Secondo un ministro Netanyahu appoggia il congelamento dei fondi per le aree arabe

Redazione di MEMO

8 agosto 2023 – Middle East Monitor

Il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich [del partito di ultradestra dei coloni, ndt.] ha confermato oggi che il primo ministro Benjamin Netanyahu appoggia la sua decisione di sospendere un programma di istruzione superiore per Gerusalemme Est occupata, tra crescenti proteste dell’opinione pubblica e accuse di razzismo.

Smotrich ha ribadito che i fondi destinati allo sviluppo economico nelle città arabe nello Stato di apartheid non saranno trasferiti come inizialmente pianificato.

Egli ha affermato al canale pubblico Kan: “Mi sto coordinando con il primo ministro. L’ho incontrato e gli ho spiegato ed egli supporta questa posizione. Ho ricevuto il suo consenso”.

“La decisione è finale, lo stanziamento non sarà trasferito,” ha aggiunto Smotrich. “Se troviamo modalità per trasferire davvero denaro ai cittadini arabi di Israele, allora aiuteremo ove necessario.”

Il capo del partito Sionismo Religioso ha dichiarato che la sua decisione è stata presa per evitare che i fondi cadano sotto il controllo del crimine organizzato. Ha anche dichiarato che promuovere l’istruzione superiore tra i palestinesi a Gerusalemme Est favorisce l’estremismo e perciò non è in linea con gli interessi israeliani.

Il governo attuale, ha spiegato, “non è vincolato” ad una promessa fatta dal precedente ministro dell’Interno Ayelet Shaked [del partito di estrema destra Yamina, ndt.] al capo del partito Ra’am [arabo di orientamento religioso che faceva parte della precedente coalizione di governo, ndt.] Mansour Abbas.

In risposta, il capo dell’opposizione Yair Lapid questa mattina ha stroncato Smotrich su Twitter, affermando che “contrariamente alle sue bugie, gli stanziamenti congelati da Smotrich per le autorità locali arabe non sono relative ‘all’impegno del precedente governo’ nei confronti del settore arabo”.

“Smotrich maltratta i cittadini arabi solo perché sono arabi,” ha continuato, aggiungendo di “vergognarsi che il razzismo sia diventato una politica ufficiale dello Stato di Israele.”

Il congelamento dei fondi per l’istruzione dei palestinesi a Gerusalemme Est avviene nonostante funzionari per l’istruzione e per la sicurezza, incluso il capo dello Shin Bet [servizio di sicurezza interna, ndt.] e il consiglio di sicurezza nazionale israeliano, dicano che finanziare l’istruzione superiore per i palestinesi diminuirebbe il terrorismo.

Il ministro dell’intelligence israeliana Gila Gamliel ha criticato la decisione di Smotrich, sottolineando il fatto che l’inclusione della popolazione araba nelle università porta significativi benefici sociali, economici e di sicurezza.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




L’opposizione in Israele è solo per gli ebrei

Editoriale Haaretz

14 marzo 2023 Haaretz

I capi dei partiti ebraici di opposizione non perdono mai l’opportunità di ripetere l’errore di aderire ad una politica separatista che potrebbe davvero tenerli per sempre all’opposizione.

Questa settimana hanno orgogliosamente annunciato che se le leggi del golpe giudiziario verranno portate in parlamento per la votazione finale essi boicotteranno il voto. Questa è certamente un’importante e meritevole dichiarazione. Ma nella dichiarazione congiunta emessa dal capo di Yesh Atid Yair Lapid, dal capo del National Unity Party Benny Gantz, dal capo di Yisrael Beiteinu Avigdor Lieberman e dalla capa del Labor Party Merav Michaeli, si notava l’assenza di due persone – i capi dei due partiti arabi dell’opposizione, Hadash-Ta-al e la Lista Araba Unita (UAL).

I quattro leader ebrei dell’opposizione hanno mostrato unità nel dichiarare che faranno ogni cosa in loro potere per bloccare ciò che definiscono “un insano insieme di leggi”. Hanno sottolineato che “l’unità nazionale inizia con un dialogo sincero e fin quando la legislazione non sia bloccata resta una mera illusione.”

Ma quanto vale questa unità se esiste solo tra gli ebrei? E che forma assume la battaglia contro questa “insana” legislazione se esclude dalle sue fila i rappresentanti eletti dei cittadini arabi israeliani – la minoranza contro la quale è diretto il golpe, la prima minoranza che ne subirà i danni e, in larga misura, la sua principale vittima?

Lapid, il capo dell’opposizione, purtroppo sceglie di incitare contro gli arabi, come è sua abitudine, piuttosto che porgere ad essi una mano per costruire un’alleanza civile abbastanza ampia perché ebrei e arabi marcino insieme.

Il golpe giudiziario di Israele

Interrogato sul perché i leader dell’opposizione araba fossero assenti dall’incontro dei capi dell’opposizione ebrei, ha risposto che il capo della UAL Mansour Abbas è stato invitato ma non si è presentato, mentre il capo di Hadash- Ta’al Ayman Odeh “collabora con il Likud”, il partito del Primo Ministro Benjamin Netanyahu.

Questa risposta non è che demagogica, del genere usato da Netanyahu. A differenza di Lapid, Lieberman e Gantz, Odeh non ha mai lavorato con Netanyahu e di sicuro non “lavora con il Likud.” E’ anche ragionevole ritenere che non abbia intenzione di lavorare con Netanyahu in futuro, sia a breve che a lungo termine.

Da uno che pensa di guidare l’opposizione, di opporsi ad una destra guidata da Netanyahu, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir e di lottare in nome della democrazia liberale, non ci si aspetta che dica cose del genere.

Di fatto ha il dovere di creare un’alleanza con la minoranza araba, di impegnare tutta la sua forza politica per porre le fondamenta di una sincera e solida collaborazione tra ebrei e arabi, di abbattere i muri della paura e dell’odio e di superare gli ostacoli ad una simile collaborazione. Perché solo insieme ci può essere una motivazione o una possibilità di sostituire il governo.

Un’opposizione fatta da soli ebrei non ha diritto di esistere in un’alleanza per la democrazia. L’opposizione a questo governo “totalmente di destra” deve essere totalmente democratica. E non può esserlo senza i cittadini arabi di Israele.

Questo articolo è il principale editoriale di Haaretz, pubblicato sui giornali ebraici e inglesi in Israele.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Indebolire il ‘legame indissolubile’: ecco perché l’indagine dell’FBI su Israele è importante

Ramzy Baroud

23 novembre 2022 – Palestine Chronicle

La recente decisione del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti di aprire un’inchiesta sull’omicidio, a maggio, della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh non è una svolta epocale, ma tuttavia è importante e degno di riflessione.

In base alla lunga storia del sostegno militare e politico a Israele da parte degli USA e del loro continuo scudo offerto a Tel Aviv a protezione contro le responsabilità dell’occupazione illegale della Palestina, si può con certezza concludere con sicurezza che non ci sarà nessuna vera inchiesta.

Una vera e propria inchiesta sull’uccisione di Abu Akleh potrebbe aprire il vaso di Pandora di ulteriori scoperte concernenti molte altre pratiche israeliane illegali e violazioni di leggi internazionali, e persino di quelle statunitensi. Per esempio, gli investigatori americani dovrebbero esaminare l’uso israeliano di armi e munizioni USA che sono utilizzate quotidianamente per soffocare le proteste palestinesi, confiscare terre palestinesi, imporre assedi militari contro aree civili e così via. Una legge USA, la Leahy Law, proibisce specificamente al “governo USA di usare fondi per assistere unità di forze di sicurezza ove ci siano informazioni attendibili che implichino quell’unità nella perpetrazione di gravi violazioni di diritti umani.”

Inoltre un’indagine comporterebbe anche l’assunzione di responsabilità se concludesse che Abu Akleh, una cittadina statunitense, fosse stata deliberatamente uccisa da un soldato israeliano, come parecchie organizzazioni per i diritti umani hanno già concluso.

Anche questo è irrealistico. Infatti uno dei principali pilastri su cui si poggiano le relazioni USA-Israele è che, sul palcoscenico internazionale, il primo gioca il ruolo del protettore del secondo. Ogni tentativo palestinese, arabo o internazionale di indagare sui crimini israeliani ha totalmente fallito semplicemente perché Washington ha sistematicamente bloccato ogni possibile inchiesta con la scusa che Israele è in grado di investigare sé stesso, sostenendo a volte che ogni tentativo di ritenere Israele responsabile sia una caccia alle streghe e equivale all’antisemitismo.

Secondo Axios, [sito web americano fondato nel 2016 da Jim VandeHei, Mike Allen e Roy Schwartz, per un pubblico sinistra moderata, N.d.T.] questo era il senso della risposta ufficiale israeliana alla decisione USA di aprire un’indagine sull’assassinio della giornalista palestinese. “I nostri soldati non saranno sottoposti a indagini da parte dell’FBI o di qualsiasi altro Paese o organismo stranieri,” ha detto il primo ministro israeliano uscente Yair Lapid, aggiungendo: “Noi non abbandoneremo i nostri soldati nelle mani di indagini straniere.”

Sebbene quella di Lapid sia la tipica reazione israeliana, è piuttosto interessante, se non scioccante, vederla usata nel contesto di un’indagine americana. Storicamente tale linguaggio era riservato alle indagini del Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite e da giudici di diritto internazionale, come Richard Falk, Richard Goldstone e Michael Lynk. Ripetutamente tali indagini erano condotte o bloccate senza la cooperazione israeliana e sottoposte a intensa pressione americana.

Nel 2003, la portata dell’intransigenza israeliana e il cieco sostegno USA a Israele arrivarono fino al punto di far pressione sul governo belga perché riscrivesse le proprie leggi nazionali affinché archiviasse una causa per crimini di guerra contro Ariel Sharon, ex primo ministro israeliano.

Inoltre, nonostante i continui sforzi di molte organizzazioni per i diritti umani con sede negli USA perché venisse aperta un’indagine sull’omicidio di un’attivista americana, Rachel Corrie, gli USA rifiutarono persino di esaminare il caso, basandosi invece sui tribunali israeliani che scagionarono il soldato israeliano che nel 2003 era passato con un bulldozer sul corpo della ventitreenne Corrie che gli stava semplicemente chiedendo di non demolire una casa palestinese a Gaza.

Peggio ancora, nel 2020 il governo USA è arrivato al punto di sanzionare la procuratrice della Corte Penale Internazionale (ICC) Fatou Bensouda e altri funzionari senior della procura che erano impegnati nelle indagini su sospetti crimini di guerra USA e israeliani in Afghanistan e Palestina.

Tenendo presente tutto ciò ci si devono quindi porre domande sul tempismo e sui motivi delle inchieste degli USA.

Axios ha rivelato che la decisione di indagare sull’uccisione di Abu Akleh era “stata presa prima delle elezioni in Israele del primo novembre, ma il Dipartimento di Giustizia ha informato ufficialmente il governo israeliano tre giorni dopo le elezioni.” Infatti la notizia è stata rivelata ai media solo il 14 novembre, dopo le elezioni, sia in Israele che negli USA, rispettivamente il primo e il 7 novembre.

Funzionari a Washington erano desiderosi di sottolineare il fatto che la decisione non era politica, e che non era neppure legata a evitare di irritare la filoisraeliana lobby a Washington nei giorni precedenti le elezioni USA, né a influenzare i risultati di quelle israeliane. Se così fosse, allora perché gli USA hanno aspettato fino al 14 novembre per far trapelare la notizia? Il ritardo fa pensare a gravi retroscena politici e a una massiccia pressione israeliana per dissuadere gli USA dal renderla pubblica, rendendo quindi impossibile fare marcia indietro sulla decisione.

Sapendo che molto probabilmente non avrà luogo un’indagine seria, la decisione USA deve essere stata pensata in anticipo per essere meramente politica. Forse simbolica e in definitiva irrilevante, la decisione USA senza precedenti e calcolata si basa su solidi ragionamenti:

Primo, durante la sua vice-presidenza durante l’amministrazione Obama (2009-2017) il presidente USA Joe Biden ha avuto un’esperienza difficile nella gestione degli intrallazzi politici dell’allora primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Ora che Netanyahu è destinato a ritornare al timone della politica israeliana, l’amministrazione Biden ha un bisogno urgente di far leva politica su Tel Aviv, nella speranza di controllare le tendenze estremiste del leader israeliano e del suo governo.

Secondo, il fallimento della cosiddetta ‘Ondata rossa’ Repubblicana nel marginalizzare i Democratici quale forza politica e legislativa nel Congresso USA ha ulteriormente imbaldanzito l’amministrazione Biden, che ha poi finito con rendere pubblica la notizia dell’investigazione, se vogliamo credere che la decisione fosse veramente stata presa in anticipo.

Terzo, la forte presenza di candidati palestinesi e filopalestinesi nelle elezioni di metà mandato statunitensi, sia a livello nazionale che statale, ha ulteriormente rafforzato il programma progressista del partito Democratico. Persino una decisione simbolica di investigare l’omicidio di un cittadino americano rappresenta uno spartiacque per le relazioni fra l’establishment del partito Democratico e il suo elettorato più progressista dei movimenti di base. Infatti la congressista palestinese Rashida Tlaib, rieletta, ha subito reagito alla notizia dell’inchiesta descrivendola come “il primo passo verso una vera presa di responsabilità”.

Anche se l’investigazione americana sull’uccisione di Abu Akleh difficilmente darà come risultato una vera giustizia, è un momento molto importante nelle relazioni USA-Israele e USA-palestinesi. Significa semplicemente che, nonostante il consolidato e cieco sostegno USA a Israele, ci sono margini nella politica americana che possono ancora essere utilizzati, se non per ribaltare il sostegno USA a Israele, almeno per indebolire l’apparente ‘legame indissolubile’ fra i due Paesi.

– Ramzy Baroud è giornalista e direttore di The Palestine Chronicle.  È autore di sei libri, l’ultimo curato con Ilan Pappé, è “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders and Intellectuals Speak out” [La nostra visione per la liberazione: leader palestinesi e intellettuali impegnati fanno sentire la propria voce]. Baroud è ricercatore non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Carrefour fa affari nelle colonie israeliane

Jean Stern

23 novembre 2022 – Orient XXI

In società con un partner israeliano il gigante francese della distribuzione lancia una nuova catena di supermercati in Israele e in diverse colonie dei territori palestinesi occupati. Una scelta cinica contraria al diritto internazionale, della quale il Primo Ministro israeliano uscente si è detto felice.

Sono ormai più di 200 le colonie israeliane in Cisgiordania e variano da qualche famiglia a parecchie decine di migliaia di abitanti. Le due colonie più importanti, Maale Adumin vicina a Gerusalemme e Ariel non lontana da Nablus, sono diventate vere e proprie città, rispettivamente con oltre 40.000 e oltre 20.000 abitanti. Ariel inoltre ospita un’università inserita nel sistema universitario israeliano. Le colonie, installate il più delle volte su alture o posizioni dominanti, ricoprono e rimodellano la Cisgiordania.

Costituiscono dei mondi chiusi, recintati da filo spinato, turni di guardia, tralicci luminosi e camminamenti di ronda e sono serviti da strade quasi sempre vietate ai veicoli palestinesi. Quando i coloni escono dai loro universi chiusi e dalle loro strade messe in sicurezza è per attaccare i palestinesi. La recrudescenza della violenza dei coloni nei loro confronti vede una crescita esponenziale e drammatica dall’inizio del 2022.

I supermercati al centro della vita sociale

Tre luoghi sono determinanti per la vita sociale di queste colonie che hanno poche attività industriali ed economiche, ad eccezione delle colonie agricole della Valle del Giordano e del nord della Cisgiordania. La maggior parte dei coloni lavora a Gerusalemme o nell’area urbana di Tel Aviv, e spesso deve passare tre o quattro ore al giorno in viaggio. In questi spazi urbani paranoici e sinistri i tre luoghi centrali sono la sinagoga, il campo sportivo e il supermercato, a lungo la sola attività commerciale della zona, tranne alcuni servizi a domicilio, per esempio parrucchieri.

In questi supermercati, generalmente molto modesti, di un centinaio di m2, si trova di tutto, come si usa dire, e queste attività di prossimità sono essenziali al corretto funzionamento delle zone illegali rispetto al diritto internazionale. I prezzi sono molto alti, ancor più che nei negozi di alimentari in Israele, dove d’altronde la vita è molto cara. In diverse colonie dove la popolazione di origine russa è molto numerosa ho visto rivendite di alcolici particolarmente ben fornite, da fare invidia ad un negozio notturno di Parigi, ovviamente con delle bottiglie di vodka per tutti i gusti e per tutti i prezzi.

Una popolazione rinchiusa e in espansione, l’assenza di vera concorrenza: la scelta del gruppo francese Carrefour, uno dei giganti mondiali del commercio con più di 12.000 rivendite in 39 Paesi, è stata quella di insediarsi nelle colonie dei territori palestinesi occupati. Citata in un rapporto pubblicato il 17 novembre 2022 dall’Associazione di Solidarietà Francia-Palestina (AFPS) insieme alla CGT [sindacato francese, ndt.], Solidaires, Lega dei Diritti Umani (LDH), Piattaforma delle ONG per la Palestina e Al-Haq, questa decisione è quindi tutt’altro che casuale.

Un accordo sottoscritto per 20 anni

Si tratta di un accordo di franchising firmato a inizio marzo 2022 tra Carrefour e Yenot Bitan, filiale del gruppo israeliano Elco. Della durata di 20 anni, l’accordo consentirà ai negozi Yenot Bitan, per ora 150, di vendere una certa quantità di prodotti di marchio Carrefour. Questi negozi saranno anzitutto rinominati “Super”, ma non è escluso che alla fine il marchio Carrefour si installi con proprio nome in Israele e nei territori palestinesi. Il partner israeliano di Carrefour, il gruppo Elco, ed una delle sue filiali, Electra Consumer Products, sono inoltre coinvolti in vario modo nell’economia delle colonie (costruzione di alloggi e lavori pubblici, climatizzazione di edifici, generatori elettrici…). È quindi difficile che Carrefour possa dire di non aver saputo niente nella scelta dei suoi alleati commerciali. Tanto più che le Nazioni Unite hanno pubblicato nel 2013 un elenco di dieci “attività suscettibili di rendere le imprese israeliane o multinazionali complici di violazioni dei diritti umani in relazione alla colonizzazione del territorio palestinese”, precisa il rapporto, di cui fa parte “l’offerta di servizi e prestazioni che contribuiscono al mantenimento e all’esistenza delle colonie di insediamento.” Non si potrebbe essere più chiari.

Attualmente Yenot Bitan possiede tre supermercati nelle colonie, uno a Alfei Menashe, non lontano da Tulkarem e che conta 8.000 abitanti e due nelle “mega-colonie” che formano Maale Adumin e Ariel. In queste due colonie questi supermercati completano l’offerta commerciale dei grandi centri commerciali dove alcuni marchi internazionali come Castro hanno dei negozi.

Il Primo Ministro israeliano uscente, Yair Lapid, a luglio si è chiaramente felicitato di questo accordo, che a suo parere consentirà ad altre imprese della distribuzione di “seguirne le orme”. Inoltre anche il gruppo olandese Spar prevede di aprire filiali in Israele e sicuramente nei territori occupati. La scelta di Carrefour di installarsi nella Cisgiordania occupata contribuisce dunque alla banalizzazione della colonizzazione, perché occultare gli abusi che essa comporta è l’obbiettivo principale della propaganda israeliana.

La ripresa della campagna #stopcolonie

I governi israeliani, e certamente ancor di più quello che sta predisponendo Benjamin Netanyahu, vogliono infatti che gli alleati internazionali di Israele, soprattutto la Francia e l’Unione Europea (UE), non facciano più della colonizzazione un casus belli. Per parte loro l’AFPS (Associazione Francia-Palestina) e i suoi alleati ritengono che si tratti di complicità diretta di Carrefour con la colonizzazione. “Se Carrefour intende conformarsi a principi etici che peraltro pone come prioritari, deve recedere da questo accordo”, afferma Bertrand Heilbronn, presidente della AFPS. “Quando diciamo che la colonizzazione è un crimine di guerra, non è un’affermazione retorica.”

Dopo la pubblicazione del rapporto il 17 novembre, alla fine il presidente dell’AFPS ha incontrato, insieme ai rappresentanti della Piattaforma delle ONG per la Palestina e della LDH, una delegazione del settore “responsabilità sociale delle imprese” di Carrefour. Si trattava di evidenziare le contraddizioni dell’impresa che assicura nei suoi “principi etici” che “la promozione dei diritti umani è fondamentale per condurre le proprie attività in modo responsabile e duraturo.” L’inquietante investimento nei supermercati delle colonie dimostra bene, se ci fosse qualche dubbio, che si tratta di parole al vento…tipiche del cinismo delle grandi imprese globalizzate.

Non hanno chiuso la porta”, precisa uno dei partecipanti all’incontro, “ma neppure rinunciano”. Dato che l’impresa non recede dalla sua scelta di investire nelle colonie, i firmatari del rapporto lanceranno una campagna che fa appello all’opinione pubblica, in particolare nei confronti dei (numerosi) clienti francesi dei diversi supermercati Carrefour. Si tratta anche di proseguire la campagna #stopcolonie lanciata da qualche mese proprio per porre fine al commercio con le colonie. Oltre ai firmatari del rapporto su Carrefour, questa campagna è sostenuta da diversi partiti di sinistra, in particolare dagli ecologisti di ‘Europe Ecologie Les Verts’ [Europa Ecologia-I Verdi] (EELV) e dal PCF [partito comunista francese, ndt.], e anche dalla Confederazione degli agricoltori e dalla Confederazione Francese Democratica del Lavoro (CFDT). Il loro impegno deve superare la fase simbolica, dato che i francesi hanno dimostrato in varie circostanze che, contrariamente ai dirigenti del gruppo Carrefour, non dimenticano la Palestina. “Partecipiamo con molta convinzione”, dice un responsabile della Piattaforma delle ONG per la Palestina. Di fronte all’inganno di Carrefour e di alcune altre società francesi, non si può che rallegrarsene. Sempre che duri….

Jean Stern

Storico collaboratore di Liberation, La Tribune e La Chronique d’ Amnesty International. Ha pubblicato nel 2012 “Les patrons de la presse nationale, tous mauvais” [I padroni della stampa nazionale, tutti cattivi], per La Fabrique; per le edizioni Libertalia: nel 2017 “Mirage gay à Tel Aviv” [Miraggio gay a Tel Aviv] e nel 2020 “Canicule” [Canicola].

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Coloni bloccano le strade nella Cisgiordania occupata

Redazione di MEMO

23 novembre 2022 – Middle East Monitor

Anadolu [agenzia di stampa turca, ndt.] ha riferito che oggi coloni israeliani hanno bloccato delle strade ai veicoli palestinesi nella zona settentrionale della Cisgiordania occupata. Testimoni oculari hanno affermato che, in seguito a due esplosioni a Gerusalemme ovest nelle quali un israeliano è stato ucciso e 14 sono stati feriti, i coloni hanno anche lanciato pietre contro le auto.

Le strade sono state blocccate a Hawara e Yitzhar, a sud di Nablus, e a Deir Sharaf, ad ovest della città. Sono stati incendiati pneumatici.

In una dichiarazione ufficiale la polizia israeliana ha affermato che “oggi, dopo l’esplosione avvenuta vicino ad un incrocio all’ingresso di Gerusalemme nei pressi di una stazione degli autobus ce n’è stata un’altra vicino alla stazione degli autobus all’incrocio di Ramot”. Undici feriti sono stati coinvolti nella prima esplosione, mentre gli altri tre hanno subito ferite “di minore gravità” nella seconda.

Sccondo la radio dell’esercito israeliano la polizia “ha deciso di elevare il livello di allerta a Gerusalemme, e in seguito si è discusso di alzare il livello di allerta in tutto lo Stato di Israele”. Ha inoltre segnalato che il ministro della Difesa Benny Gantz ha tenuto una seduta di valutazione della sicurezza con la partecipazione di alti ufficiali dell’esercito, della polizia e dei servizi di sicurezza israeliani.

Più tardi oggi stesso il primo ministro israeliano Yair Lapid terrà una seduta di valutazione della sicurezza.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Palestinese colpito a morte in Cisgiordania dopo aver ucciso degli israeliani

Redazione di AL Jazeera 

15 novembre 2022 Al Jazeera e Agenzie di stampa

Mohammad Souf, di 18 anni, ha accoltellato diversi israeliani all’ingresso industriale della colonia di Ariel nella Cisgiordania occupata.

Un palestinese ha ucciso tre israeliani e ne ha feriti altri tre in un attacco in una colonia nella Cisgiordania occupata, prima di essere colpito e ucciso da agenti della sicurezza israeliani: questo è quanto hanno riferito paramedici israeliani e funzionari palestinesi.

Il servizio paramedico Zaka ha detto che i tre feriti nell’attacco nella colonia illegale di Ariel sono stati curati in ospedale e sono in gravi condizioni.

E’ stato l’ultimo attacco di un’ondata di violenza tra israeliani e palestinesi in questo anno, che ha visto incursioni israeliane quasi quotidiane nella Cisgiordania occupata, con arresti e uccisioni di palestinesi, così come attacchi di palestinesi contro israeliani.

L’esercito israeliano ha affermato che il palestinese, identificato dal Ministero della Salute palestinese come il 18enne Mohammad Souf, prima ha attaccato gli israeliani all’entrata della zona industriale della colonia, poi ha proseguito fino ad un vicino distributore di benzina e lì ha accoltellato altre persone. L’esercito ha detto che poi l’uomo ha rubato un’auto, si è intenzionalmente scontrato con un’automobile sulla vicina strada principale ed ha colpito ed ucciso un’altra persona prima di fuggire a piedi.

Ha riferito che l’aggressore è stato colpito da un soldato e che le truppe stavano perlustrando l’area per cercare altri sospetti.

Un video amatoriale diffuso dalla televisione israeliana sembra mostrare il sospetto aggressore percorrere di corsa una strada e crollare a terra dopo essere stato colpito. Più tardi il Ministero della Salute ha dichiarato che Souf proveniva dal vicino villaggio di Hares.

Le forze israeliane hanno fatto irruzione nella casa di famiglia di Souf e, secondo organi di stampa palestinesi, hanno aggredito fisicamente membri della famiglia.

Nessuna fazione palestinese ha rivendicato la responsabilità dell’attacco, ma esso è stato acclamato da portavoce di Hamas, Jihad islamica e Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.

In una dichiarazione il portavoce di Hamas Abdel Latif al-Qanou ha affermato che l’operazione ha dimostrato “la capacità del nostro popolo di proseguire la sua rivoluzione e difendere la Moschea di Al-Aqsa da quotidiane incursioni”.

Il FPLP, di sinistra, ha affermato che l’attacco è stato una risposta “alla politica di esecuzioni sul campo perseguita dall’occupazione israeliana e dai suoi servizi di sicurezza contro il nostro popolo, delle quali l’uccisione della ragazza palestinese Fulla Masalmeh ieri a Beitunia non sarà l’ultima.”

L’anno più sanguinoso

Il Primo Ministro israeliano uscente Yair Lapid ha inviato le condoglianze alle famiglie degli israeliani uccisi nell’attacco e ha detto che Israele “sta combattendo il terrorismo senza sosta e col massimo delle forze.”

Le nostre forze di sicurezza lavorano 24 ore al giorno per proteggere i cittadini israeliani e danneggiano senza sosta le infrastrutture del terrorismo”, ha detto.

Quest’anno l’ondata di violenza tra israeliani e palestinesi in Cisgiordania e Gerusalemme est ha fatto almeno 25 morti dalla parte israeliana e più di 130 da quella palestinese, rendendo il 2022 l’anno con più vittime dal 2006.

Israele afferma che le sue incursioni ed arresti che avvengono quasi ogni notte in Cisgiordania sono necessari per smantellare le reti armate in un momento in cui le forze di sicurezza palestinesi non sono capaci o non vogliono farlo.

L’Autorità Nazionale Palestinese afferma che le incursioni indeboliscono le sue forze di sicurezza ed hanno lo scopo di consolidare l’occupazione illegale di Israele che continua da 55 anni nei territori che i palestinesi vogliono per il loro auspicato Stato.

In queste incursioni sono state fermate centinaia di palestinesi, molti dei quali sottoposti alla cosiddetta detenzione amministrativa, che consente ad Israele di detenerli a tempo indefinito senza processo né imputazione.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’Australia annulla il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele

Redazione Al Jazeera

18 ottobre 2022 – Al Jazeera

Il ministro degli Esteri Penny Wong afferma che il governo “si rammarica” ​​della decisione presa dalla precedente amministrazione e ribadisce l’impegno per la soluzione a due Stati.

L’Australia afferma che non riconoscerà più Gerusalemme Ovest come capitale di Israele, annullando una decisione presa dal governo dell’ex primo ministro Scott Morrison nel 2018.

“Oggi il governo ha riaffermato la posizione precedente e di lunga data dell’Australia secondo cui Gerusalemme è una questione di status finale che dovrebbe essere risolta nell’ambito di un negoziato di pace tra Israele e il popolo palestinese”, ha affermato il ministro degli Esteri Penny Wong in una nota.

Questo annulla il riconoscimento da parte del governo Morrison di Gerusalemme Ovest come capitale di Israele”.

Wong ha ribadito che l’ambasciata australiana rimarrà a Tel Aviv e che Canberra è impegnata in una soluzione a due Stati “in cui Israele e un futuro Stato palestinese coesistano, in pace e sicurezza, entro confini internazionalmente riconosciuti”.

Ha aggiunto: “Non sosterremo un approccio che indebolisca questa prospettiva”.

Lo status di Gerusalemme è uno dei maggiori punti critici nei tentativi di raggiungere un accordo di pace tra Israele e i palestinesi.

Israele considera l’intera città, compreso il settore orientale che ha annesso dopo la guerra in Medio Oriente del 1967, come sua capitale, mentre i rappresentanti palestinesi, con ampio sostegno internazionale, vogliono Gerusalemme est occupata come capitale di un futuro Stato che sperano di creare nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

L’Autorità Nazionale Palestinese plaude a questa decisione

L’Autorità Nazionale Palestinese plaude alla decisione dell’Australia, che probabilmente porterà alla ribalta la questione israelo-palestinese.

“Accogliamo con favore la decisione dell’Australia in merito a Gerusalemme e la sua richiesta di una soluzione a due Stati in conformità con la legittimità internazionale”, ha dichiarato su Twitter il ministro degli Affari Civili dell’Autorità palestinese, Hussein al-Sheikh.

Sheik plaude “all’affermazione dell’Australia secondo cui il futuro della sovranità su Gerusalemme dipende dalla soluzione permanente basata sulla legittimità internazionale”.

Shahram Akbarzadeh della Deakin University [con sede a Melbourne, ndt.] ha affermato che la decisione dell’Australia rafforzerà il consenso internazionale sullo status di Gerusalemme.

“L’Australia si stava discostando da quel consenso, ma ora sta tornando indietro.

porterà sicuramente sotto i riflettori la questione, il conflitto israelo-palestinese e il futuro di una soluzione a due Stati”, ha detto ad Al Jazeera da Melbourne, aggiungendo che la comunità internazionale ha una grande responsabilità nell’affrontare questo annoso problema.

C’è un consenso internazionale sul fatto che lo status di Gerusalemme dovrebbe essere gestito e deciso nell’ambito di un più ampio negoziato sul futuro dei due Stati, di Israele e Palestina. Non possono essere separati da quella questione”.

Il reportage di Bernard Smith di Al Jazeera da Gerusalemme Ovest afferma che, sebbene l’annuncio di Wong sia un “piccolo cambiamento”, è comunque significativo.

“La maggior parte dei Paesi riconosce che lo status finale di Gerusalemme deve essere definito nei colloqui sulla statualità palestinese, e i palestinesi vogliono Gerusalemme est come loro capitale”, ha aggiunto.

Israele convoca l’inviato australiano

Martedì il primo ministro israeliano Yair Lapid ha criticato aspramente la decisione dell’Australia.

Lapid ha descritto la decisione come una “risposta affrettata”, aggiungendo: “Possiamo solo sperare che il governo australiano gestisca altre questioni in modo più serio e professionale.

In una dichiarazione rilasciata dal suo ufficio il primo ministro ha anche affermato “Gerusalemme è la capitale eterna e unita di Israele e nulla lo cambierà mai”.

Il ministero degli Esteri israeliano ha reso noto di aver convocato l’ambasciatore australiano per presentare una formale protesta.

L’ex primo ministro australiano Morrison annunciò che il suo governo conservatore avrebbe riconosciuto Gerusalemme Ovest come capitale di Israele dopo che gli Stati Uniti [l’amministrazione Trump, ndt.] avevano rovesciato la loro decennale politica riconoscendo la città [di Gerusalemme come capitale di Israele, ndt] e spostando lì da Tel Aviv l’ambasciata degli Stati Uniti.

La decisione australiana fu ampiamente criticata dai gruppi filo-palestinesi così come dal Partito Laburista, che allora era all’opposizione e promise di ribaltare la decisione se avesse vinto le elezioni.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Nel discorso di Lapid all’ONU l’unica notizia è che non c’è niente di nuovo

Editoriale

23 settembre 2022 – Haaretz

Il discorso del primo ministro Yair Lapid giovedì all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite non contiene nessuna novità. La sua affermazione più impegnativa è stata che un “accordo con i palestinesi basato sui due Stati per due popoli è la cosa giusta per la sicurezza di Israele, per la sua economia e per il futuro dei nostri figli.” Ciò è vero, e importante da ricordare. Ma non è la prima volta che è stato detto dal podio dell’ONU. Anche l’ex-primo ministro Benjamin Netanyahu l’ha detto, benché egli non abbia mosso un dito per raggiungere tale risultato.

Lapid è il primo ministro ad interim di un Paese di destra, che parla nel mezzo della quinta campagna elettorale in tre anni, nel contesto di una grave crisi politica e l’ascesa del kahanismo [suprematismo ebraico ispirato al pensiero del rabbino Meir Kahane, ndt.]. Di conseguenza non c’era alcuna ragione per aspettarsi niente di più che generiche dichiarazioni di intenti. Tuttavia, persino nelle circostanze che verosimilmente non gli hanno lasciato la possibilità di accompagnare le sue parole con un appello per avviare negoziati diplomatici, vale la pena soffermarsi sul fatto che il suo discorso non era rivolto a nessuno in particolare. Chi si aspettava di sentire Lapid tendere la mano al presidente palestinese Mahmoud Abbas è rimasto deluso.

Deponete le vostre armi e non ci saranno limiti,” ha affermato, come se l’Autorità Nazionale Palestinese non avesse mai abbandonato la lotta armata. “Deponete le armi, lasciate che i nostri figli che sono prigionieri – Hadar e Oron [due soldati israeliani uccisi durante l’operazione militare contro Gaza del 2014, ndt.], che la loro memoria sia benedetta; Avera e Hisham [due cittadini israeliani detenuti da Hamas a Gaza, ndt.], che sono ancora vivi – tornino a casa e costruiremo la vostra economia insieme. Possiamo costruire insieme il vostro futuro, sia a Gaza che in Cisgiordania.” Chiunque non sia esperto del conflitto potrebbe aver concluso da questi riferimenti che il conflitto sia incentrato solo sulla Striscia di Gaza – che non ci sia nessuna Autorità Nazionale Palestinese, che non ci sia nessun coordinamento per la sicurezza con essa e che i rappresentanti del popolo palestinese siano Hamas e la Jihad islamica.

Lapid non ha offerto qualcosa di diverso da Netanyahu neppure riguardo alla minaccia iraniana. “L’unico modo per evitare che l’Iran abbia un’arma nucleare è mettere sul tavolo una credibile minaccia militare,” ha affermato. “E dopo, solo dopo, negoziare un accordo più lungo e più forte con loro.” Oltretutto, ha aggiunto, “deve essere messo in chiaro all’Iran che, se prosegue con il suo programma nucleare, il mondo non risponderà con le parole, ma con la forza militare.”

Il primo ministro in alternanza [con Lapid, ndt.] Naftali Bennett ha rotto il suo lungo silenzio mercoledì per attaccare la presunta intenzione di Lapid di annunciare il proprio appoggio a portare avanti la soluzione a due Stati. Ma Bennett può stare tranquillo: Lapid non ha fatto niente per minacciare l’impegno del cosiddetto governo del cambiamento a non cambiare assolutamente niente.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israeliani, prendete atto: la resistenza armata all’occupazione è legale, non è terrorismo

Orly Noy

13 settembre 2022 – Middle East Eye

Nonostante ciò che afferma il diritto internazionale, l’opinione pubblica israeliana ha interiorizzato la nozione secondo cui, per definizione, non esiste una legittima lotta palestinese per la liberazione nazionale.

È improbabile che più di una manciata di ebrei in Israele sappia riferire correttamente quante incursioni abbia effettuato l’esercito israeliano la settimana scorsa in città palestinesi della Cisgiordania, quanti arresti abbia compiuto, o quante persone abbia ucciso.

Al tempo stesso è improbabile che vi sia stata più di una manciata di israeliani che non fosse a conoscenza della sparatoria su un autobus di soldati nella Valle del Giordano, avvenuta domenica 4 settembre.

Spari di palestinesi contro soldati israeliani –invece che israeliani che sparano a palestinesi – non è solo un inquietante episodio di “un uomo che morde un cane”, che ribalta l’ordine consueto richiedendo di essere raccontato dettagliatamente; in tutti quei reportage l’evento è stato definito come attacco terroristico ed i palestinesi armati come terroristi.

Non una parola sul fatto che gli spari erano rivolti contro un esercito occupante e sono avvenuti in una terra occupata.

I media israeliani hanno un ruolo chiave nel formare l’opinione pubblica al servizio della macchina di propaganda del potere, mantenendo l’opinione pubblica israeliana nella totale ignoranza dei fatti più importanti.

L’opinione pubblica israeliana, in generale, ha completamente interiorizzato la nozione secondo cui, per definizione, non esiste una lotta palestinese per la liberazione nazionale che sia legittima.

Analogamente alla radicale rimozione dalla coscienza israeliana della linea dell’armistizio del 1949, conosciuta anche come Linea Verde – al punto che la sola menzione della sua esistenza da parte della municipalità di Tel Aviv provoca minacce del Ministero dell’Educazione – anche la costante etichettatura di ogni lotta palestinese come terrorismo occulta l’importante distinzione ai sensi del diritto internazionale tra un’azione che prende di mira dei combattenti ed una diretta contro civili.

Un diritto legittimo

Il fatto è che il diritto internazionale riconosce il diritto legittimo di un popolo di lottare per la propria libertà e per la “liberazione dal controllo coloniale, dall’apartheid e dall’occupazione straniera con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”, come confermato, per esempio, dalla Risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 1990.

L’uso della forza per ottenere la liberazione è legittimo. Il modo in cui viene usata la forza è disciplinato dalle leggi di guerra, il cui scopo principale è proteggere i civili non coinvolti da entrambe le parti.

I colpi sparati nella Valle del Giordano non erano diretti contro civili e non possono essere considerati un’azione terroristica. Sono stati un atto di resistenza contro un potere occupante, in una terra occupata.

Il regime israeliano e i suoi ossequiosi portavoce, i media israeliani, trattano ogni azione contro le forze di occupazione in una terra occupata esattamente come se fossero azioni contro civili nel cuore di Tel Aviv: atti terroristici perpetrati da terroristi.

Questa equiparazione non solo nega un fondamento legale o morale all’azione; è anche contraria agli interessi dei cittadini di Israele.

Le leggi di guerra pertinenti sono finalizzate anzitutto e soprattutto a proteggere i civili che non partecipano al ciclo di violenza e a circoscrivere tale violenza a chi effettivamente combatte.

Tuttavia Israele non riconosce la categoria di combattenti palestinesi: dal punto di vista israeliano ogni forma di resistenza, anche nonviolenta, alla sua occupazione ed oppressione costituisce un pericolo alla sicurezza che è facilmente riconosciuto come terrorismo, come quando recentemente Israele ha dichiarato che le sei più importanti ONG palestinesi sono organizzazioni terroristiche.

Questa è una doppia distorsione da parte di Israele. Se da un lato tratta tutte le azioni palestinesi, anche quelle dirette contro soldati, come atti di terrorismo, dall’altra Israele descrive ogni azione israeliana contro i palestinesi come legittima, anche quando quei palestinesi sono civili.

Tipica brutalità

Come esempio particolarmente vergognoso di questa politica, considerate le conclusioni finali pubblicate dall’esercito israeliano riguardo all’uccisione di Shireen Abu Akleh. L’esercito ha inizialmente sostenuto che Abu Akleh è stata uccisa da colpi d’arma da fuoco palestinesi, una palese menzogna che è stata smascherata da una serie di organi di stampa che hanno esaminato minuziosamente le prove. La versione riveduta che l’esercito ha pubblicato in seguito è anch’essa lontana dall’essere coerente con le prove.

Il Procuratore Generale dell’esercito ha annunciato che non sarebbe stata aperta alcuna inchiesta, nonostante l’agghiacciante ammissione che Abu Akleh, che indossava un giubbotto che la identificava chiaramente come giornalista, è stata colpita a morte da un soldato che usava un fucile di precisione con mirino telescopico – che ingrandisce il bersaglio di quattro volte.

Altrettanto deprecabile la risposta israeliana alla richiesta americana davvero modesta di “riconsiderare” le procedure dell’esercito in Cisgiordania riguardo a quando è consentito aprire il fuoco.

Non che l’esercito smetta di assassinare persone innocenti, Dio non voglia, né che interrompa le incessanti irruzioni nelle città della Cisgiordania, gli arresti di massa, i prelevamenti notturni dei bambini dai loro letti – soltanto che si sforzi un po’ di più, se non è troppo difficile, di evitare altri casi simili.

I potenti Stati Uniti preferiscono non trovarsi coinvolti in casi del genere perché può succedere che la vittima abbia cittadinanza americana, come nel caso di Abu Akleh.

Israele, che ha risposto con la solita brutalità, non è disposto neppure all’atto formale di accettare a parole questa modesta richiesta. Il Primo Ministro Yair Lapid si è affrettato a dire agli americani che “nessuno ci imporrà le regole di ingaggio”.

Con lo stesso spirito il Ministro della Difesa Benny Gantz ha affermato: “Il capo di stato maggiore, e lui solo, decide e continuerà a decidere le politiche di ingaggio.”

In altri termini, Israele mette sull’avviso gli americani, in realtà il mondo intero: nessuno dirà mai a Israele quanti, chi, quando, dove o come uccideremo. E la questione è chiusa, fino alla prossima volta.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye

Orly Noy è la direttrice di B’Tselem – Centro israeliano di Informazione per i Diritti Umani nei territori occupati.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele uccide almeno 10 palestinesi nella nuova campagna di bombardamenti contro Gaza

Ahmed Al-Sammak, Lubna Masarwa, Huthifa Fayyad da Gaza City, Palestina occupata

5 agosto 2022 – Middle East Eye

Un dirigente della Jihad Islamica è stato assassinato in un attacco che ha ucciso anche una bambina di 5 anni e ferito più di 55 civili

Nell’ultimo bombardamento contro la Striscia di Gaza di venerdì l’esercito israeliano ha ucciso almeno 10 palestinesi, tra cui una bambina di 5 anni e un importante leader militare.

Taiseer al-Jabari, capo della divisione nord delle Brigate di al-Quds (Saraya al-Quds), l’ala militare del movimento Jihad Islamica, è stato ucciso durante attacchi aerei che hanno colpito varie località di Gaza. Secondo il ministero della Sanità palestinese almeno 55 persone sono rimaste ferite.

Gli attacchi iniziali hanno colpito tre diverse zone: Khan Younis nel sud della Striscia, Shujaiya a nord e un edificio residenziale nel centro di Gaza.

L’esercito afferma di aver preso di mira la Jihad Islamica con l’operazione denominata “Breaking Dawn” [Sorgere del sole].

Hamas, che governa di fatto Gaza, e la Jihad Islamica, la seconda più importante organizzazione armata della Striscia, hanno promesso una dura risposta all’aggressione israeliana. 

Ziad al-Nakhalah, capo della Jihad Islamica, ha affermato che non ci sono limiti in questa guerra e che Tel Aviv verrà presa di mira.

Non ci sono linee rosse in questa battaglia e Tel Aviv, come tutte le città israeliane, finirà sotto i razzi della resistenza,” ha affermato.

Gaza è stata colpita da attacchi aerei e dal fuoco dell’artiglieria. La Jihad Islamica ha affermato di aver sparato 100 razzi venerdì notte come risposta iniziale.

Fawzi Barhoum, portavoce di Hamas, ha detto che le fazioni della resistenza a Gaza sono unite e pronte a rispondere con “tutta la forza”.

Nel contempo il primo ministro israeliano Yair Lapid ha affermato che il Paese “non consentirà alle organizzazioni terroristiche della Striscia di Gaza di dettare le regole” e che l’esercito israeliano continuerà ad agire contro l’organizzazione Jihad Islamica “per eliminare la minaccia che rappresenta per i cittadini di Israele.”

Un vero e proprio crimine”

Khalil Kanon vive al dodicesimo piano della Palestine Tower, un edificio nel centro di Gaza che è stato colpito venerdì durante il primo attacco aereo israeliano. Dice a MEE che il bombardamento ha ferito sua moglie e sua madre, ha terrorizzato i suoi figli e tutta la famiglia è stata macchiata di sangue.”

Stavo leggendo le notizie. Improvvisamente abbiamo sentito bombardamenti assordanti. Una mano di mia madre e una gamba di mia moglie sono state ferite, e i miei figli erano terrorizzati,” racconta Kanon.

Dopo il bombardamento, un vicino di Kanon è corso ad aiutare e ha portato fuori dall’edificio i suoi figli e sua moglie, mentre Kanon aspettava gli infermieri per aiutarli a portare via sua madre dallo stabile.

Eravamo tutti sporchi di sangue. Guarda, c’è una macchia di sangue sulla mia maglietta.

Non avrei mai pensato che questo edificio potesse essere bombardato. Che razza di vita abbiamo?”

Ahmed al-Bata, un giornalista, quando l’edificio è stato bombardato stava aspettando l’ascensore per salire al quattordicesimo piano della Palestine Tower, dove si trova il suo ufficio.

Improvvisamente ho sentito tre massicci, intensi bombardamenti,” racconta a MEE.

La scena è stata inimmaginabile. Dopo qualche minuto decine di abitanti hanno iniziato a scappare urlando. Quasi tutti erano bambini e donne. Decine di loro erano ferite. La scena era talmente orribile. È un vero e proprio crimine.”

Arresto di un leader della Jihad Islamica

L’attacco è giunto dopo giorni di blocco imposto dalle autorità israeliane agli abitanti che vivono nei pressi di Gaza, e il dispiegamento di truppe nella zona. Le misure hanno incluso la chiusura di strade e il blocco del servizio ferroviario vicino a Gaza.

L’esercito israeliano ha affermato di averle messe in atto a causa del timore di attacchi di rappresaglia da parte della Jihad Islamica a Gaza dopo l’arresto nella città di Jenin, nella Cisgiordania occupata, di un importante dirigente dell’organizzazione, Bassam al_Saadi.

Nell’incursione in città è stato ucciso anche il diciassettenne palestinese Dirar al-Kafrayni, colpito a morte dalle forze israeliane. 

Nell’incursione è stato arrestato anche il genero di Saadi, Ashraf al-Jada. Durante l’arresto la moglie di Saadi è stata ferita e portata in ospedale per essere curata. Immagini di una telecamera di sorveglianza dell’arresto di Saadi mostrano soldati israeliani che trascinano sul pavimento il sessantaduenne. Sarebbe anche stato ferito da un cane dell’esercito israeliano.

Quando si sono diffuse notizie dell’incursione mortale, gruppi di persone si sono riuniti nel campo di rifugiati di Jenin e nella vicina città di Nablus, mentre sostenitori hanno espresso solidarietà a un personaggio molto rispettato. La Jihad Islamica, considerata la seconda milizia più importante della resistenza armata palestinese dopo Hamas, ha affermato di aver messo in allerta ovunque i propri combattenti.

Ameer Makhoul, un importante attivista e scrittore palestinese, dice a MEE: “Nessuno dovrebbe essere sorpreso dall’aggressione israeliana contro Gaza e del fatto che siano stati presi di mira i dirigenti delle brigate di al-Quds e i civili.”

Makhoul ha aggiunto che il massiccio schieramento dell’esercito sul e attorno al confine con Gaza non è stato “un’iniziativa difensiva” o per prevenire la risposta della Jihad Islamica all’arresto di Saadi.

Al contrario, l’arresto è avvenuto come parte della preparazione di una nuova aggressione con obiettivi e strategie, anche se di portata limitata,” ha affermato.

Meron Rapoport, un esperto commentatore israeliano, ha affermato che la tempistica dell’operazione israeliana è stata strana e che Israele ha essenzialmente punito l’organizzazione Jihad Islamica perché non attaccasse come rappresaglia per l’arresto di Saadi, dato che il gruppo armato ha lanciato razzi solo dopo che Israele ha iniziato attacchi aerei contro Gaza.

Israele arresta un importante membro della Jihad Islamica in Cisgiordania, e il gruppo non risponde,” continua Rapoport, in riferimento all’arresto di Bassam al-Saadi all’inizio di questa settimana a Jenin.

Ma poi “Israele ha imposto il coprifuoco a decine di migliaia di abitanti nelle zone adiacenti a Gaza in base al fatto che la Jihad Islamica progettava una risposta, poi uccide importanti membri dell’organizzazione e civili a Gaza, in base al fatto che pianificavano di attaccare Israele. Il risultato, dopo che Israele avrebbe tentato di impedire attacchi della Jihad Islamica, è che ora arrivano razzi, cosa che a quanto pare non sarebbe avvenuta se Israele non avesse attaccato per primo.”

Gli USA difendono Israele, l’ONU sollecita una riduzione della tensione

In risposta al bombardamento di Gaza da parte di Israele gli Stati Uniti hanno detto che il Paese ha il “diritto di difendersi”.

L’attacco giunge poche settimane dopo che il presidente USA Joe Biden ha visitato Israele. Prima del viaggio la sua amministrazione avrebbe chiesto a Israele di rimandare ogni escalation contro i palestinesi “a dopo la visita di Biden” a metà luglio.

La richiesta è stata condannata dagli attivisti palestinesi, che hanno detto a MEE che ciò è “indicativo della vera politica degli Stati Uniti nei confronti di Israele,” in quanto gli USA non si preoccupano di come Israele tratta i palestinesi.

Nel contempo l’ONU ha emanato un comunicato più severo, affermando che non ci sono “giustificazioni” per gli attacchi contro i civili.

Sono profondamente preoccupato dalla continua escalation tra i miliziani palestinesi e Israele, compresa l’odierna uccisione mirata di un dirigente della Jihad Islamica palestinese all’interno di Gaza,” ha affermato venerdì sera in un comunicato Tor Wennesland, il coordinatore speciale dell’ONU per il processo di pace in Medio Oriente.

La continua escalation è molto pericolosa,” ha affermato Wennesland.

Israele impone dal 2007 un durissimo blocco contro la Striscia di Gaza, che secondo le associazioni per i diritti umani rappresenta una punizione collettiva per i due milioni di abitanti dell’enclave. Israele impedisce l’importazione di materiali ed attrezzature a Gaza ed ha imposto rigide restrizioni alle esportazioni, che hanno portato a una condizione di “paralisi” in molti settori dell’economia di Gaza.  

Anche l’Egitto sostiene l’assedio, controllando i movimenti in entrata e in uscita da Gaza sulla propria frontiera.

Secondo il ministero della Sanità di Gaza nel maggio dello scorso anno un attacco militare israeliano contro Gaza ha ucciso più di 260 palestinesi, tra cui 66 minorenni, e sfollato almeno 72.000 persone.

In un rapporto Human Rights Watch [prestigiosa ong per i diritti umani con sede negli USA, ndt.] ha affermato che gli attacchi aerei israeliani del 2021 hanno preso di mira zone nelle cui vicinanze non c’erano prove dell’esistenza di obiettivi militari, il che rappresenta un crimine di guerra.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)