Rapporto OCHA della settimana 15- 21 marzo 2016

Le forze israeliane hanno ucciso quattro palestinesi, tra cui un 17enne, presunti autori di tre accoltellamenti che hanno provocato il ferimento di due soldati israeliani.

Gli episodi hanno avuto luogo nella città di Hebron, allo svincolo di Gush Etzion (Hebron), e all’ingresso dell’insediamento colonico di Ariel (Salfit). Dall’inizio del 2016, attacchi e presunti attacchi palestinesi hanno provocato la morte di quattro israeliani, di un cittadino straniero e di 45 palestinesi (tutti, tranne uno, presunti responsabili di attacchi) [1].

In seguito ad uno degli attacchi di cui sopra, e fino alla fine del periodo di riferimento, le forze israeliane hanno bloccato o predisposto checkpoints sulle strade principali del villaggio di Beit Fajjar (Betlemme), dove i presunti responsabili risiedevano; previa autorizzazione è stato consentito l’ingresso e l’uscita solo ai casi umanitari e agli insegnanti. Il 17 marzo, le autorità israeliane hanno riaperto l’ingresso principale del villaggio di Beit Ur At Tahta (Ramallah) che, a seguito di un attacco palestinese, era rimasto chiuso dall’11 marzo; è stato così ripristinato il normale collegamento tra altri cinque villaggi e la città di Ramallah.

Il 15 marzo, un rifugiato palestinese è morto per le ferite riportate a fine febbraio 2016, in scontri scoppiati nel Campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme), durante un’operazione militare israeliana finalizzata a proteggere due soldati israeliani che erroneamente si erano ritrovati all’interno del Campo. Nel corso della stessa operazione era rimasto ucciso un altro palestinese.

Le autorità israeliane hanno consegnato il corpo di un palestinese sospettato di aver compiuto un attentato a Gerusalemme Est nel mese di dicembre 2015. Il rilascio è stato subordinato all’impegno, da parte della famiglia, di limitare a 30 il numero dei partecipanti ai funerali e al pagamento di 20.000 NIS [nuovo siclo israeliano, circa 4.660 euro], quale garanzia per il rispetto di tale disposizione. Continuano ad essere trattenuti dalle autorità israeliane i corpi di altri 14 palestinesi, sospettati di aver compiuto attacchi contro israeliani nel corso degli ultimi cinque mesi.

Nei Territori palestinesi occupati gli scontri con le forze israeliane hanno provocato il ferimento di 49 palestinesi, tra cui 10 minori. Sette dei ferimenti sono avvenuti nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale, ed i rimanenti in Cisgiordania. Circa il 63% delle lesioni sono state causate da inalazione di gas lacrimogeno richiedente un trattamento medico; le rimanenti da proiettili di gomma, armi da fuoco ed aggressioni fisiche.

Nella zona di Betlemme e di Gerusalemme Est cinque episodi di lanci di pietre [da parte palestinese] hanno causato il ferimento di due coloni israeliani e danni al veicolo di un colono, ad un autobus e ad una carrozza della metropolitana leggera.

Nel villaggio di Duma (Nablus) una casa è stata data alle fiamme: lesi due coniugi per inalazione di fumo e inagibile, per gli ingenti danni, la loro casa. L’uomo ferito è l’unico testimone oculare dell’attacco incendiario avvenuto, nello stesso villaggio, nel luglio 2015, quando persero la vita tre membri della famiglia Dawabsheh (un colono israeliano accusato di quell’attacco è attualmente sotto processo). Secondo fonti palestinesi, anche l’incendio doloso di questa settimana è stato effettuato da coloni israeliani; tuttavia, la polizia israeliana, che ha aperto un’indagine sul caso, ritiene improbabile che l’attacco sia opera di coloni. Ancora in questa settimana, nei governatorati di Ramallah e Nablus, due veicoli palestinesi hanno subito danni per lanci di pietre da parte di coloni israeliani.

Per la mancanza di permessi di costruzione israeliani, le autorità israeliane hanno demolito 20 strutture, o costretto i proprietari ad autodemolirle: coinvolte 73 persone, tra cui 33 rifugiati. La metà di queste strutture si trovavano nel governatorato di Gerusalemme (la maggior parte in Gerusalemme Est), tre nel governatorato di Betlemme, sette nel governatorato di Nablus. Inoltre, nella città di Hebron, le forze israeliane hanno chiuso con ordine militare un negozio di verdura appartenente al sospetto autore di una sparatoria avvenuta nel marzo 2015, mentre in Khallet Hijeh e Beit Fajjar (Betlemme) hanno requisito macchinari e veicoli per lavori non consentiti in Area C.

L’8 marzo, le autorità israeliane, con l’obiettivo dichiarato di regolarizzare centinaia di unità abitative di un insediamento colonico costruito senza autorizzazione, hanno annunciato l’aggiornamento dei confini riportati in una precedente dichiarazione di “terra di stato”, in una zona in cui già si trova l’insediamento colonico di Eli. La dichiarazione si riferisce a circa 220 ettari di terra in Al Lubban ash Sharqiya, As Sawiya e Qaryut (Nablus). In un altro caso, in Area C, nei pressi del villaggio di Jayyus (Qalqiliya), le autorità israeliane hanno sradicato e sequestrato 150 alberi, rivendicando la zona come “terra di stato”. Nell’Area C della Cisgiordania, quasi tutta la “terra di stato” è stata posta sotto la giurisdizione degli insediamenti israeliani.

Durante il periodo di riferimento il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014 ad eccezione di 42 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno segnalato che sono registrati e in attesa di attraversare oltre 30.000 persone con bisogni urgenti, tra cui circa 3.500 malati.

[1] I totali includono un passante palestinese 17enne, ma non comprendono tre israeliani uccisi in Israele in un attentato perpetrato da un cittadino israeliano di origine palestinese, che è stato successivamente ucciso.

 

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Secondo le prime notizie dei media, il 24 marzo, nella città di Hebron, due palestinesi hanno accoltellato e ferito un soldato israeliano e sono stati successivamente uccisi dalle forze israeliane.

Il 23 marzo, nella comunità di Khirbet Tana (Nablus) in Area C, per mancanza dei permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito 53 strutture, di cui 22 abitazioni. Dall’inizio di febbraio questo è il terzo caso di demolizioni che coinvolge questa comunità.

Tra il 23 ed il 27 marzo, a motivo di una festività ebraica, le autorità israeliane hanno sospeso l’ingresso a Gerusalemme Est e in Israele ai palestinesi titolari di permesso, fatta eccezione per i casi umanitari e per i dipendenti delle Nazioni Unite e delle Organizzazioni Non Governative (ONG).

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

le traduzioni in italiano sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: in caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese. Nella versione italiana non sono riprodotti i

dati statistici ed i grafici.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




Pensa alla Striscia di Gaza la prossima volta che bevi acqua del rubinetto.

Il modo più facile, rapido e logico di prevenire un disastro umanitario ed ecologico sarebbe fornire acqua molto più a buon mercato da Israele nella Striscia.

di Amira Hass- 22 marzo 2016

Haaretz

Oggi, quando apri il tuo rubinetto, pensa alla Striscia di Gaza, dove centinaia di migliaia di bambini e ragazzi non sono abituati ad una cosa magnifica come bere acqua del rubinetto. Gli adulti hanno ormai scordato com’è facile dargli un giro, vedere l’acqua scorrere e sentire il suono che si riduce mano a mano che il bicchiere si riempie.

Ora devono andare giù in strada, aspettare che arrivi un camion con una cisterna di acqua potabilizzata, riempire qualche bottiglione e portarlo in casa, sperando che ci sia l’elettricità e che l’ascensore stia funzionando. Ogni metro cubo di acqua desalinizzata costa da 25 a 30 shekel (da 5,8 a 6,9 €), rispetto a 1 o 3 shekel (0,23 o 0,7 centesimi di €) del servizio idrico.

Oggi, quando ti lavi la faccia, pensa all’acqua che esce dai rubinetti di Gaza. E’ oleosa e ti lascia una patina salmastra. I vestiti lavati sembrano rigidi a causa del fatto che l’acqua è mescolata con quella di mare, con liquami e pesticidi.

A Gaza il 95% circa dell’acqua del rubinetto non è potabile. Questa è la ragione per cui c’è una notevole dipendenza delle 145 infrastrutture pubbliche e private dall’acqua desalinizzata e potabilizzata. Ora il gruppo di “Emergenza per la Purificazione dell’acqua e per l’igiene” (EWASH), un consorzio di organizzazioni locali ed internazionali che affronta i problemi dell’acqua e dell’igienizzazione in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, sta avvertendo che circa il 68% di quest’acqua purificata è esposta a contaminazioni biologiche.

Circa 200 milioni di metri cubi sono estratti ogni anno dalle falde acquifere di Gaza, che sono rinnovate solo con 55-60 milioni di metri cubi, la stessa quantità di 80 anni fa, quando ci vivevano solo 80.000 persone, rispetto alle attuali 1 milione 800 mila. Israele vende solo una quantità minima di acqua a Gaza, tra i 5 e gli 8 milioni di metri cubi all’anno. Le Nazioni Unite hanno avvertito che nel 2020 il danno alle falde acquifere sarà irreversibile.

Il modo più facile, rapido e logico per bloccare questo disastro umanitario ed ecologico sarebbe pompare acqua molto più economica da Israele alla Striscia. La nazione dell’ high-tech e dell’irrigazione a goccia può sicuramente organizzare tutto ciò.

Ma l’Autorità Nazionale Palestinese e i Paesi donatori stanno progettando grandi impianti di desalinizzazione dell’acqua di mare, la cui produzione è stata rimandata a causa delle restrizioni imposte da Israele all’introduzione di materiali e della irregolare fornitura di elettricità. L’ANP spiega il proprio impegno per questa soluzione costosa e anti-ecologica con il suo desiderio di minimizzare la dipendenza nei confronti di Israele. Però non si fa nessun problema a comprare più acqua da Israele per la Cisgiordania, 50 milioni di metri cubi all’anno, il doppio di quanto prevedessero gli accordi di Oslo.

Dunque le ragioni della sua opposizione risiedono altrove. Teme che il governo di Hamas non si preoccuperebbe di pagare le bollette dell’acqua, come è successo con quelle dell’elettricità. Israele dedurrebbe dunque quanto dovuto direttamente dai diritti doganali che riscuote per l’ANP e trasferisce a Ramallah [sede dell’ANP. Ndtr]. Ancora una volta il popolo palestinese è intrappolato nella faida tra Fatah e Hamas.

Ma il problema è iniziato molto prima che a Gaza si instaurasse il regime di Hamas. Gli accordi di Oslo hanno definito Gaza come autosufficiente per quanto riguarda la produzione ed il consumo di acqua. Si tratta di una delle più chiare prove possibili che fin da allora Israele aveva intenzione di separare Gaza dalla Cisgiordania, a differenza di quanto c’era scritto [negli accordi]. Lo stesso accordo ha imposto una distribuzione vergognosamente discriminatoria dell’acqua dalle sorgenti montane della Cisgiordania, con l’80% destinato agli israeliani (all’interno di Israele e nelle colonie) e il 20% per i palestinesi. L’attuale proporzione da allora è solo peggiorata, perché i pozzi palestinesi sono vecchi e le nuove perforazioni permesse da Israele si sono dimostrate meno fruttuose del previsto.

Il grandioso progetto di desalinizzazione dell’acqua marina a Gaza nasconde il peccato originale ecologico e politico: trattare Gaza come un’isola separata dal resto del Paese.

Molti residenti di Gaza e consumatori di acqua che non hanno sono originari di città e villaggi che sono oggi in territorio israeliano. A livello simbolico, ottenere il diritto all’acqua prodotta dagli israeliani è quasi come un riconoscimento del diritto al ritorno. A livello politico, può e ci deve essere un notevole incremento nella quantità di acqua fornita da Israele in compensazione dell’acqua che Israele ha rubato e continua a rubare ai palestinesi. Sarebbe un riconoscimento del nostro dovere di condividere equamente le sorgenti d’acqua tra arabi ed ebrei, un principio che non siamo pronti ad accettare.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La disgregazione politica, la cultura e l’identità nazionale palestinese

16 marzo 2016

Al-Shabaka

di Jamil Hilal

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no-profit il cui obiettivo è di stimolare e far progredire il dibattito pubblico sui diritti umani e l’autodeterminazione dei palestinesi nel quadro delle leggi internazionali.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Jamil Hilal è un sociologo indipendente e scrittore palestinese ed ha pubblicato molti libri e numerosi articoli sulla società palestinese, il conflitto arabo-israeliano e sui problemi del Medio Oriente.

Il campo politico palestinese, dominato dall’Organizzazione della Liberazione della Palestina (OLP) fin dalla fine degli anni ’60, è stato disintegrato da quando in base agli accordi di Oslo è stata fondata l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Qual è stato l’impatto della supremazia dell’OLP e quali sono state le ripercussioni della sua disgregazione per la classe politica palestinese? E fino a che punto la disgregazione del campo politico ha colpito quello culturale e il suo contributo all’identità nazionale palestinese? Queste sono le questioni affrontate in questo articolo.

Il predominio dell’OLP nel contesto politico palestinese è iniziato nel 1968 dopo la battaglia di Al-Karameh [città giordana in cui avvenne uno scontro tra l’esercito israeliano, quello giordano e i guerriglieri palestinesi e fu considerato una sconfitta per gli israeliani. Ndtr.], che le ha permesso di istituire un relazione centralizzata con le comunità palestinesi nella Palestina storica, in Giordania, in Siria, in Libano, nel Golfo, in Europa e nelle Americhe. Queste comunità hanno sostanzialmente accettato l’OLP come proprio unico rappresentante legittimo, nonostante le influenze esterne su di essa, compresa la sua pesante dipendenza da aiuti esterni, gli alti e bassi dei suoi rapporti con il Paese di residenza e le sue relazioni regionali ed internazionali. In conseguenza di ciò, le condizioni e caratteristiche specifiche di ogni comunità sono state ignorate, così come le prerogative nazionali, sociali e organizzative.

Dalla sua posizione dominante, l’OLP è stata anche in grado di consolidare le pratiche delle elite politiche comuni al mondo arabo e a livello internazionale, ma che non avrebbero dovuto mettere radici all’interno del popolo palestinese a causa della sua dispersione territoriale e della lotta per la liberazione. Il fatto che l’OLP sia emersa ed abbia funzionato in un contesto regionale ed internazionale ostile alla democrazia sia in teoria che in pratica ha contribuito a questo sviluppo. La regione araba è stata dominata da regimi con un’ideologia totalitaria e nazionalistica, così come da monarchie ed emirati teocratici autoritari; la democrazia era vista come un concetto occidentale estraneo e colonialista. Allo stesso tempo, l’OLP e le sue fazioni hanno formato alleanze con i paesi socialisti e del Terzo Mondo, pochi dei quali godevano della democrazia politica. La natura parassitaria delle istituzioni e delle fazioni dell’OLP e la dipendenza dall’aiuto e dal sostegno di Paesi arabi e socialisti non democratici ha rafforzato un approccio elitario e non-democratico alla politica.

Un terzo aspetto dell’egemonia dell’OLP è stato che le sue fazioni sono state sottoposte a una militarizzazione formale fin dall’inizio, in parte a causa dei conflitti armati dell’OLP con regimi arabi ostili e in parte per il fatto di essere costantemente attaccate da Israele. Questa militarizzazione formale, opposta alle tattiche belliche della guerriglia, ha aiutato a giustificare la relazione estremamente centralizzata tra la dirigenza politica e i suoi sostenitori.

Tra gli anni ’70 e i ’90 le fazioni e le istituzioni dell’OLP hanno sofferto molti duri colpi a causa dei cambiamenti della situazione regionale e internazionale. Questi hanno incluso l’espulsione dalla Giordania in seguito agli scontri armati nel 1970-71; la guerra civile scoppiata in Libano nel 1975, l’invasione israeliana nel 1982, l’espulsione dell’OLP dal Paese e i massacri di Sabra e Shatila; la guerra contro i campi palestinesi in Libano del 1985-86. La Prima Intifada (la rivolta popolare) contro Israele in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza alla fine del 1987 è stata anche il periodo nel quale l’islam politico per la prima volta ha occupato il contesto politico palestinese (1988). Il collasso dell’Unione Sovietica alla fine del 1989, la prima guerra del Golfo nel 1990-91 e il conseguente isolamento finanziario e politico dell’OLP hanno notevolmente eroso le sue alleanze e le sue fonti di finanziamento.

Le ripercussioni della disgregazione

Durante la Prima Intifada, l’elite politica palestinese non ha capito l’importanza di riorganizzare il movimento nazionale palestinese né di ricostruire le relazioni tra la dirigenza centralizzata e le varie comunità palestinesi. Inoltre l’OLP non ha trovato un modo per affrontare l’islamismo politico quando è emerso sulla scena palestinese come una filiazione della “Fratellanza musulmana” e non ha integrato Hamas nelle istituzioni politiche palestinesi. Allo stesso tempo, Hamas non si è ridefinito come un movimento nazionale. Il movimento politico palestinese, che è stato in un primo tempo indicato come un movimento nazionale o come una rivoluzione ha iniziato a essere citato come “il movimento nazionale ed islamico.”

Infatti la Prima Intifada ha portato la dirigenza politica a centralizzare ulteriormente i processi decisionali: ha firmato gli accordi di Oslo senza consultare le forze politiche e sociali all’interno o fuori dalla Palestina. Oslo ha fornito all’OLP la razionalizzazione politica, organizzativa ed ideologica per marginalizzare le istituzioni rappresentative nazionali palestinesi che esistevano, con l’argomento che stava costruendo il nucleo di uno Stato palestinese. L’ANP è stata esclusa dall’occuparsi dei palestinesi in Israele ed ha perso interesse fin da subito verso i palestinesi in Giordania. I suoi rapporti con loro, così come con i palestinesi in Libano, in Siria, nei Paesi del Golfo, in Europa e in America sono stati largamente ridotti a formalità burocratiche attraverso le sue ambasciate e gli uffici di rappresentanza in quei Paesi.

Quando la definizione dell’ANP come un’autorità con un autogoverno limitato su alcune parti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza non ha portato ad uno Stato palestinese, le elite politiche sono state private di un potenziale centro di sovranità statale; ciò ha accelerato la disgregazione del movimento nazionale. La vittoria di Hamas nelle elezioni legislative del 2006 ed il suo controllo sulla Striscia di Gaza nel 2007 hanno contribuito alla frammentazione dell’autorità di auto-governo in due entità sovrane, una rimasta su una parte della Cisgiordania e l’altra nella Striscia di Gaza. Entrambe queste autorità rimangono sottoposte all’occupazione ed al controllo di uno Stato coloniale d’insediamento che continua a colonizzare in modo aggressivo la terra e ad espellere palestinesi dai due lati della Linea Verde [il confine tra Israele e la Giordania precedente all’occupazione del 1967. Ndtr.]

La disgregazione del campo politico nazionale ha avuto una serie di ripercussioni. Le istituzioni rappresentative nazionali sono svanite e le elite politiche locali sono diventate dominanti. I dirigenti hanno derivato la loro “legittimazione” dalla loro posizione del passato nel partito o nell’organizzazione e dalla loro interazione diplomatica con Stati regionali ed istituzioni internazionali. Il discorso che è prevalso localmente ed internazionalmente ha ridotto la Palestina ai territori occupati nel 1967 e il popolo palestinese a quelli che vivono sotto l’occupazione israeliana, marginalizzando quindi i rifugiati e gli esiliati così come i palestinesi con cittadinanza israeliana. L’apparato di sicurezza in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza è cresciuto considerevolmente come dimensioni e come destinatario di risorse nel bilancio generale. La natura parassitaria delle autorità nelle due aree era legata alla dipendenza dagli aiuti esterni e dal trasferimento di fondi, e l’influenza dei capitali privati nelle loro economie si è accresciuta.

Ci sono stati anche significativi mutamenti fondamentali nella struttura sociale in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Questi mutamenti includono la comparsa di una classe media relativamente estesa che fornisce di personale le istituzioni e le agenzie dell’ANP in aree come l’educazione, la salute, la sicurezza, le finanze e la pubblica amministrazione, così come nei settori di nuovi servizi, in quelli bancari e nelle molte ONG che sono state fondate. Intanto la classe lavoratrice si è ridotta di dimensioni. Le disuguaglianze tra diversi segmenti della società sono aumentate e il tasso di disoccupazione è rimasto alto, soprattutto tra i giovani ed i neolaureati. La mentalità dell’ “impiego pubblico” si è diffusa, sostituendo la forma mentis del combattente per la libertà. Benché Fatah e Hamas si autodefiniscano come movimenti di liberazione, sono stati trasformati in strutture gerarchiche e burocratiche e mirano in buona misura alla propria sopravvivenza.

Le elite politiche ed economiche non si vergognano di ostentare i propri privilegi ed il proprio benessere nonostante continui l’occupazione coloniale repressiva. La classe media in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza sa molto bene che i propri standard e stili di vita sono legati all’esistenza di queste due autorità di auto-governo. Tuttavia la maggior parte della popolazione rimane sottoposta all’oppressione ed all’umiliazione da parte delle forze militari israeliane e dei coloni armati, e non patisce solo per la mancanza di una vita decente e di un futuro lavorativo, ma anche della mancanza di una qualunque soluzione nazionale in futuro. L’assedio draconiano di Israele ed Egitto contro Gaza rimane più che mai pesante, punteggiato di devastanti guerre israeliane, e la pulizia etnica dei palestinesi da Gerusalemme continua inesorabile, per mezzo di espulsioni, cancellazione di permessi e una vasta gamma di altre modalità.

Queste condizioni costituiscono la premessa per una situazione esplosiva nei territori occupati nel 1967. Però, poiché l’OLP, i partiti politici, il settore privato e la maggior parte delle organizzazioni della società civile non si sono mobilitati o non hanno potuto mobilitarsi contro l’occupazione, gli scontri con le forze di occupazione militare di Israele e con i coloni nell’”ondata di collera” in corso dall’ottobre 2015 sono rimasti per lo più atti individuali, con caratteristiche locali, senza una visione unitaria e una dirigenza nazionale.

La disgregazione del campo politico palestinese ha anche portato ad una crescente oppressione e discriminazione contro le comunità palestinesi in tutta la Palestina storica così come nella diaspora. I cittadini palestinesi nella parte di Palestina che è diventata Israele nel 1948 devono far fronte a una serie crescente di leggi discriminatorie. Anche i rifugiati palestinesi in e da Siria, Libano, Giordania ed altrove devono affrontare discriminazioni ed abusi. Soprattutto, lo status della causa palestinese ha conosciuto un passo indietro nel mondo arabo e a livello internazionale, una situazione esacerbata dalle guerre interne ed esterne in alcuni Paesi arabi.

Eppure la cultura fiorisce e alimenta l’identità nazionale

Oggi il popolo palestinese non ha né uno Stato sovrano né un efficace movimento di liberazione nazionale. Tuttavia c’è un considerevole rafforzamento dell’identità nazionale palestinese, dovuto in buona parte al ruolo del settore culturale nel mantenimento e nell’arricchimento della narrazione palestinese. Il ruolo della cultura per alimentare l’identità ed il patriottismo palestinesi ha una lunga storia. Dopo la creazione dello Stato di Israele nel 1948 e la sconfitta delle elite politiche dell’epoca e del movimento nazionale, la minoranza palestinese in Israele ha sostenuto l’identità nazionale attraverso un significativo fiorire culturale: poesia, narrativa, musica e cinema.

Lo scrittore e giornalista palestinese Ghassan Kanafani lo ha colto nel suo notevole libro sulla letteratura resistenziale palestinese (al-adab al-mukawim fi filistin al-muhtala 1948-1966 [Letteratura della resistenza nella Palestina occupata. Ndtr.]), pubblicato a Beirut nel 1968. Altre figure letterarie fondamentali comprendono i poeti Mahmoud Darwish e Samih Al Qasim, il sindaco di Nazareth e poeta Tawfik Zayyad e lo scrittore Emile Habibi, sia nelle sue opere, come il “Pessottimista”, che attraverso il giornale comunista Al-Ittihad, di cui è stato uno dei fondatori.

Negli anni ’50 e ’60, quando gli israeliani hanno mantenuto i cittadini palestinesi sotto governo militare, la letteratura, la cultura e le arti sono servite a rafforzare e proteggere la cultura e l’identità arabe e la narrazione nazionale palestinese. Questi lavori sono stati letti in tutto il mondo arabo e altrove, e hanno permesso ai rifugiati palestinesi e agli esiliati di conservare la propria identità attraverso i continui legami con la cultura e l’identità della propria patria.

I “palestinesi del 1948”, come sono spesso definiti nel discorso palestinese, hanno giocato anche un ruolo nell’informare gli altri palestinesi ed arabi sul modo in cui l’ideologia sionista modella la politica israeliana e sui meccanismi di controllo repressivo. Molti degli studiosi ed intellettuali palestinesi del ’48 sono approdati nei centri di ricerca palestinesi ed arabi a Beirut, a Damasco e altrove ed hanno aiutato a sviluppare questa comprensione.

Da allora, soprattutto in periodi di crisi politica, il settore culturale ha offerto ai palestinesi maggiori possibilità rispetto alla sfera politica per unirsi in attività che trascendessero i confini geopolitici con forme e generi culturali ed ogni sorta di produzione intellettuale. Letteratura, cinema, musica e arte continuano ad essere prodotti, ed in misura sempre maggiore, andando da scrittori, registi ed artisti noti in tutto il mondo fino ai giovani artisti e scrittori di oggi a Gaza, in Cisgiordania e tra i palestinesi all’estero. Tutto ciò viene diffuso in moltissimi modi, comprese le reti sociali, favorendo e rafforzando i legami tra palestinesi e tra arabi e l’interazione al di là dei confini.

La vitalità del patriottismo palestinese è radicata nella narrazione storica palestinese e si basa sulle esperienze quotidiane delle comunità che affrontano la spoliazione, l’occupazione, la discriminazione, l’espulsione e la guerra. E’ forse questa vitalità che porta i giovani palestinesi, molti dei quali nati dopo gli accordi di Oslo del 1993, ad affrontare i soldati israeliani ed i coloni in ogni parte della Palestina storica. Ciò spiega anche le grandi folle che partecipano ai cortei funebri dei giovani palestinesi uccisi dai soldati e dai coloni israeliani e nella raccolta di fondi per ricostruire le case demolite dai bulldozer israeliani come punizione collettiva delle famiglie di quanti sono stati uccisi nell’attuale rivolta giovanile.

Tuttavia evidenziare l’importanza e la vitalità del settore culturale non colma l’assenza di un valido movimento politico, costruito su solide basi democratiche. Dobbiamo imparare dalle lacune delle istituzioni originali del movimento e superarle, piuttosto che sprecare forze, tempo e risorse per recuperare un quadro politico disintegrato e decaduto. Dobbiamo anche andare oltre quei concetti e quelle pratiche che l’esperienza ci ha mostrato aver fallito, come l’altissimo livello di centralizzazione: le politiche devono essere affidate al popolo ed alla base. Dobbiamo anche salvaguardare la nostra cultura nazionale da concetti ed approcci che asserviscono le menti, paralizzano il pensiero e il libero arbitrio, promuovono l’intolleranza, santificano l’ignoranza e nutrono i miti. Dovremmo piuttosto favorire i valori di libertà, giustizia e uguaglianza.

Abbiamo bisogno di una visione totalmente nuova dell’azione politica. Una tale visione può essere intravista nel linguaggio che sta prendendo forma tra i gruppi di giovani e nei rapporti tra le forze politiche palestinesi all’interno della Linea Verde, che riflettono una profonda coscienza dell’impossibilità di convivere con il sionismo in quanto ideologia razzista e regime coloniale di insediamento che criminalizza la narrazione storica palestinese.

Al cuore di questa emergente coscienza politica si trova la necessità di coinvolgere le comunità palestinesi nel processo di discussione, stesura e adozione di politiche nazionali inclusive: si tratta sia di un loro diritto che di un loro dovere. E’ ugualmente importante riconoscere il diritto di ogni comunità a definire la propria strategia nell’affrontare gli specifici problemi che deve affrontare mentre partecipa all’autodeterminazione di tutto il popolo palestinese.

Costruire un nuovo movimento politico non sarà facile a causa dei crescenti interessi di fazione e il timore di principi e pratiche democratici. Quindi è necessario incoraggiare iniziative di base per creare leadership locali, con la più ampia partecipazione possibile da parte di individui e istituzioni della comunità, seguendo il promettente esempio dei palestinesi del ’48 nell’ organizzare l'”Alto Comitato di Monitoraggio per i cittadini arabi di Israele” per difendere i loro diritti ed interessi, e dei palestinesi della Cisgiordania e di Gaza nella Prima Intifada. Anche il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) è un esempio di successo di questo nuovo tipo di consapevolezza politica e di organizzazione, che riunisce diverse fazioni politiche, organizzazioni della società civile e sindacati dietro una visione ed una strategia unitarie.

Qualcuno potrà pensare che questa discussione è utopica o idealista, ma noi abbiamo disperatamente bisogno di ideali nell’attuale caos e faziosità distruttiva. E abbiamo una ricca storia di attivismo politico e di creatività culturale a cui attingere.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Israele sta ripristinando la politica di confisca di ampi territori

15 marzo, 2016

Maannews

Betlemme(Ma’an). Martedì un rapporto di Peace Now [associazione israeliana che monitorizza lo sviluppo delle colonie ndt] ha affermato che Israele ha ripristinato la politica di confisca di vasti appezzamenti di terra palestinese per [consentire] l’espansione delle colonie con una frequenza mai vista dagli anni ’80, prima degli accordi di Oslo.

L’osservatorio delle colonie israeliane ha individuato principalmente una vasta area di territorio palestinese a sud di Gerico che è stata dichiarata la scorsa settimana dall’amministrazione civile di Israele “terra statale” in uno dei più grossi furti di terra degli ultimi anni da parte degli israeliani.

L’associazione ha verificato che il 10 marzo sono stati incamerati come proprietà del governo israeliano 2.342 dunam [234.2 ha, ndt] di terra dell’area meridionale della Cisgiordania occupata.

Secondo l’osservatorio l’ampiezza [del furto] ha di gran lunga superato i 1.500 dunam [150 ha, ndt] inizialmente approvati a gennaio per essere espropriati da parte del ministero della difesa.

Ciò apre la strada alla costruzione di 350 unità abitative nella colonia illegale di Almog e, sebbene appartenga al territorio palestinese occupato, destinerà ampie porzioni di territorio al commercio di Israele e al settore del turismo.

Definendo la recente dichiarazione di terra dello Stato come “una confisca di fatto”della terra palestinese, l’associazione ha notato che un certo numero di siti turistici israeliani, negozi di souvenir e una stazione di servizio operano da lungo tempo nel territorio.

L’associazione afferma che “invece di provare a calmare la situazione, il governo getta benzina sul fuoco mandando un chiaro messaggio ai palestinesi, ed anche agli israeliani, che non ha la minima intenzione di lavorare per la pace e per i due Stati.”

Il primo ministro Netanyahu ancora una volta mostra che la pressione dei coloni è più importante per lui che il deteriorarsi della situazione della sicurezza”.

L’associazione afferma che Israele non aveva confiscato un così ampio appezzamento di terra per espandere le colonie fin dal periodo precedente agli accordi di Oslo, negli anni ’80, indicando con le recenti mosse un chiaro cambiamento di politica.

La crescita delle colonie in quel lontano periodo ha giocato un ruolo importante nel provocare le tensioni che hanno poi portato agli accordi di Oslo del 1993.

Peace Now afferma che la recente presa di possesso segue quella di circa 5.000 dunam [50 ha, ndt] di terra palestinese nel distretto di Betlemme, dichiarata terra dello Stato nell’aprile e nell’agosto del 2014.

L’area a sud di Gerico, ora dichiarata territorio dello Stato, si trova sul lato opposto della fine del corridoio E1, una striscia di territorio che da Gerusalemme attraversa la parte centrale della Cisgiordania occupata.

I palestinesi sono stati lentamente espulsi da E1con l’espansione delle colonie nel cuore della Cisgiordania, e i palestinesi pensano che una totale acquisizione del corridoio spaccherebbe in due la Cisgiordania occupata, rendendo impossibile [la realizzazione ] di uno Stato palestinese con continuità territoriale.

Martedì il segretario generale dell’OLP Saeb Erekat ha condannato la confisca della terra [vicino a] Gerico come una continuazione “del progetto coloniale israeliano mantenendo la sua aggressiva occupazione e annettendosi altre terre palestinesi all’interno della Cisgiordania occupata”.

Egli ha detto che “ la consapevolezza dell’impunità garantita dalla comunità internazionale” è stata il maggiore ostacolo alla fine dell’occupazione israeliana e alla realizzazione “dei diritti fondamentali del popolo palestinese sistematicamente negati”.

Con una rara critica alle politiche israeliane, l’ambasciatore USA in Israele Dan Shapiro a gennaio ha condannato l’acquisizione israeliana di vaste porzioni di terre palestinesi come terra dello Stato.

Egli ha detto che la formazione dei due Stati “ sarebbe diventata sempre più difficile se Israele pianificasse la continua espansione dell’area delle colonie”.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Rapporto OCHA sulla settimana 8- 14 marzo

Il 12 marzo, ad est di Beit Lahia (Gaza), due fratelli (9 e 6 anni) sono morti ed altri due loro fratelli (12 e 2 anni) sono rimasti feriti nel crollo del tetto della loro casa, colpita dai detriti scagliati da una esplosione nel vicino sito di addestramento militare [palestinese] bersagliato da un attacco aereo israeliano.

Nello stesso giorno, nel corso di un altro attacco aereo, è stato ferito un altro minore. Secondo i media israeliani, gli attacchi aerei sono stati la risposta al lancio di un razzo contro il sud di Israele, effettuato il giorno precedente da fazioni palestinesi; lancio che non aveva provocato feriti, né danni.

Durante la settimana sono stati registrati dieci attacchi palestinesi contro israeliani: speronamenti con auto, attacchi e presunti attacchi con armi da fuoco e armi da taglio; complessivamente hanno causato la morte di un turista e il ferimento di 19 israeliani. Le forze israeliane hanno ucciso dieci dei presunti responsabili, tra cui due minori di 16 e 17 anni ed una donna, e ferito un passante. Due degli episodi hanno avuto luogo in Israele, i rimanenti in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est. Inoltre, un colono israeliano è stato ferito e un veicolo danneggiato in due episodi consistenti nel lancio di pietre e nel lancio di una bomba incendiaria. Dall’inizio del 2016, attacchi e presunti attacchi palestinesi hanno provocato la morte di quattro israeliani [1], di un cittadino straniero e di 41 palestinesi presunti responsabili, tra cui 12 minori e tre donne.

In seguito a quattro degli attacchi di cui sopra, le forze israeliane hanno bloccato o predisposto checkpoint agli ingressi principali dei villaggi ove risiedevano i presunti responsabili, e cioè: Az Zawiya (Salfit), Hajja (Qalqiliya), Qabalan (Nablus) e Beit Ur at Tahta ( Ramallah); quest’ultimo blocco ha interrotto anche la strada principale tra Ramallah ed altri cinque villaggi. Le restrizioni sono durate per 4-5 giorni, interrompendo l’accesso ai servizi ed ai luoghi di lavoro.

In conseguenza di uno degli attacchi verificatosi a Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno espulso da Gerusalemme la famiglia del responsabile (10 persone, di cui 7 minori) e li hanno informati che la loro richiesta di unificazione famigliare era stata respinta. I quattro figli e figlie maggiori, insieme alla madre, sono stati trasportati dalla polizia israeliana al checkpoint di Qalandiya con l’ordine di allontanarsi, mentre il padre è rimasto sotto la custodia della polizia.

Nella città di Hebron, le autorità israeliane hanno demolito la casa di famiglia del colpevole di un attacco verificatosi nel mese di novembre 2015, sfollando una famiglia di sei persone, tra cui tre minori. Nei villaggi di Hajja (Qalqiliya), Az Zawiya e Mas-ha (questi ultimi a Salfit), sono stati emessi ordini di demolizione punitiva, o avviate valutazioni preliminari, contro le case degli autori di tre degli attacchi di questa settimana. Nel mese di novembre 2014, il Coordinatore umanitario per Territori palestinesi occupati ha chiesto la fine delle demolizioni punitive, sottolineando che “le demolizioni punitive sono una forma di sanzione collettiva, vietata dal diritto internazionale. “

Attualmente sono trattenuti dalle autorità israeliane i corpi di 13 palestinesi, presunti responsabili di attacchi contro israeliani; tra essi i corpi di quattro dei palestinesi uccisi in questa settimana; gli altri nove corpi trattenuti sono di palestinesi uccisi nel corso di episodi avvenuti negli ultimi cinque mesi.

Gli scontri con le forze israeliane nei Territori palestinesi occupati hanno provocato il ferimento di 119 palestinesi, tra cui 28 minori. Tre dei ferimenti si sono verificati nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale; i rimanenti in Cisgiordania. Oltre il 40% di tutte le lesioni sono state riportate durante un singolo episodio verificatosi a Betlemme, nei pressi della Tomba di Rachele. Circa il 70% delle lesioni sono state causate da inalazione di gas lacrimogeno richiedente trattamento medico; le rimanenti da proiettili di arma da fuoco, proiettili di gomma ed aggressioni fisiche.

Un quindicenne è rimasto ferito manipolando proiettili inesplosi abbandonati dalle forze israeliane durante una esercitazione militare nei pressi della comunità pastorizia di Ibziq (Tubas).

Durante la settimana sono stati registrati tre attacchi di coloni israeliani contro palestinesi con conseguenti lesioni o danni: un attacco incendiario contro una casa vicino al villaggio di Al-Khader, a Betlemme (il secondo attacco in una settimana) e, nel villaggio Aqraba (Nablus), il danneggiamento di oltre 70 alberi da parte di coloni che hanno lasciato pascolare liberamente il loro bestiame su terre di proprietà palestinese. Inoltre, in Gerusalemme Ovest, un palestinese di 40 anni è stato aggredito da un gruppo di israeliani mentre era al lavoro.

Il 10 marzo 2016, 234 ettari di terra, a sud della città di Gerico, sono stati dichiarati dalle autorità israeliane “terra di stato”. Nell’Area C della Cisgiordania quasi tutta la “terra di stato” è stata posta sotto la giurisdizione degli insediamenti colonici israeliani. Il terreno in questione è adiacente alla colonia israeliana di Almog. In seguito a questa dichiarazione, il Segretario generale delle Nazioni Unite ha sollecitato Israele a fermare le attività di insediamento.

Due operai palestinesi sono morti nel crollo di un tunnel per il contrabbando in costruzione sotto il confine con l’Egitto. Nel corso della settimana, altri sette operai sono stati posti in salvo dalla Protezione Civile Palestinese, nel contesto di un possibile allagamento delle gallerie da parte delle autorità egiziane. In un altro caso, un membro di un gruppo armato è morto in un tunnel ad est di Gaza.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014, ad eccezione di 42 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno segnalato che sono registrate e in attesa di attraversare oltre 30.000 persone con bisogni urgenti, tra cui circa 3.500 malati.

[1] Escludendo tre israeliani uccisi in un attentato perpetrato in Israele da un cittadino israeliano di origine palestinese, successivamente ucciso.

 

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Secondo i media, il 17 marzo due palestinesi hanno accoltellato e ferito un soldato israeliano vicino alla colonia di Ariel; gli stessi sono stati successivamente uccisi dalle forze israeliane.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivol

 




Rapporto Ocha sul periodo 23 febbraio – 7 marzo 2016

Durante il periodo di due settimane sono stati segnalati nove attacchi palestinesi, o presunti attacchi, contro israeliani e coloni israeliani, con conseguente ferimento di sette israeliani; cinque dei presunti responsabili sono stati uccisi sul posto, tra cui un ragazzo di 17 anni e una donna di 34 anni, mentre un altro palestinese è stato ferito e una ragazza di 14 anni è stata arrestata.

Gli episodi si riferiscono a sette accoltellamenti, o presunti tentativi di accoltellamento: presso il checkpoint DCO di Ramallah, presso il villaggio di Burin (Nablus), di Auja (Jericho), presso gli insediamenti di Ma’ale Adumim (Gerusalemme) e di Eli (Nablus) e nei pressi dello svincolo stradale di Gush Etzion (Betlemme); in quest’ultima località c’è stato un sospetto speronamento con auto, mentre vicino all’insediamento di Ariel (Salfit) sono stati sparati colpi di arma da fuoco contro un veicolo della polizia israeliana. Dall’inizio dell’anno, gli attacchi o sospetti attacchi palestinesi hanno provocato la morte di quattro israeliani e di 31 aggressori (o presunti tali) palestinesi, tra cui dieci minori.

Un ventiduenne palestinese è stato ucciso, con armi da fuoco, nel Campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme) durante scontri verificatisi nel corso di un’operazione militare che intendeva proteggere l’uscita dal Campo di due soldati israeliani che vi erano entrati erroneamente. Nei Territori palestinesi occupati gli scontri con le forze israeliane hanno provocato il ferimento di 225 palestinesi, tra cui 65 minori. Nove dei ferimenti si sono verificati nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale, i rimanenti in Cisgiordania; la maggior parte di questi ultimi sono avvenuti durante scontri nel corso delle manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya) e Ni’lin (Ramallah); in scontri nei pressi del villaggio di Al-Khader; presso la Tomba di Rachele a Betlemme; e nel corso di undici distinte operazioni di ricerca-arresto. Sale così a otto il numero di palestinesi (tre dei quali minori) uccisi dall’inizio del 2016 durante scontri nei Territori occupati, mentre il numero dei feriti sale a 1.170 (di cui 381 minori).

Il 2 marzo, in seguito ad un attacco [palestinese] nei pressi dell’insediamento [colonico israeliano] di Bracha, le forze israeliane hanno bloccato per cinque giorni consecutivi gli ingressi principali dei vicini villaggi di Burin, Iraq Burin e Madama (5.900 persone), ad ovest della città di Nablus, ed hanno dislocato checkpoints temporanei sulle strade secondarie. Nello stesso periodo, l’esercito israeliano ha aperto l’ingresso a nord del villaggio di Bani Na’im (Hebron), che era rimasto chiuso negli ultimi tre mesi.

Sono tuttora trattenuti dalle autorità israeliane (da periodi di tempo che vanno dai 29 ai 153 giorni) i corpi di nove palestinesi, tutti ex-residenti di Gerusalemme Est, sospettati di aver perpetrato attacchi contro israeliani.

Il 25 febbraio, in Jabalia, a nord della città di Gaza, un bambino palestinese di 5 anni è stato ucciso dall’esplosione di un residuato bellico mentre un altro di 6 anni è rimasto ferito.

Nella Striscia di Gaza, in Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare, sono stati registrati almeno 36 episodi in cui le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento contro civili palestinesi o contro le loro proprietà; in nessun dei casi ci sono state vittime, ma un’aula di una scuola elementare palestinese, ad est della città di Gaza, è stata danneggiata dagli spari mentre erano in corso le attività didattiche. Durante il periodo di osservazione sono stati arrestati tredici palestinesi: tre nei pressi della recinzione di confine che circonda Gaza, dopo essere entrati in Israele senza l’autorizzazione israeliana, un membro della squadra nazionale palestinese di calcio al valico di Erez e nove pescatori arrestati in mare, secondo quanto riferito, dopo essere stati costretti dalle forze israeliane a togliersi i vestiti e nuotare verso l’imbarcazione militare.

Nella città di Hebron, a Deir Samit ed a Tarusa, sempre nel governatorato di Hebron, le autorità israeliane hanno distrutto tre case appartenenti a palestinesi accusati di aver compiuto, lo scorso novembre, attacchi contro israeliani: sfollate 22 persone, tra cui tredici minori. Durante la settimana, a Qabatiya (Jenin), con le stesse motivazioni, sono stati consegnati ordini di demolizione contro altre tre case. Le demolizioni punitive sono una forma di punizione collettiva che contrasta con una serie di disposizioni del diritto internazionale.

Durante il periodo di riferimento, in Area C e presso comunità di Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le forze israeliane hanno distrutto, o smontato e confiscato, 85 strutture, 17 delle quali fornite come assistenza umanitaria. Come risultato, 96 persone, tra cui 41 minori, sono state sfollate e altre 255 sono state coinvolte in vario modo. L’episodio più grave ha interessato la comunità beduina palestinese di Khirbet Tana (Nablus), quasi interamente distrutta (41 strutture), che si trova in una “zona per esercitazioni a fuoco”. Dall’inizio del 2016, il numero delle strutture demolite è già pari al 70% delle demolizioni registrate in tutto il 2015, mentre il numero degli sfollati è quasi il 68% del totale del 2015. Il numero delle strutture finanziate da donatori e demolite (120) ha già superato il totale del 2015 (erano state 108). Il 17 febbraio, Robert Piper, Coordinatore per le Attività Umanitarie e di Sviluppo delle Nazioni Unite per i Territori palestinesi occupati, ha chiesto la cessazione immediata della distruzione di beni di proprietà palestinese nella Cisgiordania occupata ed il rispetto del diritto internazionale.

Durante il periodo di due settimane sono stati registrati otto attacchi di coloni israeliani contro palestinesi, con conseguenti lesioni o danni: l’aggressione e il ferimento di cinque palestinesi, tra cui una donna, a Nablus, Salfit ed Hebron; lo sradicamento di 30 piantine di ulivo in Qusra (Nablus), secondo quanto riferito, ad opera di coloni provenienti dall’insediamento di Esh Kodesh; danni ad un veicolo palestinese ad Asira al Qibliya (Nablus), secondo quanto riferito, ad opera di coloni provenienti dall’insediamento di Yitzhar. Inoltre (non incluso nel conteggio), vicino all’ingresso della colonia di Ariel (Salfit), un palestinese è stato investito e ferito da un veicolo con targa israeliana.

I media israeliani hanno riportato tre casi di lancio di pietre (presso Hebron e Betlemme) da parte di palestinesi contro veicoli di coloni israeliani, con conseguenti danni per tre veicoli privati. Il 3 marzo, nel villaggio di Shufa (Tulkarm), le autorità israeliane hanno distribuito volantini, minacciando provvedimenti punitivi contro i residenti, nel caso dovesse persistere il lancio di pietre contro le auto israeliane.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014 ad eccezione di 42 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno segnalato che sono registrati e in attesa di attraversare oltre 25.000 persone con bisogni urgenti, tra cui circa 3.500 malati.

 

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

L’8 e il 9 marzo, in Israele e Gerusalemme, sono stati segnalati sei attacchi palestinesi contro israeliani. Come risultato sono state uccise sette persone, tra cui sei dei presunti responsabili palestinesi; altre 15 persone sono rimaste ferite.

Il 9 marzo, vicino al villaggio di Az Zawiya (Salfit), le forze israeliane hanno ucciso un ragazzo palestinese di 16 anni che aveva tentato un accoltellamento.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

le traduzioni in italiano sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: in caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese. Nella versione italiana non sono riprodotti i

dati statistici ed i grafici.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




Gli insegnanti danno lezione di democrazia e di cooperazione ai palestinesi

L’Autorità Nazionale Palestinese si rifiuta ancora di trattare con i rappresentanti eletti degli insegnanti mentre 700.000 studenti stanno perdendo le lezioni.

di Amira Hass

Haaretz

6 marzo , 2016

Hasib, di Ramallah, è stato insegnante per 27 anni. Il suo stipendio base è di 2.400 shekel [560.19 euro, ndt] che, insieme agli scatti di anzianità, arriva a 3.600 shekel al mese [837.35 euro, ndt].

Il suo fratello più giovane, che lavora nelle forze di sicurezza preventiva palestinesi, è pagato 4.700 shekel al mese [1.095 euro, ndt]. Diversamente da Hasib non possiede una laurea. Hasib, come altre migliaia di insegnanti, sfidando un divieto ufficiale, ha un secondo impiego, e lavora ogni pomeriggio in un ufficio. Altri insegnanti integrano il loro stipendio lavorando in panetterie, vendendo falafel o come tassisti.

La protesta dei docenti palestinesi la settimana scorsa ha raggiunto la quarta settimana [di lotta] e la domanda di una rappresentanza democratica sta diventando sempre più forte. L’Autorità Nazionale Palestinese si rifiuta di trattare con i delegati eletti dagli insegnanti. Circa 700.000 studenti, dei quali 87.000 si stanno preparando agli esami, sono le principali vittime dello sciopero.

Alla fine della settimana scorsa, il comitato che rappresenta gli insegnanti in sciopero ha accettato una soluzione proposta da una commissione unitaria dei vari gruppi parlamentari e da varie ONG. Secondo questa proposta, gli insegnanti dovrebbero riprendere immediatamente il lavoro, mentre il governo entro tre mesi pagherà gli arretrati e aumenterà lo stipendio base del 70% nell’arco di tre anni.

Finora l’ANP ha insistito che gli insegnanti riprendano il lavoro prima di discutere le loro rivendicazioni. Tuttavia gli insegnanti sono stanchi delle promesse del governo, delle dilazioni, delle scuse e non si sono fatti scoraggiare neppure dalle numerose morti palestinesi provocate dalle forze israeliane, dagli arresti e dalle incursioni militari nei paesi e nei villaggi.

Gli insegnanti chiedono un aumento del loro stipendio base, degli scatti di anzianità e una [possibilità di] carriera come per gli altri lavoratori del pubblico impiego, oltre che uguale trattamento per le donne ed elezioni democratiche nel sindacato degli insegnanti.

Alcuni dicono che l’annuncio di alcuni mesi fa secondo cui il governo aveva promosso 180 alti funzionari civili e aumentato gli stipendi delle scorte dei palestinesi importanti di 400-600 shekel [100-120 euro circa, ndt]] ha scatenato la nuova protesta.

A giudicare dalla reazione dell’ANP fino ad ora, sembra che lo sciopero minacci le regole del suo sistema di governo. L’assemblea legislativa è paralizzata dal 2007 e non esiste nessun controllo dell’operato dell’ esecutivo. Fatah domina in tutte le istituzioni governative (compresi i sindacati); nonostante lo sgretolamento del suo movimento, un solo uomo prende le decisioni e stabilisce la linea politica: il presidente Mahmoud Abbas.

Lo sciopero ha prodotto fermenti di democratizzazione e di collaborazione tra i gruppi politici e della società civile di opposizione e ha rinnovato la critica dell’opinione pubblica sul bilancio [dell’ANP] e sulle eccessive dimensioni delle forze di sicurezza.

Il ministro dell’Educazione Sabri Saidam ha detto questa settimana che circa il 70% degli insegnanti è tornato al lavoro. I rappresentanti degli insegnanti negano che sia vero, affermando che la maggior parte degli insegnanti sta ancora scioperando. Un sondaggio reso noto giovedì scorso evidenzia che la maggioranza dell’opinione pubblica (l’84%) pensa che lo sciopero sia giustificato.

La scorsa settimana circolavano molte voci sulle intenzioni delle forze di sicurezza di stroncare la protesta e le manifestazioni degli insegnanti. Finora la polizia palestinese non è riuscita a prevenire le manifestazioni degli insegnanti nelle varie città della Cisgiordania, neppure [quelle] non autorizzate. La gente è troppo favorevole agli insegnanti per provarci ed impedire la protesta. Tuttavia, nel campo profughi di Balata vicino a Nablus è stato recapitato un minaccioso messaggio agli insegnanti. Un gruppo di uomini mascherati che si sono autodefiniti “Shuhada al-Aqsa” e “i falchi di Fatah” hanno tenuto una conferenza stampa martedì. Hanno parlato “ di un complotto ordito dai nemici del popolo palestinese” e hanno avvertito che, come in passato hanno colpito i traditori e i collaborazionisti, attaccheranno chiunque voglia danneggiare Abbas e l’ANP. Il collegamento tra i “traditori” e gli scioperanti era evidente.

Si pensa che dietro questo minaccioso comunicato ci siano i funzionari del sistema di sicurezza, molti dei quali s’identificano con il dispotismo di Abbas

Tuttavia molti esponenti di Fatah appoggiano gli scioperanti. Due, che hanno osato manifestare apertamente il loro appoggio, sono stati convocati per essere interrogati dalla polizia. Bassam Zakarneh, membro del Consiglio rivoluzionario di Fatah, che è stato anche presidente del sindacato dei dipendenti pubblici fino al suo scioglimento, è entrato “in clandestinità” dopo che le forze di sicurezza lo hanno cercato a casa sua. E Najat Abu Baker, un’esponente di Fatah all’Assemblea legislativa, è stata convocata due settimane fa dall’ufficio del Procuratore Generale per essere interrogata dopo che in un’intervista televisiva ha affermato di avere delle prove di [episodi di] corruzione.

Ha sostenuto che un ministro ha preteso soldi dalle persone che attingevano l’acqua da un pozzo ristrutturato. “L’acqua è una risorsa nazionale” ha detto alla stampa. Il ministro ha detto che il pozzo è situato su un terreno privato della sua famiglia e l’ha accusata di diffamazione. Lei è convinta che la convocazione sia una violazione della sua immunità parlamentare. “Con la paralisi dell’assemblea legislativa non abbiamo altra scelta se non rivolgerci ai media” ha detto.

Invece di andare all’ufficio del Procuratore Generale, si è insediata nella sede dell’Assemblea Legislativa a Ramallah ed è rimasta [lì] per quasi due settimane. Una fiumana di persone è andata a solidarizzare con lei e tutte le fazioni, compresa Hamas, hanno manifestato nel cortile in sua difesa.

Abu Baker e altri sono convinti che l’ordinanza per interrogarla e arrestarla dipenda da due ragioni complementari, una il sostegno agli insegnanti l’altra il fatto di essere stata fotografata al Cairo alcuni mesi fa insieme a Mohammed Dahlan, l’ex leader di Fatah a Gaza caduto in disgrazia presso Abbas.

Lo scorso martedì, Hasib era tra le centinaia di insegnanti che protestavano vicino all’edificio dove Abu Baker è barricata. Ingenti forze anti sommossa sono state schierate su entrambi i lati di via Khalil al-Wazir, impedendo agli insegnanti di avvicinarsi al Ministero dell’Educazione o alla via degli uffici governativi. Così i dimostranti hanno marciato verso piazza Manara nel centro di Ramallah. Anziani e giovani, donne e uomini, religiosi e laici, esponenti di sinistra e conservatori, militanti di Fatah e di Hamas hanno marciato insieme rappresentando tutto lo spettro della società palestinese.

Gli studenti delle scuole superiori si sono uniti al corteo cantando il motivo di Piazza Tahrir, “Alzate la testa, siete insegnanti”.

Analoghe proteste, organizzate dal movimento Unitario degli Insegnanti, un comitato provvisorio di coordinamento degli insegnanti in sciopero, sono avvenute contemporaneamente in altre città della Cisgiordania.

Il comitato è stato eletto recentemente da tutti gli insegnanti dopo che la loro dirigenza ufficiale, affiliata all’OLP, cioé il sindacato generale degli insegnanti, si è dimessa in seguito alle critiche da parte degli insegnanti all’accordo firmato con il ministro dell’educazione.

Finora il governo si è rifiutato di incontrare i rappresentanti eletti, insistendo che il sindacato degli insegnanti è il loro legittimo rappresentante.

Sabato il ministro dell’educazione ha annunciato che gli aumenti di stipendio attesi da lungo tempo saranno gradualmente pagati agli insegnanti, ma solamente a quelli che ritorneranno al lavoro.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Abusi e torture nel centro per gli interrogatori di Shikma

Rapporto congiunto di HaMoked e B’Tselem, dicembre 2015

Privazione del sonno, a volte per più giorni di seguito; rimanere legati mani e piedi ad una sedia con limitazione dei movimenti per ore ed ore; essere sottoposti a grida, insulti, minacce, sputi e umiliazioni; esposizione a freddo o caldo estremi; cibo scarso e di cattiva qualità; negazione della possibilità di farsi una doccia o cambiarsi i vestiti per giorni e persino per settimane; detenzione in celle piccole e puzzolenti, di solito in isolamento, per molti giorni.

Ho passato 20 giorni in isolamento totale. Psicologicamente essere solo è come vivere in un gabinetto. Se ti succede qualcosa non lo saprà nessuno. Potresti morire e lo scoprirebbero dopo qualche giorno. Potresti morire in un gabinetto e nessuno lo saprebbe. Sei gettato in un angolo e dimenticato, puoi picchiare alla porta e per quanto baccano tu possa fare non riceverai nessun aiuto. Nessuno ti parla e nessuno ti vede, salvo quando ti portano il cibo. E anche allora non ti parlano. Mettono giù il cibo e se ne vanno. A volte una guardia nerboruta arriva e picchia forte con un bastone, forse per verificare se sei ancora vivo, senza dire niente. […] Perdi persino la voglia di stare in piedi. Al lavoro ero abituato a muovermi, mi risulta difficile stare fermo. Là dentro non hai spazio per muoverti e ti passa la voglia di fare qualunque cosa.

Brano tratto dalla testimonianza di Mazen Abu ‘Arish, un geometra ventiduenne di Beit Ula.

Queste sono alcune delle caratteristiche standard degli interrogatori nel centro per gli interrogatori gestito dall’Agenzia Israeliana per la Sicurezza (ISA) presso la prigione Shikma di Ashkelon, nel sud di Israele. Questo rapporto, basato su deposizioni scritte e testimonianze fornite da 116 palestinesi arrestati per ragioni di sicurezza e interrogati a Shikma dall’agosto 2013 al marzo 2014, descrive le condizioni in cui i detenuti sono tenuti ed interrogati. Praticamente ogni detenuto è stato sottoposto a qualcuna o a tutte queste misure; circa un terzo di loro è stato picchiato o maltrattato da soldati o poliziotti nel corso dell’arresto; almeno 14 di loro sono stati torturati durante l’interrogatorio dall’Autorità Nazionale Palestinese poco prima di essere arrestati dalle forze di sicurezza israeliane.

Le condizioni nella struttura di Shikma sono parte integrante degli interrogatori che vi si svolgono: servono ad indebolire la mente ed il corpo, accompagnando l’effettivo interrogatorio nella stanza degli interrogatori. La combinazione delle condizioni sia dentro che fuori questa stanza costituiscono abusi e trattamenti inumani e degradanti, a volte rappresentano persino delle torture. Sono stati utilizzati sistematicamente contro i palestinesi interrogati a Shikma, una pratica che viola le leggi internazionali, le sentenze dell’Alta Corte di Giustizia Israeliana (HCJ) e i basilari standard morali.

La sedia è piccola e bassa, con una spalliera corta. Tre gambe sono alte uguali e la quarta è più corta. E’ difficile, perché se tu ti addormenti o ti stanchi e cadi sul lato corto, le manette che ti legano alla sedia dietro la schiena ti tirano e fanno terribilmente male alle braccia e alle mani. C’era un’altra sedia, della stessa misura ed altezza ma con le due gambe posteriori più corte. Quando ci stai seduto ti fa stare all’indietro ma chi ti interroga ti grida di stare dritto. Per farlo devi piegarti in avanti. Ti fanno male le mani e la schiena. Il dolore delle braccia e delle mani, e soprattutto del braccio sinistro, è diventato insopportabile.

Brano tratto dalla testimonianza di L.H., fiorista di vent’anni di Hebron, interrogato giorno e notte per 22 giorni.

Nel 1999 l’HCJ israeliana ha proibito l’uso della tortura, di abusi o pratiche degradanti da parte dell’ISA. Nei sedici anni da quella sentenza migliaia di palestinesi sono stati interrogati, molti dei quali con metodi assolutamente proibiti. Questo rapporto prende in esame la situazione in uno specifico centro di interrogatorio durante un ridotto periodo di tempo. Mostra che i sistemi di interrogatori violenti da parte dell’ISA persistono – appoggiati dalle autorità statali, dall’HCJ all’ufficio della Procura Generale a quella militare e al Servizio Penitenziario israeliano (IPS). Il contenuto di ogni memoria scritta, una dopo l’altra e di ogni testimonianza, una dopo l’altra dipingono un quadro estremamente sinistro di quanto succede lungo il percorso verso il centro Shikma e nel braccio destinato agli interrogatori.

Mi sono sentito completamente e assolutamente umiliato. Mi gridavano che sono un asino, una bestia. Dicevano: “Sei spazzatura, un tipo da poco, non vali niente.” Dicevano parolacce riferite alla mia sorellina, che ha una paresi cerebrale, ed hanno ferito il suo onore. Sapevano che mia sorella è paralizzata. L’hanno insultata. Dicevano che fa schifo. Questo è durato per tutti i nove giorni di interrogatorio.

Brano tratto dalla testimonianza di Imad Abu Khalaf, 21 anni, commesso in una panetteria di Hebron.

I detenuti intervistati descrivono ripetutamente il comportamento illecito delle autorità. Le descrizioni assomigliano in modo impressionante a testimonianze rese in precedenza da detenuti in altri centri per gli interrogatori. Prese insieme, sembra che questo comportamento costituisca una prassi ufficiale per gli interrogatori. Messa in atto in modo sistematico, questa politica include violenze e umiliazioni durante l’arresto e l’interrogatorio; condizioni inumane di detenzione che obbligano i detenuti a sopportare sovraffollamento e sporcizia; l’isolamento dei detenuti, sottoposti a deprivazioni sensoriali, motorie e sociali estreme; cibo scarso e di cattiva qualità; esposizione a caldo e freddo estremi; rimanere a lungo legati ad una sedia durante l’interrogatorio, a volte in posizioni eccessivamente penose; prolungate privazioni del sonno; minacce, insulti, grida e derisioni – e in qualche caso persino violenza diretta da parte di chi interrogava.

Sono stato interrogato senza sosta per tre o quattro giorni incessantemente e senza neanche essere messo in una cella. Per tutto il tempo le mie mani erano legate dietro la schiena salvo quando mangiavo o andavo al bagno. La cosa peggiore era che non potevo dormire. Appena mi assopivo, chi mi interrogava gridava forte nelle mie orecchie e mi svegliava. Quelli che mi interrogavano si davano i turni. Questo è durato a lungo. Dopo quattro giorni mi hanno lasciato riposare per due ore al giorno e mi interrogavano il resto del tempo. E’ continuato per dieci giorni. Ricordo di essere rimasto quasi incosciente durante i lunghi interrogatori. E’ stato terribile. Ero praticamente svenuto per la mancanza di sonno e loro continuavano ad interrogarmi.

Brano tratto dalla testimonianza di Husni Najar, ventiquattrenne di Hebron.

Ognuna di queste misure è crudele, inumana e degradante, un effetto aggravato quando viene messo in atto congiuntamente o per prolungati periodi di tempo. In qualche caso l’uso di questi metodi rappresenta una forma di tortura – in violazione delle leggi internazionali, delle sentenze dell’HCJ e delle leggi israeliane.

Oltre ad utilizzare direttamente metodi crudeli, inumani e degradanti, le autorità investigative israeliane partecipano indirettamente alle torture utilizzando consciamente informazioni ottenute attraverso l’uso della tortura – di solito molto grave – da parte di coloro che conducono gli interrogatori per l’Autorità Nazionale Palestinese a danno degli stessi detenuti.

Il sistema degli interrogatori basato su questi metodi, sia per l’interrogatorio in sé che per le condizioni in cui le persone arrestate sono tenute in custodia, è deciso dallo Stato e non si tratta del risultato dell’iniziativa di un singolo investigatore o guardia carceraria. Queste azioni non sono messe in atto da cosiddette “mele marce”, né si tratta di eccezioni che devono essere portate davanti alla giustizia. Il trattamento crudele, inumano e degradante dei detenuti palestinesi è insito nelle prassi di interrogatorio messe in atto dall’ISA, che sono imposte dall’alto e non da chi interroga in concreto.

Mentre il sistema è gestito dall’ISA, una vasta rete di partner collabora per facilitarlo. L’IPS crea le condizioni carcerarie adeguate al piano di interrogatorio destinato a piegare lo spirito del detenuto; i professionisti della salute fisica e psichica dell’IPS approvano l’interrogatorio dei palestinesi che arrivano alla struttura – anche nei casi di problemi di salute – e riconsegnano persino i detenuti a chi li deve interrogare dopo che li hanno curati per i danni fisici e psicologici che hanno subito durante gli interrogatori; soldati e poliziotti commettono abusi sui detenuti mentre li trasportano all’ISA, con i loro comandanti che fanno finta di niente e il procuratore generale militare o civile che non li processa né li rende responsabili delle loro azioni; i giudici militari, in modo praticamente automatico, firmano le istanze di detenzione provvisoria e di fatto avvallano i continui abusi e le condizioni inumane; l’ufficio della procura e il procuratore generale hanno quindi fornito agli interrogatori dell’ISA un’immunità totale; i giudici dell’HCJ respingono sistematicamente le richieste che intendono contrastare la negazione dei diritti dei detenuti ad incontrarsi con i loro difensori. Sono tutti parte, in un modo o nell’altro, sotto vari aspetti del trattamento crudele, inumano, degradante e violento a cui sono sottoposti i detenuti palestinesi nel centro Shikma ed altrove. Le autorità superiori israeliane che permettono l’esistenza di questo sistema illegale di interrogatori sono responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani delle persone che vengono interrogate e dei danni fisici e mentali inflitti a questi individui.

Dobbiamo ancora una volta ripetere la richiesta di quello che dovrebbe essere scontato: Israele deve immediatamente interrompere l’uso di trattamenti crudeli, inumani e degradanti, così come gli abusi e le torture ai detenuti, sia durante gli interrogatori che a causa delle condizioni in cui sono tenuti in custodia. Inoltre Israele deve attenersi al divieto di tortura e abusi anche nell’ambito della sua collaborazione in materia di sicurezza con l’Autorità Nazionale Palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)