Ecco come Israele gonfia [i dati] della propria maggioranza ebraica

Editoriale Haaretz| 30 Aprile, 2017

Il rapporto annuale dell’Ufficio di statistica riguardo alla popolazione è un ridicolo esempio di propaganda che comprende i coloni ma non tutti i palestinesi sotto il controllo di Israele

Ogni anno prima del giorno dell’indipendenza, l’Ufficio centrale di Statistica pubblica a ridosso della festa un rapporto che inizia con i dati della popolazione israeliana per poi affrontare diversi parametri demografici ed economici come esempio dello sviluppo dello Stato e dei suoi risultati. Quest’anno l’ufficio ha registrato 8.68 milioni di persone residenti in Israele, dei quali il 74,7% sono ebrei, il 20,8% sono arabi e i rimanenti sono “altri” (principalmente cristiani non arabi). Questa è la dimostrazione numerica del successo sionista nella costruzione di uno Stato a forte maggioranza ebraica, che è presente in una pubblicazione ufficiale di un’agenzia professionale autorizzata.

Ma la pubblicazione dell’Ufficio centrale di Statistica è ingannevole e comprende molte imprecisioni e manipolazioni che la trasformano da un arido rapporto statistico a un ridicolo atto di propaganda.

Cominciamo con il numero degli abitanti israeliani.

L’Ufficio registra gli ebrei [presenti] in tutti i territori dal fiume Giordano al Mediterraneo sotto il proprio controllo. Ma prende in considerazione solamente gli arabi presenti nei territori prima dei confini del ’67, a Gerusalemme Est e sulle Alture del Golan. Milioni di palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza sono lasciati fuori. Così i coloni di Hebron sono residenti in Israele e sono compresi nella statistica , mentre i loro vicini palestinesi non lo sono.

La questione non consiste nel fatto che l’Ufficio ignori quanti siano i palestinesi che abitano nei territori. Israele controlla il registro dell’anagrafe della Autorità Nazionale Palestinese della Cisgiordania e perfino quello della Striscia di Gaza. Ogni nascita, viaggio, matrimonio, divorzio o decesso dei palestinesi dei territori vengono registrati dalle autorità israeliane. Si possono pubblicare dati completi della popolazione sotto il controllo diretto e indiretto di Israele, una popolazione che paga con gli stessi shekel ed è legata alle medesime infrastrutture. Ma allora la maggioranza ebraica si ridurrebbe in modo sorprendente, rovinando la festa della Giornata dell’Indipendenza.

L’espediente si accentua quando l’Ufficio centrale di Statistica rappresenta il territorio dello Stato 69enne. La mappa della pubblicazione ufficiale mostra Israele con le Alture del Golan, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, senza i confini interni come i confini precedenti al ’67, le linee di separazione degli Accordi di Oslo o quelle del disimpegno da Gaza – tutta l’Eretz Israel. Invece nel rapporto la superficie dello Stato, 22,072 kmq , non comprende la Cisgiordania e Gaza.

Allora queste aree fanno parte o no di Israele? I coloni sono compresi nelle statistiche nazionali mentre il territorio delle colonie non lo è? I coloni vivono in cielo?

La manipolazione dei dati non è un trucco nuovo. L’Ufficio centrale di statistica ha incluso i coloni quali residenti di Israele fin dal 1972, quando Golda Meir era primo ministro. Fino a oggi tutti gli esperti governativi di statistica si sono prestati all’ingannevole conteggio differenziato degli ebrei e degli arabi, anche se la legge esige loro di agire “in base a considerazioni scientifiche”.

L’attuale capo dell’ufficio, Prof. Danny Pfeffermann, ha ricevuto l’anno scorso un’onorificenza: il suo titolo è stato elevato a “ Statistico nazionale”. È un peccato che egli abbia prestato il suo prestigio professionale a un tentativo di propaganda governativa volto a mostrare una larga maggioranza ebraica e a cancellare i palestinesi dalla nostra coscienza, apparentemente in nome della scienza.

L’articolo di cui sopra è l’editoriale principale di Haaretz come è stato pubblicato nelle edizioni in lingua ebraica e inglese in Israele.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




E’ stato ricordato ai contadini palestinesi che vincere in un tribunale israeliano non è sufficiente per avere giustizia

Amira Hass – 30 aprile 2017 Haaretz

In Cisgiordania sono esclusi dalla loro stessa terra mentre l’esercito israeliano non fa rispettare gli ordini del tribunale.

A Moshe Ben-Zion Moskowitz, della colonia di Shiloh in Cisgiordania, è stato chiesto in tribunale se, quando nel 1980 ha iniziato a coltivare un terreno nella giurisdizione del villaggio palestinese di Qaryut, egli ne era proprietario. Per due volte ha risposto che il proprietario del terreno era Dio. Ma l’avvocato Jiat Nasser ha continuato a insistere sul fatto se egli personalmente fosse proprietario della terra, e alla fine Moskowitz ha risposto: “Non io personalmente, ma il popolo ebraico.”

Allora Nasser ha chiesto una spiegazione: “E’ vero che lei non ha comprato la terra?” Moskowitz ha risposto: “E’ la terra del popolo ebraico.”

Ma né Dio né il popolo ebraico hanno aiutato Moskowitz nella causa che ha intentato nel 2010 contro l’amministrazione locale di Qaryut e contro alcuni dei suoi abitanti. La corte non ha accettato la Bibbia come contratto di acquisto.

Moskowitz aveva chiesto alla corte di impedire ai convenuti palestinesi di molestarlo, secondo lui, attraverso denunce alla polizia in merito a sconfinamenti e ai tentativi di coltivare quella stessa terra. Per 30 anni, si è lamentato, egli aveva lavorato la terra senza alcun problema, finché a metà 2007 è arrivato il rabbino Arik Ascherman (allora di “Rabbini per i Diritti Umani”, ora di “Haqel – Ebrei e Arabi in Difesa dei Diritti Umani”) e ha chiesto le prove del suo diritto di proprietà.

Gli ho fatto vedere la Bibbia. Siamo tornati alla nostra terra,” ha detto Moskowitz alla corte nel dicembre 2010.

Ma dopo un’estenuante battaglia legale il giudice Miriam Lifshits nell’aprile 2016 ha deciso che Moskowitz non aveva dimostrato di aver lavorato la terra continuativamente dal 1980, e neppure nei 10 anni precedenti la presentazione della causa. Al contrario, i convenuti hanno provato i propri legami con la terra e che la stavano utilizzando; Lifshits non ha trovato alcuna prova che la terra fosse lasciata incolta quando Moskowitz se ne è impossessato. Non ha mai consegnato alla corte i documenti che aveva promesso; quello che ha detto alla polizia era in contraddizione con quello che ha detto alla corte, e i suoi testimoni lo hanno contraddetto.

Ma anche se la Bibbia e il popolo ebraico lo hanno tradito, le istituzioni che devono far rispettare la legge – la polizia, l’esercito e l’amministrazione civile di Israele in Cisgiordania – non lo hanno fatto. Un anno dopo la sentenza del giudice, non hanno mosso un dito per togliere di mezzo le serre che Moskowitz ha costruito sulla terra mentre la causa era in tribunale. E questa settimana il colonnello Yuval Gez, comandante della brigata “Binyamin”, ha vietato ai proprietari legali della terra di entrarvi per la prima volta dal 2007.

Il loro avvocato, Kamer Mashraqi-Assad, ha chiesto per un anno all’esercito di scortare i proprietari alla loro terra. E’ vero, non si trova in un’area in cui l’esercito richiede una scorta militare per paura dei coloni, ma, come hanno testimoniato i contadini in tribunale, in passato sono stati oggetto di minacce e violenze.

I coloni “arrivano là con i loro fucili e i loro cani e noi non abbiamo il potere di affrontarli,” ha detto Tareq Odeh di Qaryut alla corte nel dicembre 2010. “Ho due terreni a cui non posso accedere per paura dei coloni.”

Moskowitz, ha continuato, “è armato. Se dovesse sparare a cinque di noi, nessuno gliene chiederebbe conto. Ma se uno di noi lanciasse una pietra contro di lui, nessuno di noi avrebbe scampo.” Odeh è morto un anno fa, per cui non è arrivato ad ascoltare il verdetto della corte.

La scorsa settimana l’ufficio di collegamento dell’esercito ha detto a Mashraqi-Assad che per martedì era stata predisposta una scorta per i contadini. E’ vero, era solo per un giorno, ma hanno atteso eccitati di tornare alla loro terra.

Ma lunedì notte Mashraqi-Assad ha detto loro che l’esercito si era rimangiato la parola. Gez, il comandante di brigata, non aveva intenzione di fornire la scorta, perché c’erano in giro dei coloni.

Martedì mattina Haaretz ha chiesto al portavoce dell’unità dell’esercito israeliano se Gez ha paura della violenza dei coloni o se si identifica con il loro obiettivo di impossessarsi della terra e di cacciare la popolazione che ha la proprietà della terra da prima della fondazione di Israele nel 1948. Mercoledì sera l’unità ha risposto che la scorta era stata inizialmente approvata, “anche se la zona non richiede questo tipo di procedura. Ma durante l’ispezione preliminare dell’area il giorno precedente la data concessa per entrare nel terreno, abbiamo scoperto che l’appezzamento contiene serre agricole che non sono di proprietà di chi ha fatto la richiesta, e quindi di fatto non può essere coltivato. Abbiamo deciso di rimandare la data convenuta per lavorare il terreno in modo che questo problema possa essere esaminato dai professionisti competenti. Una risposta a questa questione verrà fornita rapidamente.”

Pascolare il bestiame

Le autorità hanno anche consentito ai coloni di invadere terra di proprietà privata palestinese nel nordest della Cisgiordania, nei pressi di Tubas e Bardala, vietando al contempo l’ingresso ai pastori palestinesi, in spregio a sentenze giudiziarie.

Qualche decennio fa la parte della valle del Giordano settentrionale tra il muro di confine e il fiume Giordano era preclusa da una recinzione militare ai palestinesi che la possedevano e la lavoravano. I coloni hanno sfruttato questa situazione per impossessarsi di oltre 5.000 dunam (500 ettari) di terra di proprietà privata, con l’avallo delle autorità.

Una petizione dell’avvocato Tawfiq Jabareen all’Alta Corte di Giustizia ha portato alla cancellazione dell’ordine all’inizio del 2016. Anche se i coloni stanno ancora coltivando parte di questa terra, la cancellazione dell’ordine ha consentito almeno ai pastori palestinesi di riprendere ad abbeverare il loro bestiame alla sorgente Ein Saqut.

Tuttavia lunedì personale della polizia e dell’amministrazione civile ha vietato ai pastori palestinesi di abbeverarvi le loro mucche. E’ risultato che qualche giorno prima mandrie di mucche “ebraiche” avevano occupato il luogo.

Erano state portate lì da un avamposto illegale costruito all’inizio di gennaio al confine della riserva naturale di Umm Zuqa, non lontano dalla base militare dove si trova il battaglione di soldati ultra-ortodossi. Nonostante gli ordini emanati contro l’avamposto di interrompere i lavori, questo continua ad espandersi e i suoi residenti stanno cercando di cacciare i pastori palestinesi dai loro pascoli.

Due settimane fa l’organizzazione “Machsom Watch” [associazione di donne israeliane che si oppongono all’occupazione, ndt.] ha scoperto che l’avamposto si rifornisce d’acqua grazie a un collegamento illegale alla vicina base. Dopo una verifica, il portavoce dell’unità dell’esercito lo ha confermato, aggiungendo che i comandanti non avevano la minima idea che ciò stesse accadendo, e che le istituzioni che devono far applicare la legge stanno indagando. Che si sia trattato di una coincidenza o meno, la mandria di vacche si è spostata allora a Ein Saqut.

Mercoledì quattro soldati hanno ordinato ai pastori palestinesi di andarsene e di non avvicinarsi alle mucche dei coloni. Ma quando le attiviste di “Machsom Watch” sono arrivate “i soldati hanno cambiato tono e hanno lasciato che i pastori rimanessero lì con il loro bestiame, ma non che si avvicinassero alla sorgente,” ha detto una di loro, Daphne Banai. “Hanno sostenuto che era una riserva naturale ed alle mucche era proibito entrarvi.

Ma quando i soldati se ne sono andati ho visto i coloni condurre le loro vacche alla sorgente.”

Haaretz ha chiesto al coordinatore delle Attività del Governo nei Territori, al distretto di polizia di Shai (Cisgiordania) e al portavoce dell’unità dell’esercito se sapessero del bestiame che si trovava su un terreno di proprietà privata palestinese, e se vietare la sorgente ai pastori palestinesi e alle loro mandrie fosse un incidente isolato o una politica deliberata. Al momento della stesura di questo articolo non è arrivata nessuna risposta.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Fonti palestinesi dicono che Abbas sta cercando di ingraziarsi Trump punendo Hamas

Zvi Bar’el, 29 aprile 2017, Haaretz

Mantenere al buio gli abitanti di Gaza potrebbe essere un espediente politico da parte del presidente palestinese per convincere Trump di essere un partner per la pace.

I due milioni di abitanti della Striscia di Gaza sono al buio – non come metafora della mancanza di un orizzonte diplomatico, ma realmente. Il blackout è il vertice dell’assedio economico cui è sottoposto il territorio.

Decine di migliaia di dipendenti dell’Autorità Nazionale Palestinese a Gaza hanno subito un taglio di almeno il 30% ai loro salari e molti lavoratori stanno per essere costretti ad andare in pensione anticipata. L’assistenza fornita dall’ANP ai sistemi sanitario e di welfare a Gaza diminuirà probabilmente in modo drastico. E se non sarà trovata a breve termine una soluzione alla frattura tra Hamas e Fatah, il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas potrebbe dichiarare Gaza sotto la guida di Hamas “Stato ribelle” e forse addirittura definire Hamas un’organizzazione terroristica.

Tutto questo avviene mentre Khaled Meshal, tuttora a capo dell’ufficio politico di Hamas, si accinge a rendere pubblico il nuovo statuto dell’organizzazione, lunedì prossimo in Qatar. Due giorni dopo Abbas incontrerà il presidente USA Donald Trump.

La pressione su Gaza non è casuale, né è slegata dagli sviluppi regionali ed internazionali. Durante un incontro degli ambasciatori palestinesi di tutto il mondo, l’11 aprile in Bahrein, Abbas ha affermato che intende intraprendere un’azione risoluta nei confronti della “pericolosa situazione” creata da Hamas a Gaza. Due giorni dopo ha ordinato i tagli ai salari, in seguito all’annuncio di inizio anno dell’Unione Europea che non avrebbe più finanziato i salari dei dipendenti dell’ANP a Gaza.

Inoltre, a gennaio, il Qatar ha reso noto che l’intervento di emergenza concesso per finanziare l’acquisto di elettricità da Israele per Gaza si sarebbe concluso entro tre mesi. Tale decisione non era inattesa, anche se la dirigenza di Hamas a Gaza era ancora convinta che il Qatar avrebbe continuato a finanziare i pagamenti per l’elettricità.

Allora Abbas ha annunciato che avrebbe finanziato l’acquisto di elettricità se Hamas avesse pagato le relative tasse – una condizione che Hamas non poteva accettare, perché avrebbe triplicato il prezzo dell’elettricità. Giovedì l’ANP ha detto ad Israele che non avrebbe più pagato per l’elettricità e ha chiesto che Israele smettesse di detrarre i pagamenti [per l’energia elettrica destinata a Gaza, ndt.] dalle tasse che raccoglie a nome dell’ANP.

L’ANP ha giustificato tutti questi passi con la cronica carenza di liquidità, ma gli analisti ritengono che Abbas stia cercando di ottenere uno dei due scopi, o forse entrambi: abbattere il governo di Hamas aggiungendo il proprio blocco a quelli imposti da Israele ed Egitto, oppure costringere Hamas ad accettare le richieste dell’ANP guidata da Fatah.

Il pretesto politico ufficiale per la punizione è stata la decisione di Hamas di creare un consiglio amministrativo per gestire i servizi pubblici a Gaza – in sostanza, una sorta di governo. Questo eluderebbe la decisione presa a giugno 2014 di stabilire un governo di unità palestinese finché non fosse possibile svolgere nuove elezioni parlamentari e presidenziali.

Salah Al Bardawil, un alto dirigente di Hamas a Gaza, ha replicato che Hamas avrebbe di buon grado sciolto il consiglio e consentito che il governo di unità governasse Gaza, compresi i valichi di frontiera, se l’ANP avesse trattato Gaza al pari della Cisgiordania. Benché Fatah sostenga che Hamas non le consente di governare correttamente Gaza, Hamas a0fferma che l’ANP compie sistematiche discriminazioni nei confronti di Gaza, il che rende necessario il consiglio am0ministrativo.

Ma questo dissidio non spiega l’improvviso cambio di politica dell’ANP, tre anni dopo la formazione del governo di unità.

Una spiegazione fornita da fonti palestinesi fa riferimento al “clima generale” contrario ad Hamas, sia a livello regionale che internazionale, soprattutto a Washington. Abbas, dicono, vuole portare una “dote” all’incontro con Trump la prossima settimana, dato che il presidente USA ha fatto della guerra al terrore un principio cardine della sua politica estera. Inoltre Egitto, Giordania, Arabia Saudita e Stati del Golfo condividono questo principio e tutti vedono in Abbas l’unico partner per qualunque eventuale processo diplomatico.

Se davvero Abbas sta punendo Hamas come parte di un‘iniziativa diplomatica, e non solo per ragioni interne, questo potrebbe aiutarlo a convincere Trump che lui sta veramente combattendo il terrorismo come chiede il primo ministro Benjamin Netanyahu e che Netanyahu sbaglia a sostenere di non avere un interlocutore palestinese per la pace. Dimostrare che Abbas sta sinceramente cercando di costringere Hamas ad accettare il governo di unità ed a riconoscerlo come il rappresentante di tutti i palestinesi, scardinerebbe l’ulteriore argomentazione di Netanyahu che Abbas non può essere un interlocutore perché non rappresenta Gaza.

Se Hamas rifiuta di cedere nonostante queste pesanti pressioni, Abbas potrebbe rafforzarle, forse arrivando a dichiarare Hamas una organizzazione terroristica. Ma questo sembra improbabile, dato che significherebbe un totale boicottaggio internazionale di Gaza, a cui ci si aspetta si uniscano anche Paesi come la Turchia e il Qatar.

A quanto pare Meshal ha deciso di rendere pubblico il nuovo statuto di Hamas lunedì, nella speranza che provocare una risonanza mediatica sul “cambiamento” nelle posizioni dell’organizzazione impedirebbe un accordo tra America, Palestina ed Israele per distruggere l’organizzazione. Il nuovo documento rifletterà in apparenza due cambiamenti principali: una rottura con la Fratellanza Musulmana e la disponibilità ad un compromesso diplomatico.

A differenza del vecchio statuto del 1988, il nuovo non fa menzione della Fratellanza Musulmana. Questa omissione è intesa a presentare Hamas come un’organizzazione esclusivamente palestinese piuttosto che basata su un’ideologia esterna panislamica. Ma soprattutto la mossa ha lo scopo di rabbonire l’Egitto, che sta ingaggiando una guerra a tutto campo contro la Fratellanza.

Il secondo fondamentale cambiamento è una clausola che recita: “Non vi sarà alcuna concessione di nessuna porzione della terra palestinese, indipendentemente dalla durata o dalle pressioni, nemmeno se l’occupazione continua. Hamas rifiuta ogni alternativa alla liberazione della Palestina nella sua interezza, dal fiume fino al mare”, intendendo il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Così prosegue: “La creazione di uno Stato palestinese indipendente con capitale Gerusalemme, sulla base dei confini del 4 giugno 1967, ed il ritorno dei rifugiati palestinesi alle case da cui sono stati cacciati è il programma nazionale condiviso e consensuale, che non significa assolutamente riconoscere l’entità sionista, come non significa rinunciare ad alcun diritto dei palestinesi.”

Né Israele né gli Stati Uniti possono vedere in queste parole una concessione politica significativa, anche se riconosce i confini del 1967. Al massimo, la clausola indica che viene adottata la strategia che Fatah ha propugnato prima degli Accordi di Oslo del 1993: liberare tutta la Palestina, ma in diverse fasi.

Perciò neanche la creazione di uno Stato palestinese sulla base dei confini del 1967 metterebbe fine al conflitto con Hamas o al suo desiderio di liberare la Palestina “da Rosh Hanikra a nord a Umm al- Rashrash a sud, dal Fiume Giordano ad est al Mar Mediterraneo ad ovest”, come recita l’articolo 2 del nuovo statuto. Lo statuto inoltre sottolinea che la lotta e la resistenza armate sono la via per conseguire questo obbiettivo.

Tuttavia, Hamas può sperare che il riferimento ai confini del 1967 innescherà un dibattito pubblico sia nei territori palestinesi che in Israele. Potrebbe anche scalfire i tentativi di presentare l’organizzazione come contraria ad ogni iniziativa diplomatica, portare l’America a cancellarla dall’elenco delle organizzazioni terroriste e indebolire gli sforzi di Abbas di presentarsi come l’unico possibile partner per i negoziati. In questo contesto, vale la pena ricordare che nel 2008 Meshal espresse l’intenzione di accettare uno Stato palestinese entro i confini del 1967 senza riconoscere Israele.

La grande domanda è come reagirà a tutto questo il presidente americano. Abbas riuscirà a cancellare la sua immagine di “non partner” e quindi indurre Trump ad addossare a Netanyahu parte delle colpe per lo stallo diplomatico? Trump riuscirà a formulare una nuova politica degli Stati Uniti per raggiungere una soluzione diplomatica dopo l’incontro con Abbas, avendo già ascoltato i punti di vista del presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sissi, del re di Giordania Abdullah e del re dell’Arabia Saudita Salman? E metterà Hamas nella stessa lista di Hezbollah, dello Stato Islamico e dell’Iran, oppure lo considererà parte imprescindibile di ogni soluzione?

Finché Trump non deciderà, la politica punitiva di Abbas verso Gaza lascerà Israele sull’orlo di un’esplosione. Nessuna delle opzioni israeliane per disinnescare la bomba di Gaza è gradevole.

Potrebbe pagare lui stesso per l’elettricità di Gaza, chiedere alla Turchia di aumentare i suoi aiuti o convincere il Qatar a rinviare il taglio dei suoi finanziamenti. Ma ciascuna di queste opzioni apparirebbe come un aiuto di Israele ad Hamas, non come un tentativo di salvare i residenti di Gaza dalla crisi economica ed umanitaria. D’altro lato, non fare niente potrebbe accelerare l’esplosione di Gaza, da cui alti ufficiali dell’esercito hanno di recente messo in guardia, e porre Israele di fronte ad un altro ciclo di violenze.

In entrambi i casi, ancora una volta risulta chiaro che l’indifferenza di Israele per le crisi politiche ed economiche della Palestina è una minaccia strategica alla sua stessa sicurezza e al suo prestigio internazionale.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Decine di palestinesi feriti durante scontri scoppiati nel “Giorno della Collera” in tutta la Cisgiordania occupata

28 aprile 2017 Maan News

Betlemme (Ma’an) – Venerdì in tutta la Cisgiordania occupata sono scoppiati scontri ancora in corso, con molti palestinesi feriti, in quello che i palestinesi hanno chiamato il “Giorno della Collera” – inizialmente indetto dal movimento Fatah – in appoggio ai prigionieri palestinesi in sciopero della fame che venerdì è entrato nel 12 giorno di sciopero di massa.

Le forze israeliane hanno sparato in modo massiccio lacrimogeni, pallottole ricoperte di gomma e pallottole mortali durante gli scontri, che sono scoppiati dopo le preghiere del venerdì in città, villaggi e campi di rifugiati di molti distretti della Cisgiordania.

L’esercito israeliano ha detto a Ma’an che circa 2.000 palestinesi hanno partecipato a “violenti disordini in varie località durante il giorno”, aggiungendo che le forze israeliane hanno risposto ai “disordini” con “mezzi di controllo della folla”.

Distretto di Ramallah

Parecchi giovani palestinesi sono rimasti feriti mentre decine di altri hanno riportato le gravi conseguenze per l’inalazione di gas lacrimogeni durante scontri nei distretti di Ramallah e al- BIreh.

Nel villaggio di Nabi Saleh, a nord-ovest di Ramallah, si è tenuta una marcia in solidarietà con i palestinesi in sciopero della fame. Le forze israeliane hanno aperto il fuoco ed hanno sparato granate lacrimogene contro i manifestanti, ferendo tre palestinesi.

Abitanti di Nabi Saleh hanno raccontato a Ma’an che le forze israeliane hanno sparato contro i manifestanti proiettili “tutu”, che in precedenza erano vietati e che esplodono una volta entrati in contatto con il corpo.

Fonti della Mezzaluna Rossa palestinese hanno affermato che un giovane è stato ferito alla testa da un lacrimogeno mentre altri due sono stati feriti alla gambe da proiettili “tutu”.

Identità e condizioni dei feriti palestinesi rimangono ignoti.

Un portavoce dell’esercito israeliano ha detto a Ma’an che indagheranno sull’uso di munizioni “tutu”.

Nel contempo decine di palestinesi hanno sofferto in conseguenza dell’inalazione di gas lacrimogeni durante gli scontri scoppiati tra giovani palestinesi e soldati israeliani nei pressi della prigione di Ofer e all’ingresso nord di Silwad, rispettivamente a ovest e a est di Ramallah. Testimoni affermano che tre palestinesi sono rimasti feriti da proiettili rivestiti di gomma.

A Silwad un palestinese è stato ferito alle gambe da un proiettile vero, mentre decine di altri hanno patito le conseguenze dell’inalazione di gas lacrimogeno, quando le forze israeliane, dopo violenti scontri scoppiati nella zona, hanno sparato proiettili letali, ricoperti di gomma, bombe assordanti e lacrimogeni.

Nel villaggio di Sinjil, a nord di Ramallah, giovani palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli dei coloni israeliani che transitavano sulla strada principale nei pressi del villaggio, provocando danni ai veicoli, mentre soldati israeliani hanno chiuso tutte le strade attorno al villaggio che lo collegano ai distretti di Nablus e Ramallah.

Secondo testimonianze, al checkpoint di Qalandiya, che collega Ramallah alla Gerusalemme est occupata, le forze israeliane hanno disperso un corteo di solidarietà con proiettili veri e ricoperti di gomma, lasciando quattro feriti da schegge di proiettili veri e due da proiettili di acciaio rivestiti di gomma.

Invece un comunicato della Mezzaluna Rossa palestinese afferma che due palestinesi sono stati feriti da schegge di proiettili, mentre uno è stato ferito da una pallottola ricoperta di gomma.

II soldati israeliani hanno anche sparato granate lacrimogene e stordenti contro giovani, mentre le forze di sicurezza hanno chiuso il checkpoint ed impedito a passanti e veicoli di attraversarlo.

Nel villaggio di Bilin la loro manifestazione settimanale è iniziata dal villaggio e si è diretta verso il muro di separazione israeliano, con la partecipazione di palestinesi ed attivisti stranieri.

I manifestanti esibivano foto di palestinesi incarcerati in Israele e gridavano slogan nazionalisti, chiedendo l’unità nazionale, la fine dell’occupazione e il rilascio di tutti i prigionieri palestinesi dalle prigioni israeliane.

I dimostranti palestinesi hanno lanciato pietre contro le forze israeliane durante la marcia e dato fuoco a pneumatici al cancello del muro di separazione.

Distretto di Nablus

Sono scoppiati scontri all’incrocio di Beita a sud della città di Nablus, nel nord della Cisgiordania, dopo le preghiere del venerdì in cui centinaia di fedeli palestinesi hanno preso posizione in solidarietà con i prigionieri in sciopero della fame.

Le forze israeliane hanno sparato contro i palestinesi

decine di lacrimogeni e di proiettili ricoperti di gomma, mentre i giovani lanciavano sassi contro le forze armate.

Secondo testimoni più di dieci palestinesi hanno sofferto per l’inalazione di gas lacrimogeno mentre un giovane è rimasto ferito da un proiettile di gomma.

Tra quanti hanno sofferto per l’inalazione di gas lacrimogeno c’era il padre di tre detenuti, Hajj Ihsan Adili Abu Waddah. Il segretario del movimento Fatah di Nablus Jihad Ramadan è rimasto ferito da una granata stordente a una gamba.

La Mezzaluna Rossa palestinese ha detto in un comunicato che venti palestinesi hanno sofferto per l’inalazione di gas lacrimogeno.

Nella città di al-Naqura dopo le preghiere del venerdì sono scoppiati scontri, e fonti mediche hanno raccontato a Ma’an di vari palestinesi che hanno sofferto per l’inalazione di gas lacrimogeno.

Parecchi alberi nel villaggio hanno preso fuoco in seguito al lancio di bombe lacrimogene e granate assordanti sparate dai soldati israeliani.

La Mezzaluna Rossa palestinese ha affermato in una dichiarazione che dieci palestinesi hanno subito le conseguenze dell’inalazione di gas lacrimogeno durante gli scontri.

Nel villaggio di Awarta, a sud di Nablus, decine di palestinesi hanno preso parte alle preghiere del venerdì nei pressi della base militare israeliana di Huwwara.

I soldati israeliani hanno sparato decine di lacrimogeni contro i palestinesi che seguivano la preghiera. Non si sono registrati feriti.

Secondo la Mezzaluna Rossa palestinese, nella zona New Askar di Nablus, nei pressi del campo di rifugiati di Askar, un palestinese ha risentito delle conseguenze dell’inalazione di gas durante gli scontri.

Distretto di Hebron

Le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro un sit-in di solidarietà nel campo di rifugiati di al-Arrub, nella parte nord di Hebron, provocando scontri scoppiati tra gli abitanti e le forze armate.

Testimoni hanno detto a Ma’an che i soldati israeliani hanno fatto un’incursione nel centro del campo, con giovani palestinesi che lanciavano pietre contro i soldati israeliani che hanno sparato gas lacrimogeni, causando parecchi intossicati.

Secondo la Mezzaluna Rossa palestinese, nel villaggio di Beit Ummar a nord di Hebron soldati israeliani hanno ferito due palestinesi con proiettili veri e un altro con pallottole ricoperte di gomma dopo scontri scoppiati durante una marcia di solidarietà nel villaggio. Anche cinque palestinesi sono stati intossicati dall’inalazione di gas lacrimogeno.

Invece testimoni hanno affermato che sei palestinesi sono stati feriti da proiettili ricoperti di gomma, uno ferito al petto dalle schegge di una pallottola letale e due da proiettili “tutu” alle gambe e sono stati trasferiti all’ospedale pubblico di Hebron.

La marcia di solidarietà è iniziata nel villaggio dopo le preghiere del venerdì e si è diretta all’ingresso del villaggio, dove si erano dislocate le forze israeliane.

Secondo testimoni, i soldati israeliani hanno occupato il tetto di dieci case palestinesi nel villaggio e le hanno trasformate in posti militari provvisori, dove, affermano i testimoni, i soldati hanno sparato proiettili “tutu”, pallottole di gomma e proiettili veri contro i palestinesi.

Secondo testimonianze, le forze israeliane hanno anche spruzzato acqua puzzolente contro i palestinesi prima di ritirarsi dal villaggio due ore dopo che erano scoppiati gli scontri.

Nel contempo, secondo testimoni, truppe israeliane travestite da civili palestinesi hanno arrestato cinque palestinesi aggredendoli nei pressi dell’ospedale pubblico di Hebron durante scontri scoppiati nella zona attorno all’ospedale.

Testimoni hanno detto a Ma’an che sono scoppiati scontri dalla zona di Bar al-Zawiya ed hanno raggiunto l’area dell’ospedale di Hebron.

Hanno aggiunto che  soldati israeliani hanno anche sparato bombe stordenti verso l’ospedale, mandando in frantumi la porta d’ingresso di vetro del pronto soccorso.

Distretto di Qalqiliya

A sud della città di Qalqiliya, situata nel nord della Cisgiordania, sono scoppiati scontri nei pressi di un checkpoint dell’esercito israeliano.

La Mezzaluna Rossa palestinese ha riferito che due palestinesi sono rimasti intossicati dalle inalazioni di gas lacrimogeno nei pressi del checkpoint.

Anche nel villaggio di Kafr Qaddum, nella zona di Qalqiliya, sono scoppiati scontri tra forze israeliane e palestinesi del posto.

Secondo la Mezzaluna Rossa palestinese, nel villaggio due palestinesi sono stati feriti da proiettili di gomma sparati dalle forze israeliane. 

Distretto di Salfit

In un comunicato il ministero della Salute palestinese ha affermato che all’ospedale di Salfit sono arrivati tre palestinesi, uno dei quali ferito con un proiettile vero a un ginocchio, un altro al piede sempre da un proiettile vero, mentre un altro palestinese colpito da un lacrimogeno alla testa si troverebbe in condizioni stazionarie.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Dietro allo sciopero della fame dei palestinesi ci sono inenarrabili vicende di sofferenza

Drssa Inas Abbad

Giovedì 27 aprile 2017 Middle East Eye

L’ inedita iniziativa non è solo un tentativo di migliorare le condizioni di detenzione, ma anche un appello a favore dei più elementari diritti umani e delle condizioni di detenzione nelle prigioni israeliane.

La reazione israeliana allo sciopero della fame dei prigionieri palestinesi iniziato il 17 aprile è stata senza precedenti.

Lo sciopero della fame, che coinvolge più di 1.500 prigionieri palestinesi, intende evidenziare l’iniquità delle pratiche penitenziarie di Israele e chiedere un miglior trattamento dei detenuti, ma è stato accolto con richieste di condanne a morte dei prigionieri che vi partecipano.

Le reazioni hanno oltrepassato la pericolosità e il razzismo, compresi i commenti fatti dal membro della Knesset [il parlamento israeliano, net.] Oren Hazan, che ha affermato: “Non c’è nessuno problema, neppure se tutti i prigionieri dovessero morire in seguito allo sciopero. Dopotutto le prigioni sono sovrappopolate mentre sulla terra c’è posto per tutti i loro cadaveri.”

Ci sono anche state le dichiarazioni fatte dal ministro della Difesa Avigdor Lieberman che, oltre a chiedere la loro condanna a morte, ha detto che i prigionieri che vi partecipano dovrebbero essere lasciati morire di fame.

In altri commenti i detenuti sono stati descritti come insetti velenosi che dovrebbero essere sterminati con il gas e per i quali dovrebbero essere istituiti campi di sterminio.

Quattro giorni dopo l’inizio dello sciopero, coloni israeliani hanno organizzato grigliate nei pressi della prigione di Ofer per provocare i detenuti, che a quel punto erano arrivati senza cibo o bevande per il tempo corrispondente a 12 pasti.

Solidarietà araba

Lo sciopero della fame è iniziato con la speranza di conquistare col tempo la solidarietà di tutte le fazioni palestinesi e delle forze nazionali e popolari.

Speravamo anche che, poco dopo, si sarebbe trasformato in un movimento di solidarietà araba, forse anche internazionale, con la causa dei prigionieri e con le loro richieste, esercitando pressione su Israele e obbligandolo ad accogliere le richieste legittime e relative ai diritti umani dei detenuti.

Scioperi della fame di massa possono avere un impatto molto maggiore di quelli di singoli individui. Inoltre non sono meno pericolosi e difficili se proseguono per troppo tempo, proprio come gli scioperi individuali.

Dopo circa una settimana di sciopero della fame, il corpo di un detenuto inizia a debilitarsi dopo che il suo peso si è ridotto di almeno cinque chili. Non bisogna dimenticarlo: nell’attuale sciopero tra i partecipanti vi sono minorenni, donne, anziani e malati.

I prigionieri in sciopero della fame soffrono più per i dolori che per la fame: mal di testa, dolori alle articolazioni, tremito e immobilità sono solo alcuni dei sintomi. La maggior parte degli scioperanti soffre di molti altri disturbi, come osteomalacia [fragilità ossea che provoca dolori muscolari, ndt.], cancro, reumatismi, difficoltà respiratorie, asma e altri disturbi che sono la conseguenza delle dure condizioni detentive, comprese torture e malnutrizione. In questi casi questi prigionieri necessitano di speciali trattamenti medici che vengono loro regolarmente negati.

In base ai rapporti pubblicati dal “Club dei Prigionieri Politici”, dal Dipartimento per gli Affari e la Libertà dei Prigionieri Politici e dall’Ufficio Statistico Centrale palestinese, ci sono 5.600 prigionieri politici nelle carceri israeliane, comprese 57 donne di cui 13 minorenni. Dopo 15 anni di prigione, il 16 aprile 2017 la detenuta con la più lunga carcerazione, Lina al-Jarbouni, è stata rilasciata dalle autorità israeliane.

E’ importante sapere che ci sono ancora 200 palestinesi che sono in prigione da prima della firma dell’accordo di pace israelo-palestinese (gli accordi di Oslo) nel 1993.

Alcuni dei detenuti sono stati in carcere più a lungo di qualunque altro prigioniero al mondo. Sono: Karim Younis e Maher Younis, detenuti dal gennaio 1984, così come Nael al-Barghouthi, che ha scontato 36 anni di carcere, 34 dei quali ininterrotti. E’ stato riarrestato nel 2014 poco dopo il suo rilascio. E’ stato uno dei prigionieri liberati come parte dell’accordo di scambio di prigionieri per il soldato israeliano GIlad Shalit.

Trattamento inumano

Lo sciopero della fame dei prigionieri politici non dovrebbe essere visto come un tentativo di migliorare le condizioni carcerarie. Non è affatto vero che i prigionieri vogliono solo avere migliori condizioni, come se accettassero di rimanere incarcerati così a lungo se queste condizioni rispettassero gli standard del XXI° secolo.

Di fatto, i prigionieri politici ricevono i trattamenti più inumani. Nelle prigioni delloccupazione sono ora presenti circa 500 detenuti politici che non sono mai stati imputati di niente. Sono attualmente trattenuti per un tempo che va dai tre ai sei mesi che sono sempre rinnovabili, ma alcuni sono detenuti da anni senza nessuna imputazione.

Ai prigionieri politici vengono in genere negate cure e regolari esami medici. In conseguenza di una tale negligenza, 13 persone – che sono considerate “martiri”- sono state vinte dalla malattia e sono morte in carcere. Ce ne sono altre oggi con urgente necessità di cure che sono state loro negate per anni.

Ai parenti sono state negate anche seconde visite della Croce Rossa. Le visite dei familiari attraverso la Croce Rossa sono state ridotte a una ogni quattro settimane. Tuttavia da quando è iniziato lo sciopero della fame, persino agli avvocati è stato vietato visitare i detenuti politici, a cui erano già state negate tutte le visite dei familiari come misura arbitraria presa contro di loro per lo sciopero della fame.

Molti detenuti politici sono stati posti in isolamento nelle prigioni di Al-Jalamah e Ilan nella regione di Beer Sheba e in altri luoghi. I loro beni personali sono stati requisiti, sono stati privati dei loro vestiti e hanno subito continui maltrattamenti nella forma di trasferimenti arbitrari tra una prigione e l’altra e di costanti perquisizioni nelle loro celle durante le quali sono stati percossi.

Alcuni di loro hanno perso uno o entrambi i genitori senza avere la possibilità di dare loro l’estremo saluto, come Mahmoud Abu Surur. Altri sono diventati padri mentre erano in carcere e non hanno potuto godere delle gioie della paternità, che è un diritto umano fondamentale, come Andan Muraghah e molti altri. Altri ancora non conoscono i loro nipoti, se non attraverso qualche fotografia che è consentito introdurre in prigione circa ogni mese.

Alcuni prigionieri sono confinati nelle celle del carcere e gli sono negate visite per molte settimane, forse anche mesi, come nel caso di Walid Maragah. Alcuni di quelli che provengono dalla Cisgiordania, come Nasir Abu Surur e Hasam Shahin e decine di altri, non possono ricevere visite perché alle famiglie viene negato il permesso di entrare in Israele, e quindi non possono andare a trovarli.

E a molti parenti le visite sono vietate perché si da il caso che essi stessi siano ex-detenuti politici. Agli ex-prigionieri politici spesso viene vietato visitare i loro figli o fratelli che sono incarcerati come detenuti politici.

Diritti umani fondamentali

I detenuti possono essere puniti negando loro l’accesso all’educazione e alla lettura. Solo di rado ad alcuni prigionieri è consentito continuare il loro percorso formativo durante la detenzione. Molti continuano queste attività di nascosto, il che implica molto tempo e molte sofferenze. Fanno uso di qualunque aiuto siano in grado di offrire le loro famiglie ed i loro compagni di detenzione, come nel caso di Marwan Barghouthi, Karm Younis, Walid Maraqah e Muhammad Abbad, che hanno titoli accademici che consentono loro di rendere questo servizio agli altri prigionieri.

E’ molto difficile far entrare libri, che i funzionari del carcere controllano attentamente e ne vietano molti. L’educazione dovrebbe essere un diritto umano garantito da ogni convenzione internazionale e dai diritti umani, ma non nelle prigioni di Israele.

I telefoni sono proibiti. Anche i messaggi scritti sono limitati e attentamente controllati. A volte prima di essere consegnati i messaggi tardano molte settimane, anche mesi. Alcuni non raggiungono mai i loro destinatari.

E alcuni dei detenuti politici in carcere da più tempo non sanno niente delle reti sociali, di internet e dei computer. Non hanno mai sentito parlare degli smartphone. Ad altri è stato rifiutato di telefonare ai propri genitori in punto di morte.

Questo è stato il caso di Muhammad, che ha perso suo padre, il professor Abd Al-Rahman Abbad. Il 25 maggio 2015 sua madre, al ritorno dalla visita in carcere, ha scoperto che il marito, da anni malato di cancro, era deceduto. La sua malattia gli ha impedito di fare visita a suo figlio per molti mesi prima della morte.

Richieste legittime

Di conseguenza, possiamo notare che le richieste dei prigionieri politici in sciopero della fame sono legittime e rispondenti ai diritti umani. Non sosterremo mai che le loro richieste legittimino la loro detenzione o che implichino che accettano la loro pluriennale incarcerazione.

Alcuni di loro sono già stati in carcere per più di metà della loro vita, come nel caso di Muhammad Abbad, Karim Younis, Maher Younis, Nael Barghouthi, Nasir Abu Surur e Muhammad Abu Surur, e la lista potrebbe continuare.

La domanda è: lo sciopero continuerà finché sarà ripristinata la dignità? O Israele farà ricorso all’alimentazione forzata come fece nel 1980 con i detenuti in sciopero della fame nel campo di detenzione di Nafha, nel deserto?

La dottoressa Inas Abad è una ricercatrice in scienze politiche, docente ed attivista politica di Gerusalemme est. Suo fratello, negli ultimi 16 anni detenuto in una prigione israeliana, è uno dei dirigenti dello sciopero della fame.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La più giustificata protesta sociale in Israele

Gideon Levy, 23 aprile 2017 Haaretz

Gli oltre 1000 prigionieri palestinesi in sciopero della fame sono parte di una lotta nazionale per la libertà, qualcosa che dovrebbe apparire ammirevole persino agli israeliani.

La loro più giustificata protesta sociale non preoccupa nessuno. Viene condotta una spregevole campagna di incitamento contro di essa, orchestrata dal governo con la genuflessa collaborazione dei media asserviti. La più giustificata protesta sociale in Israele viene presentata come un pericolo ed una minaccia alla sicurezza.

La più giustificata, coraggiosa e profonda protesta sociale oggi in Israele è lo sciopero della fame di centinaia di prigionieri palestinesi, che domenica compirà una settimana. Magari ci fosse gente di coscienza che si unisse allo sciopero, o almeno manifestasse in suo sostegno. Invece abbiamo un giovane dell’Unione Nazionale (alleanza di partiti di destra e nazionalisti, ndtr.) che prepara il barbecue di fronte alle finestre della prigione di Ofer per dare tormento agli affamati.

E’ lo spregevole comportamento dell’ala sadica della destra. Ma nessuno ha nemmeno contestato quel disgustoso spettacolo.

La più giustificata protesta sociale in Israele non è assolutamente presentata come tale. Al contrario, tutti i partecipanti vengono dipinti come abominevoli assassini. Anche tutti i detenuti ebrei sono “abominevoli assassini”? Ma l’opinione pubblica in Israele non ama avere dubbi morali quando si tratta di palestinesi. Quindi i prigionieri politici vengono descritti come assassini e nessuno parla degli obbiettivi della loro lotta, che subisce una totale delegittimazione nel tritatutto della cronaca militare, dettata dal servizio di sicurezza dello Shin Bet.

Prendete in considerazione le spiegazioni che ci vengono messe in bocca: si tratta di una lotta interna tra palestinesi per favorire Marwan Barghouthi; si tratta di Barghouthi contro il presidente palestinese Mahmoud Abbas – tutte chiacchiere della propaganda dell’apparato di sicurezza, che hanno lo scopo di oscurare gli obbiettivi dello sciopero. E nessuno si chiede se sia possibile che l’obbiettivo di uno sciopero della fame di più di mille persone, con tutte le relative sofferenze, sia di favorire la carriera di un prigioniero che sta scontando quattro ergastoli? Si può prendere questo sul serio? Qualcuno sa anche lontanamente che cosa significa uno sciopero della fame? Non è possibile che queste coraggiose persone, disposte a sacrificare il loro benessere ed anche la loro vita, lo stiano facendo per delle buone ragioni?

Le loro ragioni sono incommensurabilmente giuste. Non vi è neppure una richiesta che sia estremista. Vogliono un trattamento un po’ più umano. Vogliono telefoni pubblici, come può avere anche il più infimo criminale ebreo, e vogliono aumentare le ore di visita dei loro familiari. Vogliono potersi fotografare ogni tanto insieme ai loro cari e ricevere un’adeguata assistenza medica. Coloro che dovranno trascorrere la maggior parte della vita in carcere vogliono poter studiare. Ed ovviamente vogliono che si ponga fine alla detenzione amministrativa. In breve, vogliono un po’ più di giustizia. Sono obbiettivi sociali, non politici.

Leggete la storia degli scioperi della fame. Quasi tutti sono stati giusti ed ammirevoli. A cominciare dagli scioperi della fame degli schiavi neri sulle navi britanniche nel diciottesimo secolo, fino al grande sciopero della fame dei prigionieri dell’IRA in Irlanda ed allo sciopero degli studenti cinesi a Tiananmen. Il Mahatma Gandhi, Andrej Sakharov, Abie Nathan (pacifista israeliano, ndt.). Eroi. Ed ora Marwan Barghouthi, del quale Yedioth Ahronoth (uno dei più diffusi quotidiani israeliani, ndtr.) scrive che incita il popolo. A che cosa specificamente lo incita? A portare libri in prigione? Ad installare telefoni pubblici?

Vi sono tra loro degli assassini – la minoranza, tra l’altro – ed anche loro hanno dei diritti. Alcuni sono in prigione a causa dell’attività politica. Alcuni non hanno avuto un processo. Altri sono stati incarcerati recentemente sulla base di presunte intenzioni. Tutti fanno parte della lotta nazionale per la libertà. Questo dovrebbe meritare ammirazione persino dagli israeliani. Hanno ricevuto pesanti condanne, senza alcuna proporzionalità, ed ovviamente senza giusto processo. Le condizioni della loro detenzione inoltre denunciano un vergognoso apartheid, se paragonate a quelle dei prigionieri ebrei.

Adesso stanno lottando per i propri diritti fondamentali. La loro lotta merita sostegno. La campagna contro di loro dovrebbe trovare opposizione. Gli obbiettivi del loro sciopero sono molto più giustificati degli incitamenti del Ministro della Pubblica Sicurezza Gilad Erdan e più morali della demagogia del leader di Yesh Atid (partito israeliano di centro, ndtr.), Yair Lapid.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Essere gay a Gaza: quattro testimonianze dalla Striscia

24 aprile 2017

In questi ultimi giorni di tensione politicamente satura di notizie sconvolgenti sulle persone LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer, intersessuali e asessuali) in paesi di maggioranza musulmana, e tra le mille preoccupazioni per i civili che si trovano tra l’incudine e il martello di potenze distruttive, uno dei pensieri sfugge verso chi nella sua diversità sessuale subisce tanto quanto il resto dei popoli più oppressi da anni a questa parte: i gay di Gaza.

Questa è la prima parte della traduzione di un articolo pubblicato a settembre dell’anno scorso su Dkhlak che racconta la quotidianità di molte persone, non soltanto a Gaza, attraverso testimonianze di uomini che non trovano modi per vivere liberamente il proprio orientamento sessuale. La seconda parte sarà pubblicata lunedì 1 maggio. L’autore dell’articolo ha deciso di non rivelarsi per paura delle conseguenze che possono minacciare la sua libertà, se non addirittura la sua vita.

L’omosessualità nella striscia di Gaza

L’obiettivo di questo articolo è fare luce sugli omosessuali palestinesi, una parte emarginata della comunità che vive nella Striscia di Gaza, raccontando le loro sofferenze, le loro esperienze e la loro battaglia in rapporto all’omofobia radicata in una società devota ipocritamente alla religione.

Sono centinaia quelli che vivono sotto un velo segreto che a malapena li protegge dalle minacce di morte, che li costringe a reprimere la loro vera identità e li obbliga a vivere nelle menzogne per garantirsi il diritto di sopravvivenza. Questo e tanto altro fa sì che chiunque, come me, voglia incontrarli e raccontarli, trovi la missione quasi impossibile da compiere. D’altronde, chi cerca di dar voce ai più deboli e supportarli non riconosce limiti al possibile e quindi raggiungerà i propri obiettivi.

Incontrarli e conoscerli

Un giorno, mentre sfogliavo alcuni siti arabi di cronaca e notizie internazionali, ho trovato un articolo che parlava di un forum online specializzato in incontri tra uomini omosessuali, creato da un ragazzo gay libanese. Questo nuovo social mi ha parecchio incuriosito, perché includeva utenti da tutto il mondo. Ho deciso di aprire un account per capire al meglio i suoi meccanismi.

Una delle opzioni era la ricerca degli utenti più vicini usando il GPS: mi ha sorpreso quante persone della mia città fossero iscritte, tutte da Gaza e di tutte le età. Ho chattato con molti cercando di capire come facevano a incontrarsi e dove, soprattutto perché se tu fossi eterosessuale e incontrassi una ragazza in segreto e venissi scoperto anche una sola volta basterebbe per rinchiuderti in prigione per anni.

Purtroppo per mancanza di testimonianze di sesso femminile non ho potuto scrivere l’articolo includendo anche le ragazze lesbiche di Gaza, anche perché su quel social ho trovato solo maschi.

L’incontro nel mondo virtuale

In questa parte dell’articolo vi riporterò alcune storie che mi sono state raccontate nelle chat private avute con dei ragazzi, vi illustrerò le loro vite, i loro rapporti familiari e le sfide che affrontano.

M.T. 29 anni

“Sono sposato e vivo con mia moglie e i miei 3 figlioli. Sono stato costretto a sposarmi a 20 anni perché fa parte delle nostre tradizioni e costumi in questa parte della Striscia. Non mi sono rifiutato semplicemente perché non volevo dichiararmi omosessuale in una famiglia molto religiosa… Penso che se avessi detto la verità sarei stato lapidato in una fossa di fronte alla moschea dai miei stessi fratelli.

“Ti racconto un episodio che non potrò mai dimenticare, uno tra i tanti dipinti di paure e minacce: quattro anni fa avevo una relazione con un uomo di cinquant’anni, di Gaza. Lo incontrai in Egitto durante un viaggio. Quando tornai nella Striscia, era difficile incontrarci e quindi passavamo molto tempo al telefono, ma dopo qualche tempo le spie di Hamas lo avevano scoperto e indotto a svelare il nostro rapporto.

“Mi convocarono per un interrogatorio, non mi chiamavano mai con il mio nome: ‘Vieni, pervertito!’, ‘Siediti, frocio!’, ‘Dio ti maledica, adultero, fai schifo’… Ammetto di aver subito violenze anche fisiche da parte delle forze dell’ordine, però l’unica mia preoccupazione era che non volevo che la mia famiglia e i miei amici sapessero di me: se mia moglie fosse venuta a saperlo? Avrei perso i miei figli, mi avrebbero allontanato da tutti i miei cari.

“Allora li pregai e mi inginocchiai chiedendo loro di non dire nulla a nessuno. L’interrogatorio finì con una multa di 1300 sicli [circa 330 euro; ndr] pagati alle autorità in cambio del silenzio. La somma era enorme rispetto a quello che guadagnavo, ma ero pronto a vendere parti del mio corpo pur di pagarli e pur di garantirmi il loro silenzio.

“Dopo quella volta e da quel giorno mi accontento delle amicizie virtuali tramite i social, principalmente per non sentirmi solo. Spero che un giorno le cose cambieranno, pur sapendo già che sono a metà della mia vita, ma non so se resisterò ancora nell’attesa di quel futuro”.

M.Q., 18 anni

La sua storia è stata per me la più difficile da digerire.

“Mio padre è un ingegnere informatico, mi controllava il computer attraverso programmi che installava di nascosto sul portatile. Due anni fa stavo scrivendo a un mio amico giordano non sapendo che mio padre leggesse tutti i messaggi, quando all’improvviso e senza dire una parola mio babbo mi ha picchiato, gridandomi ‘Mio figlio è gay? Non ti ho saputo educare!’. Ma non bastava. Mi portò da imam che praticavano l’esorcismo, sedute settimanali durante le quali venivo picchiato, frustato e torturato.

“Durò un anno e mezzo questa situazione. Credevo sempre di più che sarei morto presto, magari suicidandomi. Presi una manciata di pillole, le ingoiai, ma fui salvato da mia madre che mi sentì tossire mentre lottavo contro la morte.

“Il cuore di mio padre si addolcì e smise di portarmi alle sedute di esorcismo, però mi fece seguire da uno psichiatra per curarmi dall’omosessualità. Il medico mi dava varie medicine da assumere giornalmente, ma non fidandomi di lui ho cercato gli effetti dei medicinali prescritti: era un misto tra antidepressivi e alcune pillole per placare la libido fino a togliermela del tutto, o almeno questo è quello che credono i medici a Gaza.

“Mi viene da piangere. Non ho ancora raggiunto i vent’anni e già le mie sofferenze mi consumano la vita.

“Mi sono cancellato dai siti per un lungo periodo, fino a quando non ho comprato segretamente un tablet che ora mi permette di condividere i miei sentimenti con il mio amico giordano e di trovarmi nuovi amici come me senza rischiare di essere spiato da mio padre. Il mio sogno è di finire il liceo qui e continuare gli studi all’estero, dove potrò vivere la mia vera natura liberamente e senza paura”.

Aymen, 36 anni

“Cerco di proteggere la mia identità sessuale il più possibile, anche se quotidianamente i miei genitori cercano di convincermi a sposarmi con una donna qualsiasi per costruire un mio nucleo familiare, così loro potranno godersi i miei figli come già fanno con i nipoti dei miei parenti e fratelli. Non li biasimo, perché un nativo di Gaza non può rimanere single fino a quest’età: o è malato di mente o lo è fisicamente, e chi più ne ha più ne metta.

“Ma non posso… Non posso mentire a una ragazza e sposarla senza amarla. Il matrimonio non è un semplice contratto da firmare o una saltuaria relazione sessuale, come mi insegna la società e la religione: il matrimonio è serenità e scambio emotivo d’amore tra due persone e non riesco a trovare ciò se non con un uomo. Ogni giorno spero di poter abbandonare questo paese intellettualmente sterile, però non riesco a lasciare i miei genitori anziani e bisognosi di assistenza. A volte penso al suicidio, ma so che non è la soluzione.

“Sono musulmano e molto credente, tuttavia sprofondo nella depressione quando sento parlare gli imam di omosessualità e di come gli omosessuali dovrebbero essere lapidati e massacrati. Non credo che Allah sia come dicono: Egli è misericordioso, non giudica qualcuno per una caratteristica innata come l’orientamento sessuale. Sono stato creato così e continuo a sperare nella misericordia di Allah che ci ha fatti come siamo”.

S.H. 20 anni

Ho deciso di concludere questa prima serie di interviste con quest’ultima storia, raccontatami da un ragazzo che successivamente è diventato un caro amico.

“Ho scoperto la mia omosessualità da molto piccolo. Il mio modo effeminato di essere mi faceva riconoscere. Ho subito un forte bullismo dalla più tenera età, nonostante abbia cercato di cambiare.

“La mia vita a Gaza era letteralmente infernale, non potevo vestirmi come desideravo né incontrare persone gay come me. A scuola ero perseguitato dai bulli, che non erano soltanto studenti, ma anche alcuni insegnanti che facevano parte dell’organizzazione di Hamas: avevano la barba come segno di estremismo religioso ed erano duri nei loro trattamenti.

“Dopo che Hamas ha preso il controllo sulla Striscia, la maggior parte degli insegnanti ha lasciato il lavoro nelle scuole statali ed è stata sostituita da persone appartenenti all’organizzazione di stampo religioso. Infatti tra i primi cambiamenti adottati nelle scuole statali c’erano le lezioni di educazione fisica trasformate in addestramento militare. Mi ricordo ancora tutti i nomignoli dispregiativi che usava un poliziotto per chiamarmi al mio arrivo a scuola e durante l’addestramento…

“Ho resistito fino a che ho potuto e poi ho chiesto a mia madre di trasferirmi in una scuola privata, sapendo che il problema non sarebbe mai cessato di esistere, però almeno mi sarei allontanato dall’eccessivo bullismo.

“Finii il liceo con il massimo dei voti, guadagnandomi una borsa di studio negli Stati Uniti. Fin dal primo giorno che ho messo piede negli USA mi sento libero, mi vesto come voglio e non subisco più aggressioni e violenze. Sono fiero di essere omosessuale, sono out and proud. La cosa più importante che ho fatto qui finora è stata quella di dire la verità ai miei genitori: mio padre fa ancora molta fatica ad accettarmi, mentre mia madre mi ha espresso il suo supporto dicendomi che mi amerà comunque io sia”.

* * *

Concludendo, penso che la sofferenza dei gay palestinesi di Gaza sia la regola del giorno di tutti gli omosessuali nei paesi arabi, ma spero che l’alba della libertà sia vicina. Spero che cadano i nostri dittatori, così potremo finalmente vivere senza paura le nostre libertà. Se ciò non accadrà, continueremo ad abbandonare i nostri paesi, lasciandoli nelle mani sporche di questi governi che scelgono solamente guerre e isolamento, per dirigerci verso il mondo occidentale che sarà sicuramente più misericordioso di noi.

 

autore anonimo per Dkhlak
introduzione e traduzione di Lyas
©2017 Il Grande Colibrì




L’asino del Messia indossa il fascismo

Nota redazionale: su Haaretz è comparso il seguente articolo che riteniamo interessante pubblicare in quanto, nell’imminenza delle celebrazioni del 25 aprile si sono rinfocolate, soprattutto a Roma, le polemiche sulla presenza della Brigata Ebraica, con tanto di bandiere israeliane, e su quella delle organizzazioni che solidarizzano con la causa palestinese. L’autore dell’articolo mette in guardia sui rischi di deriva fascista del sistema politico israeliano. Anche se riteniamo che queste tendenze siano implicitamente presenti nell’ideologia sionista e non solo nelle sue espressioni più estremiste, ci pare che questa denuncia sia significativa e sollevi ulteriori dubbi sulla democrazia israeliana.

Shaul Arieli – 22 aprile 2017,Haaretz

Nel 1995 Umberto Eco delineò 14 caratteristiche di quello che chiamò il “fascismo perenne”. Un esame delle affermazioni da parte di politici israeliani suggerisce che nello Stato ebraico la democrazia potrebbe essere in pericolo

Il tentativo di far arrivare il Messia “attraverso l’intervento dell’ uomo” – per esempio di membri del partito di destra Habayit Hayehudi [“Casa Ebraica”, partito di estrema destra dei coloni attualmente al governo, ndt.] e dei loro colleghi del Likud [partito di destra al governo con la maggioranza relativa in parlamento, ndt.] – sta forse permeando Israele con caratteristiche del fascismo come le ha definite Umberto Eco nel suo celebre articolo “Ur-fascismo” nella “New York Review of Books” nel giugno del 1995?

Il semiologo e scrittore italiano, deceduto l’anno scorso, scrisse che il fascismo perenne (“Ur-Fascismo”) è presente ovunque, costantemente. A volte indossa abiti civili e può tornare nelle fogge più innocenti. Nell’articolo, che scrisse in occasione del 50esimo anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale – che più di ogni altra cosa simbolizzò la vittoria dello spirito umano sui regimi delle tenebre -, Eco affermò che è nostro dovere denunciare il fascismo e mettere in rilievo ogni sua nuova manifestazione ogni giorno, in qualunque parte del mondo.

Egli scrisse che le caratteristiche del fascismo elencate nel suo articolo non possono essere organizzate in un sistema – alcune si contraddicono a vicenda, mentre altre caratterizzano altre forme di dispotismo e fanatismo. Tuttavia, la presenza di una sola di queste caratteristiche è sufficiente per consentire al fascismo di coagularsi attorno ad essa.

Certo, il Messia non sta per arrivare – ma forse il suo asino [“asino del Messia” è il termine con cui i sionisti religiosi seguaci del rabbino Kook indicano i sionisti laici, che hanno iniziato il lavoro che permetterà di accelerare il ritorno del Messia, ndt.] sta indossando gli abiti del fascismo. Il Messia non sembra condividere la convinzione dell’ “Inizio della Redenzione” enunciato dal seguaci del rabbino Kook, che vedono nella fondazione dello Stato [di Israele], le sue vittorie militari e l’impresa di colonizzazione come segni che Egli arriverà nei nostri tempi per costruire il Terzo Tempio e ristabilire il Regno di David.

Ho scelto di presentare una selezione di affermazioni fatte da politici israeliani – per lo più sulle reti sociali – insieme a sette delle caratteristiche che Eco propone, per verificare se Israele sta andando verso un regime fascista, o se non si tratta di nient’altro che della schiuma delle onde, che scomparirà quando le acque si infrangeranno sulle spiagge della forte democrazia israeliana.

Culto della tradizione

Un “culto della tradizione”, basato sull’assunto che la verità (divina) ci è già stata data e che tutto ciò che resta da fare è continuare ad interpretare il messaggio che abbiamo ricevuto, emerge nelle parole di tre membri della Knesset [il parlamento israeliano, ndt]. La ministra dello Sport e della Cultura Miri Regev ha concluso il suo discorso alla Knesset per celebrare il “Giorno della Bibbia” nel luglio 2015 affermando: “E’ già stato detto molte volte che la Bibbia non è solo una vicenda storica… ma anche un libro che ha sempre conservato una dimensione attuale.” La parlamentare del Likud ha aggiunto: “Le risposte che si trovano nelle sue pagine, come le domande formulate nei suoi versetti, la collocano come una costante, eterna guida spirituale e pratica che ci guida in ogni tempo.”

Il secondo deputato, Moti Yogev (di “Casa Ebraica”), ha espresso più di chiunque altro la filosofia del suo partito. Lo ha fatto esplicitamente e senza infingimenti, che è quello che fa il segretario del suo partito (e ministro dell’Educazione) Naftali Bennett. Nell’agosto 2015 Yogev ha scritto un post su Facebook, in cui condannava le azioni del capo di stato maggiore dell’esercito israeliano Gadi Eisenkot, affermando: “Il rabbinato militare mette in rapporto i soldati con la tradizione ebraica come le radici dell’albero che gli dà la forza di crescere e fiorire.” E il collega di partito di Yogev Nissan Slomiansky sta dedicando le sue energie a promuovere una legge della Knesset che accentuerebbe l’influenza delle leggi religiose ebraiche (halakha) sulla giurisprudenza contemporanea.

Il rifiuto della modernità

Questa forma di tradizionalismo contiene una caratteristica che Eco ha definito “il rifiuto della modernità”. I tradizionalisti percepiscono l’età moderna come l’inizio di un pericoloso processo che porta all’apostasia. Nell’agosto del 2015 Yogev ha pubblicato un post su Facebook in cui protestava contro l’apertura il sabato della multisala “Yes Planet” a Gerusalemme. “L’osservanza dello Shabbath [il sabato festivo ebraico, ndt.] è una questione che definisce il carattere della Nazione israeliana,” ha scritto, rammaricandosi del fatto che “Tel Aviv è ‘una città che non si ferma mai’ [slogan per promuovere il turismo a Tel Aviv, ndt.] e forse non sa neppure cosa significa perdere lo Shabbath.”

Nel settembre 2016, durante un evento in onore della “Tali Foundation” (che finanzia studi sull’eredità ebraica nelle scuole laiche), Bennett ha dichiarato: “Studiare l’ebraismo ed eccellere in questo è più importante per me che studiare matematica e scienze,” ed ha respinto le successive accuse a questa sua posizione.

L’anti-intellettualismo è sempre stato un sintomo di fascismo. La persecuzione di intellettuali liberali per il loro tradimento dei valori tradizionali è stata una linea-guida delle elite fasciste. La poetessa Lea Goldberg lo ha spiegato quando ha scritto che intellettuali ed artisti minacciano le dittature e le visioni del mondo che negano le libertà degli esseri umani, insegnando “all’umanità a dire ‘no’ con amara derisione quando i tempi lo richiedono.”

In un’intervista con il giornale Israel Hayom nel settembre 2015 Regev ha presentato i nuovi criteri per definire la cultura: “Anche chi non è mai andato a teatro o al cinema e non ha mai letto Haim Nahman Bialik [considerato il poeta nazionale di Israele, ndt.] può essere considerato una persona di cultura, ” ha dichiarato. “Può esserlo molto più di persone che fanno prendere aria alla propria pelliccia una volta al mese in qualche teatro.” Ma persino queste definizioni impallidiscono in confronto alle parole del deputato David Bitan (del Likud), che in marzo ha dichiarato: “L’ultima volta che ho letto un libro è stato 10 anni fa.”

Nel gennaio 2015 Ayelet Shaked (di “Casa Ebraica”, ed ora ministra della Giustizia) ha postato su Facebook: “Natan Zach appoggia il terrorismo diplomatico contro Israele,” in riferimento allo stimato poeta israeliano, ma si è affrettata a rimuovere il suo post. E in un post del luglio 2016, in risposta a un attacco su Facebook da parte del critico cinematografico e presentatore radiofonico Gidi Orsher, Regev ha promesso: “Sono gli ultimi spasmi della vecchia elite, e io non smetterò finché questa elite razzista non sarà privata delle sue risorse e posizioni di potere.”

Paura della differenza

Definire ogni opposizione come tradimento è un’altra caratteristica che contraddistingue il fascismo. Nell’ottobre 2016 Bitan ha chiesto la revoca della cittadinanza al capo dell’associazione per i diritti umani B’Tselem. Nel febbraio scorso il suo collega del Likud, il deputato Miki Zohar, ha scritto su Facebook: “Ogni volta che spunta un’organizzazione di estrema sinistra, essa si adopera per proclamare i propri principi ipocriti, presumibilmente per fare bella figura con il resto del mondo, anche al prezzo di danneggiare lo Stato di Israele e la sua sicurezza. Per cui una volta è B’Tselem, un’altra è “Breaking the Silence” [associazione di ex-militari che denuncia quanto avviene nei territori palestinesi occupati, ndt.], e nel caso di Amona (colonia evacuata), c’era Yesh Din (Volontari per i Diritti Umani). E’ importante notare che queste organizzazioni sono finanziate con milioni di dollari da elementi di ogni parte del mondo che sono ostili ad Israele.”

La deputata Tzipi Hotovely (del Likud, ora anche vice-ministro degli Esteri) ha scritto su Facebook nel settembre 2014: “Il rifiuto da parte di ufficiali dell’ “Unità 8200″ (in riferimento a riservisti dell’intelligence che si sono rifiutati di prestare servizio nei territori) è una cintura esplosiva sociale, e riflette la bancarotta morale del sistema educativo in cui sono cresciuti. Non sono degni di fare il servizio militare nell’esercito più morale del mondo [autodefinizione dell’esercito israeliano, ndt.].”

Al contempo nel settembre 2014 Shaked si è rammaricata che “l’Alta Corte di Giustizia abbia calpestato il potere legislativo,” dopo che la Corte ha respinto un emendamento a una legge riguardante i richiedenti asilo. E nell’agosto 2015 Yogev ha scritto su Facebook: ” Il giudice della Corte Suprema Uzi Vogelman, nella sua decisione odierna che ritarda la demolizione delle case di terroristi omicidi, si è messo dalla parte del nemico. Egli sta difendendo i diritti di assassini e quindi impedisce misure punitive e mette in pericolo vite umane.”

In un post su Facebook del 2015 Bennett ha chiesto agli israeliani di votare per “Casa Ebraica” sulla base del fatto che “nessun altro lotterà contro la tirannia legale dell’Alta Corte di Giustizia, che sta danneggiando mortalmente il nostro Stato.” E non ha esitato a fare campagna elettorale nel’esercito israeliano, scrivendo “Per il bene del popolo ebraico: prendete i vostri telefonini, convincete i soldati della vostra brigata!” Quindi ha inserito i duri commenti dei membri del suo partito riguardo la Corte Suprema.

Tutti questi gravi interventi indicano ignoranza e mancanza della minima comprensione dei rispettivi ruoli del potere legislativo e di quello giudiziario. La loro intenzione è di “etichettare” come traditori – delegittimare – tutti quelli che si oppongono allo spirito dell’attuale governo.

Appello ad una classe media frustrata

Ancora una volta in questo campo “Casa Ebraica” è all’avanguardia. Nel marzo 2015 Bennett ha dichiarato che “Habayit Hayehudi (cioè “Casa Ebraica”) è la casa sociale di Israele.” Nel contempo in un post su Facebook del settembre 2013 il deputato Eli Ben-Dahan ha spiegato che quando ha visitato il sud di Tel Aviv, “ho visto gli effetti di lasciare gli infiltrati (i richiedenti asilo africani) in Israele. Gli abitanti di Tel Aviv sud hanno vissuto a lungo nella paura. Dobbiamo modificare ciò, e sto lavorando per ripristinare lo spirito ebraico in quel luogo.”

Ognuno è educato per diventare un eroe

Il culto dell’eroe è direttamente legato al culto della morte – l’eroismo è la regola nel fascismo. Dichiarazioni che esprimono militarismo e sacrificio nell’interesse dello Stato hanno molti progenitori. Nel febbraio 2015 Bennett ha scritto un post rivolto al leader dell’opposizione, il deputato Isaac Herzog: “Il Sionismo religioso non va più in giro a testa bassa,” ha scritto. “Stiamo dritti in piedi. Siamo grandi e forti, influenzando e portando il nostro contributo, orgogliosi di quello che siamo. I cimiteri sono pieni di eroi, diplomati nei programmi di formazione militare, delle scuole rabbiniche militari e di Ezra e Bnei Akiva” – movimenti giovanili religiosi sionisti.

E nell’ottobre 2015 il presidente di “Israele Casa Nostra” [partito di estrema destra che rappresenta soprattutto gli immigrati russofoni, ndt.] Avigdor Lieberman (attualmente ministro della Difesa) ha scritto su Facebook: “Mi aspetto che alla fine della riunione di governo di questo pomeriggio ci siano chiare decisioni e linee guida: nessun terrorista maschio o femmina uscirà vivo da ogni attacco terroristico; si applicheranno leggi d’emergenza e verrà instaurato un governo militare se necessario, per sradicare il terrorismo. La sicurezza si ottiene con il pugno di ferro!”

La vita è una guerra permanente.

“Il fascismo non combatte per la vita, vive per la lotta.” Sembra essere la convinzione del primo ministro Benjamin Netanyahu, che, alludendo all’assassinio dell’ex-primo ministro Yitzhak Rabin, ha affermato nell’ottobre 2015 al Comitato della Knesset per gli Affari Esteri e la Difesa: “In questi giorni si parla di cosa sarebbe successo se questa o quella persona fosse rimasta [in vita]. E’ irrilevante…Mi viene chiesto se vivremo sempre con la spada – sì.”

In un post del febbraio 2014 Bennett ha promesso ai soldati che fanno il turno di guardia sotto la pioggia che prima o poi finirà, ma “un giorno sarete a casa con vostra moglie, i vostri bambini, al caldo, con una spessa coperta, e allora i futuri soldati faranno la guardia per voi.”

L’ossessione di un complotto

Alla radice della psicologia fascista c’è la convinzione ossessiva che le istituzioni internazionali stanno cospirando contro lo Stato, che è quindi sotto assedio. Di conseguenza, molti regimi fascisti sono caratterizzati dall’apparizione della xenofobia. Questo gli risulta molto utile. Netanyahu primeggia tra simili commenti nel suo sito web ufficiale: “Un abisso profondo ed ampio ci separa dai nostri nemici. Essi santificano la morte mentre noi santifichiamo la vita. Santificano la crudeltà, mentre noi santifichiamo la compassione” (luglio 2014). “Circonderemo tutto lo Stato di Israele con una recinzione e una barriera? La risposta è ‘sì’. Nel contesto in cui viviamo, ci dobbiamo difendere da belve selvagge” (2016).

Nel fascismo “gli individui come tali non hanno diritti, e il Popolo è concepito come una qualità, un’entità monolitica che esprime la Volontà Comune. Poiché non molti esseri umani possono avere una volontà comune, il Capo rivendica di essere il loro interprete.” Queste sono le parole del deputato Bezalel Smotrich (De “la Casa Ebraica”), in un articolo del 2011 intitolato “Noi meritiamo di più”, nella rivista dei coloni “Sheva”: “E’ opportuno che lo Stato investa maggiori risorse nell’educazione sionista religiosa,” prosegue. “Perché? Perché ai suoi figli è stato assegnato il compito di guidare il popolo ebraico.”

Quando si tratta di machismo e di oppressione delle minoranze sessuali, Smotrich è senza dubbio il campione. Nel febbraio 2015, in un seminario in una scuola superiore di Givatayim, ha affermato che gay e lesbiche sono “anormali”. E il suo collega Yogev ha parlato contro la comunità LGBT nel luglio 2013, dicendo a Channel 10 [catena televisiva israeliana, ndt.]: “E’ un fenomeno degno di pietà, non da incoraggiare…Non si tratta solo di un punto di vista dell’ Halakhà [norme religiose ebraiche, ndt.], ma anche una posizione morale che è corretto articolare.”

Un’altra caratteristica del fascismo, l’impoverimento del linguaggio, può essere riscontrata in molti dei succitati parlamentari, ma nessuno raggiunge i livelli così bassi del ministro della Cultura Regev. Tutti i testi fascisti utilizzano un vocabolario ristretto e la sintassi più elementare, limitando gli strumenti necessari per un pensiero critico e complesso. In un breve discorso di cinque minuti a un pubblico di studenti delle superiori nel 2012, Regev ha affermato che il deputato Stav Shaffir (dell'”Unione Sionista” [coalizione di centro tra Laburisti e Khadima, ndt.]) era un comunista; che l’ex segretaria del partito Laburista Shelly Yacimovich aveva votato per Hadash [partito di sinistra non sionista, ndt.]; ha dichiarato: “Gerusalemme nei secoli dei secoli…applaudite!”

Nel suo articolo Eco citò le parole del presidente USA Franklin D. Roosevelt del 4 novembre 1938, che sono significative per la democrazia israeliana oggi: “Mi avventuro a fare l’impegnativa affermazione che se la democrazia americana cessa di avanzare come una forza viva, che cerca giorno e notte di migliorare con mezzi pacifici la condizione dei nostri cittadini, nella nostra terra il fascismo si rafforzerà.”

Eco iniziò il suo articolo raccontando la sua fanciullezza nell’Italia di Mussolini, preda dell’ideologia fascista per più di 20 anni. Siamo proprio certi che ora, 50 anni dopo la guerra dei Sei Giorni, tutte quelle affermazioni da parte di esponenti israeliani eletti non siano altro che schiuma nell’acqua? La democrazia israeliana è così forte e solida come siamo soliti pensare?

(traduzione di Amedeo Rossi)




Come i palestinesi che fanno lo sciopero della fame contrastano il monopolio della violenza di Israele

Basil Farraj – 12 maggio 2016,Al-Shabaka

Nota redazionale: l’articolo che segue è stato pubblicato da Al-Shabaka nel maggio 2016. Tuttavia, trattandosi di un approfondimento sulla storia ed il contesto politico e penitenziario relativo allo sciopero della fame dei detenuti palestinesi si ritiene interessante proporlo ai lettori di Zeitun in occasione della protesta dei prigionieri politici palestinesi che hanno iniziato lo sciopero della fame in questi giorni.

Mentre sto scrivendo, tre prigionieri palestinesi stanno facendo lo sciopero della fame per protestare contro la loro incarcerazione senza imputazione, una pratica nascosta dal termine anodino “detenzione amministrativa”. Sami Janazra è al suo 69° giorno e la sua salute si è notevolmente deteriorata, Adeeb Mafarja è al suo 38° giorno e Fuad Assi al 36°. Questi detenuti sono tra gli almeno 700 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane che sono attualmente tenuti in detenzione amministrativa, una pratica che Israele utilizza usualmente in violazione dei rigidi parametri stabiliti dalle leggi internazionali.

I detenuti politici palestinesi hanno a lungo utilizzato gli scioperi della fame come forma di protesta in risposta alle violazioni dei loro diritti da parte delle autorità israeliane. L’associazione di solidarietà con i detenuti e per i diritti umani “Addameer” indica come inizio dell’uso dello sciopero della fame da parte di detenuti palestinesi il 1968. Da allora ci sono stati oltre 25 scioperi della fame di massa e collettivi con richieste che spaziano dalla fine del regime di isolamento e delle detenzioni amministrative fino al miglioramento delle condizioni di carcerazione e la concessione delle visite di familiari.

Poiché sempre più prigionieri palestinesi sono obbligati a ricorrere a lunghi scioperi della fame come forma estrema di protesta, infliggendo violenza ai propri corpi fino alla conquista dei propri diritti, vale la pena di ripercorrere l’uso di questo strumento politico in vari Paesi e nei secoli e di illustrare il modo in cui detenuti palestinesi lo stanno utilizzando per contrastare il monopolio israeliano della violenza all’interno delle mura delle prigioni.

Uso passato e presente degli scioperi della fame

Benché le origini esatte degli scioperi della fame – il rifiuto volontario di cibo e/o di liquidi – non siano ben note, ci sono esempi del loro utilizzo in vari periodi storici ed in vari luoghi. Il primo uso di scioperi della fame è indicato nell’Irlanda medievale, in cui una persona si sedeva sulla soglia di casa di un’altra che aveva commesso un’ingiustizia nei suoi confronti come un modo per stigmatizzarlo. Usi più recenti e meglio noti di scioperi della fame includono quelli delle suffragette britanniche nel 1909, del Mahatma Gandhi durante la rivolta contro il governo britannico in India, di Cesar Chavez durante la lotta per i diritti dei lavoratori agricoli negli Stati Uniti e dei prigionieri incarcerati dagli USA a Guantanamo.

C’è un gravissimo rischio di danni fisici irreversibili per il corpo durante uno sciopero della fame, compresa la perdita dell’udito, della vista e gravi emorragie. In effetti la morte è stata il risultato di molti scioperi della fame, come nel caso dello sciopero dei prigionieri repubblicani irlandesi nel 1981.

Le richieste di chi fa lo sciopero della fame variano, ma sono, in tutti i casi, un riflesso di più vasti problemi e di ingiustizie sociali, politiche ed economiche. Per esempio, la richiesta dello sciopero della fame dei prigionieri repubblicani irlandesi del 1981 del ripristino dello status di categoria speciale rifletteva il più complessivo contesto dei “disordini” nell’Irlanda del Nord.

Uno dei primi scioperi della fame dei palestinesi fu quello di sette giorni nella prigione di Askalan (Ashkelon) del 1970. Durante questo sciopero le richieste dei prigionieri erano scritte su un pacchetto di sigarette, in quanto era loro vietato di avere quaderni, e includevano il rifiuto di rivolgersi ai loro carcerieri chiamandoli “signore”. I prigionieri ottennero la loro richiesta e non dovettero più utilizzare il termine “signore”, ma solo dopo che morì Abdul-Qader Abu Al-Fahem in seguito all’alimentazione forzata, diventando li primo martire del movimento dei prigionieri palestinesi.

Scioperi della fame continuarono ad essere portati avanti nella prigione di Ashkelon durante gli anni ’70. Inoltre altri due prigionieri, Rasim Halawe e Ali Al-Ja’fari, morirono dopo essere stati alimentati forzatamente durante uno sciopero della fame nella prigione di Nafha nel 1980. In seguito a questi e ad altri scioperi della fame, i prigionieri palestinesi sono stati in grado di garantire alcuni miglioramenti delle loro condizioni di detenzione, compreso il permesso di avere fotografie della famiglia, carta per scrivere, libri e giornali.

Negli ultimi anni la fine delle detenzioni amministrative è stata una richiesta costante dei prigionieri palestinesi, dato l’incremento del loro uso da parte di Israele dallo scoppio della Seconda Intifada nel 2000. Per esempio, lo sciopero della fame di massa del 2000, che ha coinvolto 2.000 prigionieri, chiedeva di porre fine all’utilizzo delle detenzioni amministrative, all’isolamento e ad altre misure punitive, compreso il divieto di visite dei familiari per i prigionieri di Gaza. Lo sciopero terminò dopo che Israele accettò di limitare l’uso delle detenzioni amministrative.

Tuttavia presto Israele sconfessò l’accordo, portando ad un altro sciopero della fame di massa nel 2014 da parte di oltre 100 detenuti amministrativi che chiedevano la fine di quella pratica. Lo sciopero della fame terminò 63 giorni dopo senza aver posto fine alle detenzioni amministrative. La decisione dei prigionieri pare sia stata influenzata dalla scomparsa di tre coloni della Cisgiordania e dalle operazioni militari su grande scala di Israele in Cisgiordania (che fu seguita da un attacco massiccio contro Gaza).

In più ci sono stati una serie di scioperi della fame individuali, a volte in coincidenza o che hanno portato alla decisione di iniziare scioperi della fame più estesi. Infatti sia gli scioperi della fame del 2012 che del 2014 sono stati innescati da scioperi della fame individuali per chiedere la fine dell’uso delle detenzioni amministrative. Lo sciopero della fame individuale coinvolse Hana Shalabi, Khader Adnan, Thaer Halahleh e Bilal Diab, ognuno dei quali ottenne la fine della propria detenzione amministrativa. Tuttavia alcuni di loro furono nuovamente arrestati dopo il loro rilascio, come nel caso di Samer Issawi, Thaer Halahleh e Tareq Qa’adan, come anche di Khader Adnan, rilasciato dopo un prolungato sciopero della fame in protesta per il suo nuovo arresto nel 2015.

La violenza che Israele infligge ai prigionieri palestinesi

Israele continua ad assoggettare i detenuti palestinesi a molte forme di violenza, come è stato ben documentato da organizzazioni dei diritti umani e dei diritti dei prigionieri, così come nelle lettere dei detenuti e in molti documentari. In un rapporto del 2014 Addameer nota: “Ogni palestinese arrestato è stato sottoposto a qualche forma di tortura fisica o psicologica, a trattamento crudele comprese violente percosse, isolamento, aggressioni verbali e minacce di violenza sessuale.”

Inoltre, e in violazione della Quarta Convenzione di Ginevra e dello Statuto di Roma, Israele ha deportato detenuti palestinesi fuori dai territori occupati e in prigioni all’interno di Israele ed ha anche minacciato prigionieri della Cisgiordania di deportarli nella Striscia di Gaza se non avessero confessato. Nega o limita sistematicamente ed arbitrariamente le visite dei familiari. I detenuti sono soggetti deliberatamente a negligenza medica e ad abusi, così come a restrizioni nelle chiamate telefoniche, alla consultazione degli avvocati e alla disponibilità di libri e televisione.

Oltretutto le autorità israeliane classificano di prigionieri politici palestinesi come “detenuti per ragioni di sicurezza”, una definizione che rende legalmente possibile sottometterli automaticamente a molte restrizioni. Questa caratterizzazione nega ai prigionieri palestinesi alcuni dei diritti e dei privilegi di cui godono i detenuti ebrei – persino quei pochi che sono etichettati come prigionieri per ragioni di sicurezza – comprese visite a casa sotto sorveglianza, la possibilità di un rapido rilascio e la concessione di permessi.

La violenza a cui i prigionieri palestinesi sono sottoposti deve essere considerata all’interno del contesto del progetto coloniale di Israele e dell’assoggettamento dell’intera popolazione palestinese a differenti forme di violenza, compresi la perdita della terra, la distruzione delle case, l’espulsione e l’esilio. Vale la pena ricordare che da quando è iniziata l’occupazione israeliana nel 1967, Israele ha arrestato più di 800.000 palestinesi, circa il 20% della popolazione totale e il 40% della popolazione maschile. Questo solo fatto chiarisce quanto gli arresti e le detenzioni siano un meccanismo utilizzato da Israele per controllare la popolazione mentre la espropria, collocando ebrei israeliani al suo posto.

E’ all’interno di questa più ampia comprensione della violenza che gli scioperi della fame emergono come un modo in cui i prigionieri palestinesi sono in grado di opporsi alle varie forme di violenza dello Stato israeliano.

Usare il corpo dei detenuti per sovvertire il potere dello Stato

Attraverso gli scioperi della fame i prigionieri non rimangono più destinatari silenziosi della continua violenza delle autorità carcerarie: invece essi infliggono violenza ai loro stessi corpi per imporre le proprie richieste. In altre parole, gli scioperi della fame sono uno spazio fuori dalla portata del potere dello Stato israeliano. Il corpo dei prigionieri in sciopero sconvolge uno dei più fondamentali rapporti di violenza all’interno delle mura carcerarie, in cui lo Stato israeliano e le sue autorità carcerarie controllano ogni aspetto delle loro vite dietro le sbarre e sono gli unici ad infliggere la violenza. In effetti, i prigionieri ribaltano il rapporto tra oggetto e soggetto della violenza fondendoli entrambi in un solo corpo – il corpo del prigioniero in sciopero – e così facendo rivendicano un’azione. Affermano il proprio status di prigionieri politici, rifiutano di essere ridotti allo status di “prigionieri per ragioni di sicurezza” e reclamano i propri diritti e la propria esistenza.

Il fatto che lo Stato israeliano usi varie misure per porre fine agli scioperi della fame e per ristabilire il suo potere sui prigionieri e sull’uso della violenza dimostra la sfida che i corpi di chi fa lo sciopero della fame pone allo Stato israeliano. Tra le altre misure, le autorità carcerarie continuano a sottomettere i prigionieri in sciopero a violenze e torture. Infatti le violenze a cui sono soggetti i detenuti che fanno lo sciopero si intensificano e cambiano forma. Per esempio, durante lo sciopero della fame del 2014 ai prigionieri sono state negate cure mediche e visite dei familiari e sono stati incatenati mani e piedi ai letti d’ospedale per 24 ore al giorno. Sono rimasti ammanettati quando gli è stato permesso di andare in bagno, e le porte spalancate dei bagni hanno negato loro ogni diritto alla privacy. Le autorità israeliane hanno anche intenzionalmente lasciato del cibo vicino agli scioperanti per spezzare la loro volontà. L’ex scioperante Ayman Al-Sharawna ha affermato: “Hanno portato un tavolo con il cibo migliore e l’hanno messo vicino al mio letto..Lo Shin Bet [servizio segreto israeliano, ndt.] sapeva che mi piacciono i dolci. Portavano ogni genere di dolci.”

Israele ha recentemente dato una copertura giuridica all’alimentazione forzata dei prigionieri in sciopero attraverso la “Legge per evitare danni provocati dagli scioperi della fame”, che equivale a trattamenti crudeli, inumani e degradanti, secondo il relatore speciale dell’ONU sulla tortura. La legge è anche in contraddizione con la dichiarazione di Malta sugli scioperi della fame dell’Associazione Medica Mondiale.

Israele etichetta anche i prigionieri in sciopero come “terroristi” e “criminali” per compromettere la loro rivendicazione di azione politica e i loro tentativi di invertire l’oggetto ed il soggetto della violenza dello Stato. Durante lo sciopero della fame di massa del 2014 i funzionari israeliani hanno sostenuto che gli scioperanti erano “terroristi”. La ministra israeliana della Cultura e dello Sport Miri Regev, una dei sostenitori della recente legge, ha affermato: “I muri della prigione non significano che un’azione non sia terroristica (…) C’è terrorismo nelle strade e c’è terrorismo nelle prigioni.” Gilad Erdan, il Ministro israeliano della Sicurezza Pubblica, ha dichiarato che gli scioperi della fame sono un “nuovo tipo di attacco suicida”.

La fondamentale importanza dell’appoggio nazionale ed internazionale

Per il successo di ogni sciopero della fame è fondamentale la capacità degli scioperanti di mobilitare comunità, organizzazioni ed entità politiche in loro appoggio e di esercitare pressioni sulle autorità perché soddisfino le richieste degli scioperanti o negozino un accordo.

Attraverso gli scioperi della fame, i prigionieri palestinesi sono stati in grado di imporre le loro lotte a livello politico palestinese e spesso internazionale. Dato che in genere non ci sono alternative attraverso le quali i detenuti possono garantirsi la libertà o un cambiamento nelle politiche israeliane, l’importanza della mobilitazione di comunità ed organismi politici attorno ai diritti dei prigionieri non può essere sottovalutata.

Organizzazioni di base e dei diritti umani ed entità pubbliche sia all’interno che fuori dalla Palestina si sono mobilitate durante scioperi della fame dei prigionieri palestinesi. Le forme di sostegno hanno compreso raduni quotidiani, proteste fuori dagli uffici di organizzazioni internazionali, appelli al governo israeliano perché ascoltasse le richieste dei prigionieri e manifestazioni fuori da prigioni ed ospedali. Organizzazioni locali ed internazionali, comprese tra le altre “Addameer”, Jewish Voice for Peace, Amnesty International e Samidoun [rete di solidarietà con i detenuti palestinesi, ndt], hanno messo in luce le ingiustizie che devono affrontare i prigionieri palestinesi per unirsi alle pressioni sulle autorità israeliane affinché acconsentissero alle richieste dei prigionieri e negoziassero un accordo con loro.

Oltretutto, attraverso queste reti, la lotta degli scioperanti palestinesi e più in generale dei detenuti, si internazionalizza ponendosi in parallelo con le ingiustizie passate e presenti che devono affrontare popoli di tutto il mondo. In reportages e analisi sugli scioperi della fame dei palestinesi vengono continuamente fatti riferimenti, tra gli altri, alla difficile situazione dei prigionieri irlandesi durante i “disordini”, alle detenzioni di massa negli USA e alle condizioni a Guantanamo. In questo modo le lotte dei detenuti palestinesi diventano parte dei crescenti movimenti di solidarietà e delle campagne che chiedono giustizia per il popolo palestinese. Ciò contribuisce ad opporsi al fatto che Israele li etichetti come “criminali” e “terroristi” e al suo monopolio sull’argomento.

Come altre forme di resistenza dentro e fuori i muri delle prigioni, gli scioperi della fame sono azioni di resistenza attraverso cui i palestinesi affermano la propria esistenza politica e chiedono i propri diritti. E’ vitale sostenere e alimentare questa resistenza. Oltre a darle forza e appoggiare i prigionieri nella loro lotta per i diritti, questa forma di resistenza infonde continuamente e fortemente la speranza tra i palestinesi in generale e il movimento di solidarietà. E’ nostra responsabilità sia appoggiare i prigionieri palestinesi, sia lavorare perché venga il momento in cui i palestinesi non abbiano più bisogno di ricorrere a simili atti di resistenza attraverso cui la loro unica risorsa è mettere a rischio la propria vita.

Basil Farraj

Membro di Al-Shabaka, Basil Farraj ha ottenuto una laurea in Pace e Studi Globali presso l’ Earlham College, negli USA. E’ un ricercatore Thomas J. Watson che ha intrapreso un progetto indipendente sull’identità palestinese e le sue espressioni nella diaspora. Basil è membro di “Defence for Children International – assemblea generale della sezione palestinese” e consulente del progetto “Impollination”. Le sue aree di interesse includono la difesa dei diritti dei bambini, la teoria della pace e della giustizia e la costruzione di una efficace e critica solidarietà internazionale.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Lo sciopero della fame palestinese è rivolto oltre le carceri

Amira Hass – 19 aprile 2017, Haaretz

Lo sciopero della fame da parte dei detenuti palestinesi è un mezzo di liberazione dagli effetti distruttivi delle tante celle che esistono all’esterno.

Lo sciopero della fame dei detenuti palestinesi, iniziato e guidato da Marwan Barghouti, ha un potenziale sovversivo rigenerante e non necessariamente contro il servizio carcerario israeliano. Come dicono parecchi rappresentanti dei carcerati fuori dalle prigioni, non si tratta di uno sciopero conflittuale o ideologico. Si tratta di diritti umani fondamentali che spettano persino ai prigionieri, persino a quelli che sono membri dell’’altra nazione.

Fornire loro un telefono pubblico, e farla finita con le guardie carcerarie che fanno molti soldi con il contrabbando di cellulari. Permettere loro di incontrasi con le famiglie senza affrontare il continuo iter angoscioso per ottenere un permesso una volta l’anno. Prolungate le visite e vedrete quale impatto positivo avrà sulla situazione. Quello che stanno cercando di dire i detenuti al servizio carcerario ed all’opinione pubblica israeliani è che entrambe le parti hanno interesse che le prigioni conservino un certo livello di decenza.

L’effettivo livello di sovversione è interno. Si può osservare nello sciopero un tentativo di fare in modo che i palestinesi si scuotano di dosso il loro fatalismo e la loro passività alla luce della sempre più potente ostilità di Israele e di far uscire i loro litigiosi dirigenti dall’acquiescenza nei confronti dello status quo e dalla loro illusione di sovranità.

Non è una cosa da poco nell’era della privatizzazione. Cosa sono gli scioperi della fame dei singoli se non una privatizzazione della lotta? Cosa sono gli attacchi all’arma bianca, le minacce con un coltello e gli investimenti con le auto se non la privatizzazione di una rivolta (o utilizzarla per sfuggire a problemi e frustrazioni personali e familiari, e persino per morire)? Gli scioperi della fame individuali di detenuti amministrativi [cioè senza un’imputazione, ndt] sono stati un peso per le organizzazioni di appoggio ai prigionieri, ma questi gruppi sono stati travolti dalla preoccupazione naturale per il benessere dei detenuti, ed hanno investito negli scioperi moltissimo tempo e discussioni che non hanno portato da nessuna parte. L’uso troppo frequente di scioperi della fame individuali li ha completamente usurati come strumento di mobilitazione, di impatto o di cambiamento.

La carcerazione di palestinesi è una politica pianificata di Israele. Ma, oltre alle prigioni normali, Israele ha creato e continua a creare ogni genere di altri mezzi per tener prigionieri i palestinesi. Questa, in fin dei conti, è la descrizione sintetica del vero processo di Oslo, non quello riflesso nelle promesse altisonanti. Agglomerati ed ancora agglomerati di carceri in mezzo a noi, e tutti noi – ebrei israeliani – siamo i secondini. Quindi l’esperienza della carcerazione, che si tratti di una prigione formale o di altro genere, è condivisa da tutti i palestinesi.

Ma con la frammentazione dello spazio dei palestinesi – utilizzando collaudati trucchi colonialisti che Israele ha aggiornato e raffinato, e a cui ha aggiunto un sacco di faccia tosta – ha creato decine di meccanismi diversi di incarcerazione, di unità geo-sociali con diversi livelli di mancanza di libertà e asfissia. Il culmine è naturalmente Gaza, dove due milioni di persone stanno scontando l’ergastolo. Ma anche nelle altre parti del Paese (compreso il territorio sovrano di Israele), i muri in cui sono imprigionati i palestinesi variano: norme burocratiche che cambiano continuamente, crescente discriminazione, Area C, arroganza, coloni violenti, un divieto di passaggio attraverso il ponte di Allenby [tra la Cisgiordania e la Giordania, ndt], umiliazioni all’aeroporto Ben Gurion, ecc.

Questa frantumazione in dozzine di unità carcerarie ha creato diversi livelli di coscienza tra le persone imprigionate in ognuna di esse, a seconda del livello di soffocamento e detenzione. Quelli per i quali il livello di incarcerazione è minore (libertà di viaggiare all’estero ma non a Gerusalemme, solo metà della terra del villaggio è stata rubata, il filo spinato e la base militare si trovano a un chilometro dalla loro casa invece che a mezzo chilometro) hanno un’ esperienza diversa del secondino israeliano rispetto ad una donna che vive nel quartiere di Tel Rumeida a Hebron, che è tagliata fuori dal mondo a 300 metri da casa sua. I dirigenti ufficiali, guarda caso, hanno esperienza del minor grado di detenzione. Il grado di urgenza per cambiare la situazione è diverso da una prigione all’altra.

Lo sciopero della fame è un mezzo di liberazione dagli effetti distruttivi delle molteplici celle carcerarie che esistono fuori. La sua sfida è la costruzione di una collettività di prigionieri come un’entità che definisca il programma palestinese, un’entità che veda i palestinesi fuori dalle prigioni come una collettività smembrata e frammentata che deve essere riunificata.

(traduzione di Amedeo Rossi)