Vita e morte di un quartiere di Gerusalemme.

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Lemire V., Au pied du Mur. Vie et mort du quartier maghrébin de Jérusalem (1187-1967), Seuil, Paris, 2022, ‎ 416 pagine.

Recensione di Amedeo Rossi

22 giugno 2022

In questo libro lo storico francese Vincent Lemire ricostruisce la vicenda del quartiere marocchino (o più precisamente maghrebino) di Gerusalemme attraverso i suoi oltre 8 secoli di vita. Va detto subito che questo saggio non rompe solo il “muro del silenzio”, come lo definisce Lemire, riguardo alla vicenda del quartiere maghrebino di Gerusalemme. È anche un saggio estremamente dettagliato e un esempio di uso delle fonti più disparate: lavoro d’archivio in svariati Paesi e in molte lingue (tra cui l’ebraico e l’arabo), materiale fotografico e articoli di giornale, lettere private, fonti orali, controversie giudiziarie e petizioni, oltre a una vastissima bibliografia. Nel libro sono frequentemente presenti immagini a testimonianza di questa ricerca capillare, che ha dato vita a una ricostruzione che mette in rapporto l’oggetto di studio (il quartiere) con le vicende più generali dell’area mediorientale e non solo. A fine anno è annunciata la pubblicazione in inglese. Si spera che presto sia disponibile anche un’edizione italiana.

Nato su iniziativa di Salah al-Din (Saladino), il quartiere era inizialmente destinato ad ospitare i pellegrini che dal Maghreb si recavano alla Mecca. Per questo venne affidato a un waqf (fondazione benefica religiosa), che prese il nome dal mistico sufi Abu Madyan, la cui famiglia era originaria di Tlemcen, in Algeria. Con il tempo alcuni pellegrini si stabilirono nel quartiere e divennero parte della comunità gerosolimitana. La sua posizione centrale, a ridosso della Spianata delle Moschee (Haram al-Sharif, il Monte del Tempio per gli ebrei) lo rese un luogo pienamente integrato nella vita urbana, che condivise quindi la sorte di Gerusalemme, sottoposta nel corso dei secoli alla dominazione araba, ottomana e infine britannica. Cosmopolita come il resto della città, dal libro emerge l’immagine di un quartiere vivace e differenziato sia dal punto di vista sociale che economico.

Fu nel periodo del mandato britannico che iniziò a delinearsi il drammatico destino che lo attendeva. L’impero intendeva favorire l’immigrazione sionista in Palestina. A sua volta i dirigenti del nazionalismo ebraico utilizzarono il messianismo biblico come legittimazione delle proprie pretese di conquista e nel contempo come forza attrattiva per incentivare l’emigrazione nella “Terra promessa”. Il quartiere si trovava a ridosso del cosiddetto Muro del Pianto, i contrafforti occidentali della Spianata delle Moschee che dal XVI secolo erano diventati luogo di preghiera per gli ebrei. Paradossalmente, nota l’autore, “il quartiere maghrebino si trovò nelle immediate vicinanze del propulsore che galvanizzava le identità religiose di Gerusalemme fin dai suoi inizi”.

Nel 1927 una forte esplosione fece tremare il quartiere, con uno scambio di accuse tra le due comunità. Come si è scoperto di recente, in realtà si trattò di un attentato organizzato dalla milizia sionista Haganà per intimidire la popolazione del quartiere in seguito a numerosi incidenti con i fedeli che si recavano al Muro del Pianto. Fu sempre in seguito a uno scontro avvenuto nel quartiere maghrebino tra nazionalisti ebrei che rivendicavano il possesso di quello che secondo loro era il Monte del Tempio e i fedeli musulmani che scoppiò la rivolta araba del 1929. “Il quartiere maghrebino”, scrive Lemire, “era ormai al centro del conflitto, e rimarrà in questa pericolosa posizione fino alla sua distruzione nel giugno 1967.”

La guerra del 1947-49 e la conseguente nascita di Israele rappresentarono un duro colpo per i suoi abitanti. Pur rimanendo sul lato giordano della città, le attività benefiche del waqf Abu Madyan vennero notevolmente ridotte a causa dell’occupazione israeliana dei terreni di Ain Karem, da cui l’ente benefico ricavava buona parte delle risorse necessarie ad aiutare i propri assistiti.

È in questo contesto che compare un altro attore, il colonialismo francese, che negli anni ’50 si erse a difensore dei cittadini originari dei suoi possedimenti nel Maghreb per contrastare le crescenti spinte indipendentiste del nazionalismo arabo. L’intervento francese fu però contraddittorio, anche a causa dei rapporti di collaborazione con Israele, come nel caso della crisi di Suez del 1956 e della lotta contro l’FNL algerino, a cui parteciparono attivamente i servizi di intelligence israeliani. In quegli anni la Francia stava anche contribuendo al programma atomico di Israele. L’indipendenza dell’Algeria pose fine a questa attività diplomatica francese.

La guerra dei Sei giorni e l’occupazione israeliana decretarono la fine del quartiere. Tra il 10 e l’11 giugno (il conflitto era finito proprio il 10) i bulldozer israeliani rasero al suolo quasi tutto il quartiere. Agli abitanti vennero concesse 2 ore per lasciare le proprie case. Nella demolizione morirono, a seconda delle fonti, da una a tre persone. Con un formalismo tipico del modus operandi di Israele, prima dell’operazione venne riunita una commissione composta da tre architetti, uno storico e un archeologo. “L’obiettivo”, scrive Lemire,” è evidentemente di occultare le responsabilità politiche mettendo in primo piano le competenze scientifiche.” La commissione suggerì di preservare il 60% degli edifici. L’intervento di demolizione interesserà invece quasi tutto il quartiere. La responsabilità di non aver seguito il parere degli esperti venne attribuita dall’esercito e dal potere politico locale (Comune di Gerusalemme) e statale all’iniziativa di un gruppo di imprenditori edili. La motivazione ufficiale: si sarebbe trattato di un quartiere di baracche, quindi di un’operazione di risistemazione urbanistica per ragioni di igiene e sicurezza, in quanto gli edifici sarebbero stati pericolanti. La situazione era ben diversa, come dimostrano le testimonianze personali, la documentazione d’archivio anche israeliana e il materiale fotografico che accompagnano la narrazione del libro. Ma l’operazione propagandistica funzionò, persino riguardo alla corretta risistemazione degli abitanti del quartiere, 650 persone, che invece vennero abbandonati a se stessi. Un patrimonio storico plurisecolare di 135 edifici venne distrutto, e al suo posto rimase la spianata che si trova a ridosso del Muro del Pianto.

Ciò che rimase del quartiere, l’isolato noto come Dar Abu Said, venne demolito nel giugno 1969, sostenendo anche in questo caso che si trattava di edifici pericolanti. In questo caso ci fu uno scontro tra il ministero degli Affari religiosi e parte del governo da una parte e dall’altra l’amministrazione comunale, il Dipartimento delle Antichità e il ministero degli Esteri, che si opponevano per varie ragioni all’operazione. Uno solo degli edifici da demolire effettivamente presentava una crepa, definita “utile” dal Menachem Begin, allora ministro senza portafoglio, poi primo ministro di Israele nonché premio Nobel. Ma era stata provocata da lavori di scavo di caterpillar israeliani. Ciò fu sufficiente a giustificare la distruzione. Quella che lo storico chiama “ebrezza messianica” che si era impadronita di Israele dopo la vittoria del 1967 ebbe la meglio.

Nelle conclusioni Lemire afferma che “la funzione dello storico è capire e non giudicare, indagare e stabilire i fatti e non giudicarli sul piano morale né definirli su un piano giudiziario.” E citando il grande storico Marc Bloch insiste: “Quando lo studioso ha osservato e spiegato, il suo compito è finito.” Se ciò può valere per il ricercatore, il lettore non può esimersi dal constatare che la pratica della pulizia etnica ha accompagnato fin dalla sua nascita lo Stato di Israele. Quanto avvenuto al quartiere maghrebino era già toccato in sorte a centinaia di villaggi palestinesi nel 1947-49 (la Nakba), si ripeté durante e dopo la guerra del 1967 (la Naksa) e da allora continua a segnare le vicende dell’occupazione israeliana in Cisgiordania e a Gaza, come allora nella sostanziale indifferenza della comunità internazionale. Questo libro non può che destare nel lettore indignazione e condanna.