I suoni dell’occupazione

I sussurri, le grida ed i colpi di fucile “sentiti ma non necessariamente visti” sono parti integranti dei lavori artistico-documentaristici creati da Rehab Nazzal, che è stata ferita a una gamba dai soldati dell’esercito israeliano in dicembre.

di Amira Hass,

Haaretz 

Il soldato dell’esercito israeliano che ha ferito Rehab Nazzal a Betlemme venerdì 11 dicembre 2015, sparandole ad una gamba, non sapeva chi fosse. Non conosceva il suo nome; che è nata a Qabatiyah, vicino a Jenin; che ha 55 anni e che è anche cittadina canadese; che insegna arte in una scuola a Betlemme; che una delle sue esposizioni ha fatto arrabbiare l’ambasciatore israeliano in Canada; o che sta scrivendo una tesi di dottorato interdisciplinare che non si può sintetizzare in una frase, ma si occupa tra altre cose degli armamenti contemporanei, compresi i droni e il fatto che prendano di mira le capacità sensoriali degli esseri umani.

Ai fini della sua ricerca, Nazzal ha assistito alle manifestazioni settimanali a Betlemme in via Al-Khalil, che dall’inizio di ottobre è bloccata dal minaccioso muro di separazione e dalla torre di controllo. Filma come vengono disperse le manifestazioni, accompagna i feriti in ospedale, incontra le famiglie dei partecipanti arrestati e parla con i residenti delle case colpite dai gas lacrimogeni e dal liquido puzzolente, spruzzato da un veicolo militare noto come “La Puzzola”.

Come sempre, Nazzal quel venerdì aveva in mano una cinepresa. Stava camminando in direzione opposta rispetto ai manifestanti, che fuggivano verso sud poiché “La Puzzola” si stava avvicinando, minacciando di spargere in ogni direzione il suo liquido disgustoso, che Israele ha sviluppato come arma non letale. L’odore rivoltante impregna il corpo per parecchi giorni, e nessun lavaggio lo toglie dai vestiti. Ma per amore della sua ricerca, Nazzal ha deciso di dirigersi a nord, avvicinarsi il più possibile al veicolo “La Puzzola” e filmarlo mentre era in azione.

Non ha sentito lo sparo; era concentrata sul veicolo. Ma improvvisamente ha avvertito il dolore, come una bruciatura di sigaretta sulla gamba. I suoi pantaloni e le scarpe si sono intrisi di sangue.

La sensazione di bruciore ed il rumore dello sparo ci distoglie brevemente dal descrivere la ferita, anche solo per rispettare la massima di Nazzal, che nessun evento deve essere isolato dal suo contesto.

Poiché l’artista ha vissuto per molti anni all’estero, i suoi ricordi della conquista israeliana del 1967 sono ancora freschi. Uno di quei ricordi riguarda una visita alla prigione di Jenin, quando suo fratello tredicenne fu imprigionato dopo essere stato sorpreso a tagliare le linee telefoniche di una postazione dell’esercito a Qabatiyah [cittadina nei pressi di Jenin- Ndtr.].

“Mio fratello cominciò a gridare che voleva tornare a casa con noi.”, ha ricordato durante un’intervista ad Haaretz il mese scorso. “E ci mostrò che lo avevano torturato: quelli che lo avevano interrogato gli avevano bruciato i piedi con una sigaretta accesa.”

Ricorda i segni della bruciatura. Era una ragazzina nel 1967, e ricorda i soldati che entravano nelle case a Qabatiyah, puntando luci abbaglianti negli occhi dei residenti nel mezzo della notte. “Cerchi di vedere qualcosa, e vedi i fucili e gli scarponi.”

Ricorda i soldati che svuotavano sacchi di cibo. Riso e legumi più tardi potevano essere sistemati, ma l’incubo di sua madre era che mischiassero il sale con lo zucchero.

Nazzal dice che i soldati picchiarono suo padre di fronte a lei e ai suoi fratelli. Negli anni ’30 lui si era unito ai combattenti di Sheikh Azz A-Din al-Qassam (che lottò contro la colonizzazione britannica ed ebraica). “Immagina che cosa significò vederlo umiliato davanti a te. Tornò dalla prigione e non disse una parola sulle torture,” dice.

Ricorda che I soldati usarono i megafoni per ordinare a tutti gli uomini ed i ragazzi che avevano fucili o coltelli di portarli nella scuola, e poi irruppero nelle case in cerca di armi.

Ricorda lunghi periodi di coprifuoco. Una volta, sbirciò fuori da una fessura e vide dei prigionieri con i ferri ai piedi che buttavano giù un muro. Era un unico ricordo, di prigionieri reclutati per demolire una casa, o erano due diversi ricordi che erano affiorati? Lei non lo sa.

Nazzal aveva uno zio che insegnava inglese e ricorda l’umiliazione che gli inflissero: i soldati, che non sapevano l’arabo, lo misero sulla parte anteriore di una jeep che pattugliava la città. Gli diedero ordini in inglese e lui dovette fare il traduttore.

Il potere del suono

A Nazzal è sempre piaciuto dipingere e disegnare, ma negli ultimi 10 anni si è maggiormente concentrata su altri sensi, soprattutto sull’ascolto. Nel 2006 ha scoperto il potere del suono come strumento di arte politica, quando per la prima volta ha portato i suoi tre figli dal Canada ad incontrare la sua famiglia a Qabatiyah. Aveva vissuto all’estero dal 1980, prima in Giordania e in Siria, poi in Canada.

“Il volo da Toronto ad Amman è durato 12 ore”, ha detto. “Poi ci sono volute altre 12 ore per raggiungere Qabatiyah: checkpoints, attese, perquisizioni. Come siamo arrivati, siamo crollati a letto ed abbiamo dormito a lungo.

“Improvvisamente, sono stata svegliata da una granata stordente. Giuro che ho pensato fosse un terremoto. Ho stretto la mano di mia madre e lei mi ha detto di non preoccuparmi. Era normale. Lei ci era già abituata.

“Poi sono cominciati gli spari, e la casa al buio si è riempita di mormorii in inglese e in arabo. Ho immediatamente afferrato la mia cinepresa. Mia madre ha urlato ‘Ti uccideranno!’. Ma ciò che ho registrato erano solo i suoni e le poche luci che si potevano vedere.

“Da 30 ore di video ho estratto quattro minuti di registrazione audio (lo spettatore sente il suono, ma vede solo uno schermo nero) per il lavoro ‘Una notte a casa’. Mi ha sorpresa il modo in cui la gente lo ha recepito, perché quei suoni richiamavano rumori di violenza in altri luoghi, come il Sudamerica e la Bulgaria, in altri tempi.”

Ha scoperto che un’immagine è passibile di turbare le persone, di riempire lo spettatore di stereotipi. “Se sentono il suono di una donna che piange, si identificano con lei. Se vedono la donna in lacrime che indossa un foulard, il pregiudizio prevarrà sull’empatia.”

Ma Nazzal non ha sentito lo sparo che l’ha ferita l’11 dicembre. Un’ambulanza palestinese che si trovava nei pressi l’ha raggiunta e mentre i paramedici le prestavano i primi soccorsi, i soldati hanno tirato dalla jeep gas lacrimogeni contro di loro. “Eravamo tutti soffocati dal gas”, ha detto. Poi lei ha perso conoscenza per il dolore.

“E’ un crimine di guerra tirare gas lacrimogeni a persone che stanno curando un ferito”, ha aggiunto.

La pallottola è entrata ed uscita dal suo corpo, e fortunatamente non ha spezzato delle ossa. Lentamente è guarita dall’infezione, il dolore è passato ed ha smesso di zoppicare.

“Io sono solo una delle 600 persone ferite da armi da fuoco da ottobre”, ha detto a metà gennaio (oggi il numero è almeno di 2000). “Solo in quel giorno, ci sono stati 16 feriti a Betlemme.”

Quando è stata colpita, la sua videocamera si è spostata dall’immagine della”Puzzola” e della strada vuota. Più tardi si è accorta che aveva filmato una jeep della polizia di frontiera e due cecchini che stavano dietro ad una colonna all’entrata dell’albergo di fronte al quale lei si trovava. L’asfalto intorno alla jeep era coperto di pietre.

Haaretz ha chiesto all’esercito israeliano se ci fossero ordini di sparare ai fotografi. L’Ufficio del portavoce dell’esercito ha risposto che quel giorno c’era una dimostrazione violenta vicino alla tomba di Rachele, durante la quale due ufficiali dell’esercito sono stati feriti e che “i soldati hanno risposto con metodi per disperdere la folla.” Ha aggiunto che sono stati feriti diversi palestinesi, e che la procura militare sta predisponendo un’ indagine sulla vicenda.

Nazzal aveva un altro fratello, che studiava ad Amman quando scoppiò la guerra nel 1967; Israele non gli ha mai permesso di tornare. Non si ricorda di lui, e non lo ha mai incontrato prima che gli ufficiali della sicurezza israeliana lo assassinassero in Grecia nel 1986.

Ha mostrato il funerale in un video intitolato “Mourning [Lutto]” alla sua esposizione ad Ottawa nel 2014. Un altro video mostrava i volti di altri palestinesi uccisi durante gli attacchi contro israeliani o in operazioni omicide. Si è rifiutata di commentare i rapporti che mettevano in relazione suo fratello ad attacchi che hanno ucciso dei civili, compresi dei bambini, come quello alla scuola di Maalot nel 1974 [nell’attacco, avvenuto in occasione del 26° anniversario della nascita di Israele vennero uccise, oltre agli aggressori, 26 persone, tra cui molti bambini di una scuola, e 66 vennero ferite. Ndtr.].

“Se c’è qualcuno che può parlare di perdere dei figli, quelli siamo noi”, ha replicato Nazzal. “Circa 800.000 persone scacciate nel 1948 hanno perso la loro patria. Io lavoravo in Giordania aiutando le famiglie sopravvissute. Ero sconvolta dal numero dei nostri morti: 50.000.

Se c’è qualcuno che può parlare di umiliazione e tortura, siamo noi.”, ha proseguito. “Andate ad Hebron, guardate i soldati che controllano le mani degli scolari per scoprire i segni (che hanno tirato pietre). Andate a vedere gli alberi che Israele sradica ogni giorno. Non è possibile separare un evento o una persona dal complessivo contesto di questa martoriata terra.”

Traduzione di Cristiana Cavagna




Gaza: perché lo status quo porterà alla guerra

Ma’an News

di Ramzy Baroud

Non è vero che da quando Hamas ha vinto le elezioni parlamentari nel 2006 nei Territori Palestinesi Occupati ci sono state solo tre guerre. Ce ne sono state altre che sono state giudicate senza importanza o delle “scaramucce”. L’operazione “Eco di ritorno” nel marzo 2012, per esempio, ha ucciso e ferito oltre cento persone. Ma poiché il numero di morti rispetto agli altri attacchi più importanti è sembrato di poco conto, non è stata citata come una “guerra” in senso stretto.

In base a questa logica, le cosiddette operazioni “Piombo fuso” (2008-09), “Pilastro di difesa” (2012) e la più letale di tutte, “Margine protettivo” (2014), sono state abbastanza gravi da essere citate in ogni discussione importante, soprattutto quando si prende in considerazione la prospettiva di una nuova guerra israeliana contro Gaza. E’ importante notare che la maggior parte dei media, più o meno importanti, accolgono le denominazioni israeliane della guerra, non quelle dei palestinesi. Per esempio, i gazawi si riferiscono al loro ultimo scontro con Israele come alla “battaglia di Al-Furqan [nel Corano, la lotta tra il Bene el Male. Ndtr.]”, un termine che non abbiamo praticamente mai sentito nominare in riferimento alla guerra.

Osservare il discorso israeliano sulla guerra come il principale fattore per comprendere la guerra contro la resistenza è più rilevante della questione del linguaggio in altre aree. Le sofferenze a Gaza non sono mai cessate, non a partire dall’ultima guerra, ma da quella precedente o da quella prima ancora. Ma solo quando Israele comincia a riflettere sulla guerra come un’opzione reale, molti di noi ritornano su Gaza per discutere delle varie violente possibilità che si prospettano.

Il problema di ignorare Gaza finché le bombe israeliane iniziano a cadere è parte integrante del modo di pensare collettivo israeliano – del governo come della società. Gideon Levy, uno dei pochissimi giornalisti israeliani sensibili nei giornali più importanti ne ha scritto in un suo recente articolo su Haaretz. “L’ossessione per la paura e l’eterno crogiolarsi nel terrore in Israele ci ricorda improvvisamente l’esistenza del ghetto confinante,” ha scritto in riferimento a Gaza e al suono di tamburi di guerra israeliani. “Solo allora qui ci ricordiamo di Gaza. Quando spara, o almeno scava.. (solo allora) ci viene in mente della sua esistenza. L’Iran è uscito dalle priorità. La Svezia non provoca abbastanza paura [si riferisce alle dichiarazioni della ministra degli Esteri svedese contro le politiche israeliane nei confronti dei palestinesi. Ndtr.]. Hezbollah è impegnato. Così torniamo a Gaza.”

Di fatto, l’eccessivamente violento passato di Israele a Gaza non dipende dal relativo controllo da parte di Hamas di quel luogo terribilmente povero ed assediato, e neppure, come nell’opinione comune, è legato alla divisione in fazioni dei palestinesi. Sicuramente, la forza di Hamas là non rappresenta certo un incentivo per Israele a lasciar perdere Gaza, e la penosa divisione in fazioni dei palestinesi raramente migliora la situazione. Tuttavia, il problema di Israele riguarda la stessa idea che ci sia là un’entità palestinese che osi sfidare la dominazione di Israele e osi resistere.

Peraltro la tesi secondo cui sia la resistenza armata, in particolare, che fa infuriare particolarmente Israele è errata. La resistenza violenta può accelerare la rappresaglia israeliana e l’intensità della sua aggressione, ma, come stiamo osservando in Cisgiordania, nessuna forma di resistenza è mai stata permessa, non solo ora, non solo da quando l’Autorità Nazionale Palestinese è stata fondamentalmente contrattata per controllare la popolazione palestinese, e sicuramente non [è permessa] da quando è iniziata l’occupazione militare israeliana nel 1967.

Israele vuole avere il monopolio totale della violenza e questo è l’essenziale. Una rapida rassegna della storia di Israele contro la resistenza palestinese in tutte le sue forme è indicativa del fatto che la narrazione di Israele contro Hamas è sempre stata riduttiva, in parte perché è stata politicamente vantaggiosa per Israele, ma anche utile alle dispute interne tra palestinesi.

Fatah, che è stato il più grande partito politico palestinese finché Hamas ha vinto 76 dei 132 seggi del parlamento legislativo alle elezioni dell’inizio del 2006, ha giocato un ruolo fondamentale nella costruzione di questa versione fuorviante, che vede le passate guerre e l’attuale conflitto esclusivamente come una lotta tra Hamas, come avversario politico, e Israele.

Quando sette combattenti di Hamas sono stati recentemente uccisi dopo che è crollato un tunnel – distrutto da Israele durante la guerra del 2014 e che era in corso di ricostruzione – Fatah ha emesso un comunicato su Facebook. Questo comunicato non manifestava solidarietà con i vari movimenti di resistenza che hanno agito in condizioni terribilmente difficili e con un assedio continuo per anni, ma accusava i “mercanti di guerra” – in riferimento ad Hamas – che, secondo Fatah, “non sanno fare altro che ridurre in cenere i loro giovani.”

Ma quale altra possibilità ha realmente la resistenza a Gaza?

Il governo di unità, che era stato concordato sia da Fatah che da Hamas nell’accordo del campo di rifugiati Al- Shati nell’estate del 2014, non ha portato a nessun risultato pratico, lasciando Gaza senza un governo funzionante e con un peggioramento dell’assedio. Questa situazione, per ora, segna il destino di una soluzione politica che coinvolga una dirigenza palestinese unitaria.

La sottomissione a Israele è la peggior soluzione possibile. Se la resistenza a Gaza avesse abbandonato le armi, Israele avrebbe tentato di ricreare lo scenario successivo alla guerra in Libano del 1982, quando ha pacificato i suoi nemici usando una violenza estrema e poi ha affidato ai suoi alleati collaborazionisti la risistemazione del successivo panorama politico. Se qualche palestinese si offrisse di svolgere questo indegno ruolo, la società civile di Gaza probabilmente lo stigmatizzerebbe completamente.

Anche un terzo scenario, in cui Gaza sia libera e le speranze politiche del popolo palestinese siano rispettate, è improbabile che si concretizzi presto, considerando il fatto che Israele non ha nessuna ragione per sottostare a questa opzione, almeno per il momento.

Ciò lascia la guerra come l’unica reale e tragica possibilità. L’analista israeliano Amost Harel, nel suo articolo [su Haaretz. Ndtr.], “Il desiderio di Hamas di incrementare gli attacchi in Cisgiordania potrebbe innescare una nuova guerra a Gaza”, ha messo in evidenza il ragionamento che sta dietro questa logica.

“Finora Israele e le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese hanno avuto successo nel far fallire i piani di Hamas,” ha scritto, riferendosi alle sue affermazioni secondo cui Hamas sta tentando di cooptare la continua rivolta in Cisgiordania.

In uno dei vari scenari che propone, “il primo è che il successo di un attacco di Hamas in Cisgiordania provochi una risposta israeliana contro il gruppo a Gaza, che porterebbe le due parti ad un scontro.”

Nella maggior parte delle analisi israeliane c’è un quasi totale disconoscimento delle ragioni dei palestinesi, a parte una qualche aleatoria inclinazione a commettere atti di ‘terrore’. Naturalmente, la realtà raramente si avvicina all’egocentrica versione dei fatti di Israele, come correttamente è stato sottolineato dallo scrittore israeliano Gideon Levy.

Dopo la sua più recente visita a Gaza Robert Piper, inviato dell’ONU e coordinatore umanitario per i Territori Occupati, ha lasciato la Striscia con una desolante affermazione: solo 859 delle case distrutte nell’ultima guerra sono state ricostruite. Ha condannato il blocco per le sofferenze di Gaza, ma anche la mancanza di comunicazione tra il governo di Ramallah e il movimento di Hamas a Gaza.

“Non ci sono speranze per la fondamentale fragilità di Gaza,” ha detto all’AFP, e la situazione “rimane quella di una francamente disastrosa parabola di de-sviluppo e radicalizzazione, per quello che ne posso dire.”

Del blocco ha affermato che “è un blocco che impedisce agli studenti di andare all’università per continuare i loro studi in altri luoghi. E’ un blocco che impedisce ai malati di avere le cure di cui hanno bisogno.”

In base a questo contesto, è difficile immaginare che un’altra guerra non sia imminente. Le iniziative strategiche, politiche e militari di Israele, allo stato attuale, non permetteranno a Gaza di vivere con un livello minimo di dignità. D’altra parte, la storia della resistenza di Gaza rende impossibile immaginare uno scenario in cui la Striscia alzi bandiera bianca e attenda la prevista punizione.

Ramzy Baroud è un editorialista di fama internazionale, autore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia mai raccontata di Gaza.”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La divisione di Gerusalemme perpetuerà l’occupazione?

Al-Monitor

Akiva Eldar,

Nei prossimi giorni un piccolo gruppo di uomini e donne si riunirà nell’ufficio del presidente israeliano Reuven Rivlin. Gli ospiti, fondatori di un nuovo movimento chiamato “Salvare la Gerusalemme ebraica”, consegnerà a Rivlin un manifesto che riassume il loro progetto per la città. Il presidente, che in genere inizia le interviste radiofoniche con il saluto “Buongiorno (o buonasera) da Gerusalemme,” ascolterà il loro progetto per la separazione unilaterale di una parte di Gerusalemme est.

I piani di separazione che intendono dividere Gerusalemme dai villaggi palestinesi circostanti non faranno che perpetuare l’annessione di Gerusalemme a Israele.

I principi di un simile progetto sono stati illustrati in un’intervista che Mazal Mualem [ex-giornalista di Maariv e Haaretz ed attuale collaboratrice di Al-Monitor. Ndtr.] ha fatto al presidente di “Campo sionista” [coalizione tra laburisti e Kadima che si è presentata alle ultime elezioni arrivando al secondo posto. Ndtr.] Isaac Herzog, pubblicata il 22 gennaio da Al-Monitor. L’interessante novità nel piano di “Salvare la Gerusalemme ebraica” risiede nella lista degli attivisti del nuovo movimento. La forza trainante e il nome più intrigante è quello dell’ex membro del governo Haim Ramon.

Ramon ha lasciato la politica ed ha tenuto un profilo basso dopo essere stato arrestato per molestie sessuali che nel 2007 hanno coinvolto una soldatessa. Il resto dei suoi amici in Kadima [partito politico israeliano “di centro” fondato da Sharon e Peres. Ndtr.], di cui è stato cofondatore nel 2005 e che in seguito si è sciolto, se ne andò per strade diverse. Molti di questi amici nel nuovo gruppo si chiedono se il movimento per “Salvare la Gerusalemme ebraica” è stato pensato anche per salvare la carriera politica di un uomo a suo tempo considerato la stella nascente nel cielo di Gerusalemme.

Il programma di “Salvare la Gerusalemme ebraica”, che sarà anche presentato all’opinione pubblica, chiede di cedere il controllo di 28 villaggi palestinesi di Gerusalemme est all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). I villaggi in questione erano stati parte integrante della Cisgiordania finché Israele li ha annessi nel 1967. Vi vivono circa 200.000 persone. Con l’annessione, ai palestinesi è stata concessa la residenza permanente ed hanno ottenuto i diritti dei cittadini israeliani, compresi, tra le altre cose, benefici della sicurezza sociale, libertà di movimento a ovest della Linea Verde [il confine tra Israele e Giordania precedente alla conquista israeliana nel ’67. Ndtr.], il diritto a studiare nelle istituzioni [educative] israeliane di istruzione superiore e l’accesso alla moschea di Al Aqsa.

Membri del movimento sostengono che i villaggi palestinesi danneggiano gravemente la prosperità della capitale israeliana in termini di sicurezza, equilibrio demografico [tra ebrei e palestinesi in città. Ndtr.], livello di vita e benessere economico. Considerano che i violenti incidenti a Gerusalemme, che si sono intensificati nel settembre 2015, evidenziano la necessità di revocare l’annessione (sbagliata) dei villaggi a Gerusalemme.

I promotori del manifesto spiegano che sottraendo circa 200.000 palestinesi dai confini municipali di Gerusalemme, gli ebrei in città costituirebbero più dell’80% dei residenti e la percentuale di palestinesi scenderebbe dall’attuale quasi 40% a meno del 20%. Non solo questo, sottolineano: revocare i permessi di residenza israeliana ai palestinesi ridurrebbe il peso economico che questi villaggi impongono ai contribuenti israeliani – circa 2-3 miliardi di shekel (438-665 milioni di euro) annuali di entrate e tasse municipali. I rimanenti residenti di Gerusalemme est, arabi ed ebrei, manterrebbero la loro attuale residenza e cittadinanza.

“Salvare la Gerusalemme ebraica” ha anche proposto l’immediata costruzione di una “barriera di sicurezza continua” tra i “villaggi stranieri” e Gerusalemme. La barriera sarebbe unita al muro di separazione che divide Israele e le colonie dal resto della Cisgiordania. Dopo la separazione dei villaggi da Gerusalemme, l’esercito israeliano (IDF) e altri organi della sicurezza opererebbero al loro interno come fanno normalmente nel resto della Cisgiordania. Secondo il manifesto, per mettere in pratica il piano per garantire la sicurezza di Gerusalemme e il suo carattere ebraico, la Knesset [il parlamento israeliano. Ndtr.] dovrebbe emendare la legge fondamentale “Gerusalemme, capitale di Israele”. Tutto il progetto sarebbe messo in atto in modo unilaterale, senza consultare i palestinesi o ottenere il loro consenso.

Uno dei fondatori del movimento, che ha chiesto di rimanere anonimo, ha detto ad Al-Monitor che un sondaggio di opinione commissionato dal suo gruppo ha indicato che l’85% dell’opinione pubblica ebraica, così come una parte significativa degli arabi in Israele, appoggia la separazione dai villaggi palestinesi della periferia [di Gerusalemme]. Herzog, di “Campo sionista”, che ha analizzato i risultati del sondaggio, ha rapidamente adottato i principi del piano. “Per il momento non si può ottenere la pace, per cui garantiamo la sicurezza in modo da poter parlare della pace,” ha affermato Herzog nell’intervista ad Al-Monitor. “Mi sono incontrato con (il presidente palestinese Mahmoud) Abbas lo scorso agosto e, mi spiace dirlo, anche in quell’occasione non ho trovato il coraggio o le capacità di leadership necessarie per accettare dolorose concessioni.”

Tuttavia quando Herzog è tornato dal suo incontro con Abbas del 18 agosto aveva fatto un discorso ben diverso. Si è detto che il leader dell’opposizione avesse affermato all’epoca con sicurezza: “Se c’è buona volontà, possiamo raggiungere un accordo che garantisca la sicurezza di Israele; negli ultimi mesi si è emersa una inedita opportunità regionale.” Ha persino proposto un’accelerata tempistica: “entro due anni”. Secondo Herzog, le opportunità non avrebbero dovuto andare perse: “[La congiuntura regionale] consente un appoggio da parte dei Paesi vicini per una mossa diplomatica tra noi e i palestinesi,” ha detto. Herzog aveva anche riferito di aver promesso ad Abbas che avrebbe continuato a cercare di convincere l’opinione pubblica israeliana, che stava gradualmente perdendo fiducia nella pace, della necessità di un simile processo e di portarlo rapidamente avanti.

Ora, neppure sei mesi dopo, il capo dell’opposizione ha perso la fiducia in un dialogo con i palestinesi (sotto gli auspici della “Lega araba”) a favore di misure unilaterali. Davvero dirigenti politici con una lunga esperienza come Herzog pensano che una mossa così drastica possa essere promossa nella polveriera che è Gerusalemme, senza coordinamento e accordo con le controparti palestinesi, arabe e islamiche? Non capiscono che eliminare i 28 villaggi arabi da Gerusalemme est sarebbe interpretato dal mondo come la perpetuazione dell’annessione israeliana delle altre parti di Gerusalemme est, compresi i luoghi santi?

Cosa ne sarebbe delle migliaia di palestinesi che si trovano ancora dall’altra parte della barriera, con una riduzione delle entrate per la perdita dei loro diritti di residenza, di cui hanno goduto per quasi 50 anni? Dovrebbero andare a cercare un aiuto nei centri di reclutamento di Hamas e della Jihad Islamica? Dovrebbero importare le tecniche di scavo dei tunnel dalla Striscia di Gaza nel campo di rifugiati di Shuafat in direzione dei quartieri ebraici adiacenti?

Un altro degli ideatori del piano, che ha chiesto anch’egli l’anonimato, ha detto ad Al-Monitor: “Sappiamo che non c’è modo che (il primo ministro Benjamin) Netanyahu prenda anche lontanamente in considerazione l’adozione del progetto. Il nostro obiettivo principale è di mostrare all’opinione pubblica che c’è gente dalla nostra parte che ha cominciato a fare progetti piuttosto che rimanere legata allo status quo.” Ha anche affermato che il gruppo è pienamente cosciente che la sinistra farà a pezzi la proposta e i suoi promotori: “Questo è il nostro secondo obiettivo,” ha detto, con un mezzo sorriso, “avere uno spintone dalla sinistra che ci spingerà verso destra.”

Non è affatto certo se il movimento politico e i suoi progetti rallenteranno lievemente l’emorragia di voti degli elettori israeliani dal “Campo sionista”. E’ più probabile che accelereranno la fuga dell’elettorato palestinese dal campo di Abbas in costante calo.

Un articolo pubblicato nell’edizione del settembre 2011 della prestigiosa rivista Foreing Affairs [autorevole bimestrale nordamericano che si occupa di politica estera. Ndtr.] suggerisce che ci sono dirigenti politici israeliani che credono (o per lo meno credevano all’epoca) che ci sia un altro modo migliore di porre fine al conflitto con i palestinesi. In base al piano presentato nell’articolo, Israele avrebbe votato a favore del fatto che la Palestina diventasse un membro a pieno diritto delle Nazioni Unite. Immediatamente dopo, negoziati per un accordo permanente sarebbero stati ripresi con il sostegno della comunità internazionale. L’accordo sarebbe stato basato sui parametri delineati dal presidente Clinton nel 2000 ed ampliati dal presidente Barak Obama nel maggio 2011: la nascita di uno Stato palestinese in base ai confini del 1967, con uno scambio di territori e un accordo per la sicurezza. Non si potrebbe fare niente di meglio.

Quell’articolo – “Perché Israele dovrebbe votare per l’indipendenza palestinese”- è stato scritto dal parlamentare israeliano Isaac Herzog.

Akiva Eldar è un articolista della sezione di Al-Monitor dedicata alla situazione in Israele. E’ stato un importante opinionista ed editorialista di Haaretz e è stato anche il capo dell’ufficio USA del quotidiano in ebraico e corrispondente diplomatico. Il suo libro più recente (insieme a Idith Zertal), “Signori della Terra”, sulle colonie ebraiche, è stato tra i best seller in Israele ed è stato tradotto in inglese, francese, tedesco e arabo.

Traduzione di Amedeo Rossi




Rapporto sulla Protezione dei Civili nei Territori Palestinesi occupati riguardante il periodo: 26 gennaio – 2 febbraio 2016

Durante la settimana sono stati registrati cinque attacchi e presunti attacchi di palestinesi contro israeliani, con il conseguente ferimento di cinque israeliani, tra cui tre soldati ed un 17enne; due dei sospetti responsabili palestinesi sono stati uccisi sul posto, uno è rimasto ferito ed altri quattro arrestati.

Uno degli episodi, il 31 gennaio, ha avuto come protagonista un poliziotto palestinese che ha aperto il fuoco contro i soldati israeliani che presidiano uno dei posti di blocco che controllano l’accesso alla città di Ramallah (DCO checkpoint). Gli altri episodi includono uno speronamento con l’automobile ad un posto di blocco ad ovest di Ramallah e tre accoltellamenti e presunti accoltellamenti: vicino alla Barriera nel governatorato di Tulkarem ed a Gerusalemme Est (due casi).

Dopo il sopraccitato attacco con arma da fuoco al checkpoint DCO, l’esercito israeliano ha drasticamente limitato l’accesso e l’uscita dalla città di Ramallah, rendendo problematico l’accesso delle persone ai servizi ed ai luoghi di lavoro. Il checkpoint DCO è stato completamente chiuso e sono stati allestiti posti di blocco sulle due gallerie che collegano la città ai villaggi orientali attraverso Ein Yabrud e Yabrud, così come lungo una delle principali strade di collegamento con la strada 60 (attraverso il villaggio di ‘Ein Siniya). All’inizio di questa settimana, altri due percorsi che collegano alcuni villaggi ad ovest di Ramallah con la città (attraverso i villaggi di Beit ‘Ur at Tahta e Deir Ibzi’) erano già stati bloccati, incanalando il traffico verso deviazioni più lunghe.

I corpi di dieci palestinesi, tutti ex residenti di Gerusalemme Est, sospettati di aver condotto attacchi contro israeliani, sono tuttora trattenuti dalle autorità israeliane. All’inizio di questa settimana le autorità israeliane avevano restituito due corpi di quelli precedentemente trattenuti.

Durante la settimana, 46 palestinesi, tra cui 16 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane nel corso di proteste e scontri avvenuti in varie località dei territori palestinesi occupati. Tale numero di feriti è il più basso tra quelli registrati in una singola settimana dall’inizio dell’escalation di violenza nel mese di ottobre 2015. Sei dei ferimenti sono avvenuti in prossimità della recinzione perimetrale della Striscia di Gaza ed i restanti in Cisgiordania. Gli scontri in Cisgiordania si sono verificati durante le manifestazioni settimanali a Bil’in e Ni’lin (entrambi nel governatorato di Ramallah) ed a Kafr Qaddum (Qalqiliya); durante operazioni di ricerca-arresto in Ya’bad (Jenin) e nell’Università Al Quds di Abu Dis (Gerusalemme); durante scontri nei pressi di Abu Dis (Gerusalemme), Silwad (Ramallah) e nell’area H2 di Hebron. In quest’ultima località, dieci studenti che frequentano una scuola adiacente al luogo degli scontri, hanno subìto lesioni causate da inalazione di gas lacrimogeno.

Secondo i mezzi di informazione, a nord est della città di Gaza, sette membri di un gruppo armato palestinese sono morti in seguito al crollo di un tunnel militare.

Nella Striscia di Gaza sono stati registrati almeno 17 episodi di apertura del fuoco di avvertimento da parte delle forze israeliane verso civili palestinesi in Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare; nessuna vittima, ma gli agricoltori ed i pescatori sono stati costretti ad abbandonare le posizioni.

Per mancanza dei permessi edilizi israeliani, le autorità israeliane hanno demolito 42 strutture di proprietà palestinese in tre comunità in Area C e Gerusalemme Est; tra esse: 32 abitazioni, sette cisterne per l’acqua ed una struttura agricola. Come risultato, 168 persone, tra cui 94 minori, sono stati sfollati ed altri 24 sono stati diversamente colpiti dal provvedimento. Una delle comunità colpite, la comunità beduina di Ein Ayoub, situata nel governatorato di Ramallah, venne completamente demolita nel dicembre 2013.

Le autorità israeliane hanno informato la Corte Suprema circa la loro intenzione di eseguire, senza ulteriore avvertimento, ordini di demolizione nella comunità pastorizia palestinese di Susiya (Hebron); gli ordini erano stati emessi contro strutture costruite presumibilmente in violazione di una precedente ingiunzione del tribunale. Secondo le informazioni fornite verbalmente dalle autorità israeliane, questa decisione potrebbe riguardare fino a 40 strutture. Le autorità si sono impegnate a fornire un preavviso di 45 giorni qualora decidessero di demolire altre struttura della comunità.

Il 27 gennaio, tutti i residenti della comunità pastorizia palestinese di Khirbet ar Ras al Ahmar (Tubas), costituita da 11 famiglie, tra cui 23 minori, sono stati sfollati dalle loro case per nove ore, per far posto ad una esercitazione militare israeliana. Questa comunità è una delle 38 comunità pastorizie beduine palestinesi (6.224 persone) situate in aree definite dalle autorità israeliane come “zone chiuse per l’addestramento militare a fuoco”.

In due diversi episodi avvenuti in Area C, le forze israeliane hanno sequestrato camion e materiali da costruzione a motivo del loro utilizzo per “lavori non autorizzati”. Il sequestro ha riguardato tre camion utilizzati per un progetto di ristrutturazione finanziato da un donatore umanitario nella comunità di Ad Deir, nel nord della Valle del Giordano (Tubas).

La Corte Suprema israeliana ha respinto le petizioni presentate contro il tracciato della Barriera vicino alla città di Beit Jala (Betlemme). I firmatari hanno sostenuto che la Barriera pregiudicherà i loro mezzi di sussistenza agricola, danneggerà il tessuto delle loro comunità e causerà danni ambientali ai terrazzamenti agricoli storici.

I media israeliani hanno riportato quattro episodi di lancio di sassi da parte di palestinesi contro veicoli a targa israeliana, con il conseguente ferimento di un colono e danni a due veicoli israeliani ed alla metropolitana leggera di Gerusalemme. Inoltre, durante il periodo di riferimento, è stato registrato un attacco di coloni in Arraba (Jenin), con il taglio di almeno dieci mandorli di proprietà palestinese.

Durante la settimana, nella Striscia di Gaza si sono verificate interruzioni di corrente fino a 20 ore/giorno, rispetto alle 12-16 ore/giorno precedenti. Le cause stanno nei guasti sulle linee elettriche di alimentazione provenienti da Israele e dall’Egitto e nella scarsa fornitura di combustibile, insufficiente al funzionamento della Centrale elettrica di Gaza. Un uomo di 53 anni è morte avvelenato dalle esalazioni tossiche emesse dal carbone utilizzato per riscaldare la sua casa.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014, ad eccezione di 39 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno indicato che più di 25.000 persone con bisogni urgenti, di cui circa 3.500 malati necessitanti di cure, sono registrate ed in attesa di attraversare in Egitto.

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 3 febbraio, in Gerusalemme Est, palestinesi hanno compiuto un attacco con coltello ed arma da fuoco; l’episodio si è concluso con l’uccisione di una donna poliziotto israeliana e dei tre presunti responsabili; almeno una ulteriore poliziotta è stata ferita.

Il 2 febbraio, le forze israeliane hanno distrutto 24 abitazioni in due comunità nel sud di Hebron (Massafer Yatta); tali comunità sono a rischio di trasferimento forzato a causa della precedente designazione dell’area come “zona per esercitazioni a fuoco”; 134 persone sono state sfollate a seguito delle demolizioni.

Il 2 febbraio, l’accesso in entrata/uscita dalla città di Ramallah è tornato alla normalità.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: in caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese. Nella versione italiana non sono riprodotti i

dati statistici ed i grafici.

Associazione per la pace Gruppo di Rivoli TO




Il mito che gli ebrei sono sempre vittime di persecuzioni, che siano o no occupanti.

Le persone non devono essere giudicate [soprattutto] nel momento del dolore, ma i familiari delle vittime che chiedono l’espulsione dei parenti dei terroristi denotano la stessa cecità della maggior parte degli ebrei israeliani.

di Amira Hass |

Haaretz

Data l’assenza della pena di morte in Israele, 18 parenti di 17 israeliani uccisi da palestinesi in 13 diversi attacchi hanno chiesto che le famiglie degli assalitori vengano puniti con l’espulsione “permanente”. In una lettera spedita ai ministri del governo e pubblicata sui siti di notizie, i parenti spiegano “che la vera punizione che gli assassini si meritano è la morte. Ma la pietas ebraica impedisce di farvi ricorso”. La lettera e la richiesta è stata anche firmata dalle famiglie di cinque ebrei assassinati da altrettanti assalitori uccisi sul luogo dell’aggressione.

La lettera giustamente sottolinea un fatto importante: tutti i mezzi di punizione e di deterrenza adottati da Israele finora non hanno arrestato l’ondata di attacchi solitari. Non lo hanno ottenuto l’uccisione sul posto degli assalitori o sospetti tali [uccisioni extragiudiziali, ndt], nè le demolizioni delle case dei loro familiari, né le condanne a lunghe detenzioni, né le restrizioni alla libertà di movimento dei parenti[degli assalitori].

La lettera non dice nulla riguardo a dove i familiari dovrebbero essere espulsi, ma un servizio della radio Arutz Sheva colma la lacuna e chiarisce che l’obiettivo è di espellerli da Israele. I firmatari non spiegano se intendono che anche la famiglia allargata – zie e zii, cugini- debba essere espulsa, o soltanto il nucleo familiare, in altre parole i genitori e i loro figli. E nemmeno entrano nei dettagli sulle modalità dell’espulsione, se debbano andarsene a piedi o con un pulmino.

I firmatari sanno che “ la famiglia che ha cresciuto ed educato l’assassino e gli ha insegnato ad odiare gli ebrei e ad ammazzare devono pagare il prezzo, fosse solo per il potere di deterrenza determinato da una tale espulsione”. Uno dei firmatari è un rabbino (Yehuda Henkin) e tre sono mogli di rabbini uccisi ( Neta Lavi, Noa Litman e Sarah Don).

La lettera è scritta nel linguaggio stereotipato che prevale da queste parti , riguardo agli “ebrei ammazzati in quanto ebrei”. La gente non dovrebbe essere giudicata quando è colpita da un lutto, ma i firmatari dell’appello per un’espulsione di massa dei palestinesi abbracciano il mito accettato non solo da loro o dalle famiglie ebree delle vittime, il mito che l’ebreo è sempre vittima della persecuzione, sia occupante o no, sia il potere militare o no.

Il fatto che nella loro lettera vi è una totale incapacità di comprendere la realtà della superiorità militare, diplomatica ed economica che ha permesso per 70 anni di espellere i palestinesi, rubare la loro terra, demolire le loro case e ammazzarli in linea con la legge, con l’ordinamento e con la democrazia per gli ebrei, non è dovuto al loro dolore personale; come la maggior parte degli ebrei israeliani, che hanno scelto di negarla, ignorano volutamente questa realtà. Dopo tutto se ne approfittano.

Infatti Ruthie Hasno, abitante a Kiryat Arba, il cui marito Avraham è stato travolto e ammazzato [da un auto], è convinta che quelli che hanno spedito la lettera parlino in nome di tutti. Ha detto a Arutz Sheva: “La richiesta di espellere i terroristi e le loro famiglie non solo viene dalle famiglie delle vittime ma anche dall’intero popolo ebraico. Tutto il popolo ebraico sta chiedendo inequivocabilmente l’espulsione di tutti i terroristi e di quelli che si sono macchiati del sangue ebraico. Non hanno nessun diritto e nessun posto in questo Stato”.

Sin dalla sua costituzione Israele è caratterizzata, dalle espulsioni di massa dei palestinesi dalla loro terra e dai tentativi di altre massicce espulsioni. I gerosolimitani sono sempre a rischio di espulsione. Dalla loro città e dalla loro terra. Imprigionando 1.8 milioni di palestinesi in una stretta striscia , il che non è sostenibile, Israele sta alimentando in circa il 40% della popolazione il desiderio di emigrare. Ciò è un tentativo indiretto di espulsione. Il sovraffollamento dei palestinesi nelle enclave A e B della Cisgiordania è il [risultato] del compromesso dei governi

a Oslo tra l’antico desiderio di espellere i palestinesi e la situazione diplomatica che lo rende impossibile.

L’attuale governo in ogni momento supera ogni limite, avendo l’approvazione dalla gente. Questa è la ragione per cui la lettera non deve essere sottovalutata come un grido di dolore di [alcuni] individui. È una pericolosa indicazione da parte di famiglie che non si discostano dall’opinione maggioritaria in Israele. “Che Benjamin Netanyahu faccia [le espulsioni] senza paura”, dice Ruthie Hasno. “Per questo l’abbiamo votato”.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Analisi: riflessioni sulla strategia palestinese

Quest’analisi è stata originariamente pubblicata da Al-Shabaka, una organizzazione indipendente e no profit il cui scopo è educare e promuovere il dibattito pubblico sui diritti umani e l’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Amal Ahmad è membro di Al-Shabaka e ricercatrice economica palestinese. Amal è entrata a far parte dell’Istituto di Ricerca di Politica Economica Palestinese di Ramallah prima di terminare un master in sviluppo economico presso la Scuola di Studi Orientali ed Africani di Londra. Il suo lavoro si concentra sui rapporti fiscali e monetari tra Israele e Palestina; si interessa anche di politiche economiche di sviluppo in tutto il Medio Oriente.

di Amal AhmadMaan News e Al-Shabaka

Il popolo palestinese ha iniziato l’anno nuovo affrontando una desolante situazione politica, con una leadership debole e compromessa, un popolo frammentato dal punto di vista geografico ed amministrativo e una società civile sempre più segnata dall’individualismo e dalla perdita di punti di riferimento politici. Il progetto di costruzione dello Stato che sembrava così promettente negli anni ’80 e ’90 ha rapidamente perso sostenitori – un recente sondaggio ha rilevato che circa due terzi dei palestinesi non crede più che sia praticabile, nonostante 137 Paesi ora riconoscano la Palestina. Ancora scarsa è la prospettiva di un obiettivo politico alternativo che goda dell’appoggio popolare.

Questo commento sostiene che l’attuale debolezza politica del popolo palestinese dipende in larga misura dall’assenza di un pensiero strategico, nonostante qualche sforzo organizzato a questo proposito anche dal Gruppo Strategico Palestinese [gruppo di studio formato da intellettuali e da studiosi palestinesi. Ndtr.] e da Masarat [Centro Palestinese per le Ricerche politiche e gli Studi Strategici. Ndtr.] for Policy Research and Strategic Studies. Ndtr.], per esempio. E’ ancora indispensabile che i palestinesi elaborino una strategia con o senza le fazioni politiche dentro o fuori dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP): senza una strategia chiara e condivisa, alcuni degli strumenti e delle tattiche che sono stati adottati rischiano di dissanguare le energie e di dimostrarsi inefficaci, o di produrre risultati non voluti.

Promuovere analisi strategiche

Un solido pensiero strategico si fonda su un’accurata analisi dell’attuale contesto politico, comprese le opportunità e le sfide sia interne che esterne. Per i palestinesi è particolarmente vitale analizzare accuratamente le strategie dello Stato israeliano, perché è la parte in causa più forte, che definisce in modo preponderante la portata e la direzione del conflitto. Si può sostenere che il principale motivo per cui [gli accordi di ] Oslo sono stati un disastro politico è stato il fatto che i dirigenti palestinesi, incompetenti e alla disperata ricerca di una soluzione, hanno preso per buono il dichiarato interesse di Israele riguardo alla creazione di uno Stato palestinese ed hanno lavorato per raggiungere quell’obiettivo politico. Questo errore di calcolo e le concessioni che ne sono seguite si sono dimostrate catastrofiche per il potere negoziale dei palestinesi, per la loro unità e capacità di formulare una coerente strategia nazionale.

E’ ora di riconoscere che i palestinesi si trovano in una soluzione senza Stato, nella quale Israele spera di tenerli chiusi per tutto il tempo necessario a raggiungere il suo progetto definitivo. Questo obiettivo è rappresentato da diversi (e maggiori) diritti per gli ebrei rispetto ai non ebrei, con una maggioranza ebraica sul territorio sotto il suo controllo diretto. La strategia israeliana per il raggiungimento di questo progetto è stata in ampia misura costante da quando ha occupato i territori palestinesi nel 1967: contenere i palestinesi rifiutando un accordo sullo status definitivo, che si trattasse della sovranità palestinese [con la soluzione] dei due Stati o gli stessi diritti in un unico Stato binazionale. Ho sostenuto in precedenza che l’unione doganale de facto imposta da Israele ai palestinesi è una chiara dimostrazione dell’intenzione di Israele di mantenere questa soluzione senza Stato [palestinese]. Le azioni dei palestinesi, la resistenza ed ogni futuro negoziato dovrebbero tener conto di questa situazione.

Dato che la strategia di Israele è fondata sul soddisfacimento dei diritti degli israeliani ebrei e dei coloni e sulla limitazione di quelli dei cittadini palestinesi di Israele e dei palestinesi dei territori occupati, di conseguenza una strategia fondata sui diritti dei palestinesi potrebbe essere particolarmente efficace se mettesse in evidenza e sfidasse i progetti israeliani. In una strategia di questo tipo l’obiettivo politico palestinese dovrebbe passare dalla costruzione dello Stato, un progetto irrealizzato che mette in ombra la strategia israeliana sul terreno, ad una lotta per i diritti umani, politici, civili, economici, sociali e culturali. I diritti dei palestinesi possono essere ottenuti con diverse soluzioni nazionali, uno o due Stati o una confederazione.

Oltre ad opporsi al nucleo essenziale del progetto nazionale israeliano, una strategia fondata sui diritti dei palestinesi offre una serie di differenti aspetti positivi. Fornisce un insieme di orientamenti per la lotta; riduce le differenze tra i palestinesi nei territori occupati e quelli all’interno di Israele; entra in consonanza con un discorso internazionale sui diritti e l’antirazzismo che è molto difficile da ignorare, aiutando a rinsaldare forti alleanze che appoggiano la lotta.

Qualunque strategia di successo non solo deve analizzare le intenzioni di Israele e identificare i punti deboli della loro struttura, deve anche raccogliere il consenso della comunità palestinese. Si tratta di una sfida difficile, in parte a causa della frammentazione del popolo palestinese, ma anche per il profondo attaccamento all’idea di uno Stato nazionale palestinese nonostante, l’irrealizzata soluzione dei due Stati. Di conseguenza è importante cercare di riconciliare per quanto possibile una strategia politicamente ragionevole con il sentimento nazionalista palestinese. Per esempio, argomenti a favore di un approccio centrato sui diritti dovrebbero sottolineare che abbandonare l’obiettivo della costruzione di uno Stato non significa abbandonare i legami con la terra e dovrebbero cercare i modi attraverso i quali possa essere superata la stretta commistione della costruzione dello Stato con la costruzione della nazione.

Adottare tattiche che diano risultati

Il modo più rapido, sicuro ed efficace per promuovere una strategia nazionale è attraverso un sistema politico più rappresentativo ed effettivo. In assenza di prospettive per una dirigenza efficace e non compromessa all’interno dei Territori Palestinesi Occupati (TPO) o per il popolo palestinese nel suo complesso, questo diventa un compito difficile. Nel frattempo i palestinesi possono avvalersi di alcuni degli strumenti sviluppati dalle istituzioni e reti esistenti nella società civile palestinese e a livello internazionale, per promuovere una riflessione ed un’azione strategiche, con la speranza che passi nella giusta direzione possano accelerare o accompagnare la formazione di una nuova dirigenza.

Il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) rimane il più efficace strumento civile per inquadrare la lotta dei palestinesi nel linguaggio dei diritti e per sfidare la repressione israeliana basata sull’apartheid. Il BDS è ben noto per il prezzo che fa pagare all’occupazione, ma l’importanza di gran lunga maggiore del movimento risiede nella filosofia e nella prospettiva che fornisce. Propone un discorso con cui molti palestinesi si possono identificare, con cui il mondo può simpatizzare, che non rimane bloccato nella labirintica discussione di soluzioni e fasi finali. Inoltre colpisce dritto al cuore il progetto di Israele per la regione: Netanyahu non ha esagerato quando ha definito il movimento BDS una “minaccia strategica” per il progetto nazionale israeliano, data la sua natura razzista e di colonialismo di insediamento. Anche se la campagna BDS deve affrontare dei limiti all’interno dei territori occupati a causa della dipendenza strutturale dei TPO dall’economia israeliana, il fatto che il linguaggio dei diritti sia diventato più popolare è un segnale incoraggiante. Adottare il discorso del BDS e lanciare campagne BDS nelle università e nei consigli comunali, nei consigli di amministrazione ed in altre istituzioni è un passo concreto per aiutare i palestinesi a resistere all’apartheid ed avvicinarsi alla realizzazione dei diritti umani.

I palestinesi possono anche trarre profitto dal contesto legale esistente che riguarda direttamente i diritti umani e lo stato di diritto. Gli strumenti giuridici a disposizione del popolo palestinese includono il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia del 2004 sul Muro di Separazione, che rafforza il consenso internazionale sul fatto che gli insediamenti sono illegali in base alla legge internazionale. Questi strumenti possono essere utilizzati per far notare a Stati terzi che la loro collaborazione con Israele ne compromette l’autorità legale e per chiedere che questi Stati rispettino le leggi internazionali sospendendo il commercio o i trattati con Israele finché questo manterrà il suo regime di apartheid. L’associazione della Palestina alla Corte Penale Internazionale dovrebbe anche fornire mezzi per sfidare le violazioni israeliane dei diritti umani, ma è importante essere realisti e continuare a mobilitare l’appoggio internazionale.

All’interno dei TPO, anche cicli di scontro con gli occupanti aiutano a rompere il monopolio sulla politica detenuto dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e può aiutare ad accelerare e legittimare la ricerca di strategie alternative. Le ricorrenti ondate di collera ridefiniscono le relazioni dei palestinesi con lo Stato israeliano come basate sul conflitto piuttosto che sulla “comprensione”, e spesso invocano apertamente la cancellazione degli accordi di Oslo. Come notato in una recente tavola rotonda di Al-Shabaka, mentre la capacità di queste ondate di ottenere risultati politici è molto limitata, a causa della scarsa capacità organizzativa e della reazione violenta da parte dell’ANP e di Israele, esse però costituiscono un cambio radicale di discorso e sono utili per unificare, almeno simbolicamente, il messaggio dei palestinesi.

Sopratutto, i cittadini palestinesi di Israele, che sono stati emarginati dall’OLP e dall’ANP nella ricerca della costruzione di uno Stato, saranno all’avanguardia di un approccio basato sui diritti. Infatti ciò è alla base della loro lotta per la giustizia e l’uguaglianza di diritti all’interno di Israele. Inoltre il loro stretto contatto e la dimestichezza con lo Stato israeliano e le loro continue lotte al suo interno rappresentano un’importantissima fonte di comprensione strategica a cui altri palestinesi possono attingere. Qualcuno ha notato che non si tratta solo di una fonte finora sottoutilizzata dell’azione palestinese, ma ha anche sostenuto che, con la formazione della Lista Unitaria [lista di tutti i partiti politici palestinesi che si è presentata alle ultime elezioni israeliane arrivando terza. Ndtr.], il popolo palestinese dovrebbe guardare ai partiti politici palestinesi in Israele per trovare una leadership. I palestinesi dei Territori occupati, dei campi di rifugiati e della Diaspora farebbero bene a prendere in considerazione più seriamente i rapporti che potrebbero stringere con le loro controparti “all’interno [di Israele]” ed adattare alcune di queste esperienze e tattiche al loro contesto locale, nel caso in cui sia possibile e corretto.

Allo stesso tempo, e come notato in precedenza, la mancanza di una strategia pone rischi in termini di mancata comprensione di quali strumenti e tattiche evitare. Benché il riconoscimento della Palestina come uno Stato abbia aperto la porta alla CPI, portando all’adesione come Stato osservatore all’ONU o al riconoscimento verbale dell’esistenza come Stato da parte di Stati terzi, ciò comporta seri rischi. Cela la realtà per cui la strategia di Israele è di rendere un tale Stato impossibile. Avvalora anche il defunto modello di Oslo e compromette l’argomentazione secondo cui Israele è responsabile dei diritti della popolazione che occupa ed opprime. Altre tattiche rischiose includono la mobilitazione per le elezioni del Consiglio Nazionale Palestinese [il parlamento palestinese. Ndtr.], un organo che ha un’efficacia molto limitata. Né sono democratiche elezioni che sanciscono il potere di partiti antidemocratici o che si svolgono in mancanza di una strategia nazionale particolarmente auspicabile.

Allo stesso modo, si è dimostrato fragile e irrealistico l’approccio che privilegia la costruzione delle istituzioni, adottato negli ultimi anni, attraverso cui le sovvenzioni vengono incanalate in un presunto progetto di costruzione dello Stato. Piuttosto, bisogna riconoscere che l’attuale strategia israeliana di contenimento impedisce non solo la costituzione di uno Stato palestinese indipendente, ma anche un’economia palestinese sostenibile. C’è bisogno di lavorare di più sul modo in cui la soluzione senza Stato rende l’economia palestinese dipendente, improduttiva e strutturalmente arretrata. Allo stesso tempo rimane criticamente importante fornire lavoro ai palestinesi non come sviluppo legato a falsi pretesti, ma per appoggiare la tenacia e per far in modo che i palestinesi rimangano in Palestina.

In sintesi, il problema non è se certi mezzi e tattiche sono buoni o cattivi in teoria, ma se affrontano direttamente o nascondono attivamente l’attuale situazione politica, se fanno avanzare o impediscono una specifica strategia intesa ad affrontare queste realtà. Questo breve ragionamento si propone come un contributo al processo d’identificazione di una tale strategia, che possa unire il popolo palestinese in una lotta che contrasti efficacemente il progetto di Israele di un regime di apartheid.

Il punto di vista espresso in questo articolo è dell’autrice e non esprime necessariamente la politica editoriale dell’agenzia di notizie Ma’an.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Che cosa spinge i funzionari della sicurezza palestinese a ribellarsi contro gli israeliani?

La situazione in Cisgiordania ha spinto alcuni palestinesi a perpetrare un’occupazione contro il loro stesso popolo

di Edo Konrad

+972 Magazine

Domenica mattina il 34enne Amjed Sakari, membro dei servizi di sicurezza palestinesi, ha guidato la macchina fino ad un checkpoint israeliano riservato esclusivamente al personale dell’Autorità Nazionale Palestinese. Alla richiesta di esibire il suo documento di identità, è saltato fuori dalla macchina ed ha aperto il fuoco, ferendo tre soldati israeliani. Come reazione, l’esercito israeliano ha posto Ramallah, la capitale politica e finanziaria della Cisgiordania, sotto assedio quasi totale.

Sakari, guardia del corpo del procuratore capo palestinese, è solo il secondo membro delle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese ad aver compiuto un attacco da quando, lo scorso ottobre, è scoppiata l’ultima ondata di violenze. Il primo è stato Mazan Hasan Ariva, un funzionario dell’intelligence dell’ANP, che ha aperto il fuoco contro un civile israeliano ed un soldato al checkpoint di Hizma, vicino a Ramallah, nel dicembre dell’anno scorso.

Come ha sottolineato Amos Harel (uno dei più importanti commentatori israeliani in materia di difesa, ndt), è troppo presto per dire se le azioni di Sakari e Ariva preannunciano ciò che sta per accadere, e per ora l’attuale momento politico dovrebbe concedere una pausa.

Dall’inizio dell’occupazione nel 1967 fino al 1993, Israele ha costituito l’unico potere sovrano in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Gli Accordi di Oslo hanno prodotto una serie di accordi politici ed economici tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), il più importante dei quali è stato la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) – un’entità provvisoria di autogoverno insediata per gestire le questioni di sicurezza e civili in alcune parti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

L’ANP, mentre non è stata autorizzata ad avere un esercito, ha potuto creare le proprie forze di sicurezza, comprese polizia e servizi segreti. Queste forze agiscono in collaborazione con lo Shin Bet (servizi di sicurezza israeliani, ndt.) e con l’esercito israeliano per sventare attacchi contro civili e militari israeliani, ed anche per impedire rivolte contro l’ANP nelle aree A e B.

Sulla carta, Oslo ha delineato un processo di anni per garantire un’autonomia graduale ai palestinesi nei territori occupati. In realtà, i successivi governi israeliani hanno usato l’ANP per affidare i compiti di sicurezza dell’esercito israeliano alla nascente polizia palestinese, addestrata dagli americani.

Intanto, la colonizzazione israeliana ha continuato ad erodere la già minacciata contiguità territoriale in Cisgiordania. Oggi si contano più di mezzo milione di coloni israeliani oltre la Linea Verde (linea di demarcazione stabilita con l’armistizio del 1949 tra Israele e i paesi arabi, ndt.), appoggiati da uno dei governi maggiormente favorevoli alle colonie della storia di Israele.

pa-policeLa polizia dell’Autorità palestinese cerca di impedire ai giovani del campo profughi Aida di scontrarsi con le forze israeliane, Betlemme, Cisgiordania , 27 settembre 2013.(Ryan Rodrick Beiler/Activestills.org)

I palestinesi della Cisgiordania hanno incominciato a provare rancore verso il proprio governo tanto quanto verso il potere israeliano. Secondo un sondaggio pubblicato a dicembre dal Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca, due terzi dei palestinesi chiedono che il presidente Mahmoud Abbas si dimetta. Inoltre, il sondaggio rivela che se si tenessero oggi le elezioni presidenziali, un candidato di Hamas, la fazione avversa, otterrebbe una netta vittoria su Abbas.

L’attuale compromesso è utile sia al governo israeliano che alle elite palestinesi a Ramallah: Abbas può utilizzare le sue forze di sicurezza per reprimere la violenza e il dissenso, da parte di singoli individui e di Hamas. Per Israele, Abbas è un capro espiatorio – colui che può essere biasimato per le mosse unilaterali per ottenere il riconoscimento internazionale o ogni volta che la violenza esplode in Cisgiordania. Nonostante ciò che Netanyahu possa far credere, comunque il governo di Abbas è la chiave del futuro dell’occupazione israeliana.

Allora che cosa fanno quei palestinesi che sono inseriti nell’apparato di sicurezza quando si rendono conto che la partita è truccata – che loro stessi stanno svolgendo il compito dei soldati occupanti contro il proprio popolo? Che cosa fanno quando capiscono che, di fatto, non c’è via d’uscita?

Un’occhiata alla pagina Facebook di Sakari getta una luce sul suo dilemma. Nelle prime ore di domenica mattina, Sakari ha pubblicato su Facebook una sua dichiarazione in cui afferma che non ha senso vivere “finché l’occupazione opprime le nostre anime ed uccide i nostri fratelli e sorelle.” La notte precedente, Sakari ha pubblicato un’affermazione, secondo cui “Ogni giorno abbiamo notizie di morti….Perdonatemi, forse io sarò il prossimo.”

Gli israeliani sono giustamente spaventati dalla prospettiva di ulteriori attacchi proprio da parte delle persone impegnate a proteggerli. Il collasso dell’ANP non è impossibile; un crescente numero di membri del servizio di sicurezza palestinese che si rivoltano contro i loro padroni israeliani, sostenuti da un’indomabile popolazione civile ormai sull’orlo di un’autentica rivolta popolare, potrebbe mettere fine al “coordinamento sulla sicurezza” su cui si basa Israele per mantenere lo status quo. Il problema è se la leadership israeliana possa offrire un progetto alternativo che garantisca reale potere ed autorità al popolo palestinese, non solo ai suoi subappaltatori.

 

Edo Konrad è uno scrittore, blogger e traduttore, che vive a Tel Aviv. Ha precedentemente lavorato come redattore di Haaretz, ed è attualmente vicedirettore di +972 Magazine.

( Traduzione di Cristiana Cavagna)

Riferimento Twitter: @edokonrad