Arare senza difesa

 Amira Hass – 30 gennaio 2017, Haaretz

L’ufficiale dell’esercito israeliano ha chiesto a due dei suoi sottoposti di dare una mano contro tre coloni che aggredivano palestinesi. Lo ha chiesto – bell’affare.

Un soldato dell’esercito israeliano ha ignorato la richiesta del suo comandante di aiutare lui e altri quattro soldati a sopraffare tre coloni. I coloni avevano violato un ordine militare entrando in terra palestinese per disturbare lavori di aratura.

O, come l’ha spiegato il portavoce dell’esercito: “Il comandante di compagnia in servizio durante l’incidente ha fatto segno a uno dei suoi soldati di andare ad aiutarlo. Ma, dato che ha avuto rapidamente ragione (dei coloni), il comandante ha informato solo in seguito che il soldato non era accorso. Alla fine, il comandante di compagnia ha svolto un’indagine e ha fatto rapporto ai suoi superiori.”

Ma Amiel Vardi, un attivista dell’organizzazione arabo-ebraica “Ta’ayush”, ha detto di aver visto il gesto dell’ufficiale a due soldati che stavano vicino alla loro jeep guardando i loro compagni che cercavano di arrestare i coloni. “Non è successo niente; i soldati non sono andati. E allora il comandante ha mandato da loro uno dei soldati che erano con lui, ma è ritornato da solo,” ricorda Vardi, che era stupito di vedere due soldati che manifestavano un tale disprezzo per i loro compagni.

E’ vero, è una notizia vecchia: è successo un mese fa. Ma, durante una conversazione casuale, vari attivisti di “Ta’ayush” hanno detto ad Haaretz che il fatto è stato più drammatico di come lo hanno descritto i media israeliani. Perciò lo stiamo riconsiderando qui, insieme a un video che può essere visto nella versione in rete di questo articolo.

Iniziamo ricordando qualche fatto. Per anni i coloni della zona di Sussia hanno aggredito gli abitanti di questo eroico villaggio della Cisgiordania e gli hanno impedito l’accesso a circa 3.000 dunam (300 ettari) di terre agricole (mentre facevano pressione anche per la demolizione di tutte le loro case).

In seguito ad un’ estenuante battaglia legale da parte degli abitanti – con l’assistenza di “Rabbini per i Diritti Umani” e dell’avvocato Quamar Mashraqi Assad, compreso un appello all’Alta Corte di Giustizia – l’esercito ha gentilmente accettato di emettere ordini militari che vietano agli israeliani di entrare in una quantità totale di circa 400 dunams [40 ettari. Ndtr.].

Non è un granché. Ma persino lì i coloni aggressori stanno continuando le loro azioni. Perciò “Ta’ayush” scorta i contadini.

L’attivista di “Ta’ayush” Michal Peleg mi ha permesso di rubare la sua testimonianza diretta. “In una fredda mattina di sabato, il 31 dicembre 2016, in un piccolo campo sotto il villaggio di Sussia, una famiglia stava arando: tre uomini, una donna, un ragazzo e un bambino (la famiglia Nawajah), un aratro di ferro attaccato a due asini, difficile arare in profondità, terra pietrosa. Prima hanno educatamente chiesto all’intruso di andarsene dal campo. Questi, che ha detto di chiamarsi Daoud, ha scherzato con i soldati e ogni tanto si scatenava, minacciando e spingendo gli aratori ed i loro asini.

I soldati hanno continuato a chiedergli per piacere di andarsene. Egli ha chiesto una prova, un ordine. Lo hanno richiesto e gli hanno mostrato una mappa in cui la zona era segnata come preclusa agli israeliani a causa di precedenti aggressioni. L’ebreo si è messo a ridere e se n’è andato.

“L’aratura è ripresa. Gli uomini e la donna hanno spinto forte i muli e li hanno incitati ad accelerare, in quanto ora erano spaventati.

“Come prevedibile, l’ebreo è tornato, insieme ad altri due uomini, ed i tre hanno invaso il campo, camminando con arroganza in giro tutti contenti. I soldati hanno tentato di bloccarli. I tre li hanno aggrediti, spingendoli e colpendoli. Con grande fatica i soldati hanno sopraffatto i delinquenti e li hanno gettati a terra.

La famiglia stava lì vicino in silenzio; la donna stava piangendo. E anche noi, i sei israeliani, siamo stati da una parte a guardare quello che stava succedendo, filmando e cercando di proteggere gente che non ha il diritto di alzare una mano o neppure di dare una spinta per proteggere se stessa, figuriamoci il proprio terreno. Abbiamo chiesto che l’autorità della zona portasse via gli intrusi e permettesse ai proprietari della terra di continuare ad ararla.

E’ arrivata la polizia. Gli intrusi sono stati arrestati. Ma l’aratura non è ricominciata.”

Il campo si trova nei pressi di una cisterna d’acqua. La terra attorno alla cisterna era ostruita da spazzatura, e non lontano da lì è stato scritto uno slogan con delle pietre, in ebraico: ‘Vendetta’, con in più una stella di David. Il proprietario palestinese del terreno è arrivato per togliere l’immondizia, con il nostro aiuto.

Abbiamo chiamato la polizia perché prendesse nota dello slogan ‘vendetta’. Poi lo abbiamo tolto. Gli ebrei di (della colonia di) Susya hanno chiamato l’esercito israeliano per impedirci di toglierlo dalla terra araba di proprietà privata. L’esercito non ha acconsentito alla loro richiesta. Questo è stato il contesto dell’aggressione dei delinquenti.”

Peleg continua: “Ogni attacco contro ebrei, che siano civili o soldati, ha ‘colore’ – cioè protagonisti, vicini, interviste, amici, descrizioni, riprese dal vivo, dettagli…Se non fosse stato per l’arresto degli ebrei, assolutamente nessuno avrebbe sentito parlare di questo fatto.

Per cui c’è un po’ di colore. L’ebreo che si è intrufolato nel campo era un giovane grosso, muscoloso. Ci sono voluti due o forse tre soldati per bloccarlo. Era anche su di giri, gridava e cantava.

“Quando se ne stava steso a terra sotto due soldati ansimanti, ha iniziato a cantare piano ‘Ahi papà, ahi mamma, mi stanno picchiando, picchiando, mamma.’ Nessuno lo stava picchiando, naturalmente. I suoi amici ridevano. Noi tutti -cioè, noi tutti israeliani – eravamo partecipi della burla insita in questa canzone del ghetto; tutti noi sapevamo che era un adagio a proposito del cosacco derubato [la storia si riferisce ad un cosacco che prima depreda, uccide e violenta gli ebrei, poi si lamenta di essere stato derubato da loro. Ndtr.].”

“Solo gli arabi non l’hanno colto. Loro hanno visto la realtà: cruda, spudorata, sfrontata violenza da parte di quelli che sono al di sopra della legge e non hanno paura di soldati, poliziotti o giudici – la stessa legge, gli stessi soldati, poliziotti, amministrazione (militare) e giudici che, in qualunque momento, possono distruggere, o persino prendersi, le loro vite.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




I palestinesi sostengono che gli USA minacciano “gravi misure” se i [loro] dirigenti denunciano Israele al tribunale internazionale

Jack Khoury 1 febbraio 2017 | Haaretz

I dirigenti palestinesi sono furiosi per i nuovi avvertimenti dell’ amministrazione Trump riguardo alla [possibile] sospensione degli aiuti e persino al reinserimento dell’OLP nella lista dei gruppi terroristici.

Secondo fonti diplomatiche occidentali e arabe, Washington ha ammonito i dirigenti palestinesi che, qualora denunciassero Israele nei tribunali internazionali, andrebbero incontro a gravi misure da parte dell’amministrazione statunitense, quali la chiusura degli uffici dell’OLP nella capitale americana e la cessazione degli aiuti economici all’Autorità palestinese.

Haaretz è venuto a conoscenza che il messaggio dell’amministrazione Trump è stato inoltrato tramite il consolato americano, e non dalla Casa Bianca o dal Dipartimento di Stato, e che si è trattato di una conversazione telefonica con un dirigente palestinese in contatto diretto con il Presidente dell’ANP Mahmoud Abbas.

Un’alta fonte palestinese ha detto a Haaretz che nella prima settimana da presidente Donald Trump ha firmato un decreto esecutivo di una mozione del Congresso, redatta durante la presidenza Obama, per fare passi contro l’Autorità palestinese e contro Fatah( la maggiore componente dell’OLP) nel caso in cui i palestinesi denuncino Israele.

“Nonostante la risoluzione del Congresso, i dirigenti palestinesi contavano sulla denuncia alla Corte [Penale Internazionale] come mezzo per arrestare la costruzione delle colonie. Ma il messaggio di questi giorni proveniente da Washington ha messo in chiaro che qualunque mossa del genere dei palestinesi provocherebbe una grave reazione americana, talmente forte che qualcuno ha parlato di rimettere l’OLP nella lista delle organizzazioni terroristiche,” ha riferito la fonte palestinese.

Il sabotaggio della strategia palestinese”

Haaretz è venuta a sapere che i dirigenti palestinesi si sono infuriati per i messaggi di Washington, definendoli un tentativo di sabotare tutta la strategia palestinese degli ultimi anni di abbandono della lotta armata e della violenza in favore di [un’attività] diplomatica internazionale collaborando con le istituzioni delle Nazioni Unite e con la comunità internazionale per realizzare la soluzione dei due Stati.

“Ogni decisione presa, dal riconoscimento della Palestina fatta dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2011 fino all’ultima risoluzione del Consiglio di Sicurezza del dicembre 2016, aveva lo scopo di salvare la soluzione a due Stati” ha detto la fonte palestinese a Haaretz . “La politica di Netanyahu, compresa quella degli ultimi giorni, di accelerare la costruzione di migliaia di unità abitative, complice il silenzio di Washington, significa lo smantellamento di qualunque possibilità di una futura soluzione diplomatica” ha detto la fonte riferendosi al primo ministro israeliano.

Nel frattempo il ministro degli esteri palestinese ha duramente condannato la decisione di costruire migliaia di unità abitative in Cisgiordania, affermando che ciò rende la soluzione a due Stati una chimera.

Alti dirigenti palestinesi , incluso il segretario generale di Fatah Saeb Erekat, si sono appellati alla comunità internazionale perché intervenga senza indugi.

Nel frattempo fonti di Ramallah , quartier generale della Autorità Nazionale Palestinese, ammettono che, a causa della minaccia americana, non è stata presa nessuna decisione di denunciare Israele ai tribunali internazionali.

Haaretz è venuta a sapere che i dirigenti palestinesi discuteranno nei prossimi giorni della questione. “La minaccia americana è seria, ma gli americani e l’amministrazione Trump hanno parlato di volere la soluzione a due Stati e contemporaneamente hanno permesso a Netanyahu di continuare con la sua politica devastante e lo hanno sostenuto, il che è inconcepibile. Da palestinesi continueremo ad agire su ogni fronte internazionale per salvare la soluzione a due Stati e ci aspettiamo che la comunità internazionale faccia lo stesso” ha detto un funzionario palestinese che è a conoscenza nei dettagli dei messaggi trasmessi da Washington a Ramallah.

Per diversi anni l’Autorità Nazionale Palestinese si è mossa per trascinare in giudizio alla Corte Penale Internazionale dell’Aja Israele per presunti crimini di guerra come mezzo per contrastare la legalità delle colonie ebraiche in Cisgiordania.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




La Palestina nell’era di Trump

19 gennaio 2017,The New Yorker

 Rashid Khalidi

Con l’avvento a Washington di un’amministrazione con nuove e radicali priorità riguardo ad Israele e disprezzo nei confronti dei diritti dei palestinesi, la Palestina sta affrontando una situazione scoraggiante. Negli scorsi anni avevano già iniziato ad evidenziarsi predominanti indirizzi politici in America e in Israele. Ora abbiamo raggiunto il punto in cui i rappresentanti di un Paese nellaltro potrebbero praticamente essere scambiati: l’ambasciatore di Israele a Washington, Ron Dermer, che è cresciuto in Florida, potrebbe facilmente essere l’ambasciatore USA in Israele, mentre l’ambasciatore designato da Trump in Israele, David Friedman, che ha stretti legami con il movimento dei coloni israeliani, potrebbe benissimo fare l’ambasciatore a Washington per il governo favorevole ai coloni di Benjamin Netanyahu.

Mentre il sollecito interesse dell’America per Israele e il suo disinteresse per i palestinesi erano in precedenza celati dietro all’imparzialità, con Trump stiamo per assistere a una più totale convergenza tra la dirigenza politica americana e il governo più sciovinista, religioso e di destra nella storia di Israele. Saranno questo governo israeliano e le sue nuove anime gemelle americane che prenderanno le decisioni in Palestina almeno per i prossimi anni.

L’intera struttura politica ed economica palestinese costituita dagli accordi di Oslo del 1993 era fondata sull’idea che si sarebbe trasformata in uno Stato palestinese reale, sostenibile e con continuità territoriale. Quella illusione, sostenuta da molti palestinesi, è stata ormai dissolta. Quella struttura imperfetta era anche basata sulla premessa, quanto meno ingenua, che gli Stati Uniti avessero un interesse nazionale nel moderare il comportamento di Israele e nel raggiungere un minimo di giustizia in Medio Oriente. Anche questa premessa è stata distrutta.

Per i palestinesi l’Autorità Nazionale Palestinese, stabilita dagli accordi di Oslo in apparenza come parte di un accordo temporaneo per l’autogoverno palestinese, continuerà a fare più danno che bene. Poche persone capiscono che la colonizzazione della terra palestinese e l’occupazione militare israeliana durata quasi cinquant’anni, – tra le più lunghe della storia contemporanea – oggi non sarebbero sostenibili senza l’appoggio americano ed israeliano all’ANP ed alle sue forze di sicurezza addestrate dagli USA. La criminalizzazione da parte dell’ANP di ogni forma di resistenza alla spoliazione, alla discriminazione ed al permanente controllo militare da parte di Israele ne hanno fatto, in effetti, uno strumento di collaborazione con l’occupazione. Persino bloggers e manifestanti pacifici sono soggetti ad arresti e a soprusi da parte delle forze dell’ANP. Il modo in cui questa istituzione opera contro il proprio stesso popolo fornisce un’anticipazione del futuro che ora i dirigenti sia americani che israeliani prevedono per i palestinesi nei territori occupati: un futuro che è oppresso, controllato e privo di sovranità ed autodeterminazione.

E’ assolutamente chiaro che gli Stati Uniti, nell’era Trump, e Israele, in quella di Netanyahu, non faranno niente per cambiare questo quadro. In un simile contesto, i palestinesi hanno di fronte scelte nette. Possono sottomettersi ai voleri degli USA e di Israele oppure possono ridefinire profondamente e urgentemente il loro movimento nazionale, i loro obiettivi e le modalità della loro resistenza all’oppressione. E’ ora per i palestinesi di abbandonare l’esperimento fallito dell’ANP e forme di violenza che rafforzano solo il dominio della destra sulle politiche israeliane. E’ ora di mobilitare le ampie energie della diaspora palestinese e di smettere di pensare alla Palestina come solo a quei frammenti sotto occupazione israeliana. Ed è tempo di iniziare ad immaginare modi in cui palestinesi ed israeliani saranno finalmente capaci di coesistere in totale uguaglianza nel piccolo Paese che alla fine dovranno condividere, una volta che si sia liberato dalla dominazione di un gruppo sull’altro. Sarà un compito eccezionalmente difficile per i palestinesi, che vengono dall’aver sofferto decenni di guerra, spoliazione ed occupazione.

Ciononostante ci sono segni di speranza, almeno negli Stati Uniti. A dispetto delle posizioni dei dirigenti sia del partito Democratico che Repubblicano, l’opinione pubblica americana si sta allontanando rapidamente da un appoggio acritico ad Israele. Gli americani stanno diventando sempre più solidali con la causa della libertà dei palestinesi. Secondo un sondaggio realizzato dalla Brookings Institution [gruppo di ricerca in scienze sociali di tendenza progressista con sede a Washington. Ndtr.] in dicembre, il 60% dei democratici e il 46% di tutti gli americani appoggia sanzioni o misure più forti contro Israele per la costruzione di colonie ebraiche illegali sulla terra palestinese occupata. Un recente sondaggio del Pew [centro di ricerca statunitense indipendente. Ndtr.] mostra che, per la prima volta, la percentuale di democratici che sono solidali con i palestinesi è praticamente pari a quelli che simpatizzano con Israele, mentre i democratici progressisti sono molto più solidali con i palestinesi (58%) che con Israele (26%).

Con il tempo, questi cambiamenti arriveranno fino ai politici ed ai decisori a Washington. Nel frattempo, ci si aspetta da persone con una coscienza, comprese quelle che stanno resistendo all’ondata di razzismo e di estremismo di estrema destra che si prospetta nellera Trump, che esercitino pressioni sui loro rappresentanti eletti perché siano all’altezza degli ideali di libertà ed uguaglianza che professano e che rendano Israele responsabile delle sue violazioni delle leggi internazionali e del rifiuto dei diritti nazionali ed umani dei palestinesi.

Rashid Khalidi è professore Edward Said di Studi Arabi alla Columbia University e autore, più recentemente, di “Mediatori di menzogna: come gli USA hanno minato la pace in Medio Oriente.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Fare tanto clamore per avere l’approvazione di Israele: le promesse elettorali di Trump lo perseguiteranno

Maan News Agency 31 gennaio 2017

 Ramzy Baroud

Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump promette che sarà favorevole ad Israele sotto ogni aspetto.

Io sono la cosa migliore che potrebbe mai accadere ad Israele”, si era vantato al Forum Presidenziale della Coalizione Ebraica Repubblicana a Washington DC, nel dicembre 2015.

Quando nel maggio 2016 il candidato repubblicano alla presidenza si è impegnato alla ‘neutralità’ tra palestinesi ed israeliani,

per un momento è sembrato che Trump rivedesse il suo appoggio incondizionato ad Israele.

Vorrei essere un uomo un po’ neutrale”, ha detto durante un incontro nella sala municipale della MSNBC (canale televisivo statunitense, ndtr.).

Da allora, questa posizione è stata superata dalla retorica più reazionaria, a cominciare, il mese seguente, dal discorso tenuto alla conferenza della lobby israeliana (AIPAC).

Quanto a Israele, le sue aspettative riguardo al Presidente USA sono molto chiare: sostegno incondizionato sul piano finanziario e militare, carta bianca all’espansione delle colonie illegali a Gerusalemme est occupata e in Cisgiordania e la fine di ogni forma di ‘pressione’ politica intesa a risuscitare il cosiddetto ‘processo di pace’.

Non che Trump avesse alcun dubbio circa queste aspettative. La vera sfida era che la sua principale rivale, Hillary Clinton, era un’ardente sostenitrice di Israele come nessun altro prima.

Era assolutamente sfrontata nell’adulare la lobby filoisraeliana. Riflettendo sulla morte dell’ex Presidente di Israele Shimon Peres, ha detto ai leader ebrei: “Quando lui parlava, per me era come ascoltare un salmo e adoravo sedermi ad ascoltarlo, sia che parlasse di Israele, la nazione che amava ed aveva fatto tanto per difendere, o che parlasse della pace o semplicemente della vita stessa.”

Ha promesso loro di “proteggere Israele dalla delegittimazione”, come scrive il quotidiano israeliano Haaretz – intendendo con ‘delegittimazione’ i tentativi dei gruppi della società civile in tutto il mondo di boicottare Israele a causa del suo mancato rispetto delle leggi internazionali e dei diritti dei palestinesi sotto occupazione.

Questo era il panorama politico in cui Trump, fondamentalmente un uomo d’affari e non un politico, doveva muoversi. In un impeto di mosse affrettate ha accettato di concedere ad Israele ciò che voleva, ma è andato anche al di là di quanto avesse fatto nessun altro presidente USA nella storia contemporanea, promettendo di trasferire l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme.

In quel momento è stata una mossa intelligente, sufficiente a contrastare le profferte d’amore della Clinton a Israele ed a fare di Trump il beniamino della destra politica israeliana, che attualmente controlla il governo.

Le conseguenze di quella promessa, se realizzata, comunque si dimostreranno molto costose.

Se Trump proseguirà su questa strada, è probabile che scatenerà il caos in una regione già instabile.

La mossa, che ora a quanto pare è “allo stadio iniziale”, non è semplicemente simbolica, come riferito da qualcuno nei principali media occidentali.

Trump, noto per il suo carattere impulsivo, sta minacciando di eliminare anche il minimo senso comune che storicamente ha governato la politica estera americana in Medio Oriente.

Gerusalemme è stata occupata in due diverse fasi storiche, prima dalle milizie sioniste nel 1948, poi dall’esercito israeliano nel 1967.

Avendo compreso la centralità di Gerusalemme per l’intera regione, i colonialisti britannici, che avevano ricevuto un mandato sulla Palestina dalla Società delle Nazioni nel 1922, erano favorevoli a che Gerusalemme rimanesse sotto protezione internazionale.

Comunque Israele si è impadronito della città con la forza, appellandosi ad un’ interpretazione a proprio vantaggio del testo biblico, che designerebbe Gerusalemme capitale ‘eterna’ del popolo ebreo.

Per lo sgomento della comunità internazionale, che ha sempre rifiutato e condannato l’occupazione israeliana, nel 1980 Israele ha annesso ufficialmente Gerusalemme, in violazione delle leggi internazionali.

Anche i paesi considerati alleati di Israele – compresi gli Stati Uniti – sono contrari alla sovranità israeliana su Gerusalemme e respingono l’invito di Israele a spostare le loro ambasciate da Tel Aviv alla città illegalmente occupata.

Inoltre, dal 1995, la posizione degli Stati Uniti ha oscillato tra quella storicamente filoisraeliana del Congresso e quella egualmente filoisraeliana, ma più pragmatica, della Casa Bianca.

Nell’ottobre 1995 il Congresso statunitense ha approvato il Jerusalem Embassy Act, con maggioranza schiacciante sia alla camera che al senato. Esso definiva Gerusalemme capitale indivisa di Israele e sollecitava il Dipartimento di Stato a spostare l’ambasciata a Gerusalemme.

Le amministrazioni USA dei Presidenti Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama hanno firmato una deroga presidenziale che ha rinviato di volta in volta di sei mesi la decisione del Congresso.

L’ultima volta la deroga è stata firmata dall’ex Presidente Obama il 1° dicembre 2016.

Adesso l’opportunista magnate del settore immobiliare fa il suo ingresso alla Casa Bianca con un allarmante programma che appare identico a quello dell’attuale governo israeliano di destra e ultranazionalista.

Siamo arrivati al punto che i rappresentanti dei due paesi potrebbero quasi scambiarsi il posto”, ha scritto sul New Yorker il professore palestinese Rashid Khalidi.

Questo avviene nel peggior momento possibile, in cui nel parlamento israeliano stanno saltando fuori nuove leggi per annettere anche le colonie ebree considerate illegali dagli stessi criteri israeliani e per eliminare ogni restrizione alla costruzione ed espansione di nuove colonie.

Nel corso di soli pochi giorni dall’insediamento di Trump, il governo israeliano ha ordinato la costruzione di migliaia di nuove unità abitative nella Gerusalemme occupata.

Persino i tradizionali alleati di Stati Uniti ed Israele sono allarmati dalle fosche prospettive aperte dalla nascente alleanza tra Trump ed Israele. Parlando alla conferenza di pace di Parigi il 15 gennaio, il ministro degli esteri francese Jean-Marc Ayrault ha avvertito Trump circa le “conseguenze molto gravi” che si prospettano nel caso che l’ambasciata USA venga effettivamente trasferita a Gerusalemme.

Palestinesi ed arabi capiscono che il trasferimento dell’ambasciata, lungi dall’essere una mossa simbolica, concede carta bianca per completare l’occupazione israeliana della città – inclusi i suoi luoghi santi – e portare a termine la pulizia etnica dei palestinesi musulmani e cristiani.

L’azzardo dell’amministrazione Trump di trasferire l’ambasciata USA probabilmente innescherà un incendio politico in Palestina e nel Medio Oriente con esiti terribili ed irreversibili.

Se si considera il significato che riveste Gerusalemme per i musulmani ed i cristiani palestinesi e per centinaia di milioni di fedeli in tutto il mondo, Trump potrebbe certamente accendere una polveriera che farebbe ulteriormente deragliare la sua presidenza già in difficoltà.

In una recente intervista a Fox News Trump ha ripetuto il frusto ritornello di come è stato trattato “male” Israele e che le relazioni tra Washington e Tel Aviv sono state “risanate”.

Ma poi si è rifiutato di parlare del trasferimento dell’ambasciata perché “è troppo presto”.

Potrebbe essere il suo modo di fare marcia indietro per evitare una crisi. E’ una posizione di profilo più basso rispetto a quella della sua principale consigliera, Kellyanne Conway, che aveva recentemente affermato che il trasferimento dell’ambasciata era “una priorità molto importante”.

Anche se il trasferimento dell’ambasciata venisse rinviato, il danno rimarrà, in quanto le colonie ebree stanno aumentando esponenzialmente, compromettendo in tal modo lo status della città.

Il fatto è che l’assenza di una chiara politica estera da parte di Trump che tenda a creare stabilità – non fatta di decisioni precipitose per ottenere il consenso della lobby – è una strategia politica pericolosa.

Vuole ribaltare l’eredità del suo predecessore, ma non ne ha una sua, il che è proprio la formula necessaria a fomentare nuova violenza ed a precipitare ancor più nel baratro una regione già instabile.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

Ramzy Baroud è un giornalista internazionalmente accreditato, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è ‘Mio padre era un combattente per la libertà: storia non raccontata di Gaza’.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)