Israele sta spingendo verso una guerra civile palestinese?

Maannews 7 settembre 2016

Di Ramzy Baroud

La divisione all’interno della società palestinese ha raggiunto livelli inediti, diventando un grave ostacolo sul cammino verso una strategia unitaria per porre fine alla violenta occupazione israeliana o compattare i palestinesi dietro un singolo obbiettivo.

Il neoeletto Ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman, ultranazionalista, lo ha capito fin troppo bene. La sua tattica, fin dalla sua nomina lo scorso maggio, è incentrata nell’investire maggiormente su queste divisioni, come via per annientare ancor di più la società palestinese.

Lieberman è un “estremista”, anche rispetto ai bassi standard dell’esercito israeliano. Il suo passato è pieno di dichiarazioni violente e razziste. Tra i suoi più recenti exploit troviamo l’attacco a Mahmoud Darwish, il più famoso poeta palestinese. E’ arrivato al punto di paragonare la poesia di Darwish – che si schiera per la libertà del suo popolo – all’autobiografia di Adolph Hitler, Mein Kampf.

Ma non è certo la dichiarazione più scandalosa di Lieberman.

Le passate provocazioni di Lieberman sono moltissime. Recentemente, nel 2015, ha minacciato di decapitare con un’ascia i cittadini palestinesi di Israele, se non fossero totalmente fedeli allo “stato ebraico”, ha propugnato la pulizia etnica dei cittadini palestinesi di Israele ed ha lanciato una minaccia di morte all’ex Primo Ministro palestinese, Ismail Haniye.

A parte le scandalose dichiarazioni, l’ultima trovata di Lieberman è comunque la più stravagante.

Il Ministro della Difesa israeliano sta pianificando di evidenziare in diversi colori le comunità palestinesi nella Cisgiordania occupata, distinguendole in verdi e rosse, dove verde significa “buono” e rosso “cattivo”; in base a ciò, le prime dovranno essere premiate per il loro buon comportamento, mentre le seconde subiranno una punizione collettiva, se anche un solo membro della comunità oserà opporre resistenza all’esercito di occupazione israeliano.

Un piano di questo genere è stato tentato circa 40 anni fa, ma è del tutto fallito. Il fatto che un’idea così mostruosa si palesi nel XXI° secolo senza scatenare lo scalpore internazionale è vergognoso.

Le mappe colorate di Lieberman verranno accompagnate da una campagna per far rinascere le “Leghe di villaggio”, un altro esperimento israeliano fallito, mirante ad imporre una leadership palestinese “alternativa”, “reclutando” notabili palestinesi – leaders non eletti democraticamente.

La soluzione di Lieberman sta nel costituire una leadership che, come le Leghe di villaggio degli anni ’70 e ’80, sicuramente sarà considerata collaborazionista e traditrice dall’insieme della società palestinese.

Ma che cosa sono esattamente le “Leghe di villaggio”, e questa volta funzioneranno?

Nell’ottobre 1978 dei sindaci palestinesi eletti, insieme a consiglieri comunali e diverse istituzioni nazionaliste, iniziarono una campagna di mobilitazione di massa sotto l’egida del National Leadership Committee, il cui principale obbiettivo era contestare il Trattato di Camp David – firmato da Egitto ed Israele – e le sue conseguenze politiche di emarginazione dei palestinesi.

In quel momento, il Movimento era la rete di palestinesi più strutturata ed unitaria che fosse mai stata creata nei territori occupati. Israele immediatamente represse con durezza i sindaci, i dirigenti sindacali ed i nazionalisti di diverse istituzioni professionali.

La risposta a livello nazionale fu ribadire l’unità dei palestinesi a Gerusalemme, in Cisgiordania ed a Gaza, tra cristiani e musulmani, tra palestinesi in patria ed in “shattat”, o diaspora. La risposta di Israele fu analogamente dura. A partire dal 2 luglio 1980 partì una campagna di uccisioni contro i sindaci democraticamente eletti.

Gli accordi di Camp David ed i tentativi di eliminare i leader nazionalisti nei territori occupati, e poi la crescente violenza degli ebrei estremisti in Cisgiordania, determinarono proteste di massa, scioperi generali e violenti scontri tra giovani palestinesi e soldati israeliani.

Il governo israeliano fece in modo di destituire i sindaci eletti della Cisgiordania, poco dopo aver insediato, nel novembre 1981, una “Amministrazione Civile” per governare i territori occupati direttamente attraverso il proprio esercito. L’amministrazione militare aveva l’obbiettivo di emarginare qualunque leadership palestinese effettivamente rappresentativa e consolidare ulteriormente l’occupazione. Ancora una volta i palestinesi risposero con uno sciopero generale e una mobilitazione di massa.

Israele ha sempre cercato di creare una leadership alternativa per i palestinesi. Questi sforzi culminarono nel 1978, quando costituì le “Leghe di Villaggio”, conferendo ai loro membri poteri relativamente ampi, incluso quello di approvare o respingere i progetti di sviluppo nei territori occupati. Furono date loro armi e usufruirono anche della protezione militare israeliana.

Ma anche questo era destinato al fallimento, in quanto i membri della Lega vennero considerati dei collaborazionisti da tutte le comunità palestinesi.

Qualche anno dopo Israele riconobbe il carattere artificioso della sua creatura, ed il fatto che i palestinesi non potevano essere indotti ad accettare l’impostazione israeliana di occupazione militare permanente e di autonomia di facciata.

Nel marzo 1984 il governo israeliano decise di sciogliere le “Leghe di villaggio”. Non che Lieberman sia un brillante studente di storia, ma che cosa spera comunque di ottenere da questo stratagemma?

Le elezioni municipali del 1976 galvanizzarono le energie dei palestinesi per raggiungere l’unità; misero insieme idee comuni e trovarono una piattaforma unitaria nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Oggi la discordia interna alla Palestina è inequivocabile. Il protratto conflitto tra Fatah e Hamas ha alterato profondamente il discorso nazionalista sulla Palestina, trasformandolo in una forma di tribalismo politico.

La Cisgiordania e Gaza sono divise, non solo geograficamente, ma anche geopoliticamente. Fatah, che è già in difficoltà su più di un fronte, sta precipitando in ulteriori divisioni tra sostenitori dell’attuale anziano leader, Mahmoud Abbas, e l’ esiliato, benché onnipresente, Mohammed Dahlan.

Ancor più pericoloso di tutto questo è il fatto che il sistema israeliano di premi o punizioni ha effettivamente diviso i palestinesi in classi: quelli molto poveri, che vivono a Gaza e nell’area C della Cisgiordania, e quelli relativamente benestanti, la maggior parte dei quali è legata all’Autorità Nazionale Palestinese a Ramallah. Dal punto di vista di Lieberman, deve essere una buona occasione per perfezionare e imporre di nuovo le “Leghe di villaggio”. Che funzionino nella forma originale o falliscano poco importa, poiché l’idea è di creare ulteriore divisione tra i palestinesi, generare disordine sociale, conflitto politico e, forse, replicare la breve guerra civile di Gaza dell’estate 2007.

La comunità internazionale dovrebbe respingere del tutto questi progetti arcaici e queste idee distruttive, e costringere Israele a rispettare il diritto internazionale, i diritti umani, e le scelte democratiche del popolo palestinese.

Quelle potenze che si sono imposte come “mediatori di pace” e garanti del diritto internazionale dovrebbero capire che Israele è bravissimo ad appiccare incendi, ma quasi mai capace di spegnerli.

E Lieberman – il buttafuori russo diventato uomo politico e poi ministro della difesa – non deve essere lasciato libero di colorare la mappa delle comunità palestinesi, di premiarle e punirle a suo piacimento.

Una breve occhiata alla storia ci dice che le tattiche di Lieberman falliranno; il problema però è: a quale costo?

Ramzy Baroud è un giornalista accreditato a livello internazionale, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è ‘Mio padre era un combattente per la libertà. Storia non raccontata di Gaza’.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale della Ma’an News Agency.

Traduzione di Cristiana Cavagna




Rapporto OCHA del periodo 23 agosto – 5 settembre 2016

Il 24 agosto, presso lo snodo stradale di Yitzhar (Nablus), un 26enne palestinese ha accoltellato e ferito un soldato israeliano; l’aggressore è stato ucciso con arma da fuoco.

Dall’inizio del 2016, in attacchi e presunti attacchi effettuati da palestinesi della Cisgiordania contro israeliani, sono stati uccisi 61 palestinesi, tra cui 16 minori, e 11 israeliani, tra cui una ragazza.

Altri due palestinesi sono stati uccisi, con arma da fuoco, dalle forze israeliane in due distinti episodi. In un caso, all’ingresso del villaggio Silwad (Ramallah), un uomo di 38 anni che, a quanto riferito, era affetto da disturbo mentale, è stato colpito mentre si avvicinava ad una torre militare senza rispettare l’alt. L’esercito israeliano ha aperto un’indagine penale. Nell’altro caso, nel Campo profughi di Shu’fat, soldati israeliani hanno aperto il fuoco contro un veicolo perché, secondo quanto riferito, credevano che stesse per investirli; tuttavia, la polizia israeliana ha riferito che il conducente era ubriaco e che, quindi, l’episodio non è da considerare un attacco deliberato.

Le autorità israeliane hanno restituito alle famiglie i corpi di tre palestinesi sospettati di aver compiuto attacchi contro israeliani; due dei corpi erano stati trattenuti per più di undici mesi. Allo stato attuale, sono ancora trattenuti dalle autorità israeliane i corpi di altri 12 presunti responsabili palestinesi; alcuni da quasi sette mesi.

In Cisgiordania, durante le due settimane [23 Agosto – 5 settembre], in scontri con le forze israeliane sono stati feriti 66 palestinesi, tra cui due minori e una donna. La maggior parte degli scontri si è verificato durante operazioni di ricerca-arresto, la più ampia delle quali è stata condotta nel Campo profughi di Ayda, dove si sono avuti 24 feriti. Altri scontri, con 11 feriti, sono stati segnalati durante le manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya). Cinque soldati israeliani sono stati feriti da pietre.

In Cisgiordania, complessivamente, le forze israeliane hanno condotto 186 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 239 palestinesi. Il numero più alto di operazioni (49) e di arresti (95) è stato registrato nel governatorato di Gerusalemme. Alcune delle operazioni sono state condotte a Betlemme e nella città di Hebron, il 23 e il 25 agosto, presso sette officine meccaniche, sospettate di fabbricare armi; cinque officine sono state chiuse e le attrezzature confiscate. Inoltre, nella città di Dura (Hebron), le forze israeliane hanno fatto irruzione in una stazione radio: hanno confiscato tutte le apparecchiature di trasmissione ed hanno emesso un’ordinanza militare di chiusura di tre mesi nei confronti della stazione; cinque membri del personale sono stati arrestati.

A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno diciotto casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi: feriti un pastore ed un pescatore successivamente arrestato. Altri due pescatori sono stati costretti a togliersi i vestiti e nuotare verso le imbarcazioni militari israeliane dove sono stati tratti in arresto; le loro barche e le reti da pesca sono state sequestrate.

In Area C e a Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito, o confiscato, 28 strutture in sette comunità palestinesi, sfollando 55 persone e compromettendo i mezzi di sostentamento di altre 200. Undici delle strutture prese di mira erano state precedentemente fornite come assistenza umanitaria; fra esse, ricoveri abitativi, latrine e una cisterna per l’acqua. Sale così a 223 il numero di manufatti donati come aiuto umanitario e distrutti o confiscati dall’inizio del 2016: più del doppio di quelli riferiti a tutto il 2015.

Il 30 agosto, nella città di Dura (Hebron), per motivi punitivi, le forze israeliane hanno fatto esplodere la casa di famiglia di un palestinese, attualmente in stato di detenzione, accusato di aver collaborato, il 1° luglio, all’uccisione di un colono israeliano; una famiglia di tre persone, tra cui due minori, è stata sfollata. In conseguenza dell’esplosione una cisterna per acqua è rimasta gravemente danneggiata.

In Jayyus e in Ras Atiya (entrambe in Qalqiliya), le autorità israeliane hanno sradicato 300 ulivi, di proprietà palestinese, a motivo del fatto che queste aree sono designate [da Israele] come “terra di stato”. In precedenza, fino al 2014 (anno in cui fu completata una modifica al tracciato della Barriera) agli agricoltori era stato negato l’accesso alla seconda località (Ras Atiya) a motivo del tracciato della Barriera. In Area C, quasi tutta la “terra di stato” è stata posta sotto la giurisdizione degli insediamenti colonici israeliani.

Le forze israeliane hanno bloccato cinque strade che collegano la città di Huwwara (Nablus) a quattro villaggi vicini, interrompendo in modo significativo l’accesso delle persone ai servizi ed ai mezzi di sostentamento. Secondo fonti israeliane, i blocchi sono conseguenti a diversi episodi di lancio di pietre contro veicoli di coloni israeliani. Durante il periodo di riferimento, i militari hanno riaperto uno degli ingressi alla città di Hizma (Gerusalemme) che, dal 28 luglio, per un motivo simile, era stato interdetto ai veicoli; nella stessa città, permane, invece, la chiusura di altre due strade.

Due palestinesi sono stati feriti da coloni israeliani: uno, nella città vecchia di Gerusalemme est, aggredito fisicamente, e un altro, un contadino, attaccato da cani scatenati da coloni, vicino a Deir Istiya (Salfit). Secondo quanto riferito, decine di alberi di proprietà palestinese sono stati danneggiati dal riversamento di acque reflue operato da coloni israeliani di Betar Illit su terreni appartenenti ad agricoltori del villaggio di Husan (Betlemme).

Nei governatorati di Hebron e Gerusalemme, secondo i media israeliani, due israeliani sono stati feriti e quattro veicoli israeliani sono stati danneggiati dal lancio di pietre da parte di palestinesi.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, per tre giorni è stato aperto eccezionalmente per i pellegrini; è stato riferito che 2.332 palestinesi sono usciti dalla Striscia di Gaza verso l’Egitto. Dall’inizio del 2016, il valico è stato parzialmente aperto per soli 14 giorni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza si stima che oltre 27.000 persone siano registrate e in attesa di attraversare.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




I media devono verificare i fatti

L’uccisione di palestinesi da parte israeliana: i media devono verificare i fatti

Ben White

Middle East Eye – 11 settembre 2016

 

 

Che cosa ci vuole perché i media occidentali smettano di prendere per buona la versione dei fatti delle autorità israeliane?

Persino per gli standard che siamo abituati d aspettarci dalle forze armate di Israele, le circostanze e quanto è seguito all’uccisione di Mustafa Nimr da parte della polizia di frontiera israeliana nel campo profughi di Shuafat lo scorso lunedì [5 settembre. Ndtr] suscitano aspre critiche per la loro assoluta crudeltà e sfrontatezza.

Alla fine di un’incursione notturna a Shuafat lunedì mattina presto, le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro un veicolo in quello che le autorità hanno immediatamente descritto come un tentativo sventato di investimento con un’auto. Il passeggero, Mustafà Nimr, è rimasto ucciso, mentre il conducente, suo cugino Alì, è stato ferito ed arrestato.

Per essere chiari: la versione consegnata ai media dalla portavoce della polizia israeliana sostiene che la macchina  è piombata contro i poliziotti di frontiera ed ha tentato di investirli. Gli agenti hanno aperto il fuoco, ha detto, solo dopo aver intimato al veicolo di fermarsi.

Tuttavia la famiglia di Mustafà, distrutta dal dolore, ha insistito che non c’era stato nessun tentativo di investimento, una versione sostenuta da testimoni oculari. Fotografie hanno  mostrato pane e vestiti per bambini sul sedile posteriore dell’auto, coperti di vetri rotti e di sangue.

“Ucciso per sbaglio”?

Il giorno dopo, fonti ufficiali israeliane hanno informato la famiglia che Mustafà era stato “ucciso per sbaglio”. Martedì notte, la TV israeliana ha mandato in onda brani di un video amatoriale della scena in cui si possono sentire spari dopo che la macchina si era già  fermata e Alì era steso al suolo.

Ma la storia non è finita. Allora è emerso che la polizia israeliana stava pensando di incolpare Alì, il ferito sopravvissuto agli spari, per aver provocato la morte di suo cugino. La ragione era che con il suo modo di guidare “spericolato” egli aveva causato il fatto che gli agenti aprissero il fuoco.

Queste accuse di “omicidio colposo” a quanto pare sono state rigettate da un tribunale israeliano. Tuttavia ci sono precedenti di ciò: nel 2012 le forze di sicurezza israeliane hanno sparato ed ucciso un lavoratore a un checkpoint, per cui è stato accusato solo il conducente della camionetta palestinese per “comportamento negligente”.

Al momento della stesura di questo articolo, gli ispettori del ministero della Giustizia stanno ancora valutando se “citare in giudizio gli agenti di polizia coinvolti nell’incidente per essere interrogati come possibili sospettati di un reato penale”.

 

In attesa che rendano conto delle loro responsabilità

I precedenti suggeriscono che nessuno dovrebbe trattenere il respiro aspettando che rendano conto delle loro responsabilità.

Non è la prima volta, anche durante lo scorso anno, che la causa delle autorità israeliane per l’uccisione di un palestinese viene insabbiata. Il 21 giugno l’esercito israeliano ha affermato che ha “preso di mira terroristi” quando, in effetti, ha ucciso il 15enne Mahmoud Badran mentre viaggiava con i suoi amici.

Il 13 luglio le forze israeliane hanno sparato ed ucciso Anwar al-Salaymeh durante un’operazione notturna a al-Ram, sostenendo di nuovo che si era trattato di un tentativo di investirli con l’auto. I sopravvissuti hanno detto che stavano semplicemente andando verso una panetteria.

La questione è: quanto ci vorrà perché i media occidentali smettano di prendere per buona la versione dei fatti delle autorità israeliane? E perché è addirittura un problema cominciare a farlo?

Dall’ottobre 2015 i media occidentali di lingua inglese, nel loro complesso, non hanno mai trattato le affermazioni delle autorità israeliane con lo scetticismo che evidentemente meriterebbero.

C’è un pregiudizio dietro la fiducia accordata a un’affermazione della polizia o dell’esercito? E’ La mancanza di tempo – o un preconcetto – ad impedire che la spiegazione fornita da un portavoce militare sia messa a confronto con, o citata insieme a, resoconti dei media palestinesi, di testimoni oculari o amici e parenti dei morti? Non è difficile da fare.

E sì, come ho scritto sopra, dall’ottobre 2015 i media occidentali di lingua inglese, nel loro complesso, non hanno mai trattato le affermazioni delle autorità israeliane con lo scetticismo- o persino con la semplice verifica dei fatti – che evidentemente meriterebbero.

Gli articoli di contesto spesso assomigliano a questo recente esempio dell’Associated Press [agenzia di stampa degli USA. Ndtr.]: “Dal settembre 2015, i palestinesi hanno ucciso durante attacchi 34 israeliani e due turisti americani. In questo periodo circa 209 palestinesi sono stati uccisi, la maggior parte dei quali identificati da Israele come aggressori.”

Tuttavia in quest’occasione l’AP ha aggiunto quanto segue nel suo reportage sulla sparatoria di Shuafat: “I palestinesi hanno spesso accusato gli israeliani dell’ uso eccessivo della forza contro aggressori e affermato in molti casi che i supposti assalitori non lo fossero affatto.”

Questa è un’aggiunta auspicabile, e si può solo sperare che altre agenzie di stampa e mezzi di comunicazione ne tengano conto. Però non basta ancora: non ci sono tracce, per esempio, del fatto che il bilancio dei morti palestinesi include civili disarmati uccisi durante proteste e scontri con le forze israeliane.

Formulazione standard

E’ evidente perché simili dettagli importano da un punto di vista israeliano. Il gruppo di pressione filo-israeliano “Camera” [gruppo statunitense che controlla e critica l’informazione sul conflitto israelo-palestinese. Ndtr.] si è lamentato del reportage di AFP sull’incidente di Shuafat, nonostante l’articolo riproduca, indubitabilmente, la versione dei fatti delle autorità israeliane – ora chiaramente smentita.

Qual è stata la contestazione di “Camera”? Che l’AFP “ha deviato dalla sua formula standard riguardo alle vittime palestinesi” omettendo “la questione fondamentale che la maggioranza di questi palestinesi uccisi stavano commettendo attacchi contro israeliani.”

Commentando la sparatoria mortale a Shuafat, l’avvocato di Ali Nimr ha detto: “Questo è un ulteriore esempio del caso di un poliziotto con il grilletto facile. Dopo aver visto i risultati (della sua azione), la cosa più facile è stata di dire che si trattava di un tentativo di aggressione con la macchina.”

Davvero facile – e non da ultimo perché sanno quanti giornalisti, sia israeliani che internazionali, continuano a volergli credere sulla parola.

– Ben White is the author of  Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide and Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy. He is a writer for Middle East Monitor, and his articles have been published by Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian’s Comment is free, and more. 

Ben White è l’autore di “Apartheid israeliano: una guida per principianti” e “Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia.” Scrive per Middle East Monitor e i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian’s Comment is free ed altri.

The views expressed in this article belong to the author and do not necessarily reflect the editorial policy of Middle East Eye.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele legalizza alla chetichella gli avamposti pirata in Cisgiordania.

di ISABEL KERSHNER
The New York Times, 30 agosto 2016
Gli insediamenti illegali costellano la cima delle colline in Cisgiordania, ma i Palestinesi e le organizzazioni anti-insediamenti sostengono che la loro legalizzazione retroattiva è un sistematico tentativo di sovvertire la mappa della regione.ragazzi

Ragazzi fotografati questo mese nell’avamposto di Mitzpe Danny, nella Cisgiordania occupata. Mitzpe Danny fa parte di un’estesa rete di circa 100 avamposti creati per lo più negli ultimi venti anni senza autorizzazione governativa. Uriel Sinai per il NYT.

MITZPE DANNY, Cisgiordania –  Una sera nell’autunno del 1998, un autoproclamatosi “imprenditore di avamposti” portò tre caravan sulla cima di un’aspra collina nella Cisgiordania occupata da Israele e fondò il suo primo insediamento pirata.
Dozzine di giovani sostenitori arrivarono per dar man forte all’imprenditore, Simon Riklin, che fu raggiunto pochi giorni dopo dalla moglie, un bambino e un neonato. Una seconda famiglia seguì il loro esempio. All’inizio furono sorpresi che nessuno dall’esercito o dal governo venisse ad allontanarli. “Dopo sei mesi,” ha detto Rifkin in una recente intervista, “ho capìto che l’affare era fatto.”
Chiamarono il loro avamposto Mitzpe Danny, dal nome di un immigrato britannico che era stato accoltellato a morte da un Palestinese nell’insediamento che si trova dall’altra parte dell’autostrada. Nei mesi successivi contribuirono a fondare Mitzpe Hagit e poi Neve Erez che si trova a pochi minuti di auto. “Saltavo da una collina all’altra”, ha detto Riklin.
Oggi più di 40 famiglie di Ebrei ortodossi vivono a Mitzpe Danny, che fa parte di una catena di avamposti su un crinale strategico che a sud-ovest ha viste mozzafiato fino al Monte degli Ulivi di Gerusalemme, mentre ad est la vista arriva fino alla Giordania. Fanno parte di una vasta rete di circa 100 avamposti, fondati per lo più negli ultimi venti anni senza autorizzazione governativa.
Almeno un terzo di questi avamposti sono stati legalizzati retroattivamente, oppure -come nel caso di Mitzpe Danny- è in corso quello che secondo gli osservatori anti-colonie è un tentativo silenzioso ma metodico da parte del governo di cambiare la mappa della Cisgiordania (ormai nel suo 50esimo anno di occupazione israeliana) rafforzando gli avamposti che si stanno estendendo sul territorio come le dita di una mano.
In un momento in cui il processo di pace israelo-palestinese è “in sonno” e la comunità internazionale è sempre più scettica circa l’effettivo impegno del governo di destra israeliano per la formazione di un futuro stato palestinese, gli avamposti vengono occupati proprio per dimostrare che è impossibile sbrogliare il conflitto. Nel suo rapporto di luglio, il cosiddetto Quartetto per il Medio-Oriente (formato da Stati Uniti, Unione Europea, ONU e Russia) ha visto questi sviluppi come qualcosa che “mette in pericolo la fattibilità della soluzione a due stati.”
Il primo ministro Benjamin Netanyahu, che era al suo primo mandato quando fu fondata Mitzpe Danny, ha in seguito avallato l’idea di uno stato palestinese a fianco di Israele e ha detto che il suo governo non avrebbe costruito nuovi insediamenti né espropriato altra terra per quelli esistenti. Ma Ziv Stahl, direttrice di ricerca di Yesh Din, uno dei gruppi di difesa della sinistra, ha detto che “li stanno autorizzando mascherandoli in qualche modo.”
Secondo Ziv Stahl, Israele cerca di evitare la condanna internazionale registrando gli avamposti del tipo di Mitzpe Danny come “sobborghi” di insediamenti già costituiti, anche se alcuni sono molto distanti e funzionano come comunità separate.

Gli avamposti in Cisgiordania
mappa avamposti
Dei 100 avamposti fondati per lo più negli ultimi venti anni, circa un terzo sono stati o saranno legalizzati retroattivamente. By Rudy Omri/New York Times

Quanto ad altri provvedimenti di Israele, tra cui la demolizione di costruzioni palestinesi non autorizzate in Cisgiordania, Ziv Stahl aggiunge: “Vediamo tutto ciò come una manovra molto graduale verso l’annessione.”
A una domanda sulla legalizzazione degli avamposti (con le relative critiche internazionali), il portavoce di Netanyahu, David Keyes, non ha risposto direttamente, ma ha girato la domanda sulla posizione dei leader palestinesi secondo cui -in un eventuale accordo futuro- nessun insediamento potrebbe rimanere in Cisgiordania.
“La pretesa così spesso ripetuta dai Palestinesi di far pulizia etnica degli Ebrei nel loro futuro stato,” ha detto Keyes in una email, “è scandalosa, immorale e antitetica all’idea di pace.”
Prima illegali, poi legali
Gli avamposti sono disposti strategicamente a fianco degli oltre 120 insediamenti ufficialmente approvati da Israele e ospitano una parte  dei 350.000 coloni ebrei della Cisgiordania.
Un gruppo si estende a est di Shilo, come una catena di perle: Shvut Rahel, Adei Ad, Ahiya, Kida, Esh Kodesh. Questi avamposti dominano le colline che separano villaggi palestinesi come Qusra, Jalud, Al-Mughayyer e Duma. Quest’ultimo è il villaggio in cui l’anno scorso è avvenuto l’attentato incendiario mortale per cui un giovane Israeliano è stato accusato di omicidio e un altro di complicità.
Rabbah Hazameh, un Palestinese la cui famiglia possiede oliveti e campi coltivati nella zona, dice che i coloni hanno impedito a lui e ai suoi familiari di lavorare la loro terra vicino ad Adei Ad ed hanno danneggiato e avvelenato gli alberi. Dice che suo zio, nel corso degli anni, ha presentato 86 denunce alla polizia, ma poi “non è successo niente.”
Mentre nella maggior parte del mondo questi insediamenti sono visti come una violazione della legge internazionale, Israele, per parte sua, fa delle distinzioni, a seconda che si trovino o meno su proprietà private palestinesi e a seconda che abbiano avuto o meno l’approvazione governativa a costruire.
Un’indagine del 2005 che il governo aveva affidato a Talia Sasson, un ex procuratore dello stato, contò almeno 105 avamposti che si erano insediati “in flagrante violazione della legge” e chiese che fossero presi “drastici provvedimenti,” tra cui l’immediata rimozione di quelli costruiti su proprietà private.
Ma nel 2012 Netanyahu aveva insediato un’altra commissione che era giunta a conclusioni del tutto diverse.
Presieduta da Edmund Levy, un ex giudice della Corte Suprema israeliana, la commissione concluse che la Cisgiordania non è veramente occupata (anche perché i precedenti 19 anni di governo da parte della Giordania non hanno mai avuto riconoscimento internazionale) e che non c’erano ostacoli all’approvazione di avamposti che fossero costruiti su terreni di proprietà dello stato e che avessero quello che veniva definito “l’implicito consenso” di alti funzionari israeliani. Tuttavia, il rapporto Levy confermò il criterio israeliano secondo il quale gli insediamenti su proprietà private palestinesi sono illegali.
Sotto la pressione internazionale, Israele si è ripetutamente impegnata ad eliminare gli avamposti non autorizzati. Ma allo stesso tempo ha cercato di salvarne alcuni, anche se costruiti su proprietà private, come quello di Amona, che per ordine della Corte Suprema Israeliana dovrebbe essere demolito entro il 25 dicembre. Gli abitanti di un altro avamposto di questo tipo, Migron (costruito anche questo con l’aiuto di Simon Riklin), sono stati trasferiti nel 2012 in abitazioni provvisorie su un suolo pubblico vicino.
Nel 2011 il governo di Netanyahu aveva già silenziosamente introdotto quella che chiamava una nuova “regolamentazione combinata.” L’idea era che Israele avrebbe smantellato gli insediamenti costruiti su proprietà private palestinesi, ma nelle zone dichiarate da Israele come proprietà dello stato avrebbe invece “regolarizzato il piano del progetto”, ossia -in altre parole- avrebbe legalizzato a posteriori le costruzioni.
il colono simon
Simon Riklin fotografato questo mese a Mitzpe Danny, che l’autoproclamato “imprenditore di avamposti” ha fondato nell’autunno 1998. Uriel Sinai for The New York Times

Un processo cauto e ambiguo
I primi sintomi di un cambiamento di status di un dato avamposto emergono di solito dalle risposte del governo israeliano alle cause legali avanzate dai gruppi anti-insediamenti.
Come, ad esempio, l’anno scorso, quando la Corte Suprema Israeliana ha respinto una istanza di demolizione per una costruzione illegale a Mitzpe Danny, dopo che lo stato aveva comunicato che era in atto un procedimento per autorizzare l’avamposto.
La Corte ha citato una decisione dell’ottobre 2015 di un comitato di pianificazione israeliano inteso a promuovere un vecchio piano generale per la crescita della popolazione ebrea nella zona.
In questo piano, Mitzpe Danny è definito un “sobborgo” di Ma’ale Michmash, l’insediamento originario al di là dell’autostrada, anche se una parte dell’avamposto si trova fuori dai confini più esterni dell’insediamento. Secondo il piano, nel 2040 Mitzpe Danny dovrebbe contenere 189 abitazioni permanenti.
L’avamposto non ha un piano urbanistico dettagliato come sarebbe richiesto per ottenere la piena autorizzazione da Israele, e anche la Corte ha riconosciuto che la pianificazione procedeva a rilento. Tuttavia Peace Now, un altro gruppo anti-insediamenti, riferisce che almeno 20 avamposti hanno già completato la pianificazione o hanno piani dettagliati in via di realizzazione e già approvati dal ministro della difesa, mentre altri 14 sono in fase di sviluppo.

Mitzpe Danny, dal 2001 al 2015
foto aerea di Mitzpe Dannyfoto aerea di Mitzpe Danny 2011

foto aerea di Mitzpe Danny 2015
Fotografie aeree da Peace Now
By Rudy Omri/The New York Times

Hagit Ofran, direttore del programma di monitoraggio degli insediamenti realizzato da Peace Now, dice che il messaggio del governo è “costruite e poi noi sistemiamo tutto a cose fatte.”
Il Ministero della Difesa e l’Amministrazione Civile (che è il ramo dell’esercito israeliano che si occupa degli affari civili in Cisgiordania) hanno rifiutato di parlare degli avamposti o di fornire alcun dato circa il loro status. Anche i leader dei coloni dicono che hanno tentato di avere informazioni su quanti avamposti stiano per essere legalizzati. “Non ho capito se è un terzo o la metà o il 100 per cento,” ha detto Oded Revivi, il principale delegato agli esteri dello Yesha Council che rappresenta i coloni.
La maggior parte delle procedure di legalizzazione avviene con cautela e con una certa dose di ambiguità. Simon Riklin, il fondatore di Mitzpe Danny e degli avamposti vicini, lo ha descritto come un gioco “tutto gatto e topo” tra Netanyahu e il presidente Obama, il quale ha detto ripetutamente che qualunque espansione degli insediamenti rappresenta un ostacolo alla pace.
Yigal Dilmoni, il vice amministratore delegato del comitato dei coloni, ha detto che gruppi come Peace Now hanno in realtà fatto un favore ai coloni quando hanno fatto causa allo stato, perché spesso questo costringe lo stato a prendere una posizione. Dopo che un procedimento giudiziario si era concluso con l’autorizzazione governativa per un edificio illegale di un insediamento e per un avamposto, il comitato dei coloni mandò un mazzo di fiori a Peace Now. Il biglietto di accompagnamento diceva: “Saremo lieti di proporre il nome ‘Peace Now’ per una strada del nuovo quartiere.”
Uscire dal recinto
Nel 1998, quando era ministro degli esteri, Ariel Sharon aveva esortato i coloni a “correre ad impossessarsi” delle colline della Cisgiordania. Ma non c’era niente di improvvisato nel progetto degli avamposti.
L’indagine della Sasson del 2005 ha descritto come i funzionari dei ministeri dell’edilizia, della difesa e altri lavorassero in modo sistematico per stabilire la localizzazione dei nuovi insediamenti, per finanziarli e per aiutarli a procurarsi le infrastrutture.
All’inizio degli anni 1990, gruppi di coloni avevano disegnato i primi progetti per Mitzpe Danny che, come molti avamposti, secondo il rapporto Sasson, si estende sia su terreni pubblici che terreni privati. Si trova al di sopra di una strada tortuosa che prende il nome da Yigal Allon, generale israeliano e uomo politico del Labor Party che, dopo la guerra arabo-israeliana del 1967, era a favore di un ritiro di Israele dalla maggior parte delle zone della Cisgiordania che erano densamente popolate da Palestinesi, mentre suggeriva di mantenere il territorio strategico lungo la Valle del Giordano.
colonia di Micmash
By Rudy Omri/The New York Times

Simon Riklin e altri attivisti cominciarono il loro lavoro mentre Netanyahu, al suo primo mandato, stava negoziando un accordo del 1998 con cui cedeva alla neonata Autorità Palestinese altri territori della Cisgiordania che Israele aveva sottratto alla Giordania nel guerra del 1967.
Riklin, che ha ora 53 anni ed è una voce forte nei media israeliani a favore dei coloni, dice (riferendosi alla Cisgiordania col suo nome biblico): “Ho pensato che in Giudea e Samaria non c’erano abbastanza coloni per garantire il futuro degli insediamenti,” e aggiunge: “Abbiamo sentito che dovevamo uscire dal recinto.”
Daniel Frei, l’immigrante inglese assassinato che ha dato il nome all’avamposto, era stato il vicino di casa di Riklin a Ma’ale Michmash. Era un ingegnere informatico di 28 anni e fu ucciso nella sua casa mentre la figlia di 18 mesi stava dormendo.
Un paio di settimane dopo che Riklin e i suoi amici si erano impadroniti della collina, il Binyamin Council (l’autorità governativa regionale che conta attualmente 50 colonie e avamposti nella zona) fornì loro generatori elettrici e autocisterne d’acqua. Riklin dice che arrivò anche il ministro dell’edilizia e gli chiese di cosa aveva bisogno. C’era insomma un’atmosfera che definisce di “euforia.”
Ora l’avamposto ha dozzine di caravan, oltre ad alcune spaziose case rivestite in pietra e un nuovo campo di pallacanestro in un avvallamento che è poco visibile dall’autostrada. C’è un asilo e un parco giochi che pochi giorni fa avevano un soldato a far la guardia. Tra i residenti c’è un avvocato, un architetto e alcuni insegnanti.
In un punto panoramico vicino, un sistema audio descrive l’insediamento ebraico nella zona come l’adempimento della profezia di Geremia: “I tuoi figli torneranno dentro i loro confini.”
Riklin, il fondatore dell’avamposto, è poi rimasto ad abitare a Ma’ale Michmash. L’attuale leader dell’avamposto ha rifiutato di essere intervistato per questo articolo.
Yehuda Naamad, 30 anni, lavora in una drogheria e due anni fa si è trasferito a Mitzpe Danny da Gerusalemme “per lo spazio”, come dice lui. Questo mese si è trasferito di nuovo in un’altra caravan nell’insediamento di Hemdat nella Valle del Giordano, dove i progetti di costruzione sono stati recentemente approvati dopo esser stati bloccati per 19 anni.
”Credo che questa sia la nostra terra” ha detto riferendosi alla Cisgiordania, e ha aggiunto: “Dio ci ha fatto tornare. Dio scrive la nostra storia.” E riferendosi ai Palestinesi ha detto: “Chiunque ci accetta può vivere qui tranquillamente.”
Non si mostrava preoccupato per la lunga attesa di una casa definitiva. “È scritto che la redenzione si sviluppa lentamente: come la natura, come un albero di olivo.”
Isabel Kershner si può seguire su Twitter @IKershner.
Una versione a stampa di questo articolo è comparsa il 31 agosto 2016 a pagina A1 della edizione di New York col titolo: Israel Legalizes Outposts in the West Bank, Step by Quiet Step.

Traduzione di Donato Cioli
A cura di Assopace Palestina




La crisi idrica di Israele non è finita:

i livelli del Mar Morto, del lago Kinneret e delle falde acquifere sono tutti bassi

Di Nir Hasson, Noa Shpigel, Ido Efrati e Zafrir Rinat

Haaretz 6 settembre 2016|

La desalinizzazione ha alleviato la scarsità d’acqua, ma la prolungata siccità, l’eccessivo pompaggio e le esigenze di una popolazione in crescita stanno facendo scempio dell’ecologia del paese.

La maggior parte dell’opinione pubblica crede che la desalinizzazione abbia aiutato Israele a superare la sua cronica crisi idrica, ma gli esperti affermano che non è affatto vero e mettono in guardia contro l’autocompiacimento.

Il rapporto mensile di agosto, pubblicato dal Servizio Idrologico dell’Autorità Israeliana per l’Acqua, quest’estate mostra una diminuzione più grave del solito del livello del Lago Kinneret [il lago di Tiberiade, nel nord del paese, ndt], del Mar Morto, dei corsi d’acqua nel nord e di tutti gli acquiferi sotterranei. Peggio ancora, le stime nazionali ed internazionali prevedono che almeno la prima metà dell’inverno sarà senza precipitazioni. Se queste previsioni verranno confermate, il Kinneret quest’anno scenderà al suo livello più basso degli ultimi 10 anni.

Benché gli impianti israeliani di desalinizzazione soddisfino una crescente quantità del consumo di acqua del paese, a livello locale la crisi attuale potrebbe causare gravi danni all’agricoltura ed all’ambiente.

Secondo il rapporto dell’Autorità per l’Acqua, il mese scorso il livello del Lago Kinneret è sceso di 26 cm., fino a 32 cm. al di sotto della linea rossa di minima – il livello in cui inizia il danno all’equilibrio ecologico e la qualità dell’acqua peggiora. Questo è il livello più basso registrato il 1 settembre negli ultimi 6 anni, benché il pompaggio dell’acqua del lago a beneficio dell’acquedotto nazionale sia stato significativamente ridotto.

Intanto il livello del Mar Morto è sceso di 13 cm. in agosto. Dall’inizio dell’anno idrologico (che comincia in ottobre) il livello del Mar Morto è sceso di 103 cm., il 22% in più rispetto al periodo corrispondente del precedente anno idrologico. Nel corso degli ultimi 25 anni, il livello del Mar Morto è diminuito di quasi 25 metri. Attualmente non riceve quasi più acqua dal fiume Giordano, le cui acque sono deviate per fornire acqua potabile a Giordania, Siria, Libano ed Israele.

E’ stata rilevata anche una forte diminuzione nei bacini acquiferi montani e costieri del paese, anche se restano al di sopra della linea rossa. Però il bacino acquifero della Galilea occidentale, un’importante sorgente d’acqua per quella regione, è sceso sotto la linea rossa.

L’ultima grave crisi idrica in Israele risale al 2008, quando il governo lanciò un’importante campagna per il risparmio dell’acqua e accelerò la costruzione degli impianti di desalinizzazione, da aggiungere a quello già operativo ad Ashkelon. Le strutture di desalinizzazione a Palmahim, Hadera, Nahal Sorek e Ashdod sono diventate velocemente operative; nello scorso anno hanno prodotto 500 milioni di metri cubi d’acqua, il 40% dell’acqua del paese. Per il prossimo anno si prevede di arrivare a 600 milioni di metri cubi.

‘Problema risolto’

“Israele ha risolto il problema dell’acqua”, dichiara il portavoce dell’Autorità per l’Acqua, Uri Shor. “Oggi più della metà di tutta la fornitura d’acqua è prodotta dall’uomo (incluso il trattamento delle acque reflue, N.H.). Ciò assicura stabilità ed un approvvigionamento sostenibile”.

Gli esperti concordano sul fatto che il problema della fornitura d’acqua è stato alleviato dalla desalinizzazione, ma dipingono un quadro più complesso, in cui la desalinizzazione gioca un ruolo solo parziale.

“Per costruire un impianto di desalinizzazione ci vogliono tre anni”, dice il prof. Daniel Kurtzman del Volcani Center [centro israeliano di ricerche agronomiche, ndt.], “ma costruire l’infrastruttura atta a trasportare l’acqua su lunghe distanze implica molti anni. Hanno iniziato a costruire il quinto acquedotto per Gerusalemme nel 2003, e ci vorranno ancora molti anni per completarlo.” Così, le zone distanti dagli impianti di desalinizzazione devono continuare a contare sulle sorgenti d’acqua naturale e patiranno durante un periodo di siccità, nonostante gli impianti di desalinizzazione di Israele.

“La siccità è soprattutto un dramma ecologico; in un anno di siccità vediamo come i corsi d’acqua del Golan ed il lago Hula [nel nord di Israele. ndt] si prosciugano, e non ci possiamo fare niente; è un disastro,” dice Amon Sofer, professore emerito di geografia e scienze ambientali all’università di Haifa.

“Poi c’è il più ampio impatto sull’estetica del paesaggio, della flora e della fauna, ed addirittura sulla sopravvivenza derivante dal turismo dei kayak,” dice Sofer.

“Ci sono zone in Israele che non sono rifornite dalla desalinizzazione – per esempio le alture del Golan, dove esiste un grave problema idrico,” dice Kurtzman.

“Non dovete pensare che le alture del Golan necessitino di soluzioni idriche del tipo che oggi immaginiamo; ma quelle sono soluzioni adatte al deserto di Arava [a sud di Israele, dal golfo di Aqaba alle sponde meridionali del mar Morto, ndt], non al Golan.”

Certamente gli agricoltori del Golan, che contano soprattutto sui bacini di superficie, sono le principali vittime della situazione attuale. Negli anni di siccità questi bacini si riempiono poco e si svuotano velocemente.

Ora nel Golan ci sono impianti per scavare pozzi profondi, che destano preoccupazione tra le organizzazioni ambientaliste.

“Stanno iniziando a parlare di perforare lo strato di basalto per fornire acqua potabile e per l’agricoltura, qualcosa che non è mai stata fatta,” dice Yehoshua Shkedy, capo ricercatore dell’Autorità Israeliana per la Natura e i Parchi. “Il problema è che una simile perforazione prosciugherà le sorgenti e gli affluenti, che sono la linfa vitale delle alture del Golan.”

Shkedy poi aggiunge: “Un altro anno così e non ho idea di che cosa faremo. Stiamo parlando di un possibile prosciugamento del Banias [affluente del Giordano, che scorre in Siria e in Israele, ndt], per cui sarà impossibile scendere in kayak per il fiume Giordano.”

Intanto, se vi state chiedendo perché negli ultimi anni sembra che cada più pioggia nel sud che nel nord [di Israele, ndt], non siete i soli. Gli esperti fanno fatica a spiegare perché l’area delle piogge sembra essersi fermata a Netanya [sulla costa centro settentrionale di Israele, ndt.].

Cambiamenti globali

Uno studio di Amir Givati, capo della gestione delle acque di superficie dell’Autorità Israeliana per l’Acqua, punta il dito su un cambiamento climatico globale che colpirà la regione in futuro. Lo studio sostiene che le classiche depressioni barometriche dell’inverno israeliano, che si spostano da nord a sud, si sono indebolite e sono state sostituite da piogge che arrivano piuttosto dal sud.

Gli scienziati ottimisti però dicono che alcuni anni di siccità non sono sufficienti per stabilire una regola.

“Io sono relativamente ottimista”, dice Kurtzman. “Nel 2001 abbiamo raggiunto la linea nera nel lago Kinneret, che sembrava proprio quanto di peggio ci potesse essere, e poi il 2002-2003 è stato un anno molto piovoso, e l’umore è cambiato. In base alla mia esperienza, è possibile che ci siano dei cicli ampi di 30 o 40 anni. Tra il 1965 e il 1995 abbiamo avuto un periodo di piogge, e dal 1995 abbiamo un periodo di piogge più scarse. Ci possono essere dei cambiamenti.”

Traduzione di Cristiana Cavagna

 




Hebron, storia di una città sotto occupazione Video

Da Nena News

 

Il conflitto e l’occupazione nella città di Hebron raccontata dalle voci di coloni e residenti palestinesi. Il documentario di Francesco Sellari girato durante il seminario per giornalisti di Nena News

Hebron, 5 settembre 2016, Nena News – “Questo posto è la prova del fatto che abbiamo il diritto a stare ovunque in questo paese”. Basterebbero le poche parole di un colono ebreo di origini statunitensi che da trent’anni vive a Hebron, e la sua certezza resa inscalfibile dalla fede nelle Scritture, a spiegare il dramma di questa città di circa 170.000 abitanti nel sud della Cisgiordania.

Hebron – in arabo al Khalil – è la città della Grotta dei Patriarchi/Moschea di Abramo, sepolcro di Abramo, Isacco e Giacobbe e delle rispettive mogli. Un luogo sacro per ebrei e musulmani. Negli ultimi anni tuttavia, la “fama” di Hebron è associata alle durezza del conflitto e della occupazione militare israeliana. Solo per citare il più noto tra gli episodi più recenti: lo scorso 24 marzo nel quartiere di Tel Rumeida, il soldato israeliano Elor Azaria ha sparato ad un presunto attentatore palestinese, Abdel Fatah a-Sharif, ferito, disarmato e disteso a terra. La notizia è emersa e ha fatto il giro del mondo grazie ad un video girato da un attivista di B’Tselem.

In Palestina, Hebron vive una situazione paragonabile solo a Gerusalemme: una città divisa in due entità amministrative, una massiccia presenza dell’esercito israeliano, un nucleo di coloni (circa un migliaio ma mancano stime ufficiali) insediatisi nello stesso centro storico.

La città vecchia potrebbe essere un fiorente centro turistico ma nei fatti è una una città semi-deserta: tra continue tensioni e violenze, i pochi commercianti e artigiani rimasti devono convivere con i coloni e con i loro tentativi di espandere la loro presenza prendendo possesso, per vie legali e non, di case palestinesi, mentre Shuhada Street, quella che un tempo era la principale arteria cittadina,  il centro dei commerci, è zona militare chiusa dalla Seconda Intifada, ed è quasi del tutto interdetta al transito dei palestinesi.

Questo reportage video è stato realizzato alla fine di aprile 2016, nell’ambito del seminario per giornalisti organizzato da Nena News: una settimana tra Palestina e Israele per conoscere e capire la realtà del conflitto e dell’occupazione, con l’aiuto di associazioni locali, giornalisti e analisti sia israeliani che palestinesi.

Francesco Sellari