La conferenza di pace di Parigi senza la pace

Mariam Barghouti – 16 gennaio 2017 Middle East Eye

I discorsi celebrativi della conferenza di Parigi, in previsione di un cambiamento positivo, sono stati un’assoluta parodia della giustizia.

Permane la stanchezza riguardo a queste conferenze, in quanto ripetono gli sforzi dei Parametri di Clinton nel 2000 e il documento per la Roadmap verso la pace del 2003 – solo che in modo contorto e regressivo, soprattutto nel caso dei rifugiati, di Gerusalemme e dei confini.

La spinta per una conferenza a Parigi, come in precedenza simili tentativi internazionali, non ha inteso affrontare la realtà palestinese e le radici del problema, ma piuttosto arginare l’ennesima turbolenza del Medio Oriente.

E’ l’approccio di una comunità internazionale alle prese con un problema scomodo piuttosto che un tentativo di rimediare all’ingiustizia messa in atto contro i palestinesi come popolo indigeno.

Il fatto [è] che la conferenza di Parigi ha deliberatamente scelto di ignorare le voci reali di chi affronta le conseguenze dell’oppressione, a riprova della continua inadeguatezza della comunità internazionale nell’essere in sintonia con la realtà sul terreno.

E’ un atteggiamento paternalistico che gli esponenti ufficiali palestinesi vedono come un passo in avanti, mentre ciò semplicemente cospira per togliere l’iniziativa all’opinione pubblica palestinese, dando impulso ad una soluzione dei due Stati virtualmente morta.

La lotta palestinese è quindi ridotta a una visione definita dalle potenze, secondo cui spetta a loro, più che a noi, decidere del nostro destino

Condizione perpetuamente simbolica

Come una specie di estenuante metafora in un romanzo tragico, la Palestina si è trovata in un immutabile stallo.

La tomba di Yasser Arafat, con una luce che la sera punta in direzione di Gerusalemme, è l’emblema delle nostre accanite speranze, senza lavorare per raggiungere le nostre aspirazioni.

Contemporaneamente, la dirigenza palestinese lavora contro l’originaria visione della lotta per la completa liberazione, dignità e giustizia per tutti i palestinesi.

Il pericolo della conferenza di Parigi, come le precedenti iniziative occidentali, è che non scava dentro i vari livelli del contesto del colonialismo di insediamento.

Il quadro e le leggi per i diritti dei palestinesi sono stati già ripresi nelle risoluzioni ONU, nelle leggi internazionali e persino nelle dichiarazioni di vari Stati. Il problema in questione non è la legittimità dell’autodeterminazione dei palestinesi, ma le esitazioni della comunità internazionale nell’imporre quello che riconosce in termini di diritti umani e nel non considerare Israele responsabile [delle violazioni a questo proposito].

E’ difficile credere nell’onestà di queste conferenze dopo gli infiniti fallimenti dei colloqui di pace bilaterali degli USA e l’incapacità dell’ONU di dare seguito alle proprie decisioni. Ancora una volta, è tutto pronto per la disfatta pubblica nel far rispettare ad Israele le leggi e le norme internazionali. L’unico che realmente concorderà con la conferenza di Parigi sarà Israele, mettendo ancora una volta in evidenza i limiti del mondo di fronte alle pressioni ed alla corruzione.

In modo simile a precedenti tentativi di pace, che si sia trattato degli accordi di Camp David del 1978 fino al tentativo dell’amministrazione Obama nel 2010 o della Roadmap del Quartetto, il coordinamento non è fatto dai veri soggetti interessati.

Inoltre queste conferenze che si succedono sono sostanzialmente un’ applicazione retroattiva della struttura dell’accordo di Camp David del 1978. Pertanto, 39 anni dopo, stare ancora a discutere i termini che erano praticamente già stati concordati è una beffa alla giustizia ed alle reali aspirazione di risolvere la questione palestinese.

Quella che è inquietante è la fugace euforia che i rappresentanti mostrano nell’ingannare se stessi pensando che stanno cambiando le cose, mentre poi permettono l’incessante espropriazione e sottomissione dei palestinesi a un potere dell’apartheid.

Giocare a dadi con la questione palestinese

Mentre è positivo che la richiesta palestinese di liberazione non sia stata abbandonata, la nostra lotta è sempre stata monopolizzata da altri per varie ragioni che non sono legate alla nostra lotta per il riconoscimento e per la dignità.

Dobbiamo subito contestualizzare ulteriormente il tentativo francese in rapporto all’ambito politico negli Stati Uniti e in Israele. Con il presidente eletto Donald Trump che si prepara ad assumere il potere, c’è già la sensazione di disperazione e di rabbia rispetto alla prospettiva di quello sta per accadere al Medio Oriente.

Avere il controllo sul contesto politico in Palestina/Israele significa guadagnarsi una presa più forte sul Medio Oriente. La nostra causa è continuamente stata utilizzata da Stati, individui e organizzazioni come un catalizzatore per il potere. Per la Francia prendere un’iniziativa di primo piano nel tentativo di risolvere il problema significa tentare di indebolire ulteriormente il caposaldo USA nella regione.

Tuttavia, i risultati della conferenza rimangono allineati con i tentativi di Trump. Sebbene più implicito dell’appoggio verbale di Trump a Israele, quello che è stato delineato a Parigi non affronta il concetto di giustizia e favorisce ulteriormente la lontananza dei palestinesi dalla loro auto-proclamata dirigenza.

La vera base della conferenza di Parigi non è la denuncia della scomoda e terrificante verità dell’occupazione e dell’apartheid, ma il gioco dei dadi nella speranza di porre fine all’incessante urlo e rumore.

Quello che Parigi significa per i palestinesi

Non è sorprendente che l’Autorità Nazionale Palestinese abbia accolto positivamente la conferenza, nonostante il fatto che, in sostanza, si sia trattato di un atto di assoluzione sia di Israele che della comunità internazionale dal rendere conto delle proprie azioni.

E’ significativo ricordare che il 50% della popolazione palestinese è sparso al di fuori dei territori. La loro voce, così come la voce del milione e mezzo di palestinesi all’interno di Israele, è ignorata nelle discussioni della soluzione dei due Stati, che per loro è inutile.

Sul terreno, le voci palestinesi sono messe a tacere non solo da Israele, ma da organizzazioni politiche come l’Autorità Nazionale Palestinese ed Hamas, che eliminano anche loro i dissidenti palestinesi che non sono d’accordo con la loro visione della giustizia. C’è un enorme divario tra quelli che affermano di rappresentare i palestinesi e il resto delle masse.

In una sua parte il comunicato della conferenza afferma che “entrambe le parti” devono “ribadire il proprio impegno per la soluzione dei due Stati, dissociandosi quindi dalle voci che rifiutano questa soluzione.”

Quanto scritto ignora il fatto che molti palestinesi non chiedono la soluzione dei due Stati. Inoltre, con il continuo distacco dell’ANP dalle masse palestinesi, la promessa di destinarvi ancora più denaro è solo d’ostacolo per i palestinesi.

Anzi, si tratta di un effetto positivo per Israele, in quanto favorisce il solco tra l’ANP ed i palestinesi, garantendo che la lotta non proceda oltre. Di conseguenza, viene data la possibilità ad Israele di continuare a costruire colonie ed esercitare pressioni sulla comunità internazionale per ottenerne l’appoggio – soprattutto con l’arrivo al potere di Trump.

Insomma, i risultati della conferenza di Parigi sono destinati a riaffermare i limiti della comunità internazionale nel raggiungere una vera giustizia, in quanto sono slegati dalle aspirazioni dei palestinesi che soffrono le conseguenze quotidiane del colonialismo.

Questa riluttanza ad affrontare la questione palestinese come una situazione di colonialismo di insediamento in simili conferenze parla da sé, in quanto confonde insidiosamente l’oppressore con l’oppresso. Nessuna vera soluzione sarà raggiunta se dovesse essere mantenuta questa impostazione.

– Mariam Barghouti  è una scrittrice e commentatrice palestinese che vive a Ramallah. I suoi scritti sono apparsi sul New York Times, su Al-Jazeera in inglese, Huffington Post, Middle East Monitor, Mondoweiss, International Business Times e altri.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)