Ora Israele può togliere la cittadinanza ai palestinesi del ‘48

Foto : Yonatan Sindel/Flash90
image_pdfimage_print

Lana Tatour

25 luglio 2022 –  Middle East Eye

La sentenza di un tribunale israeliano secondo cui la “violazione della fedeltà” allo Stato è motivo di denaturalizzazione faciliterà notevolmente il suo piano di vecchia data volto ad espellere i cittadini palestinesi di Israele

La scorsa settimana, con una decisione che costituisce un precedente, la Corte Suprema israeliana ha stabilito che lo Stato ha il potere di revocare la cittadinanza a una persona condannata per reati equiparabili ad una “violazione della fedeltà”, anche se ciò renderebbe la persona apolide e in violazione del diritto internazionale.

La sentenza riguarda il caso di Alaa Zayoud, palestinese con cittadinanza israeliana. Nell’ottobre 2015 Zayoud ha speronato con la sua auto una stazione degli autobus e ha accoltellato tre israeliani. Nel 2017, un anno dopo la sua condanna, il ministero dell’Interno ha notificato a Zayoud la sua intenzione di revocargli la cittadinanza, in conformità con la legge sulla cittadinanza.

Il tribunale amministrativo di Haifa ha approvato questa decisione. Zayoud ha fatto appello e il caso è giunto davanti alla Corte Suprema.

Nella propria sentenza la Corte Suprema ha stabilito: “Non c’è stato alcun vizio costituzionale nella disposizione che consente la revoca della cittadinanza di una persona che ha commesso un atto che costituisce una violazione della fedeltà allo Stato di Israele, come ad esempio un atto di terrorismo, un atto di tradimento o di grave spionaggio oppure l’acquisizione della cittadinanza o il permesso di soggiorno permanente in uno Stato o territorio ostile.”

Ciò anche se, a causa della revoca della cittadinanza, l’individuo divenisse apolide, fermo restando che in tal caso il ministero dell’Interno deve concedergli lo status di residenza permanente in Israele o un altro status giuridico appropriato “.

L’importanza di questa decisione non deve essere sottovalutata. Le sue implicazioni sono gravi e saranno chiare a breve e lungo termine. Questa sentenza ha istituito una procedura legale per la revoca della cittadinanza ai palestinesi del ’48 [cittadini di Israele di origine araba, discendenti dai palestinesi residenti in quello che divenne territorio israeliano e che vi rimasero dopo il 1948, ndt.] (noti anche come cittadini palestinesi di Israele), un passo cruciale negli sforzi di Israele tesi a promuovere la pulizia etnica e l’espulsione dei palestinesi.

‘Intento terroristico’

A livello pratico, la corte ha spianato la strada a quella che diventerebbe la denaturalizzazione di routine dei palestinesi con cittadinanza israeliana, esponendoli all’espulsione, qualcosa a cui Israele aspira da tempo.

La decisione di sostituire la cittadinanza con un cosiddetto status di residenza permanente potrebbe consentire alle persone di continuare ad avere accesso ad alcuni servizi sociali, ma le priverebbe della più importante protezione che la cittadinanza è in grado di garantire: il diritto di rimanere a casa propria.

Israele sa che per rendere i palestinesi del ’48 passibili di espulsione deve prima revocare loro la cittadinanza. La decisione del tribunale facilita proprio questo.

E sono Israele e i suoi servizi di sicurezza a definire ciò che costituisce una “violazione della fedeltà”, che secondo la legge sulla cittadinanza crea i presupposti per la revoca della cittadinanza. Al momento Israele basa la definizione di “violazione della fedeltà” sulla legge israeliana contro il terrorismo, che gli consente di classificare diversi reati come atti terroristici.

Israele usa regolarmente il termine “intenti terroristici” quando si tratta di palestinesi. Ad esempio, all’indomani dell’Intifada dell’Unità del maggio 2021 [ondata di proteste, che ha visto coinvolti anche i palestinesi con cittadinanza israeliana, ndt.] Israele ha arrestato migliaia di palestinesi e ha intentato processi contro centinaia di manifestanti, di cui 167 con l’accusa di reati terroristici sulla base della legge antiterrorismo.

A seguito della recente decisione della Corte Suprema rischiano tutti la revoca della cittadinanza. I palestinesi sanno fin troppo bene cosa questo potrebbe potenzialmente significare: l’espulsione dalla loro patria.

L’atto di revoca della cittadinanza renderebbe apolidi i palestinesi colpiti. Israele ha già reso apolidi tutti i palestinesi nel 1948 con l’annullamento della cittadinanza palestinese [posseduta, ndt.] sotto il mandato britannico. Molti palestinesi sono rimasti apolidi. I palestinesi rimasti dopo la Nakba (la catastrofe) [nome con cui i palestinesi indicano l’esodo forzato di ca. 700.000 palestinesi dai territori occupati da Israele nel corso della guerra arabo-israeliana del 1948, ndt.] del 1948 hanno ricevuto la cittadinanza israeliana nei primi due decenni dello Stato [israeliano, ndt.].

Ora Israele minaccia ancora una volta di renderli apolidi.

Sebbene tale decisione violi chiaramente il diritto internazionale, la corte ha comunque stabilito che la denaturalizzazione dei palestinesi è costituzionale affermando erroneamente che la condizione di apolidia può essere sanata attraverso la concessione di una “residenza permanente in Israele o di un altro appropriato status giuridico”.

Un piano segreto

L’esperienza dei gerosolimitani ci insegna che non c’è nulla di permanente nella “residenza permanente” quando si tratta di palestinesi. Dal 1967 Israele ha frequentemente revocato la residenza ai gerosolimitani, bandendoli di fatto in modo permanente dalla loro città e dalle loro case. Finora, nel quadro dello sforzo continuo rivolto ad eliminare i palestinesi dalla città, sono state revocate oltre 15.000 residenze.

Israele non ha mai accettato l’esistenza dei suoi cittadini palestinesi.

Nel corso del suo primo decennio ha perseguito piani per l’espulsione di massa dei palestinesi del ’48. Il massacro di Kafr Qasim dell’ottobre 1956, in cui l’esercito giustiziò 51 palestinesi, faceva parte di un più ampio piano segreto, chiamato Operazione Hafarperet, per estromettere la popolazione palestinese dal Piccolo Triangolo [concentrazione di città e villaggi arabo-israeliani, ndt.].

Inoltre, all’inizio degli anni ’50 Israele tentò di portare avanti un piano per l’espulsione di 10.000 palestinesi da sette villaggi della Galilea, nonché altri piani per il reinsediamento di palestinesi in Argentina e Brasile.

Il proposito di espellere i palestinesi è stato mantenuto. È riapparso nel panorama pubblico e politico israeliano durante gli anni ’80 con l’ascesa di Meir Kahane, un rabbino nazionalista ultra-ortodosso di origine americana, e del suo partito fascista, Kach. Kach sosteneva la denaturalizzazione dei cittadini palestinesi e il loro trasferimento, nonché l’espulsione dei palestinesi dai territori occupati nel 1967.

Dagli anni 2000 sono stati compiuti sforzi significativi per facilitare la revoca della cittadinanza ai palestinesi. I piani proposti per ridurre il numero di cittadini palestinesi sono ora parte integrante del discorso politico predominante in Israele e sono supportati dalla maggioranza dell’opinione pubblica israeliana.

Abbiamo visto appelli con la richiesta che i palestinesi del ’48 firmino un giuramento di fedeltà allo Stato israeliano come Stato ebraico; l’adozione dello Stato-nazione del popolo ebraico nel 2018; l’avanzamento di quello che è noto come il piano di “scambio di popolazione” – il trasferimento pianificato dei villaggi del Piccolo Triangolo e dei loro circa 300.000 abitanti nello Stato palestinese contro la volontà degli abitanti palestinesi di queste aree.

Uno strumento del sumud

Attraverso una progressione allarmante negli ultimi anni Israele ha revocato la cittadinanza ai beduini palestinesi del Negev come apparente banco di prova per un più ampio progetto di denaturalizzazione dei cittadini palestinesi. Nel 2010 il Ministero dell’Interno ha avviato una revisione dello status di cittadinanza dei beduini.

Il suo rapporto concludeva che migliaia di beduini erano stati erroneamente registrati come cittadini. Successivamente Israele ha denaturalizzato centinaia di beduini del Negev rendendoli apolidi.

Non è un caso che Israele abbia iniziato con i beduini, la popolazione più vulnerabile ed emarginata tra i palestinesi del ’48.

Non è un segreto che Israele voglia vedere scomparire tutti i palestinesi, inclusi i palestinesi del ’48. Anche se a questi ultimi è stata concessa la cittadinanza israeliana, Israele vede i palestinesi del ’48 come ospiti la cui presenza non solo è indesiderabile, ma sempre condizionata.

Israele vede la loro cittadinanza come una concessione, non come un diritto – e le concessioni possono sempre essere revocate – come ben espresso dall’ex ministro dei Trasporti israeliano, Bezalel Smotrich: “Noi siamo i proprietari di questa terra. Questa terra è appartenuta al popolo ebraico per migliaia di anni. Dio ci ha promesso tutta la Terra d’Israele, una promessa che ha mantenuto. Siamo semplicemente stati le persone più ospitali del mondo dai giorni di Abramo e per questo siete ancora qui. Almeno per ora”.

Dobbiamo vedere le cose come sono: Israele lavora passo dopo passo nel creare percorsi giuridici per rendere possibile la denaturalizzazione, e quindi l’espulsione, dei palestinesi del ’48. Per loro la cittadinanza israeliana è stata uno strumento di sumud [risolutezza in arabo, parola simbolo della cultura palestinese derivante dall’esperienza prolungata della dialettica dell’oppressione e della resistenza, ndt.], ferma perseveranza.

Essa garantisce per lo più la continuazione della permanenza in patria. Per i palestinesi del ’48 cittadinanza significa sopravvivenza.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Lana Tatour è docente/ricercatrice di sviluppo globale presso la School of Social Sciences, University of New South Wales (Sydney, Australia).

 

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)