Proposta di legge israeliana per impedire ai cittadini palestinesi di vivere in ‘zone ebraiche’

Elis Gjievori

6 giugno 2023 – Middle East Eye

Associazioni per i diritti umani si sono impegnate a combattere contro la proposta di legge che vedrebbe molte altre città israeliane impedire ai palestinesi di comprare o affittare appartamenti

Il governo israeliano propone una legge per “ebraizzare” la Galilea, una regione nel nord di Israele con una considerevole popolazione palestinese. 

La mossa fa parte di un accordo concluso lo scorso anno per formare il nuovo governo israeliano con i politici di estrema destra Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, che vogliono espandere la colonizzazione ebraica nella regione.

In quanto parte del piano per “salvare la colonizzazione ebraica in Galilea,” il primo ministro Benjamin Netanyahu progetta di rafforzare significativamente la controversa legge del 2011 che darebbe a piccole comunità il potere di esaminare (e scartare) i potenziali nuovi arrivati.

Quando la legge fu approvata lo scopo era di aggirare una sentenza della Corte Suprema che proibisce alle comunità residenziali di affittare le terre solo ad ebrei.

Suhad Bishara di Adalah, il Centro legale per i diritti della minoranza araba in Israele, sostiene che le leggi danno “una discrezionalità quasi completa” a queste piccole comunità di scegliere chi ci vive.

“In pratica questa disposizione è principalmente un mezzo per scartare i cittadini palestinesi e impedire loro di risiedere in queste comunità e costituisce un meccanismo giuridico per la segregazione residenziale in molte località dello Stato di Israele,” ha detto Bishara a Middle East Eye.

All’inizio di questo mese il ministro della Giustizia Yariv Levin [del partito di Netanyahu, il Likud, ndt.] ha detto che in Israele l’acquisto di case da parte di palestinesi in paesi e cittadine sta spingendo gli ebrei a andarsene da queste zone.

“Gli arabi comprono appartamenti in comunità ebraiche in Galilea e ciò costringe gli ebrei ad abbandonare queste città perché non sono disposti a vivere con gli arabi,” dice Levin.

Ora il governo israeliano “vuole espandere e rafforzare questo sistema,” dice Bishara.

Il governo si è impegnato ad aumentare il numero di città che possono selezionare i nuovi arrivati estendendolo da quelle con 400 nuclei familiari a quelle con un massimo di 1000.

L’estensione della legge è sostenuta anche da alcuni parlamentari dell’opposizione. La prima versione della legge, che avrebbe permesso a cittadine con un massimo di 600 case di esaminare chi vi si trasferisce è stata approvata dal governo precedente.

Ufficialmente la legge non permette ai comitati di accettazione di respingere candidati alla residenza per motivi di razza, religione, genere, nazionalità, disabilità, classe, età, parentela, orientamento sessuale, Paese di origine, opinioni o affiliazione a un partito politico.

Tuttavia il testo della legge del 2011 permette ai comitati di respingere candidati che essi ritengono “inadatti al tessuto sociale e culturale” della comunità.

Sfacciata violazione della legge per i diritti umani’

All’inizio di questo mese il governo israeliano ha anche discusso una nuova proposta per imporre “valori sionisti ” in politiche governative che i critici sostengono potrebbero permettere agli ebrei israeliani di ricevere un trattamento preferenziale nella definizione dei piani regolatori e nella costruzione di case.

Cittadini palestinesi di Israele che vivono nella regione del Negev (Naqab) hanno da tempo accusato il governo israeliano di tentare con varie tattiche di sradicarli.

Queste includono la confisca di terre ai palestinesi trasformando i proprietari in affittuari. Inoltre il governo israeliano è stato accusato di impedire l’espansione dei villaggi palestinesi circondandoli con nuove colonie ebraiche.

Si intende espandere la nuova legge anche alla Cisgiordania occupata in zone dove Israele ha annesso territori in cui vivono anche palestinesi.

Bishara ha aggiunto che, se la proposta di legge passasse così com’è, potrebbe “essere soggetta a una verifica di costituzionalità in relazione alla sua applicabilità in Israele.”

“Questa è una sfacciata violazione del diritto internazionale umanitario e delle leggi per i diritti umani che si applicano alla Cisgiordania in quanto territorio occupato,” ha segnalato Bishara.

“Se approvata rafforzerebbe il meccanismo dell’annessione de facto di territori occupati e potrebbe essere considerato parte di un processo di annessione de jure, in totale violazione delle leggi relative a territori occupati,” aggiunge.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Perché l’opposizione israeliana non vuole parlare del vero obiettivo della riforma giudiziaria

Michael Schaeffer Omer-Man

21 febbraio 2023 – +972 Magazine

Politici del governo hanno esplicitamente affermato che la riforma giudiziaria riguarda l’annessione. Gli oppositori non vogliono ammetterlo perché condividono lo stesso progetto.

Quasi esattamente 10 anni fa il ministro della Giustizia israeliano Yariv Levin, allora giovane stella nascente nel partito di Netanyahu, il Likud, parlò a una conferenza organizzata dal Movimento Israeliano per la Sovranità, sostenitore della totale annessione da parte di Israele dei territori palestinesi occupati. Prima di esporre un piano di quattro fasi per quello che molti hanno definito una “annessione strisciante” attraverso piccoli passi successivi nell’applicare la legge israeliana alla Cisgiordania, Levin mise in guardia il suo pubblico di ideologi.

Non ho dubbi che tra non molto riusciremo ad estendere la sovranità su tutta la Terra di Israele,” rassicurò i presenti. “È importante avere questo progetto perché a volte esso contrasta con le tattiche e i compromessi che devono essere fatti lungo il percorso. Dobbiamo attenerci a questo obiettivo in modo intelligente giorno dopo giorno, potrei persino dire talvolta con raffinatezza, per raggiungere alla fine il nostro obiettivo.”

Un anno dopo Levin parlò di nuovo alla conferenza. Oltre ai passi discreti e implacabili che aveva presentato nella sua precedente apparizione, il politico del Likud aggiunse due importanti prerequisiti per una totale annessione. Il primo, ammonì, era una lenta e paziente campagna per cambiare il modo in cui l’opinione pubblica israeliana, compresa la destra annessionista, pensava e parlava della questione palestinese dopo decenni in cui gli Accordi di Oslo e la soluzione a due Stati avevano caratterizzato il discorso.

La seconda condizione imprescindibile per l’annessione di cui parlò fu molto più audace: una totale riforma del sistema legislativo e giudiziario israeliano. “Non possiamo accettare l’attuale situazione in cui il sistema giudiziario è controllato da estremisti di sinistra, una minoranza post-sionista che si auto-nomina a porte chiuse, imponendoci i suoi valori, non solo sull’(annessione), ma anche su altre questioni,” spiegò Levin. “Un cambiamento del sistema giudiziario è essenziale perché ci consentirà e ci faciliterà il fatto di intraprendere passi concreti sul terreno che rafforzino il processo di promozione della sovranità.”

Molti nella destra israeliana vedono il sistema giudiziario del Paese, che in realtà ha appoggiato e consentito l’esistenza stessa e l’espansione delle colonie israeliane nei territori occupati, come ostile al movimento dei coloni. Vedono gli occasionali vincoli che la Corte ha introdotto, in particolare il fatto che essa abbia bocciato una legge che avrebbe legalizzato colonie costruite su proprietà privata palestinese rubata, come il principale impedimento alla possibilità di realizzare i sogni annessionisti, che per loro sono una combinazione di imperativi messianici e ideologici.

Passano 10 anni e Levin diventa il nuovo ministro della Giustizia di Israele, accelerando una totale riforma del sistema legislativo e giudiziario del Paese, in un processo che molti all’interno di Israele definiscono un tentativo di colpo di stato. La proposta di legge ha scatenato in Israele un massiccio movimento di protesta che ha visto manifestazioni settimanali, scioperi generali, minacce di fuga di capitali e importanti personalità che invocano la disobbedienza civile.

Nonostante la crescente rivolta, lunedì notte la Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] ha approvato in prima lettura una legge che darebbe al governo un notevole controllo sulla commissione per la selezione dei giudici israeliani e impedirebbe alla Corte Suprema di esercitare il controllo giudiziario sulle Leggi Fondamentali del Paese. La proposta richiede altre due letture perché venga convertita in legge.

In un Paese con un ordine costituzionale caratterizzato dalle innumerevoli decisioni dei suoi leader di non prendere decisioni, la prospettiva di un risoluto governo di estrema destra che consolidi il potere e sovverta l’unico controllo istituzionale sulle sue pretese è indubbiamente terrificante. Quindi molti israeliani pensano di lottare per salvare la democrazia, le libertà e i diritti che hanno sperimentato nel loro Paese per più di 70 anni.

Ma ciò sollecita una domanda cruciale: perché il latente obiettivo ideologico e politico che promuove questa riforma dell’intero sistema di governo israeliano da parte dell’estrema destra, cioè l’annessione unilaterale dei territori occupati, è così assente dal discorso pubblico e dalle proteste nelle piazze?

Non è un progetto degli estremisti

Non c’è bisogno di vedere i video di 10 anni fa su YouTube per capire l’ossessione fanatica che la destra israeliana ha riguardo all’annessione. Solo qualche anno fa, in un governo non diverso da quello di oggi, Netanyahu disse che entro breve avrebbe ufficialmente annesso vaste aree della Cisgiordania occupata, un piano poi congelato in cambio della normalizzazione dei rapporti diplomatici con gli Emirati Arabi Uniti, seguiti dal Bahrein, dal Marocco e dal Sudan.

In seguito a quel disastro per la destra annessionista, nel 2020 l’allora presidente della Knesset Yariv Levin, insieme all’attuale ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, fondò il “Comitato per la Terra di Israele”. Pur mettendo in guardia i suoi sodali ideologici che come presidente della Knesset avrebbe dovuto parlare in “termini istituzionali”, durante il primo incontro Levin rassicurò i suoi alleati del comitato che avrebbe comunque lavorato per procedere verso l’annessione. “La sovranità su tutta la terra di Israele,” affermò, “è l’irrevocabile diritto del popolo ebraico. È nostro dovere, e non una questione di scelta, realizzarlo.”

È importante analizzare la leadership di Levin a favore dell’annessione per due ragioni. La prima è che egli si trova ora nella posizione di mettere le basi giuridiche per la sua realizzazione. La seconda è che i progetti annessionisti di questo governo, sia all’interno di Israele che a livello internazionale, tendono ad essere liquidati come un progetto di politici e partiti dei coloni estremisti che sono arrivati al governo e grazie ai quali Netanyahu è stato in grado di riprendere il potere dopo quattro elezioni inconcludenti e un breve periodo all’opposizione.

Il Comitato per la Terra di Israele, che Levin ha co-fondato per portare avanti strategie legislative e alleanze trasversali tra i partiti finalizzate all’annessione, è sempre stato dominato dal Likud. Nella 23esima Knesset, quando il comitato è stato fondato, i parlamentari del Likud rappresentavano il 44% dei membri, più di metà degli eletti del partito. Da allora nella 24esima Knesset, sciolta lo scorso novembre, l’87% dei deputati del Likud faceva parte del comitato ed essi rappresentavano il 57% di esso. Pochi anni prima il comitato centrale del Likud aveva votato per sostenere l’annessione come parte del proprio programma.

Nonostante la loro esplicita agenda, nel più vasto dibattito pubblico Netanyahu e il Likud sono percepiti come intenzionati a riformare il sistema di governo israeliano per ragioni diverse, di megalomania e corruzione. Il primo ministro, si afferma, attualmente è sotto processo per corruzione, la principale ragione citata dai suoi alleati storici per abbandonarlo, e l’unico modo per lui di garantirsi di non finire in galera è attraverso il controllo del potere giudiziario. All’interno di questa narrazione la riforma governativa è stata definita semplicemente come un abuso di potere, benché con conseguenze di vasta portata per l’economia, la posizione diplomatica, i diritti civili e per una delle linee di faglia più spinose di Israele: i rapporti tra Stato e religione.

Generalmente si attribuisce ai partiti più piccoli e radicali dell’ultimo governo Netanyahu, guidati da Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, l’uso della riforma giudiziaria per raggiungere finalmente il loro sogno di annessione, sfrenata espansione delle colonie ed espulsione del maggior numero possibile di palestinesi. Per gran parte dell’opposizione essi sono tutt’al più degli opportunisti che hanno individuato il momento in cui le loro fantasie messianiche convergono con gli interessi personali di Netanyahu e in cui finalmente hanno influenza perché senza di loro il governo crollerebbe.

Di conseguenza la lotta per salvare la democrazia israeliana dipinge la propria distopia in parallelo con la caduta nell’autoritarismo vista in Ungheria e in Polonia nello scorso decennio. Quindi bloccare l’“orbanizzazione” di Israele è diventata una sorta di parola d’ordine dell’opposizione.

Un ethos colonialista unificante

La ragione di questa dissonanza tra la narrazione dell’opposizione e il vero progetto del Likud è duplice. Primo, perché in parte è vera: in effetti Netanyahu ha bisogno di questi alleati di coalizione proprio per la sua stessa sopravvivenza politica e la sua libertà personale. La seconda ragione si riduce al fatto che l’opposizione israeliana e Netanyahu condividono la stessa ideologia, il sionismo, il cui fondamento è la convinzione che dio abbia dato la Terra di Israele al popolo ebraico, che gli ebrei abbiano il diritto di stanziarsi su ogni parte di quella terra e che la sopravvivenza del popolo ebraico dipenda dalla estrinsecazione fisica e politica di tale dottrina.

L’unica seria sfida a questo progetto, il fallito processo di Oslo che prevedeva la partizione e diversi livelli di limitata autonomia palestinese, non ha mai contrastato la fondamentale convinzione sionista che tutta la Terra di Israele sia del popolo ebraico. Quello su cui leader come Yitzhak Rabin e Ariel Sharon dissentivano riguardava il compromesso strategico, non l’ideologia. Loro e gli israeliani che ne seguivano i rispettivi percorsi non hanno mai visto la rinuncia alla piena applicazione di quello che è noto come sionismo massimalista o espansionista come una sua negazione.

Questo caposaldo del sionismo è la ragione per cui Rabin, Sharon, Shimon Peres, Ehud Olmert, Tzipi Livni e qualunque altro importante politico israeliano che ha proposto o inteso fare concessioni territoriali non si è mai sognato di rinunciare a tutte le colonie israeliane al di là della Linea Verde. A un decennio dall’ultimo processo di pace credibile, in Israele il sostegno persino a una limitata concessione territoriale è praticamente sparito.

A prescindere dalla sua veridicità storica, l’idea della sinistra israeliana di terra in cambio di pace è stata screditata dalla maggioranza degli israeliani sionisti come un errore comprovato. Persino quei partiti politici che ancora sostengono una soluzione a due Stati, anche solo in teoria, hanno interiorizzato da molto tempo l’inutilità di perseguirla. Un recente sondaggio ha rilevato che il sostegno degli ebrei israeliani a un regime di apartheid permanente, in cui Israele controlli tutto il territorio dal fiume Giordano al Mediterraneo ma non conceda pari diritti ai palestinesi, è raddoppiato negli ultimi due anni dal 15 al 29%. Nello stesso periodo il numero di ebrei israeliani che appoggiano i due Stati è sceso dal 43 al 34 %.

Cosa ancora più grave, una significativa sezione trasversale di quanti protestano contro il piano Netanyahu-Levin-Smotrich-Ben Gvir, e stanno anche avvertendo di un possibile spargimento di sangue nelle piazze, condivide il latente insieme di principi ideologici e obiettivi politici che il quel progetto intende raggiungere.

Per alcuni israeliani l’opposizione è personale: aborrono l’idea che governi il loro Paese qualcuno sotto processo per corruzione. Per altri, come Avigdor Lieberman [leader di un partito ultranazionalista laico, ndt.] e molti israeliani laici preoccupati dalle imposizioni religiose, si tratta dell’alleanza di Netanyahu con partiti religiosi ebraici. Per quanti sono più vicini al centro-sinistra, le differenze riguardano il prezzo per il vissuto ebraico democratico e quasi liberale di Israele.

Molti economisti e importanti uomini d’affari sono semplicemente terrorizzati dai previsti danni per l’economia israeliana derivanti dall’erosione dello stato di diritto e dell’indipendenza della magistratura.

Il problema con la “democrazia israeliana”

Dato che queste differenze non sono ideologiche, praticamente nessuno sta facendo i conti con la dissonanza tra la propria concezione della democrazia israeliana che starebbe cercando di salvare e l’intrinsecamente antidemocratico e illiberale regime di apartheid su cui la “sovranità ebraica” si è sempre fondata.

Il centro e buona parte della destra israeliani si oppongono all’annessione a breve termine della Cisgiordania perché pensano che in base alle attuali circostanze lo status quo di una “temporanea” occupazione militare di più di 55 anni sia più prudente dal punto di vista strategico. Secondo loro cancellare formalmente la distinzione tra i territori occupati e il vero e proprio territorio riconosciuto di Israele renderebbe troppo difficile convincere il mondo che Israele non è un regime di apartheid in cui a metà della popolazione, palestinese, vengono negati fondamentali diritti democratici, civili e umani.

Tale dissonanza risulta evidente se si considera che l’opposizione al piano di Netanyahu non sta offrendo un progetto alternativo. Non stanno suggerendo che Israele adotti una costituzione con garanzie formali di uguaglianza, diritti civili, democrazia o chiarezza sulla questione dei rapporti tra Stato e religione. Non hanno intenzione di denunciare le mire espansionistiche di Levin, Smotrich e Ben Gvir perché tali mire e la convinzione che la Terra di Israele sia del popolo ebraico è intrinseca all’ethos sionista. Non sono in grado di definire cosa effettivamente ne sia della democrazia israeliana se continua a governare in modo antidemocratico milioni di palestinesi senza concedere loro pari diritti.

Tuttavia il baratro che, come avvertono alcuni, potrebbe portare Israele a una guerra civile non riguarda visioni contrapposte del Paese. Il fatto è che un gruppo non si accontenta più di aspettare le “giuste condizioni” per realizzare il sogno sionista della sovranità ebraica su tutta la Terra di Israele, mentre l’altro preferisce attenersi alla tradizione politica di guadagnare tempo decidendo di non decidere.

Per Netanyahu, Levin, Smotrich e Ben Gvir le conseguenze della formalizzazione di un regime di apartheid che mini la nozione di Israele come una democrazia, e alcuni dei privilegi e vantaggi che questa definizione offre loro, valgono il costo, se pure il mondo è intenzionato a imporne uno. E proporre una vera visione alternativa richiederebbe all’opposizione un livello di riflessione su se stessa e una sfida a convinzioni fondamentali che praticamente nessuno intraprenderebbe volontariamente.

Michael Schaeffer Omer-Man è direttore di ricerca per Israele-Palestina al DAWN [Democracy for the Arab World Now, istituto di ricerca statunitense, ndt.]. Fino al 2019 è stato direttore di +972 Magazine. Ha lavorato anche con agenzie internazionali umanitarie e per i rifugiati nel contesto Israele/Palestina.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La bolla dell’hasbara israeliana sta per scoppiare? [gli sforzi di pubbliche relazioni per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni, ndt]

Meron Rapoport

13 febbraio 2023 – +972 Magazine

Per decenni gli alleati occidentali di Israele hanno hanno annuito quando si autodefiniva “l’unica democrazia in Medio Oriente”. Cosa succederà se ci ripensano?

“Perché le nostre nazioni condividono un’alleanza così stretta?” si è chiesto ad alta voce il primo ministro Benjamin Netanyahu davanti al presidente francese Emmanuel Macron a Parigi nel 2018, durante un evento in occasione dei 70 anni dalla fondazione di Israele. “Suppongo che la risposta possa essere riassunta in tre parole – parole che tutti voi conoscete: Libertè, egalitè, fraternitè!” Netanyahu ha continuato. Come la Francia, Israele è una democrazia orgogliosa, orgogliosa del nostro primato nel preservare la libertà nel cuore del Medio Oriente. Questo è davvero un risultato notevole perché in questi 70 anni non c’è stato un solo momento, nemmeno un secondo, in cui la democrazia di Israele sia stata messa in discussione».

Eppure per Macron sembra essere arrivato il momento in cui potrebbe porre in discussione la democrazia di Israele. Secondo “Le Monde”, durante il loro ultimo incontro a Parigi all’inizio di questo mese Macron ha detto a Netanyahu che se il programma del governo di estrema destra sulla revisione del sistema giudiziario andrà a buon fine la Francia sarà “costretta a concludere che Israele ha abbandonato il concetto dominante di democrazia”. Cioè, se Netanyahu ha propagandato Israele come un bastione della “libertà in Medio Oriente” per dimostrare a Paesi come la Francia di avere “valori condivisi”, sembra che oggi meno persone stiano abboccando a quanto il primo ministro sta spacciando.

Naturalmente, per quanto riguarda i palestinesi Israele non è mai stato una democrazia – dall’espulsione di 750.000 palestinesi durante la Nakba e la negazione del loro diritto al ritorno, attraverso il governo militare sui cittadini palestinesi di Israele durato fino al 1966, all’occupazione del 1967 e la sua sistematica violazione dei diritti dei palestinesi fino ad oggi. Macron, come altri leader mondiali, ne è sicuramente consapevole. Ma fintanto che lo Stato di Israele operava più o meno con tutti gli orpelli della democrazia era conveniente per il leader francese e altri nel cosiddetto mondo occidentale chiudere un occhio su ciò che stava accadendo oltre la Linea Verde [la linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948 ndt] e vedere l’occupazione israeliana e l’apartheid nei territori come un’anomalia, piuttosto che una caratteristica della democrazia israeliana.

La sua sedicente immagine di “unica democrazia in Medio Oriente” è stata per decenni, non solo durante l’era Netanyahu, la risorsa strategica di Israele, ed è una delle numerose ragioni che spiegano come Israele abbia goduto dell’immunità internazionale rispetto all’occupazione. Il suo sistema giudiziario relativamente indipendente, l’immagine di una stampa libera, le politiche apparentemente liberali nei confronti della sua comunità LGBTQ e il marketing aggressivo di Tel Aviv come una delle città più alla moda del mondo sono tutti serviti a questa immagine. Anche il concetto di “Start-Up Nation” ha contribuito a dipingere Israele come un Paese libero e creativo, parte integrante dell’Occidente.

Subito dopo il rapporto di Le Monde una fonte vicina a Netanyahu si è affrettata a chiarire ai giornalisti israeliani che Netanyahu ha avuto l’impressione che Macron non conoscesse tutti i dettagli della riforma. Ma si tratta di un’affermazione discutibile, dato che la riforma – la cui prima parte è stata approvata lunedì dalla Commissione Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset [parlamento israeliano, ndt.] e la prossima settimana potrebbe approdare alla Knesset in seduta plenaria per un voto preliminare – non è così complessa.

Quando un mese fa il ministro della Giustizia Yariv Levin l’ha annunciata ha impiegato esattamente tre minuti e mezzo per spiegarla: una clausola di annullamento che consentirebbe a 61 membri della Knesset di ribaltare le sentenze della Corte Suprema, accentuando il ruolo dei membri della Knesset nella proclamazione dei giudici della Corte Suprema, in modo tale che sia il governo a nominare i giudici, e rendendo le nomine dei consulenti legali “ad personam”. Sono convinto che la riforma avrebbe potuto essere spiegata a Macron in ancor meno tempo con una semplice frase: d’ora in poi il governo israeliano farà quello che vuole e nessun tribunale potrà fermarlo.

Macron è stato uno dei leader europei più importanti a parlare contro la rivoluzione antidemocratica di Viktor Orbán in Ungheria. Quando la Francia ha assunto la presidenza del Consiglio dell’Unione europea nel 2022 Macron ha spiegato che il suo compito principale sarebbe stato promuovere lo “stato di diritto” in Europa. “Siamo una generazione che sta scoprendo di nuovo come la democrazia e lo stato di diritto possono essere resi fragili”, ha affermato. Lo stato di diritto, ha aggiunto Macron, non è una “invenzione di Bruxelles”, ma parte della storia europea. “La fine dello stato di diritto è l’inizio dell’autoritarismo”.

Sebbene non esplicitamente menzionato, il governo ungherese ha capito molto bene di chi stesse parlando il presidente. “Ci aspettiamo che la presidenza francese di turno del Consiglio (europeo) smetta di applicare doppi standard e ricatti politici”, ha dichiarato Tamás Deutsch, membro del Parlamento europeo per il partito Fidesz di Orbán, in risposta al blocco dell’UE sul trasferimento di miliardi di euro all’Ungheria, non essendo riuscita ad attuare le riforme democratiche. Nel dicembre 2022 l’UE ha accettato di sbloccare parte del denaro, ma questi pagamenti sono ancora subordinati a ulteriori riforme.

Israele non è un membro dell’UE, e quindi Macron non può esercitare su Netanyahu lo stesso tipo di pressione che esercita su Orbán. Ma questo confronto in corso tra Macron in particolare, e l’Unione Europea in generale, da un lato, e l’Ungheria dall’altro, mostra l’importanza di quelli che un tempo erano considerati affari strettamente interni, come lo stato di diritto o la qualità della democrazia in un determinato Paese, in Paesi che apparentemente hanno “valori condivisi”.

“La prima linea dell’Occidente in Oriente”

Come altre colonie di insediamento, come gli Stati Uniti, il Canada e il Sud Africa, il sionismo si è vantata di aver stabilito in Palestina una “società modello” – per i coloni, ovviamente, non per la popolazione indigena. Una delle manifestazioni di questa società modello” è stata la democrazia interna che il movimento sionista ha stabilito tra il fiume e il mare [tra il Giordano e il Mediterraneo, ndt.]. Incluse procedure democratiche all’interno dei partiti sionisti, elezioni per l’Assemblea dei rappresentanti, l’organo legislativo che ha preceduto la Knesset e ha rappresentato la comunità dei coloni ebrei in Palestina durante il mandato britannico, elezioni nell’Organizzazione sionista mondiale e, naturalmente, elezioni per la Knesset dopo il 1948. Lo Stato di dirittoe l’indipendenza della corte erano, e sono rimaste, parte di questo pacchettodemocratico per gli ebrei.

Questa “società modello” è stata uno strumento importante per creare una coesione tra i coloni ebrei sotto il mandato britannico, e successivamente in Israele. Ma fin dal primo momento fu di enorme importanza anche per le relazioni tra la comunità ebraica in Israele e l'”Occidente”. Il fatto che il sionismo abbia stabilito una società libera e democratica nella Terra d’Israele è servito come prova che essa fa parte dell’Occidente, che rappresenta l’Occidente e che è portatrice di “libertà, uguaglianza, fratellanza” nel selvaggio e pericoloso Medio Oriente, come ha spiegato Netanyahu a Macron.

Questa visione è particolarmente profonda nella famiglia Netanayhu. Il sionismo è sempre stato la prima linea dell’Occidente in Oriente, ha detto Benzion Netanyahu, padre del primo ministro, in un’intervista ad Haaretz nel 1998. “Oggi è lo stesso: ha contrastato le tendenze naturali dell’Est a penetrare l’Occidente e schiavizzarlo”. Suo figlio Benjamin ha detto cose sorprendentemente simili nel 2017 durante un incontro con i capi del Gruppo Visegrád: Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. L’Europa finisce in Israele. A est di Israele, non c’è più Europa”, avrebbe detto Netanyahu durante una conversazione a porte chiuse con i leader.

Una delle affermazioni centrali degli oppositori dell’attuale tentativo di riforma giudiziaria è che la comunità degli affari non può operare in un Paese in cui il governo è forte e i tribunali sono deboli, e quindi le società lasceranno Israele e gli investitori saranno cauti nel mettere i loro soldi nell’economia israeliana. D’altra parte, i sostenitori della riforma affermano che in realtà essa incoraggerà la “libertà economica” – e non hanno necessariamente torto; in Cile il capitalismo è fiorito dopo che la democrazia è stata uccisa dal regime di Pinochet, mentre in Cina il capitalismo prospera anche in mancanza di un minimo di democrazia. Quando il governo non ha limiti può sopprimere i sindacati e far prosperare il capitale senza fastidiose questioni come i diritti umani o la libertà di sciopero.

Ma i valori condivisi, in nome dei quali Paesi come Francia e Stati Uniti hanno chiuso un occhio davanti all’occupazione israeliana e alla sistematica violazione dei diritti dei palestinesi, vanno ben oltre il liberalismo economico. Riguardano la capacità stessa dei Paesi occidentali di vedere Israele come uno di loro. Quando il Segretario di Stato americano Anthony Blinken ha incontrato Netanyahu durante la sua visita nel Paese a fine gennaio ha spiegato quali sono gli interessi e valori condivisidi Israele e Stati Uniti: Il rispetto dei diritti umani, l’eguale amministrazione della giustizia per tutti, la parità di diritti delle minoranze, lo stato di diritto, la libertà di stampa e una solida società civile”.

È vero che sia le osservazioni di Blinken che quelle di Macron dovrebbero essere prese con le pinze. Gli Stati Uniti mantengono la loro “relazione speciale” con Israele, anche se non c’è stato quasi un solo giorno nella storia di Israele in cui abbia rispettato i diritti dei palestinesi. Netanyahu è stato anche citato dopo l’incontro con Macron per aver detto che le lamentele sulla mancanza di democrazia in Israele diventeranno un “mantra” come le lamentele su Israele che non riesce a portare avanti una soluzione a due Stati.

Ci troviamo in un momento senza precedenti, in cui Levin, Netanyahu e il Presidente del Comitato per la costituzione, il diritto e la giustizia della Knesset, Simcha Rothman, sono determinati ad approvare la riforma ad ogni costo, mentre centinaia di migliaia di manifestanti, il procuratore generale, il presidente e [tutta, ndt.] la Corte Suprema sono determinati a opporsi. Se la Corte Suprema dovesse dichiarare incostituzionali le riforme potremmo andare incontro a uno scontro violento con dichiarazione di uno stato di emergenza, chiusura per decreto della Corte Suprema e arresto in massa dei leader della protesta.

Se questo accadesse, e il governo andasse contro i tribunali e i pochi rimasugli di valori liberali che ancora esistono in Israele, forse allora i Paesi occidentali farebbero un ulteriore passo avanti nelle loro critiche. E se lo facessero anche l’immunità dalle critiche all’occupazione di cui Israele ha goduto per decenni potrebbe cominciare a incrinarsi. Dopodiché, si giocherebbe una partita completamente nuova.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)