Alon Mizrahi
12 settembre 2017,+972
In occasione dei suoi 80 anni, Ruchama Marton, la fondatrice di “Physicians for Human Rights-Israel”, parla delle atrocità di cui è stata testimone quando era soldatessa, del duraturo potere del femminismo e perché solo un aiuto dall’esterno ha la possibilità di porre fine al dominio militare israeliano sui palestinesi.
Ruchama Marton viene dalla generazione che si potrebbe chiamare 1.5 degli attivisti israeliani contro l’occupazione. Era un po’ troppo giovane per partecipare al piccolo gruppo di avanguardia che fondò la rivoluzionaria organizzazione socialista Matzpen negli anni ’60, ma abbastanza grande da aver preso lezioni da una testa calda, il professor Yeshayahu Leibowitz [grande intellettuale e teologo ebreo israeliano, molto critico con gli esiti del sionismo, ndt.] a Gerusalemme. Là, mentre frequentava la facoltà di medicina, ha rivoluzionato la procedura di ammissione per le studentesse, che portò all’abolizione delle quote di ammissione. E quando scoprì che nella facoltà di medicina c’era un bando contro le donne in pantaloni, si ribellò anche contro di esso.
Marton ha fondato “Physicians for Human Rights-Israel” [“Medici per i Diritti Umani – Israele”] durante la Prima Intifada, portando il termine “diritti umani” nel discorso politico israeliano. Nata in Israele, dove ha passato tutta la sua vita, è stata per più di 40 anni una psichiatra impegnata. Il suo rapporto con questo posto è complicato e doloroso, quasi impossibile.
Marton non modera le sue parole quando si tratta delle organizzazioni di sinistra e per la pace, che vede come una specie di “società umanitaria”, attribuendo scarsa importanza ad un attivismo che non faccia i conti direttamente con la violazione dei diritti umani, il cui nucleo centrale sono i diritti politici.
Per tutta la sua vita si è indignata per l’ingiustizia e la segregazione. Tra la lotta contro lo sciovinismo, il patriarcato e quella di tutta una vita contro l’occupazione, rifiuta di rimanere in silenzio.
Ho incontrato Marton per un’intervista nella sua casa di Tel Aviv in occasione dei suoi 80 anni. Avevo previsto che non mi sarebbe stato facile. Avevo ragione.
Come psichiatra con anni di esperienza voglio iniziare con quella che ritengo una grande domanda. Perché siamo così ossessivamente legati alla disumanizzazione degli arabi? Perché sembra che il maggior desiderio di questo posto sia negare ai palestinesi qualunque tipo di riconoscimento e di legittimazione? In fin dei conti a questo punto non ha uno scopo concreto, abbiamo già vinto.
“Cosa intende con ‘non ha uno scopo concreto?’ Non ha senso. Serve agli interessi sionisti. A ogni singolo [interesse].
Mi spieghi
“Innanzitutto, siamo colonialisti. Il sionismo è colonialista. E la prima cosa che un buon colonialista fa è spogliare. Spogliare di cosa? Di tutto quello che può. Di quello che è importante, di tutto quello che gli serve. Della terra. Delle risorse naturali. E, naturalmente, dell’umanità. Dopotutto è ovvio che per controllare qualcun altro devi portargli via la sua umanità.”
Ma questo progetto non è terminato? Non è che noi adesso siamo in guerra e stiamo per conquistare un nuovo territorio. La “Guerra di indipendenza” [denominazione sionista della guerra contro palestinesi ed arabi nel 1947-48, ndt.] è finita molto tempo fa. Abbiamo vinto. Abbiamo già tracciato dei confini. Perché abbiamo ancora bisogno di quella mentalità?
“Quali confini? Non ci sono confini, non ci saranno confini, e non vedo che ci sia una qualunque intenzione di tracciarli ora. Ma, oltre a ciò, la spoliazione è un compito senza fine. Quel popolo occupato, quel popolo spogliato, che sia all’interno o all’esterno della Linea Verde [il confine tra Israele e Giordania fino alla guerra del ’67 e all’occupazione israeliana della Cisgiordania, ndt.], non è d’accordo. Non si arrende. Non accetta di essere spogliato della sua terra, della sua acqua, della sua umanità. Come ha detto Hannah Arendt: “Senza diritti politici non c’è essere umano. I diritti politici vengono prima di ogni altra cosa. Prima del diritto di proprietà, di movimento, di riunione e associazione. Quelli sono tutti molto belli, ma sono secondari. Senza diritti politici, tutto quello che fai è beneficienza. Senza diritti politici, non c’è niente.”
La famiglia di Ruchama è arrivata in Israele da una regione rurale della Polonia. Entrambi i suoi genitori sono cresciuti in famiglie religiose, come la maggioranza degli ebrei in quei tempi, sicuramente quelli che vivevano fuori dalle grandi città. Dice che suo padre era così affascinato dalle idee comuniste che per mesi risparmiò segretamente denaro per poter andare in Russia negli anni ’20.
“La notte prima che se ne andasse,” racconta, “suo padre entrò nella sua stanza e disse: ‘So che hai risparmiato denaro e so per fare cosa. Voglio chiederti che tu mi prometta una cosa. Vuoi andartene? Vai. Vai in America, vai in Palestina. Promettimi solo che non andrai in Russia. Ti uccideranno.’ Mio padre fece la promessa e la mantenne.”
I suoi genitori si sono stabiliti nel quartiere di Geula a Gerusalemme. Lei è nata nel 1937. Si ricorda il Mandato britannico a Gerusalemme?
“Certo. Ricordo i soldati australiani che pattugliavano le strade, e che camminavo verso il “Muro del Pianto” con mia nonna. Avremmo camminato attraverso la Città Vecchia, oltre il mercato arabo; non avevamo paura. Non c’era neanche una grande amicizia, ma non c’era paura.
“A Gerusalemme ogni notte c’era il coprifuoco. Ricordo una notte in cui rimasi a dormire da un’amica fin dopo il coprifuoco, scesi in strada e iniziai a camminare verso casa. Un soldato australiano mi chiamò, ma non capii quello che mi stava dicendo, in quanto non parlavo inglese. Mi raggiunse e cercò di capire cosa stessi facendo là, dove stessi andando.
“Era un gigante, probabilmente alto 2 metri. Non so come successe, ma mi prese per mano e mi accompagnò a casa. Una ragazzina con un gigantesco soldato australiano.
“La nonna che soleva portarmi con sé verso il Muro del Pianto venne uccisa da una bomba all’inizio della Guerra di Indipendenza. Uscì per prendere acqua con un secchio da un vicino che aveva bambini piccoli e venne colpita da una bomba sparata dagli arabi. Poco dopo ci spostammo a Tel Aviv, che era un mondo totalmente diverso.
“Tel Aviv era molto diversa da Gerusalemme. Aveva un’atmosfera di stravaganza e di sfrenatezza. Vivevamo in una zona ai confini della città: c’erano pochissime case là. Era circondata da orti, da giardini arabi e da campi di canna da zucchero che crescevano lungo il fiume Yarkon [in arabo El-Auja, il “sinuoso”, ndt.]. Era un altro mondo.”
Aveva degli amici a Tel Aviv? Non deve essere stato facile.
“Io non conoscevo nessuno lì, ovviamente. E genitori e figli di quella generazione difficilmente parlavano tra loro. Ma nella casa di fronte a noi, l’unica casa vicina, c’era una famiglia araba. Avevano un orto, un giardino e un piccolo gregge di pecore e capre.
“Avevano due bambini, Zeidin, che aveva circa un anno meno di me, e Fatima, che era un po’ più grande di me. Erano i miei migliori amici. Eravamo soliti giocare insieme, passare insieme le giornate negli orti e in mezzo alla natura. Gli volevo bene.
“Alla fine del 1947 arrivarono dei soldati e cacciarono la famiglia. Mi ricordo che stavo lì a guardare svolgersi quella scena. Caricarono i loro pochi averi e la vecchia nonna su un asino e partirono verso l’est. La loro casa esiste ancora – è stata trasformata in una sinagoga.”
Anche durante la guerra del Sinai del 1956 [combattuta da Francia, Inghilterra ed Israele contro l’Egitto di Nasser, che aveva nazionalizzato il canale di Suez, ndt.] lei ha assistito a scene che l’hanno profondamente segnata.
“L’assassinio di prigionieri da parte dei soldati della mia unità, la ‘Givati’.”
Cosa successe lì?
Nei giorni che seguirono l’invasione israeliana della penisola del Sinai, i soldati egiziani continuavano ad arrendersi. Venivano fuori dalle dune di sabbia, a volte a piedi nudi, bruciati dal sole del deserto, sporchi e sudati, con le mani in alto.
“I nostri soldati gli sparavano. A decine di loro, forse più. E’ proprio quello che ho visto. Scendevano dalle dune e i soldati prendevano i fucili e li uccidevano.”
E cosa ne facevano? Li lasciavano semplicemente lì sulla sabbia?
“Sì. Questo mi fece stare male. Fisicamente male. Vomitai ed ero in uno stato terribile. Andai dal mio comandante e gli chiesi di andarmene. Gli raccontai che era a causa di quello che era successo. Non c’è bisogno di dirlo, lui “non sapeva” assolutamente di cosa stessi parlando. Ma mi autorizzò ad andarmene e chiesi un passaggio per tornare a casa.
“Volevo parlare di quello che era successo. Volevo pubblicarlo, ma nessuno accettò. Mi dissero di lasciar perdere. Avevo amici che lavoravano per dei giornali, e pensai, ingenuamente, che avrebbero voluto pubblicarlo. Nessuno accettò di occuparsene. Quando avevo 19 anni sapevo già che quello che mi dicevano del sionismo e dell’esercito era un sacco di menzogne.”
Una ricerca su internet sull’uccisione di prigionieri durante la guerra del Sinai porta a una serie di siti, compresa un’intervista al generale Arieh Biro, che ammise che lui e i suoi soldati uccisero prigionieri egiziani durante la guerra. Posso solo presumere che le uccisioni che ebbero luogo furono molto più frequenti e gravi di quelle scoperte dall’ “inchiesta” ordinata da Shimon Peres nel 1995.
Dopo l’esercito lei è andata alla facoltà di medicina. All’epoca c’erano quote per le donne.
“Sì. C’era un numero stabilito e non volevano che molte donne diventassero medico. Per cui le limitavano a una quota del 10%. Ho condotto una lotta contro ciò insieme ad altri studenti e membri della facoltà, che portò alla cancellazione della quota. Da allora le donne sono ammesse alla facoltà di medicina in Israele in base ai loro titoli, proprio come gli uomini.”
Dopo tutti i suoi anni di lavoro con la psicologia umana e il conflitto, vede qualche cambiamento? Se ho capito bene [quello che lei ha detto], nonostante tutte le notevoli capacità propagandistiche che Israele ha sviluppato, nonostante il continuo lavaggio del cervello, da quanto sta dicendo sembra che fosse lo stesso negli anni ’50.
“In primo luogo il sionismo e quello che un essere umano è sono due cose che non si incontrano. Ma qui non c’è stato un cambiamento essenziale. E’ sempre lo stesso. E’ vero che la macchina della propaganda sionista renderebbe orgogliosi i sovietici, ma l’essenza delle convinzioni su questioni fondamentali, sul trattamento degli arabi e sul loro posto – queste convinzioni non sono cambiate.”
Una salute mentale rivoluzionaria
A 80 anni Marton è ancora una psichiatra in attività. Nei suoi molti anni di professione ha sostenuto e fatto campagna per portare la cura della salute mentale fuori dagli ospedali psichiatrici e all’interno della società.
Sono rimasto molto sorpreso che ci fosse qualcuno in Israele che parlasse di cure psichiatriche come parte della comunità. Ciò significa davvero normalizzare la salute mentale.
“Perché non ci dovrebbe essere un consultorio psichiatrico all’interno degli ambulatori di quartiere? Ci dovrebbero essere un optometrista, un otorinolaringoiatra e uno psichiatra. Esattamente nello stesso posto, allo stesso piano, nello stesso corridoio, in base allo stesso concetto.”
Lei ha creduto in questo fin dall’inizio della sua carriera e ha fatto passi concreti per realizzarlo.
“Sono stata la prima persona in Israele che ha fatto una proposta al sistema sanitario – sono andata fin da Shimon Peres e da altri, ho detto loro che i consultori psichiatrici non devono essere all’interno degli ospedali psichiatrici. Non è altro che un disastro. Le persone hanno un terribile stigma che le scoraggia dall’entrare in un ospedale psichiatrico.
“C’era un direttore, Davidson (il prof. Shamai Davidson, direttore dell’ospedale “Shalvata” dal 1973 al 1986. Arrivò in Israele da Dublino nel 1955), era veramente un santo, comprese veramente e appoggiò l’idea di cure psichiatriche inserite nella comunità. Il concetto di comunità è una cosa che si era portato dalla diaspora. Mi stette ad ascoltare con il cuore aperto e fu colui che portò avanti quella rivoluzione e che portò all’apertura di un ambulatorio per il trattamento psichiatrico a Morasha, e poi a Ramat Hasharon, e da lì si è diffuso.
A tutt’oggi il progetto non è stato completato. Ma abbiamo rotto quel muro iniziale.
Sa quante persone non chiedono un aiuto perché l’ambulatorio è situato all’interno di un ospedale psichiatrico? E quindi cosa succede? Crollano e vengono ospedalizzate. Grandioso! Abbiamo ottenuto quello che volevamo.”
Sto ascoltando quello che dice, e penso: c’è qualcosa di giustificato in merito al timore della gente nei confronti del sistema psichiatrico. Qualcosa riguardo alla percezione di se stesso e del paziente da parte del sistema – è qualcosa di insano.
“E’ verissimo. Quello era ciò per cui stavo lottando. Ma oggi i miei giorni di lotta sono passati. Dopo 30 o 40 anni ne ho avuto abbastanza. Forse non sono riuscita in tutto, ma in alcune cose sì. Sono molto orgogliosa di questo.”
Lei pensa al conflitto israelo-palestinese o alla storia del sionismo in termini psicologici? La storia dell’uccisione di prigionieri, per esempio, simile a quello che ho sentito da persone a me vicine, mi riempie di profonda vergogna.
“Sono affascinata dall’argomento della vergogna. E’ un sentimento su cui ho lavorato per la maggior parte degli anni. Credo che senza vergogna non ci sia speranza per il mondo – non ci sia essere umano. Senza vergogna una persona può fare qualunque cosa. Una delle cose che ci sono successe è che abbiamo perso ogni vergogna. I soldati che sparavano ai prigionieri non si vergognavano. E’ per questo che fecero quello che fecero.”
In quale altro posto lei vede esempi di questa mancanza di vergogna?
“Nella mia professione. I palestinesi coinvolti nel terrorismo, o quanto meno accusati di questo, sono mandati ad un esame psichiatrico. Si sorprenderà di saperlo, ma semplicemente non ci sono palestinesi con problemi mentali – almeno non del tipo che gli impedisca di essere giudicati da Israele. I palestinesi non hanno il diritto di essere pazzi.”
Psichiatri israeliani esaminano imputati palestinesi e sanno che soffrono di vari problemi psichiatrici, eppure li dichiarano in grado di essere processati?
“Certo che lo sanno. E come so che loro lo sanno? Perché dopo che sono stati giudicati e mandati in carcere, ricevono medicine per la schizofrenia. E non si tratta di errori dovuti all’ignoranza. Sto parlando di bravi medici. Ciononostante fanno diagnosi ridicole e sbagliate.
“Ci sono andata ed ho visto con i miei occhi. Ho parlato ai prigionieri. All’epoca ho scritto di questo sul giornale. Sono stata sanzionata dall’ordine dei medici israeliani per aver fatto i nomi dei medici coinvolti in queste diagnosi. Avevano intenzione di denunciarmi, ma hanno deciso di lasciar perdere per non rendere noti tutti gli sporchi trucchi che si svolgono a porte chiuse. Allora sono stata obbligata a scrivere una lettera di scuse. Ho scritto la lettera, che includeva due righe di scuse, seguite da un resoconto completo delle cose che ho saputo, comprese le diagnosi sbagliate e quello che c’era dietro. Finora quella lettera non è mai stata pubblicata.”
Quella non è stata la fine dei problemi di Marton e “Physicians for Human Rights-Israel” (PHRI) con l’ordine dei medici israeliani e con le istituzioni israeliane. Nel 2009 l’ordine ha annunciato che avrebbe rotto i rapporti con “PHRI” dopo che l’organizzazione ha accusato dottori israeliani di partecipare alle torture. Inoltre l’amministrazione tributaria ha rifiutato di rinnovare lo status come associazione pubblica dell’organizzazione per fini fiscali, da quando ha pubblicato una dichiarazione secondo la quale l’occupazione è una violazione dei diritti umani – compreso il diritto alla salute. Secondo l’amministrazione tributaria, queste affermazioni sono ritenute “politiche”.
La medicina è una questione politica
Com’è nato “Medici per i Diritti Umani – Israele”?
”Quando ho deciso di fare qualcosa di concreto, qualcosa di politico, ho utilizzato quello che avevo a disposizione: la medicina. Ho contattato un’organizzazione di medici palestinesi. Volontari palestinesi andavano sul terreno a curare le persone, e mi sono unita a loro.
“In seguito ho iniziato ad organizzare volontari israeliani. Ho dovuto pregare persone di venire con me il sabato mattina. All’inizio sono riuscita a trovare due persone, che sembravano un grande risultato. Ora vanno (in Cisgiordania) circa 30 volontari con un ambulatorio mobile.
“Ho stabilito io le regole dell’organizzazione: siamo sempre insieme noi e i palestinesi. Non è mai una delegazione di bianchi colonialisti che vanno a salvare i nativi. Lavoriamo insieme in pieno accordo con i nostri colleghi palestinesi: sono loro a dire dove hanno bisogno di noi e nell’assoluta maggioranza dei casi è lì che andiamo.”
E dove lavorate? Non è che abbiano ambulatori organizzati.
“Ambulatori? C’è a malapena qualche ambulatorio in quei villaggi, e quelli che ci sono sono piccoli e inutilizzabili per gruppi numerosi come il nostro. Utilizziamo scuole e uffici delle amministrazioni locali. E non c’è bisogno di fare grandi annunci – la voce gira nel villaggio e in quelli vicini. La prima cosa il sabato mattina è che c’è già troppa gente.”
Che tipo di cure fornite?
“Tutto quello che si può fare sul campo, compresi interventi chirurgici relativamente semplici. Portiamo con noi medicine regalate, e scriviamo prescrizioni per quelle che non abbiamo. Quando c’è la necessità di esami complicati li inviamo a diversi ospedali dell’Autorità Nazionale Palestinese e in Israele. Anche ciò ha implicato molti anni di lotta.”
Lo Stato di Israele non si è mai ritenuto responsabile della salute di quelli che occupa.
“E’ vero. Ma fino a Oslo, o alla Prima Intifada, c’erano ospedali palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, che dopo il 1967 erano diventati ospedali pubblici israeliani. C’era un bilancio molto ridotto per la salute, niente a che vedere con un Paese normale. Ma, per esempio, c’era uno stanziamento di fondi per le vaccinazioni. Paradossalmente nei campi dei rifugiati la situazione era molto migliore, dato che erano sotto la responsabilità dell’UNRWA [l’agenzia ONU per i profughi palestinesi, ndt.].
“Quando scoppiò la Prima Intifada una delle decisioni prese dall’allora ministro della Difesa Yitzhak Rabin fu di bloccare il bilancio dei servizi medici palestinesi. Quando lo venni a sapere mi precipitai a Londra e mi presentai agli uffici della BBC. Parlai loro della situazione nei territori occupati e inviarono un’equipe per fare un breve servizio sulla decisione e sulle sue conseguenze, ossia gente che moriva in casa per la mancanza di cure mediche. Il clamore convinse Rabin a ripristinare almeno una parte degli stanziamenti.”
Vai a casa, vestiti
Pochi giorni fa sul giornale c’era una foto del capo del Mossad che visitava la casa del consigliere per la sicurezza nazionale degli USA. Nella foto tutte le persone erano uomini. Sono molto contento di dire che una simile foto oggi mi sembra strana.
“Ciò mi riporta all’argomento della segregazione. E’ così che alle persone si insegna a pensare di se stesse. Quella separazione, il fatto che ci sia una tribuna per le donne (nella sinagoga) ed ora vogliano la separazione [tra i sessi] anche nell’esercito e nelle università. La segregazione è la radice di ogni male.
“Le mie prime battaglie non sono state sul problema palestinese. Sono state femministe, anche se all’epoca non le chiamavo così.
Lei è una donna orgogliosa.
“Non abbastanza. Sono troppo orgogliosa per chiedere un riconoscimento e a volte sono piena di risentimento per non averlo ottenuto. Per esempio, sono stata la prima ad introdurre il concetto di “diritti umani” nel dibattito israeliano. Prima c’erano i “diritti civili”, ma i diritti umani come concetto politico sono stati merito mio.”
Eppure lei ancora non se la sente di chiedere che le venga riconosciuto.
“E’ vero. Forse è il risultato della mia educazione femminile. Non femminista, femminile. Quella che insegna alle donne a non farsi notare. Ad essere gentili, a sorridere, a non essere arrabbiate. A non iniziare mai una frase con la parola “Io”. E’ così che sono educate le donne.”
Lei è indignata dallo sciovinismo [maschile]. Non è molto diverso dalla sua indignazione contro l’occupazione.
“Per tutta la mia vita ho dovuto lottare contro stigmi e norme separate per le donne. Con il fatto che alle donne non fosse permesso mettersi i pantaloni nella facoltà di medicina nella fredda Gerusalemme. Quando mi sono presentata con i pantaloni una docente mi ha detto: ‘Tu, signorina, vai a casa, vestiti come si deve e torna indietro.’ Sono andata a casa e non sono tornata. Ho scatenato un putiferio ed alla fine ho vinto.”
Critiche a ogni parte
Lei è molto critica con la Sinistra israeliana e con il modo in cui si oppone all’occupazione.
“Non c’è una Sinistra israeliana. Quello che dobbiamo fare è ricostruire da zero le organizzazioni dei diritti umani israeliane in modo che siano disposte a lottare per porre fine all’apartheid. Apartheid che distingue tra quelli che hanno tutto e quelli che non hanno niente. Quelli a cui è consentito tutto e quelli a cui tutto è proibito. Se non vogliono intraprendere questa lotta, per cosa stanno lottando? Per la loro stessa immagine.
“Non puoi combattere contro il colonialismo, l’occupazione, l’apartheid – chiamalo come vuoi- avendo un ruolo alla corte del governo, in base al programma del governo. Devi rompere questi confini.”
Effettivamente il partito Laburista ha mantenuto l’occupazione per ben 10 anni e non ha fatto niente a questo proposito.
“Non dica che il Mapai [il predecessore del partito Laburista, in cui è confluito nel 1968, ndt.] non ha fatto niente. Sono stati quelli che hanno fondato le colonie. Begin [fondatore del Likud e dal 1977 al 1983 primo capo del governo israeliano di destra, ndt.] è stato l’unico leader giusto che abbiamo avuto. Dico sul serio. Sotto il suo governo la tortura è stata totalmente vietata. Quando il capo dello Shin Bet andò da lui e gli chiese: ‘Signore, neanche uno schiaffo?’ disse: ‘No, neanche uno schiaffo.’”
“Begin vietò di demolire case, vietò le espulsioni. E’ stato l’unico uomo giusto a Sodoma. Non c’è mai stato un solo uomo giusto né prima né dopo di lui.”
Ho sempre pensato, ed ancora penso, che la normale Destra revisionista [i seguaci della corrente di destra del sionismo, ndt.] moderata sia il campo con le migliori possibilità di trattare gli arabi in modo umano.
“Non voglio un trattamento umano degli arabi. Voglio diritti politici. Poi puoi essere umano o quello che vuoi. Senza diritti politici continui ad essere un colonialista, un occupante, un sostenitore dell’apartheid.
“Un’organizzazione dei diritti umani che non voglia lottare per questo sta ululando alla luna. E’ priva di senso.”
In un certo senso lei sta parlando anche di se stessa. E’ una resa dei conti personale.
“E’ vero. Le sto parlando dopo 30 o forse 50 anni di lotta contro l’occupazione. Abbiamo bisogno di aiuto esterno. E sto parlando soprattutto di una cosa: il BDS [il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni contro Israele, ndt.].”
Lavorare per questa causa in Israele non è facile.
Ride. “E’ una questione che riguarda i traditori, e i traditori di oggi sono gli eroi di domani. Chiunque non voglia pagare quel prezzo non sa come lottare. Se non paghi un prezzo tu stai lottando solo per la tua bella immagine. Finché l’occupazione continuerà, finché continuerà l’apartheid, non importa se tu sei un po’ più o un po’ meno bello.”
Si ferma un momento a pensare.
“Dobbiamo lottare contro l’idea della segregazione, perché è una separazione tra me e la politica, tra gli arabi e la loro terra, tra gli arabi e la loro dignità umana. La segregazione è la ferita. E’ l’asse attorno al quale girano le cose.”
Anche se gli ebrei portarono qui con sé l’idea della segregazione. In fin dei conti, c’è ogni sorta di segregazione tra gli stessi ebrei, in base a divisioni etniche, religiose e politiche.
“Sicuramente qui c’è segregazione a tutti i livelli. Dopotutto, qui siamo divisi tra ebrei di prima e di seconda categoria, e sotto di loro ci sono i palestinesi cittadini di Israele, e i palestinesi in Cisgiordania sono ancora più in basso. E proprio in fondo alla scala ci sono i richiedenti asilo e i rifugiati (“Medici per i Diritti Umani” ha una “clinica aperta” che fornisce cure mediche ai rifugiati e ai richiedenti asilo).
“La segregazione esiste all’interno della nostra società come un principio politico fondamentale. Se cancelliamo la segregazione, poi che succede? Sarà un disastro politico per il regime – non solo per la Destra.
“Se penso a quello che la mia organizzazione ha fatto – ai viaggi a Gaza, alla distribuzione di medicinali per la solidarietà, al tentativo di infrangere la segregazione – quello è stato il nostro maggior risultato.”
Alon Mizrahi è uno scrittore e un blogger presso “Local Call” [“Chiamata locale, sito in ebraico di +972, ndt.], dove il suo articolo è stato per la prima volta pubblicato in ebraico. E’ stato tradotto dall’originale in ebraico da Shoshana London Sappir.
(traduzione di Amedeo Rossi)