ritrovo per famiglie in giro per compere, coppie a passeggio, operai in pausa pranzo. In mezzo ormai da anni c’è la Fenice, un aggraziato uccello di bronzo con le ali rivolte verso il cielo come fosse in procinto di spiccare il volo.

Qualunque passante incontriate nei pressi vi saprebbe spiegare che cosa significhi quell’uccello mitologico per il popolo palestinese. La leggenda vuole che la fenice sia risorta dalle ceneri nel bel mezzo della distruzione. Ma da chi e quando è stata creata quella statua?

A Gaza ormai poche persone se ne ricordano, ma l’artista è Iyad Ramadan Sabbah, uno dei più affermati figli della Striscia (e mio cugino da parte di madre), che vive in Belgio. Le sue opere sono esposte in tutto il mondo, in particolare in Francia, Italia, Portogallo, Repubblica Ceca, Egitto, Oman, Tunisia, Marocco, Cina, Turchia e Sud Corea. Però le radici di Sabbah, così come la sua ispirazione, restano a Gaza, Palestina, lì dove hanno avuto origine.

 

Nascita di un artista

La famiglia Sabbah è originaria del villaggio di Bareer, cittadina palestinese a nord di Gaza distrutta nel 1948 durante la Nakba (“catastrofe” in arabo, la distruzione di massa in cui gli abitanti diventarono profughi dopo la creazione di Israele). In seguito i suoi genitori si trasferirono per lavoro in Arabia Saudita, dove [Iyad] nacque nel 1973.

 

Dopo che la madre morì in un incendio e il padre di un attacco di cuore, Iyad andò a vivere a Gaza. Era il 1982 ed aveva solo nove anni. Scoprì la sua passione alcuni anni dopo, quando frequentava la prima media in una scuola dell’ONU.

“Il mio insegnante di matematica si chiamava Ibraheem Alssawalhi. Ricordo ancora il suo nome. Insegnava anche arte e ci mostrò tantissimi colori. Tutte quelle tonalità diverse mi fecero venire voglia di provarli,” mi dice Iyad su Messenger. “Un giorno ci chiese di dipingere il mercato rionale, e io lo feci. Quello che avevo disegnato gli piacque e lo mostrò a tutti gli altri studenti ed insegnanti a scuola. Fu quello a motivarmi.”

Nelle lezioni di arte imparò a realizzare semplici sculture di legno. Poi Iyad entrò in un circolo artistico e divenne il presidente del gruppo. In seguito ottenne una laurea in belle arti in Libia, dove all’epoca gli studi universitari erano gratuiti. In base al Protocollo di Casablanca firmato nel 1965 [accordo tra Paesi arabi riguardante lo status dei palestinesi, ndtr.] la Libia fu uno dei primi Paesi a consentire ai palestinesi di entrare e di avere accesso ad occupazione e istruzione alla pari dei suoi cittadini.

Una guida per gli altri

Iyad ritornò nel 1998 per insegnare arte all’Università Al-Aqsa di Gaza. Questo periodo coincise con la firma degli Accordi di Oslo [siglati nel 1993 tra il primo ministro israeliano Rabin e il leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Arafat, ndtr], che portò ad un’ondata di ottimismo e alla creazione di un nuovo governo. l’Autorità Nazionale Palestinese. I primi dirigenti [dell’ANP] si concentrarono sulla creazione di istituzioni quali scuole e ospedali. Fu in questo contesto che nel 2000 l’autorità municipale di Gaza organizzò un concorso pubblico per mutare l’aspetto della città. Fra i ventidue progetti presentati, vinse quello di Sabbah.

“La Fenice è stata la mia prima opera pubblica a Gaza e mi ha fatto conoscere alla gente,” ricorda Iyad. “È stata la prima di questo tipo – fatta di fibra di vetro, invece di uno stampo di cemento come era d’uso a quel tempo.”

Iyad continuò a creare molte altre opere di arte pubblica che fossero motivo di ispirazione ed orgoglio per la futura generazione di palestinesi. Sempre a Gaza City creò il Milite Ignoto, la Fontana della Sirena e una statua equestre che divenne il simbolo dell’Italian Complex [centro commerciale distrutto dall’aviazione israeliana durante l’attacco dell’agosto del 2014, ndtr]. Nella città meridionale di Khan Younis si trovava l’opera su commissione la Statua del Ritorno e nella vicina Rafah la Statua del Martire.

Oggi tutte le sue creazioni, ad eccezione di tre, sono scomparse – distrutte durante tre successive guerre con Israele fra il 2008 e il 2014, o smantellate con l’accusa di “idolatria” blasfema dal governo di Hamas dopo che assunse il potere nel 2006.

Le statue che rimangono sono la Fenice, la Statua del Ritorno ed una scultura per bambini disabili a Gaza City chiamata Lakfee Aldonya Makan, che in arabo significa “Hai un Posto nella Vita.”

“Vedere distruggere le mie creazioni mi ha causato frustrazione e dolore – soprattutto quando ciò è stato opera del mio stesso governo,” si rammarica.

Commemorare il dolore

Ciò nonostante Iyad non ha mai smesso di creare e donare alla sua gente. Quando Israele scatenò la guerra contro Gaza nel 2014, venne ucciso il figlio di un suo caro amico.

“Andai col mio amico in ospedale a cercare suo figlio, che faceva da guida ad alcuni giornalisti nel quartiere di Shuja’iyya. L’ospedale era stracolmo di morti e feriti,” ricorda, descrivendo la giornata di luglio in cui almeno 55 civili vennero uccisi nello spazio di 24 ore. “Trovammo il corpo del figlio del mio amico fra i morti.”

In ricordo di quel giovane Iyad creò Tahalok, che in arabo significa “esausto”. Nell’allestimento sette statue di argilla si trascinano da Shuja’iyya verso la spiaggia – sono uomini e donne, adulti e bambini dall’aspetto spossato, macchiati di rosso. Una delle statue è stata in seguito portata in Cisgiordania ed è esposta a Betlemme nel museo Banksy all’interno del Walled-Off Hotel [costruito lungo la barriera di separazione israeliana, è l’hotel del famoso artista Banksy, che lo pubblicizza come “l’albergo con la vista peggiore del mondo”, ndtr]. Le altre statue sono custodite nella sua casa di Gaza, dove attualmente vivono alcuni parenti. 

“Guerra e sradicamento sono temi perenni nella vita palestinese,” spiega Iyad.

Iyad aveva conseguito la laurea magistrale al Cairo nel 2006 e nel 2015 era andato in Tunisia per concludere un dottorato iniziato online. Quando in autunno venne invitato ad una mostra in Belgio, decise di chiedervi asilo e da allora quello è diventato il suo Paese di residenza.

“Però Gaza, la Palestina e la causa palestinese saranno sempre il fulcro della mia opera artistica,” dice Iyad.

Fa quello che può per sostenere chi è rimasto e lotta sotto l’occupazione. “Gli artisti di Gaza hanno tante idee ed esperienze, e hanno anche l’energia creativa per esprimersi, ma il blocco costituisce una grossa barriera fra loro e le esposizioni internazionali.”

La scarsità delle materie prime a Gaza costituisce un altro ostacolo significativo, specialmente per gli scultori. “È difficile trovare le fonderie, la lega di bronzo e i materiali speciali necessari per gli stampi,” spiega Iyad. Fa del suo meglio per aiutare gli artisti di Gaza a elaborare le loro opere e a condividerle con chi sta all’estero. Iyad ha aperto un canale YouTube per spiegare come crea la sua arte e condivide anche le opere di artisti gazawi sulla propria pagina Facebook.

Iyad è simile ad un uccello che è riuscito a fuggire da una grande gabbia. Nonostante lui sia libero, però, il suo cuore rimane laggiù, con gli altri uccelli in gabbia.

mentore: Pam Bailey

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)