Rapporto OCHA del periodo 26 settembre – 9 ottobre 2017 (due settimane)

Il 26 settembre, ad un cancello della Barriera vicino all’insediamento di Har Hadar (nel governatorato di Gerusalemme), un 37enne palestinese ha sparato e ucciso tre israeliani: due guardie di sicurezza e un poliziotto di frontiera, ed ha ferito un altro poliziotto di frontiera. L’aggressore è stato colpito e ucciso sul posto ed il corpo è trattenuto dalle autorità israeliane.

Il Coordinatore Speciale dell’ONU per il Processo di Pace in Medio Oriente, Nickolay Mladenov, ha fortemente condannato l’attacco. L’episodio di cui sopra fa salire a 14 il numero di israeliani (di cui nove membri delle forze di sicurezza) uccisi da palestinesi dall’inizio del 2017, mentre sale a 23 il numero di palestinesi (di cui sei minori) autori e/o sospetti autori di attacchi, uccisi nello stesso periodo.

Dopo l’attacco, le forze israeliane hanno chiuso i due ingressi principali del villaggio di Beit Surik (governatorato di Gerusalemme), dove viveva l’aggressore e, per un periodo di tre giorni, hanno limitato l’accesso alla strada principale che collega al resto della Cirgiordania questo ed altri otto villaggi circondati dalla Barriera. Come conseguenza, l’accesso ai servizi e ai mezzi di sussistenza delle circa 35.000 persone residenti in questi villaggi è stato gravemente compromesso. Le forze israeliane hanno anche individuato e messo sotto sorveglianza la casa della famiglia dell’aggressore.

Il 4 ottobre, nella città di Kafr Qasim in Israele, è stato trovato il corpo di un colono israeliano 70enne con ferite da coltello. Secondo media israeliani, fonti di sicurezza israeliane hanno indicato che l’uomo è stato ucciso da palestinesi per “ragioni nazionaliste”. Due palestinesi del villaggio di Qabatiya (Jenin), sospettati dalle autorità israeliane dell’uccisione, sono stati arrestati dalle forze israeliane.

62 palestinesi, tra cui 23 minori e due donne, sono stati feriti nei territori palestinesi occupati [Cisgiordania e Striscia di Gaza] in scontri con le forze israeliane. Sei dei ferimenti sono avvenuti nella Striscia di Gaza, durante le proteste in prossimità della recinzione perimetrale, ed i restanti in Cisgiordania. La maggior parte delle lesioni (42) sono state registrate durante nove operazioni di ricerca e arresto in Biddu, Beit Surik, Silwan, Campo profughi di Shu’fat (governatorato di Gerusalemme) e nel Campo profughi di Jalazun ed in Al Bireh a Ramallah. Altri scontri che hanno causato lesioni si sono verificati durante le manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya), An Nabi Saleh e Ni’lin (entrambi a Ramallah); all’entrata di Beit ‘Ummar e nel Campo profughi di Al’ Arrub (entrambi a Hebron); ed a seguito dell’ingresso di coloni israeliani in un sito religioso vicino a Gerico.

Nel complesso, le forze israeliane hanno condotto 121 operazioni di ricerca-arresto in Cisgiordania ed hanno arrestato 205 palestinesi, di cui nove minori. Il numero più alto di operazioni (36) è stato effettuato nel governatorato di Hebron, mentre il maggior numero di arresti (53) è stato compiuto nel governatorato di Gerusalemme. Ancora in Cisgiordania, durante il periodo di riferimento [due settimane], le forze israeliane hanno allestito almeno 156 chekpoint “volanti”, più del doppio della media dall’inizio dell’anno.

A motivo delle feste ebraiche, per dieci giorni durante il periodo di riferimento, le autorità israeliane hanno imposto una chiusura generale nella Cisgiordania. A tutti i titolari di documenti di identità della Cisgiordania, inclusi i lavoratori ed i commercianti con permessi validi, è stato impedito di entrare in Gerusalemme Est ed in Israele attraverso tutti i punti di controllo, ad eccezione dei casi medici urgenti, degli studenti e dei dipendenti palestinesi delle ONG internazionali e delle agenzie delle Nazioni Unite.

Nella Striscia di Gaza, in almeno dieci episodi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso civili palestinesi presenti in Aree ad Accesso Riservato, in terra e in mare; non ci sono stati feriti. Inoltre, in un caso, le forze israeliane sono entrate nella Striscia, ad est di Deir El-Balah, nella zona centrale, ed hanno svolto operazioni di spianatura e di scavo in prossimità della recinzione perimetrale.

Le autorità israeliane, citando la mancanza di permessi di costruzione, hanno demolito tre strutture ed hanno sequestrato materiali e attrezzature in varie comunità in Area C, con ciò colpendo i mezzi di sussistenza di più di 800 palestinesi. Faceva parte delle strutture prese di mira un tratto di strada agricola, finanziata da un donatore, la quale consentiva l’accesso ai terreni agli agricoltori di tre comunità nella valle del Giordano settentrionale; durante questa operazione, è stata danneggiata parte di una rete di irrigazione, finanziata da donatori, che forniva acqua alla stessa area. In altri due episodi, le forze israeliane hanno sequestrato fogli di lamiera zincata da utilizzare nella costruzione di una struttura residenziale nella Comunità pastorale di Mak-hul, nella valle del Giordano settentrionale e una serie di materiali e attrezzature utilizzati per la costruzione di una scuola nella Comunità beduina di Abu Nuwar, nel governatorato di Gerusalemme.

Quattro comunità di pastorizia nella valle del Giordano settentrionale (Mak-hul, Humsa-Al Bqai’a, Al Farisiya – Ihmayyer e Al Farisiya – Nabe ‘Al Ghazal) sono diventate ad alto rischio di sfollamento a seguito di sentenze dell’Alta Corte di Giustizia israeliana, emesse all’inizio di ottobre 2017, che hanno annullato la sospensione degli ordini di demolizione in queste Comunità. Si stima che più di 200 strutture in queste Comunità possano, da ora, essere demolite in qualsiasi momento, con ciò ponendo circa 170 persone, di cui 90 minori, a rischio di sfollamento.

In tre diverse azioni di coloni israeliani, due palestinesi sono stati feriti e sono stati segnalati danni materiali. Nei pressi di Qabalan (Nablus), coloni israeliani hanno fisicamente assalito e ferito un palestinese, membro delle forze di sicurezza palestinesi; un altro uomo, una donna e una ragazza sono stati feriti in un episodio di lancio di pietre al raccordo stradale di Beit ‘Einoun (Hebron). Secondo fonti locali palestinesi, la raccolta di 70 ulivi è stata rubata, da coloni israeliani a quanto riferito, in una zona vicino a Kafr Qaddum (Qalqiliya) cui i palestinesi possono accedere solo previo coordinamento con l’autorità israeliana.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, è rimasto chiuso in entrambe le direzioni. Nel corso del 2017 il valico è stato parzialmente aperto per soli 29 giorni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate ed in attesa di attraversare.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Trump: non trasferirò l’ambasciata USA a Gerusalemme prima di fare un tentativo di pace

Amir Tibon, 8 ottobre 2017 ,Haaretz

Per la prima volta Trump ammette che gli sforzi per raggiungere la pace sono il motivo per cui non ha mantenuto la sua promessa elettorale di trasferire l’ambasciata da Tel Aviv.

WASHINGTON – Il Presidente USA Donald Trump ha detto in un’intervista trasmessa sabato che sta ritirando il suo piano di trasferire l’ambasciata USA in Israele a Gerusalemme, poiché vuole anzitutto dare una possibilità ai suoi piani per raggiungere un accordo di pace in Medio Oriente.

Anche se una simile spiegazione era già stata precedentemente fornita da dirigenti dell’amministrazione Trump, è la prima volta che lo stesso Trump ammette che è questa la ragione per cui finora non ha mantenuto la sua promessa elettorale relativamente all’ambasciata.

Trump ha parlato con Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas ed importante sostenitore evangelico di Israele, che tra l’altro è anche il padre della segretaria dell’ufficio stampa della Casa Bianca, Sarah Huckabee-Sanders. Rispondendo ad una domanda di Huckabee riguardo alla sua promessa di spostare l’ambasciata, Trump ha affermato che la sua amministrazione “prenderà una decisione in un futuro non tanto lontano.”

Poi ha spiegato, tuttavia, che la sua amministrazione sta attualmente lavorando ad un piano per proporre un accordo di pace con i palestinesi e che “Intendo fare un tentativo prima di poter pensare al trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme.”

Nel corso delle elezioni del 2016 Trump ha promesso più volte di spostare l’ambasciata, ma dopo essersi insediato al potere nel gennaio di quest’anno ha sistematicamente evitato il problema di quando tale promessa sarebbe stata mantenuta. A giugno ha firmato una deroga che rinviava lo spostamento dell’ambasciata di sei mesi, come ha fatto ogni presidente prima di lui fin da quando il Congresso ha approvato il Jerusalem Embassy Act nel 1995.

La risposta completa di Trump alla domanda di Huckabee è stata che la sua amministrazione “sta lavorando ad un piano che tutti dicono che non funzionerà mai, perché per moltissimi anni non ha mai funzionato – dicono che è la faccenda più ardua di tutte, la pace tra Israele ed i palestinesi, noi dunque stiamo lavorando a questo e se non funziona, cosa possibile, ad essere del tutto sincero – qualcuno dice che è impossibile, ma io non penso che sia impossibile, penso sia qualcosa che può accadere e non voglio fare previsioni, ma voglio darle una chance prima di poter anche solo pensare di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme.”

Il ministro (israeliano) Zeev Elkin [del partito di destra al potere, il Likud, ndt.] ha detto che “gli dispiace molto che il Presidente Trump scelga di rinviare l’adempimento della sua promessa elettorale di spostare l’ambasciata USA a Gerusalemme in base all’illusione che sia possibile promuovere un reale processo di pace con l’attuale leadership palestinese.”

Elkin, ministro della Protezione dell’Ambiente, che ha anche la delega per le questioni di Gerusalemme, ha aggiunto che “chiunque veda le costanti istigazioni dell’Autorità Nazionale Palestinese; il rifiuto da parte di Abu Mazen (il Presidente palestinese Mahmoud Abbas) di smettere di pagare i salari ai terroristi; l’elezione a sindaco di Hebron, la più grande città dell’ANP, di un terrorista con le mani sporche di sangue; e più recentemente, l’abbraccio con i terroristi di Hamas in un accordo di riconciliazione, può vedere chiaramente che l’ultima cosa che ci si può aspettare da Abu Mazen e dal suo popolo è promuovere la pace.”

La prossima volta che Trump dovrà affrontare il problema se firmare o no il rinvio di sei mesi sarà a dicembre. David Friedman, l’ambasciatore USA in Israele che è un accanito sostenitore delle colonie ed oppositore dello Stato palestinese, ha affermato molte volte negli ultimi mesi che il trasferimento dell’ambasciata è “questione di quando, non di se.” Il vicepresidente degli USA Mike Pence ha fatto affermazioni simili nei mesi seguenti all’insediamento di Trump. Il presidente dal canto suo, tuttavia, non ha fatto promesse così dirette nei mesi recenti.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




30.000 israeliane e palestinesi partecipano alla marcia di “Women Wage Peace” a Gerusalemme

Nota Redazionale

Questo articolo di cronaca parla di una marcia della pace di donne, in prevalenza ebree israeliane, a cui hanno partecipato alcune donne  palestinesi con cittadinanza israeliana e che ha coinvolto in modo trasversale anche donne di destra e colone. Fino ad ora non è emersa una  piattaforma programmatica di questa associazione nata dopo l’ultimo attacco di Israele a Gaza, se non quella della rivendicazione della pace e che le due parti si mettano d’accordo. Abbiamo scelto di pubblicare questo articolo per puro scopo di documentazione, non condividendo  la genericità della rivendicazione e soprattutto un’impostazione che tende a mettere sullo stesso piano le responsabilità israeliane e palestinesi per il mancato raggiungimento di un accordo. Se questo nelle intenzioni delle organizzatrici doveva servire a far partecipare il maggior numero possibile di donne, anche di orientamento politico opposto, così si nasconde la realtà delle cose, in cui c’è una potenza occupante che espropria e colonizza le terre palestinesi, affama e bombarda Gaza ed espelle i palestinesi da Gerusalemme est e i beduini, che pure hanno la cittadinanza israeliana, dal Negev.

Nir Hasson

8 ottobre 2017, Haaretz

Faccio appello ad Abbas e Netanyahu – basta! Smettetela. Smettetela! Noi vogliamo la pace’, dice una ex deputata arabo-israeliana il cui figlio è stato ucciso nell’attacco terrorista sul Monte del tempio.

Domenica sera circa 30.000 persone hanno partecipato alla marcia di “Women Wage Peace” (“Le Donne fanno la Pace”, ndt.) al parco dell’Indipendenza di Gerusalemme.

La manifestazione è stata il culmine di una “marcia per la pace” iniziata due settimane fa a Sderot nel Negev, che ha attraversato i territori ed Israele ed ha visto la partecipazione di migliaia di donne israeliane e palestinesi, che invocavano un accordo di pace. Vi ha preso parte anche Adina Bar-Shalom, fondatrice di un collegio femminile ultraortodosso e figlia dell’ex rabbino capo sefardita Ovadia Yosef [rabbino e politico, fondatore del partito ultraortodosso sefardita “Shah”, noto per dichiarazioni molto virulente contro i palestinesi, ndt.].

Tra gli interventi vi è stato quello dell’ex deputata della Knesset Shakib Shanan [si tratta di una ex-parlamentare del partito laburista di origine drusa, una comunità alleata con gli ebrei israeliani, ndt.], il cui figlio Kamil è stato ucciso in un attentato terrorista al Monte del Tempio tre mesi fa. “Benché il mio cuore sanguini, sono qui questa sera con voi. Con l’orgoglio e la speranza che solo la pace e l’amore debbano unirci. Abbiamo tanto sofferto, famiglie palestinesi e famiglie israeliane hanno perso i loro cari e sono rimaste con una ferita che non si rimargina. Sono venuta qui per dire ‘vogliamo vivere!’. Ci permettiamo di dirlo forte –amiamo la pace. A nome di questa enorme folla qui e di centinaia di migliaia di israeliani faccio appello ad Abu Mazen (il Presidente palestinese Mahmoud Abbas) e (al primo ministro) Benjamin Netanyahu – basta! Smettetela. Smettetela! Vogliamo la pace. Ascoltate il nostro grido, proviene dai nostri cuori. Ascoltate il grido della verità e della giustizia, vogliamo la pace, da questo luogo nasce la speranza.”

“Women Wage Peace”

Il movimento “Women Wage Peace” è stato fondato tre anni fa dopo la guerra di Gaza ed oggi conta 24.000 aderenti.

Per poter avere un’influenza su chi ha il potere di decidere, le fondatrici del movimento hanno compreso che c’era bisogno di una massa critica di sostenitrici. Per ottenerla, sapevano di dover fare appello a donne che erano al di fuori della loro base naturale: israeliane di destra, israeliane religiose, addirittura colone. Per indirizzarsi ad un pubblico così ampio e differenziato, si sono rese conto che dovevano evitare le contrapposizioni e concentrarsi su questioni su cui quasi tutte le donne potessero concordare.

Il messaggio dell’organizzazione è questo: non ci fermeremo finché non ci sarà un accordo di pace. Ma come sarà precisamente questo accordo – includerà, per esempio, uno Stato palestinese indipendente e l’evacuazione delle colonie, oppure, in alternativa, uno Stato bi-nazionale ebreo-arabo? – è una questione che devono decidere i leader israeliani eletti, secondo la dichiarazione di intenti di “Women Wage Peace”.

Il gruppo deve molto del suo successo – si tratta del movimento per la pace maggiormente in crescita in Israele negli anni recenti – alla sua strategia di concentrare la pressione su ciò che vuole ottenere, piuttosto che su ciò a cui è contrario. Evitando la discussioni sulle questioni di fondo del conflitto israelo-palestinese, ha avuto successo laddove movimenti simili hanno fallito, inserendosi in segmenti della popolazione un tempo considerati essere una causa persa.

Judy Maltz ha contribuito a questo report.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Hamas ribadisce: il braccio armato non è oggetto di discussione nei colloqui di riconciliazione

Ma’an News

7 ottobre 2017

GAZA (Ma’an) – Un portavoce del movimento Hamas ha ribadito sabato che il futuro del braccio armato del gruppo non è oggetto di discussione nei colloqui di riconciliazione che stanno per iniziare con il movimento Fatah, previsti per martedì al Cairo.

Hazem Qassem ha detto a Ma’an che “le armi della resistenza sono legali. Servono a proteggere i palestinesi e liberare le loro terre (dall’occupazione israeliana) – perciò questo non dovrebbe essere un argomento di discussione.”

Il portavoce di Hamas ha detto che in realtà ciò che dovrebbe essere discusso è il “rafforzamento” del potere di Hamas in quanto movimento di resistenza armata.

Comunque Qassem ha affermato che tutti gli argomenti che “ostacolano la riconciliazione” dovrebbero essere discussi martedì, compresa l’assunzione del controllo della Striscia di Gaza da parte del Governo di Consenso Nazionale; poi lo spostamento dell’attenzione della riconciliazione da Gaza alla Cisgiordania; ed infine lo svolgimento di elezioni presidenziali, legislative e del Consiglio Nazionale per governare entrambe le parti dei territori occupati.

Giovedì Hamas ha detto che il governo palestinese di consenso nazionale era subentrato ufficialmente al movimento come autorità amministrativa nella Striscia di Gaza sotto assedio, che è stata governata de facto da Hamas dal 2007.

Fatah, il partito principale del governo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) nella Cisgiordania occupata, ed Hamas sono stati coinvolti in un conflitto fin dalla vittoria di Hamas nelle elezioni legislative del 2006, scatenando una lotta violenta tra I due movimenti, con il consolidamento da parte di Hamas, un anno dopo, del suo controllo sul territorio.

Il primo ministro palestinese Rami Hamdallah ha detto al consiglio dei ministri, che si è riunito per la prima volta in tre anni a Gaza martedì, che il suo governo assumerà la piena responsabilità di tutti i settori della vita a Gaza “in totale coordinamento e partnership con tutte le fazioni e le forze palestinesi.”

Tuttavia, il controllo sulla sicurezza da parte di Hamas e la sua natura di movimento di resistenza armata ha costituito un ostacolo per l’ANP, che coopera con Israele sulle questioni connesse alla sicurezza, come stabilito negli accordi di Oslo – una politica ripetutamente condannata da Hamas, che accusa l’ANP di prendere di mira i suoi aderenti in Cisgiordania arrestandoli per ragioni politiche ed in coordinamento con Israele.

Poiché Hamas ha invitato il governo di consenso a prendere il controllo di Gaza, il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas ha detto di non essere disponibile ad accettare che Hamas mantenga il suo braccio armato, le Brigate Izz al-Din al-Qassam. “Non accetterò che si riproduca l’esperienza di Hezbollah in Libano” a Gaza, ha detto Abbas in un’intervista con i media egiziani. Hezbollah fa parte del governo libanese, ma conserva il proprio esercito.

Abbas ha detto che, nonostante il suo “forte desiderio di vedere andare in porto questa riconciliazione”, questo non avverrà a meno che l’ANP non “governi la Striscia di Gaza esattamente come governa la Cisgiordania.”

I passaggi sul confine, la sicurezza e tutti i ministeri devono essere sotto il nostro controllo”, pare abbia detto. Hamas tuttavia ha detto più volte che consegnare le armi non è oggetto di discussione nel processo di riconciliazione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’unità dei palestinesi è finalmente arrivata?

Omar Karmi

6 Ottobre 2017, The Electronic Intifada

Te ne stai seduto per una vita aspettando un autobus, recita il vecchio detto, e poi ne arrivano tre allo stesso tempo.

Sembra che sia successo qualcosa del genere adesso sul fronte politico interno palestinese. Fino a giugno i politici palestinesi sembravano giunti a un punto morto, senza nessuna prospettiva di unità, nessun progresso con Israele e nessuna speranza per Gaza. Poi sono arrivate, proprio una dietro l’altra, due iniziative che coinvolgono entrambe Hamas, e l’ultima promette una svolta nella riconciliazione tra Hamas e Fatah.

Tuttavia, nonostante tutto l’apparente ottimismo, rimangono ostacoli fondamentali, che rendono prudenti in merito all’accordo.

Sono state create speranze

Alla fine dello scorso anno, sondaggi hanno mostrato un diffuso pessimismo sulle possibilità di unità, in parte perché le posizioni sembravano molto radicate. Niente che sia successo nella prima metà del 2017 ha smentito questa sensazione.

A marzo Hamas ha annunciato la creazione di un comitato amministrativo per governare Gaza, ignorando lo sdegno di Ramallah, dove l’Autorità Nazionale Palestinese ha affermato che questa mossa minava i tentativi di unità.

In aprile Mahmoud Abbas, il leader dell’ANP e capo di Fatah, sembrava suonare la campana a morto per questi tentativi. Ha reintrodotto le tasse sul combustibile destinato a Gaza, ha rifiutato di pagare Israele per l’elettricità destinata all’immiserita striscia costiera, ha tagliato i finanziamenti per le medicine e le cure mediche là e decurtato i salari per gli ex- dipendenti pubblici, che erano stati stipendiati per rimanere a casa dopo che Hamas aveva preso il controllo [di Gaza].

Due milioni di palestinesi sono stati lasciati solo con poche ore di elettricità al giorno, con il rischio di produrre una catastrofe umanitaria in piena regola, a lungo pronosticata.

Poi, in giugno, Hamas improvvisamente ha annunciato un sorprendente accordo con Muhammad Dahlan, un tempo capo della sicurezza a Gaza, nemico giurato di Hamas e da molto tempo rivale di Abbas, che era stato cacciato da Fatah nel 2011 in presenza di imputazioni di corruzione che alla fine sono cadute.

L’accordo ha previsto la fine dell’isolamento di Gaza con un’apertura del valico di Rafah verso l’Egitto e un finanziamento dagli Emirati Arabi Uniti.

E altrettanto all’improvviso, in settembre, Hamas ha annunciato che stava smantellando il suo comitato amministrativo, che avrebbe consentito all’ANP di assumere le responsabilità di governo a Gaza e che avrebbe appoggiato elezioni presidenziali e parlamentari.

Questa settimana il governo dell’ANP ha tenuto la sua prima riunione a Gaza in tre anni e il primo ministro Rami Hamdallah è stato accolto da una grande folla. L’ottimismo che una possibile svolta verso l’unità e la riconciliazione possa essere raggiunta sembra il maggiore di quanto sia mai stato da quando la divisione tra Hamas e Fatah è sfociata nella violenza 10 anni fa.

Debolezza in comune

C’è un modello preciso che spiega perché gli autobus tendono a ammucchiarsi (com’è a quanto pare noto nell’industria dei trasporti). Purtroppo la politica è più complicata, ma parecchi fattori spiegano perché la politica palestinese – così stagnante per tanto tempo – sia entrata così improvvisamente in una fase di iperattività. La debolezza sia di Hamas che di Fatah è il fattore principale.

In qualche modo Hamas è stato preso in un perfetto movimento a tenaglia. Pesantemente disarmato da Israele, tre devastanti attacchi in 10 anni hanno fatto pagare un prezzo sia nel corpo che nello spirito. Gaza è stata isolata dal mondo con un decennale blocco israelo-egiziano, le cui conseguenze economiche sono state catastrofiche.

Poi Hamas ha perso il suo sostenitore più importante quando i Paesi del Golfo si sono mossi per isolare il Qatar, con il risultato dello spostamento dei dirigenti di Hamas finora residenti là e la perdita di una fondamentale fonte di entrate.

Abbas, nel contempo, ha pochi risultati della sua decennale ricerca di un processo di pace senza prospettive da presentare. Le colonie illegali nei territori occupati proliferano e Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, è stato lieto di affermare che le colonie “sono destinate a rimanere per sempre.”

Nel 2012 l’ANP ha ottenuto un voto dell’ONU che ha promosso la Palestina allo status di “Stato non membro”, ma si è trattato di un passo indietro rispetto all’intenzione originaria di garantirsi la condizione di Stato membro a pieno titolo nel 2011. Con l’economia “quasi stagnante”, il profondamente impopolare Abbas è diventato sempre più autocratico. Ha represso il dissenso e schierato le forze di sicurezza palestinesi contro la sua stessa popolazione per soffocare la resistenza all’occupazione israeliana.

Entrambe le parti avevano bisogno di sfuggire alla rispettiva empasse, con la situazione umanitaria che premeva con maggiore urgenza su Hamas.

Interessi regionali

Hamas ha puntualmente fatto il primo passo ed ha costituito il suo comitato amministrativo. Abbas ha reagito con pressioni finanziarie, una scommessa molto rischiosa che lo ha visto disposto ad apparire come se stesse facendo causa comune con Israele contro Hamas.

Hamas allora ha annunciato un nuovo statuto, in cui si definisce come non legato alla “Fratellanza musulmana” [gruppo politico islamista presente in molti Paesi arabi, soprattutto in Egitto, ndt.], una mossa specificamente mirata a mettersi in contatto con Egitto e Stati del Golfo.

In seguito a tutto questo è arrivato l’accordo con Dahlan, che ha cambiato la dinamica ed ha chiaramente colto di sorpresa Abbas. Non solo ora si è trovato ad affrontare il ritorno di un rivale su cui pensava di aver avuto la meglio alla settima assemblea generale di Fatah dello scorso anno, ma aveva ora di fronte un Hamas con un appoggio finanziario potenziale degli EAU [Emirati Arabi Uniti, ndt.] e rapporti che diventavano rapidamente cordiali con l’Egitto.

Il ruolo del Cairo è cruciale. Stanco della ribellione del Sinai che mostra pochi segni di diminuzione, l’Egitto sta cercando di assicurarsi l’aiuto di Hamas per avere la garanzia che Gaza non diventi un rifugio per i miliziani del Sinai o una fonte di armamenti. Hamas si è dimostrato disponibile – pur avendo sempre rigettato le accuse di aver appoggiato le milizie salafite che hanno dichiarato la propria fedeltà al gruppo “Stato Islamico”. I dirigenti islamisti di Gaza hanno soffocato il contrabbando e iniziato a creare una zona di sicurezza lungo il confine con l’Egitto.

Nel contempo l’Egitto ha promesso di alleggerire la chiusura a Rafah, consentendo teoricamente non solo che il passaggio venisse aperto regolarmente, ma che potesse essere utilizzato sia per le merci che per le persone. Questa sarebbe una mossa estremamente significativa e potrebbe finalmente portare qualche sollievo all’ economia assediata di Gaza.

Intanto gli EAU, scontenti per il fatto che Abbas avesse respinto i tentativi sostenuti dai sauditi, dagli EAU e dall’Egitto di far tornare Dahlan – che risiede a Dubai ed è vicino ai dirigenti del Paese – dopo l’anno di isolamento, hanno promesso di rendere più appetibile l’accordo costruendo una centrale elettrica sul lato egiziano di Rafah e di pagare una compensazione alle famiglie per i danni subiti durante gli scontri tra Hamas e Fatah nel 2007, come un modo per sanare vecchie ferite.

L’accordo con Dahlan ha dato ad Hamas un vantaggio nei colloqui per l’unificazione. Non più isolato, ha negoziato con un’opzione potenziale di riserva. E facendo il primo passo e smantellando il comitato amministrativo, Hamas ha lanciato decisamente il pallone nel campo di Abbas.

Ostacoli

Finora la reazione a Ramallah [sede dell’ANP in Cisgiordania, ndt.] non è stata promettente. La convocazione di una riunione del governo a Gaza è stata un passo puramente simbolico, e, mentre è stata calorosamente accolta nelle strade di Gaza, non è sostanziale.

Molto più infausta per ogni negoziato di successo è stata un’intervista che Abbas ha rilasciato ad una stazione TV egiziana, in cui ha insistito che Hamas dovrebbe consegnare le proprie armi e consentire il totale controllo su Gaza alle forze di sicurezza dell’ANP controllate dalla Cisgiordania – con tutto quello che ciò comporta in termini di cooperazione per la sicurezza con Israele.

Questa è una scomunica nei confronti di Hamas, che al massimo accetterebbe un cessate il fuoco a tempo indeterminato, o hudna, ma la cui vera ragion d’essere come “movimento per la liberazione nazionale palestinese e gruppo della resistenza” è basata sul diritto internazionalmente stabilito a resistere all’occupazione.

La condizione di Abbas è definita dalla logica di un processo di pace che richiede non solo la fine della resistenza armata contro l’occupazione israeliana come una precondizione per i negoziati, ma che quelli che si trovano sotto occupazione si autocontrollino a questo scopo.

Abbas teme anche la perdita del sostegno internazionale dell’Occidente, che considera Hamas un gruppo terroristico. Anche se ci potrebbe essere una via d’uscita a questo proposito, a seconda di quale ruolo possa giocare Hamas in un qualunque accordo di unità, è molto stretta.

Netanyahu ha già messo in chiaro la sua posizione: Israele non accetterebbe nessuna “finta riconciliazione” ed ha ripetuto la sua richiesta che tutte le parti di un processo di pace debbano in primo luogo “riconoscere lo Stato di Israele e, ovviamente, lo Stato ebraico.”

Per superare le obiezioni israeliane Abbas ha bisogno dell’accordo di Washington, e Washington non accetterà niente meno di quello che chiede Israele per un accordo di unificazione. Con tutto il parlare che si è fatto alla Casa Bianca riguardo a mediare l’”accordo definitivo”, niente di quello che l’amministrazione Trump ha detto o fatto finora ha deviato significativamente o anche solo un poco dall’ortodossia filo-israeliana di Washington.

Aspettando l’autobus

Abbas potrebbe decidere di dare la priorità alle necessità palestinesi sulle condizioni imposte dall’esterno. Un fronte palestinese unificato, nonostante lo sconforto che i sondaggi d’opinione hanno rivelato sulla questione, è ancora una priorità che può portare folle plaudenti nelle strade di Gaza.

Ma Abbas, 82 anni, sta adocchiando quello che può ben essere il suo ultimo tentativo di un accordo negoziato. In questo caso, si profila un’altra situazione di stallo.

Questa volta Hamas potrebbe stare solo calcolando di avere una via d’uscita sotto forma dell’accordo con Dahlan e che, avendo fatto i primi passi, il fallimento della riconciliazione sarebbe imputato interamente ad Abbas.

E’ un azzardo: Hamas ha bisogno di alleggerire il blocco di Gaza. Ha bisogno che l’Egitto lo garantisca, e, se la riconciliazione dovesse fallire, ha bisogno del Cairo perché accetti di farlo in mancanza della copertura dell’ANP di Abbas. Ma il Cairo ha interessi divergenti che possono favorire un accordo con Hamas.

Il vantaggio degli autobus che si affollano è che, se il primo è pieno, il secondo, con molto spazio, sarà subito dietro. Se Abbas, e dietro di lui Washington, impone troppe condizioni, Hamas può cercare l’accordo con Dahlan, che ne pone di meno.

Omar Karmi è un ex corrispondente del giornale “The National” [giornale di Abu Dhabi, negli EAU, ndt.] da Gerusalemme e da Washington.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 12 – 25 settembre 2017 (due settimane)

Nei territori palestinesi occupati [Cisgiordania e Striscia di Gaza], in scontri con le forze israeliane, sono stati feriti 48 palestinesi, tra cui dieci minori e sei donne.

Quattro i feriti nella Striscia di Gaza, durante le proteste presso la recinzione perimetrale, i rimanenti in Cisgiordania. Il numero più elevato di feriti (33) è stato registrato nel governatorato di Qalqiliya: nel villaggio di Azzun, durante un’operazione di ricerca-arresto e a Kafr Qaddum, durante la manifestazione settimanale contro le restrizioni di accesso. Inoltre, vicino al villaggio di Kiryat Arba (Hebron), le forze israeliane hanno colpito, ferito e successivamente arrestato un quindicenne palestinese che, a quanto riportato, aveva tentato di accoltellare un israeliano.

Complessivamente, in Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 123 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 152 palestinesi, di cui 20 minori. La maggior parte delle operazioni sono state svolte nei governatorati di Hebron e di Gerusalemme (37 ciascuno).

Il 20 settembre, nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya), un bambino palestinese di 11 anni è stato ferito dalla detonazione di un ordigno inesploso.

Nella Striscia di Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno dieci casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in direzione di civili palestinesi; un pescatore è stato ferito e la sua barca confiscata. Inoltre, è stato riferito che al valico di Erez un commerciante è stato arrestato dalle forze israeliane. In due occasioni le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza presso Khan Younis ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo lungo la recinzione perimetrale.

Il 13 settembre, nella città di Yatta (Hebron), durante uno scontro a fuoco avvenuto nel contesto di un’operazione di ordine pubblico, le forze di sicurezza palestinesi hanno ucciso un 34enne palestinese e ne hanno ferito un altro.

In Area C e Gerusalemme Est, per la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito 21 strutture, sfollando 29 persone, di cui 16 minori, e compromettendo i mezzi di sostentamento di altre 40. La demolizione più ampia è avvenuta in Area C, nella comunità di Istaih, vicino alla città di Jericho dove le autorità israeliane hanno demolito 16 strutture, tutte, tranne una, in fase di costruzione. A Gerusalemme Est sono state demolite quattro strutture: un impianto di lavaggio auto, un riparo per animali e il secondo piano di un edificio a due piani. La demolizione di quest’ultimo ha gravemente danneggiato l’intero edificio.

Nella comunità pastorale di Umm al Oborin, nella valle del Giordano settentrionale, le forze israeliane hanno sequestrato due mucche e 50 barili per la conservazione dell’acqua. Il sequestro ha compromesso il sostentamento di 14 persone, di cui quattro minori. La Comunità si trova all’interno di un’area che Israele ha dichiarato “zona per esercitazioni a fuoco” e riserva naturale. Inoltre, in due distinti episodi che hanno interessato i villaggi di Beit Furik (Nablus) e Kafr Qaddum (Qalqiliya), le autorità israeliane hanno sequestrato tre bulldozer di proprietà palestinese, adducendo la motivazione che gli stessi erano impiegati per costruzione illegale in Area C.

Militari israeliani, presentatisi presso la comunità di Khan al-Ahmar / Abu al Helu (Gerusalemme), in Area C, hanno reiterato ai leader locali l’ordine di lasciare l’area per trasferirsi in un sito di rilocalizzazione a loro destinato. Secondo i resoconti dei media, il Procuratore di Stato israeliano ha informato la Corte di Giustizia israeliana della sua intenzione di trasferire la Comunità entro la metà del 2018. Questa è una delle 46 comunità beduine palestinesi della Cisgiordania centrale, in cui vivono complessivamente circa 8.100 persone, a rischio di trasferimento forzato e gravate da un contesto coercitivo prodotto da una serie di politiche israeliane (demolizioni incluse) e da un piano di rilocalizzazione [stilato da Israele].

Il 13 settembre, secondo quanto riferito, coloni israeliani hanno dato fuoco a circa 400 ulivi appartenenti a 19 agricoltori palestinesi di Burin (Nablus). L’area presa di mira è adiacente all’insediamento colonico di Yitzhar e, per accedervi, ai palestinesi è richiesto un coordinamento preventivo con le autorità israeliane. Dall’inizio dell’anno sono stati vandalizzati circa 2.800 alberi di proprietà palestinese; lo scorso anno furono 1.650.

Secondo i rapporti dei media israeliani, sulle strade principali dei governatori di Ramallah e Hebron, almeno cinque episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie contro veicoli israeliani hanno causato il ferimento di due coloni israeliani, tra cui un minore, e danni ad almeno quattro veicoli.

Durante il periodo di riferimento, il valico egiziano di Rafah è stato aperto per tre giorni in una sola direzione, consentendo a 2.083 pellegrini palestinesi di fare ritorno nella Striscia di Gaza. Nel corso del 2017 il valico è stato parzialmente aperto per soli 29 giorni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrati e in attesa di attraversare.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 26 settembre, nei pressi del villaggio di Har Hadar (governatorato di Gerusalemme), un palestinese ha ucciso, con arma da fuoco, due guardie di sicurezza israeliane e un poliziotto di frontiera che erano in servizio presso un attraversamento della Barriera; l’aggressore è stato colpito e ucciso.

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L’eroe sionista progressista Barak si vanta che la sinistra israeliana ha “liberato” i territori occupati per gli ebrei

Jonathan Ofir

 30 settembre 2017, Mondoweiss

Questa settimana l’ex-primo ministro israeliano ‘di sinistra’ Ehud Barak ha seriamente vuotato il sacco riguardo all’occupazione del 1967 da parte di Israele, esprimendo in termini non ambigui che non si tratta di una questione esclusivamente della destra, come i suoi critici spesso amano dire. Barak ha dimostrato che è qualcosa di cui la “sinistra” è integralmente partecipe. E lo abbiamo sentito dalla bocca del diretto interessato – il diretto interessato chiamato ‘fulmine’ (in ebraico ‘Barak’ vuol dire fulmine).

Nel suo articolo su Haaretz, Barak ha lamentato il fatto che nella recente manifestazione che ha festeggiato i 50 anni dell’occupazione (pubblicizzata con lo slogan “Siamo tornati a casa”), non ci fossero abbastanza esponenti di ‘sinistra’. Barak ha detto che non c’era una rappresentanza sufficientemente nazionale: “Una cerimonia nazionale avrebbe sottolineato quello su cui siamo d’accordo e che ci unisce, piuttosto che quello che ci divide e separa,” ha scritto.

Sì, Barak sente che la ‘sinistra’ è esclusa, e non le viene riconosciuto a sufficienza il merito per la sua parte nell’occupazione e nel progetto di colonizzazione!

Una commemorazione nazionale avrebbe dovuto sottolineare che le persone che hanno costruito l’esercito israeliano e guidato la guerra per la liberazione di quelle parti della terra erano Yitzhak Rabin, Haim Bar-Lev, Motta Gur ed altri (che in seguito si rivelarono essere ‘di sinistra’, dio ce ne scampi), e che il partito che consolidò e guidò l’impresa di colonizzazione per un decennio, soprattutto in base a considerazioni relative alla sicurezza, furono l’odiato ‘Allineamento’ [significato della parola ebraica “Maarakh”, nome della coalizione israeliana di centro sinistra al potere in Israele dal 1969 al 1991, ndt.], il precursore del partito Laburista,” ha scritto.

Ah! L’ironia non potrebbe essere maggiore. Barak, nel suo patetico tentativo di giocare un ruolo centrale in qualunque cosa sia “nazionale”, in realtà finisce per sentirsi escluso, in quanto ‘di sinistra’, dai festeggiamenti. Nel suo sproloquio finisce per confermare che non c’è una reale differenza tra destra e sinistra sioniste – né storicamente, né nell’attualità.

Ciò è quello che il giornalista di “Haaretz” Gideon Levy sta sottolineando ormai da un po’ di tempo, e la sua risposta è arrivata il giorno dopo con l’articolo intitolato “Quale opposizione? Ehud Barak si adegua a Netanyahu ed ai coloni”, sottotitolato “Il valoroso ‘campo della pace’ di Israele è orgoglioso del numero di colonie che ha costruito, un tasso di costruzione all’anno che Netanyahu potrebbe solo sognarsi.”

Levy nota come Barak stia utilizzando lo stesso linguaggio degli estremisti di destra del governo, con frasi come “noi siamo orgogliosi del nostro ruolo nel ritorno in ogni parte della terra e nell’ impresa di colonizzazione che è indispensabile alla nostra sicurezza”, e Levy conclude che “questo è il segno distintivo di sinistra del partito Laburista, praticamente l’unica opposizione che Netanyahu abbia. Eppure è dubbio che Netanyahu si esprimerebbe in modo diverso.”

Di certo, come conclude Levy, l’articolo di Barak è “sorprendente” e dovrebbe essere ricordato e sottolineato in futuro come il vero volto della sinistra israeliana senza maschera. Barak nel suo articolo entra in dettagli per suggerire quali oratori avrebbero potuto essere scelti per rappresentare la ‘sinistra’:

Una commemorazione nazionale avrebbe dovuto includere sul palco il generale (della riserva) Elad Peled, un uomo che ha liberato Safed all’età di 21 anni, come capo di un’unità del Palmach [brigata d’elite facente parte dell’Haganah, milizia sionista durante il mandato britannico, ndtr.], e poi ha liberato tutta la Samaria [zona settentrionale della Cisgiordania nella denominazione ebraica, ndt.] all’età di 40, come capo della 36ima divisione,” scrive.

Ha liberato tutta la Samaria” – è chiaro?

Barak continua suggerendo persone come Dalia Rabin, la figlia del “capo di stato maggiore dell’esercito israeliano che ha presieduto alla vittoria”, Isaac Herzog, “leader dell’opposizione e figlio dell’ex capo dell’intelligence militare ed ex presidente Chaim Herzog, che dissipò i timori dell’opinione pubblica prima e durante la guerra con apparizioni in televisione – all’epoca un nuovissimo mezzo di comunicazione – e ricoprì il ruolo di primo governatore di Gerusalemme unificata,” così come Hila Elazar- Cohen, “la figlia maggiore del generale David Elazar, che pretese l’attacco e la conquista delle Alture del Golan fin dal primo giorno di guerra, e lo guidò dal quarto.”

Barak poi plaude al “Piano Allon”, proposto dal dirigente di sinistra Yigal Allon in seguito alla guerra del 1967 per conservare grandi parti della Cisgiordania e colonizzarle:

Una cerimonia statale avrebbe profuso elogi alla lungimiranza del “Piano Allon” e alla logica interna della fondazione di blocchi di colonie, di costruire quartieri ebraici a Gerusalemme est e di stabilire colonie lungo il fiume Giordano –una dimensione imposta da una seria prospettiva per la sicurezza e condivisa da tutti gli strati della società,” scrive.

Barak ha assolutamente ragione – il progetto di occupazione e di colonizzazione non è cosa che sia successa solo a causa di qualche colono messianico di destra – è stato un progetto premeditato in cui la destra e la sinistra sono state coinvolte fin dall’inizio.

La differenza tra Barak e i coloni di destra è piuttosto cavillosa a questo riguardo – riguarda le colonie isolate che non si trovano nei ‘blocchi di colonie’, che Barak vede come non utili per la sicurezza, ma che esistono piuttosto solo per rispettare il comandamento religioso di ‘colonizzare la terra’. Barak pensa che quello che realmente unirebbe tutti gli israeliani, piuttosto che separarli, sarebbe “innanzitutto la sicurezza, la convinzione che l’unità del popolo ha la precedenza sull’unità della terra, ed i valori della “Dichiarazione di indipendenza” – al contrario di “un progetto reazionario, nazionalista, macchiato di messianismo che minaccia tutto il nostro futuro.”

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Barak è un uomo di molti miti, ed ha avuto un ruolo centrale nella creazione di parecchi di essi. Ha uno status mitologico in quanto militare più decorato di Israele, noto come il “signor Sicurezza”, un uomo che venera la ‘sicurezza’ come se fosse un dio. Ha anche creato il mito dell’’offerta generosa’ che avrebbe fatto nel 2000 ad Arafat – un’offerta che era essenzialmente equivalente a bantustan [zone destinate ai neri nel Sudafrica dell’apartheid, ndt.]. Al contempo ha creato il mito correlato che, poiché Arafat ha rifiutato questa ‘offerta generosa’, ciò era la prova che “non c’era nessun interlocutore”.

La nozione di ‘sicurezza’ di Barak è quella classica sionista quando si tratta di palestinesi – controllo, ‘autonomia’, accerchiamento e, cosa più importante, separazione. Separazione oggi è la parola d’ordine della sinistra israeliana, e molti dimenticano che apartheid significa ‘separazione’. Il risultato concreto dei bantustan e della ‘separazione’, come la mette in pratica Israele, è l’apartheid, e lo abbiamo visto per moltissimi decenni. Tutto quello che Barak vuole è conservare la capacità di nasconderlo meglio e quei coloni ‘messianici’ di destra stanno fuorviando la richiesta di ‘sicurezza’.

Ma la richiesta di ‘sicurezza’ di Barak è fuorviata anche dalla sua stessa gente. Il suo stesso ministro degli Esteri nel 1999-2001, Shlomo Ben-Ami, chiama ‘mitica’ la richiesta di sicurezza nella valle del Giordano. Eppure i dirigenti di sinistra confermano la volontà di Barak di ‘legittimare’ i ‘blocchi di colonie’, che è la ragione per cui il leader della sinistra Isaac Herzog si è lamentato della risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU dello scorso anno, che ha condannato tutte le colonie (comprese quelle di Gerusalemme est) come “flagranti violazioni” delle leggi internazionali. Herzog era arrabbiato per il danno che questo ha causato ai “blocchi di colonie” – il danno fatto alla loro legittimità.

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Dopo tutto quello che è stato detto e fatto, l’unica differenza tra Barak ‘di sinistra’ e i coloni ‘messianici’ è che egli cerca di mettersi al servizio della vera religione di Stato di Israele – il sionismo – in base alla nozione più laica di ‘sicurezza’, mentre i coloni più di destra sono più interessati alle questioni della promessa divina.

In fin dei conti il “ritorno ad ogni parte della terra” di Barak non è poi così diverso dallo slogan ufficiale della cerimonia: “Siamo tornati a casa”. Il suo “liberata tutta la Samaria” non è poi così diverso dal “questa terra è nostra, tutta è nostra” dell’alta diplomatica israeliana Tzipi Hotoveli [vice-ministra degli Esteri e deputata del Likud, ndt.]. A volte succede che i principali dirigenti della sicurezza di Israele sputino il rospo in questo modo. Uno dei più rappresentativi uomini della sicurezza di Israele, Moshe Dayan, lo ha fatto parecchie volte. Una delle sue ammissioni più gravi è stata sulla guerra del 1967 e sulla fase preparatoria ad essa, che aveva più a che fare con le scaramucce con la Siria sul confine del Golan e nelle zone smilitarizzate. Nel 1976 disse al generale Israel Tal che i siriani il quarto giorno non erano “una minaccia per noi”, e spiegò come avvenne la maggioranza delle schermaglie:

So come iniziò là almeno l’80% degli scontri. Secondo me, più dell’80%, ma parliamo di circa l’80%. Successe così: mandavamo un trattore per arare una certa zona dove non si poteva fare niente, nell’area smilitarizzata, e sapevamo in anticipo che i siriani avrebbero iniziato a sparare. Se non sparavano, avremmo detto al trattore di andare ancora più avanti, finché i siriani si sarebbero infastiditi e avrebbero sparato. E allora avremmo utilizzato l’artiglieria e poi anche le forze aeree, e fu così che andò,” disse Dayan (come documentato da Serge Schmemann sul New York Times nel 1997).

Dayan spiegò anche a Tal che la vera ragione che stava dietro le provocazioni e la successiva conquista era in realtà solo l’avidità – l’avidità di terra:

Là gli abitanti dei kibbutz vedevano terra buona per l’agricoltura,” disse. “E bisogna ricordare che quello era un periodo in cui la terra agricola era considerata la cosa più importante e di valore.”

Tal si stava chiedendo se là non ci fosse veramente un problema di ‘sicurezza’. “Quindi tutto quello che volevano gli abitanti dei kibbutz era la terra?” chiese.

Dayan, pur confermando che naturalmente loro “volevano levarsi di torno i siriani”, tuttavia disse:

Le posso dire con assoluta sicurezza: la delegazione che andò a convincere Eshkol [all’epoca primo ministro israeliano, ndt.] di conquistare le Alture non stava pensando a queste cose. Stava pensando alla terra delle Alture. Senta, anch’io sono un coltivatore. Dopo tutto sono di Nahalal, non di Tel Aviv, e ne so qualcosa. Li vidi e parlai con loro. Non cercarono neanche di nascondere la loro avidità per quella terra.”

Come documentato in “1967” di Tom Segev, p. 388, la delegazione che descrive Dayan era stata inviata su ordine del generale David Elazar, capo del comando settentrionale al tempo della conquista. È lo stesso generale che Barak suggerisce che avrebbe dovuto essere rappresentato dalla sua figlia maggiore.

Barak può continuare a rimproverare quelli di destra perché sono troppo fanatici sulla questione della terra, ma lui è in realtà altrettanto avido di essa. Sta solo nascondendo l’avidità con la ‘sicurezza’, ed è quello che i sionisti hanno fatto da sempre.

Jonathan Ofir

  • Musicista, direttore d’orchestra, scrittore/blogger israeliano residente in Danimarca.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il presente e la sua storia

Chiara Cruciati, Michele Giorgio,  Cinquant’anni dopo, Edizioni Alegre, Roma 2017, pp.223, euro 15,00

Chi segua le drammatiche vicende del territorio tra il Giordano ed il mare e la tragedia infinita di Gaza, o legga il Manifesto, per cui gli Autori scrivono spesso, non ha bisogno di leggere il sottotitolo e il risvolto per capire che i cinquant’anni sono dopo la guerra israelo-palestinese del 1967. E non fa fatica a condividere la tesi del fallimento della soluzione dei due Stati, a cui non si vede alternativa; e quindi della prosecuzione indefinita dell’occupazione e della violenza sempre più asimmetrica che ne discende.

I primi tre capitoli dei nove del libro raccontano le vicende politiche, militari, culturali, la propaganda, delle due parti in conflitto. Poi vengono raccontate le storie particolari, da quella tragica e conflittuale di Gaza, di Hamas e di Fatah, degli abitanti non schierati in nessuna milizia; delle scelte di Israele e delle colonie ebraiche in Cisgiordania; di Gerusalemme e della sua asimmetrica riunificazione con la forza; della resistenza palestinese, nelle sue fasi. Chiudono un capitolo sulla economia vincolata, chiusa, dipendente, dei territori occupati, e uno sulla situazione internazionale, perché in questo come in tutte le situazioni di conflitto civile locale, malgrado la grande forza militare di Israele, sono le Grandi Potenze che stabiliscono le regole del gioco e determinano il risultato, perché lo accettano, anche se non lo producono direttamente, mentre ne impediscono altri.

Cosa ci dà il libro che non si trova negli articoli, di oggi e di ieri

Il libro ci dà una ricostruzione accurata ed equilibrata del contesto e del passato, che è ciò che manca anche ai lettori attenti, ben informati, ma non specialisti. Anche i lettori attenti possono aver cambiato idea nel corso del tempo, essersi informati negli anni, ma aver trascurato di ricostruire i precedenti. Ci aiuta a completare la nostra conoscenza degli atti, delle ideologie, della propaganda, delle parti in conflitto. che sono state sempre più di due – si pensi alla rivalità tra Olp e Hamas, o all’interno dell’Olp. Ci aiuta a capire che non esistono vittime assolute, eterne: non Israele, malgrado le stragi di ebrei in Europa, 75 anni fa; non chi governa Gaza, malgrado i massacri di innocenti. Ci ricorda che nella guerra senza fronti che si combatte in Palestina da un secolo l’immagine, la percezione, l’opinione pubblica mondiale, il consenso degli Stati, la loro disponibilità a fornire armi e denaro, sono stati spesso determinanti.

Il libro ci racconta i mutamenti, reali e d’immagine, nel tempo. Descrive l’acquisizione delle risorse strategiche, economiche e militari da parte di Israele; il controllo dell’acqua e del territorio. La propaganda delle due parti. Le divisioni e i conflitti interni dei palestinesi. L’evoluzione dei partiti israeliani – e la loro convergenza sul nazionalismo. Gli eccessi anche dell’Olp e del Fplp. Il sostegno di Israele ai Fratelli Musulmani, contro i più aggressivi laici. La nascita di Hamas; il cambiamento di politica di Israele nei suoi confronti; la guerra intestina a Gaza. L’origine e lo sviluppo delle due intifade; l’occupazione del Libano e Sabra e Chatila; l’uccisione di Rabin e la vittoria degli estremisti in Israele, fino alla vittoria di Netanyahu e alla situazione attuale, dominata da partiti estremisti, ultranazionalisti e religiosi.

Il punto di vista degli autori

Ho definito equilibrata ed accurata la ricostruzione degli autori. Nessuno ha la competenza per garantire l’oggettività e la completezza di una storia così intricata. Intendo dire che gli autori si sono messi dal punto di vista degli uomini, delle donne, dei bambini, presenti sul territorio tra il Giordano ed il mare e che non hanno trascurato di raccontare strumentalità e violenze da ambedue le parti. Non hanno idealizzato né i partiti e i dirigenti palestinesi né quelli israeliani. Anche per Gaza, che è un campo di concentramento a cielo aperto, e per Gerusalemme, che è un simbolo per mezzo mondo, per ambedue le parti in conflitto, hanno guardato alle condizioni degli abitanti, non sostenuto la santità dei guerrieri o la giustezza delle decisioni dei leader.

Naturalmente, per quel che riguarda la completezza, anche un non professionista può citare episodi che lo hanno toccato da vicino o che hanno avuto un’eco importante in Italia e di cui il libro non parla o che nomina appena.

Il sequestro dell’Achille Lauro, l’uccisione di Klinghoffer, ebreo ed invalido, il confronto armato di Sigonella, è noto a tutti quelli che hanno l’età per ricordarlo. Le due stragi di Fiumicino, del 1973, la più grave, con una trentina di morti, e quella dell’85, mi sono ben presenti, perché nella prima morì bruciato un mio vecchio collega in partenza per Teheran; la rappressaglia israeliana per la strage di Monaco mi è ben presente perché uno dei presunti complici uccisi era molto amico di vari redattori del Manifesto che erano sicuri della sua innocenza e ne parlavano. Ma se si dovesse parlare dei singoli morti di questa come di altre guerre contemporanee ci vorrebbe un’enciclopedia.

Gli autori cercano di dare un quadro generale, e registrano la sconfitta, l’impossibilità di usare la forza, da parte dei palestinesi. E sostengono che non avere la forza non vuol dire non avere ragioni, se non addirittura ragione, sul punto fondamentale della libertà dall’occupazione.

Francesco Ciafaloni

Francesco Ciafaloni, nato il primo agosto 1937 a Teramo, ha lavorato come ingegnere del petrolio per l’Agip dal 1961 al 1966. E’ stato redattore di Paolo Boringhieri dal ’66 al ’70 e poi di Giulio Einaudi dal ’70 alla crisi dell’inizio degli anni ’80. Da allora ha lavorato soprattutto coi migranti, prima alle dipendenze della Cgil, poi come volontario. Ha lavorato per il “Comitato oltre il razzismo”. Attualmente collabora con i mensili “Una città” e “Gli asini” e con il sito “Workingclass”.




Nonostante l’opposizione di Netanyahu, la riconciliazione dei palestinesi è nell’interesse di Israele

Amira Hass

4 ottobre 2017,Haaretz

Israele ha molte ragioni per opporsi ai colloqui tra Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese, ma il disastro umanitario ed ambientale di Gaza gli fornisce ragioni per appoggiarli.

Martedì Israele non ha cercato di impedire che importanti funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese entrassero nella Striscia di Gaza, viaggiando su auto che portavano targhe palestinesi. Se fossimo stati cinici avremmo detto che Israele ha deciso di non impedire questa mossa – che compromette la sua strategia a lungo termine, che risale al 1991, di isolare la popolazione di Gaza da quella della Cisgiordania – perché è un film già visto.

In altre parole, il profondo disaccordo tra i due partiti rivali al potere, Fatah e Hamas – soprattutto sulle armi e sui servizi di sicurezza – farà il lavoro per lui, e in fin dei conti impedisce che la frattura interna palestinese venga sanata. Quindi, perché Israele dovrebbe recitare la parte del cattivo?

In realtà il primo ministro Benjamin Netanyahu ha espresso pubblicamente opposizione alla riconciliazione solo dopo che il posto di controllo di Erez era stato aperto alla numerosa delegazione proveniente dalla Cisgiordania. Allo stesso modo il ministro della Difesa Avigdor Lieberman [del partito di estrema destra “Israele è casa nostra”, ndt.] ha evitato di ordinare all’amministrazione di contatto [tra Israele e l’ANP, ndt.] dell’esercito di fare quello che fa così bene – rimandare il rilascio dei permessi di uscita dalla Cisgiordania.

Ma si può sempre sperare che qualcuno in Israele comunque capisca che la priorità assoluta ora sia evitare che Gaza precipiti in un disastro ambientale ed umanitario ancora peggiore di quello in cui già si trova. E ciò è possibile solo alle seguenti condizioni: Israele deve porre fine alle restrizioni sull’importazione di materiali da costruzione e di materie prime; il meccanismo per la ricostruzione delle infrastrutture, che richiede un complesso coordinamento con le forze di sicurezza israeliane e con gli Stati donatori, deve essere semplificato e snellito; le lotte interne palestinesi sulla riscossione delle imposte e sulle fatture dell’elettricità devono finire.

Tutto ciò è possibile solo se i palestinesi hanno un governo unico, e solo se questo governo è accettato – e non solo in parte o nel solito modo riluttante – da Israele, dagli Stati donatori e dalle organizzazioni dell’aiuto internazionale, innanzitutto dalle Nazioni Unite. E questo governo può essere solo l’Autorità Nazionale Palestinese.

Nonostante lo neghi, su Israele ricade la principale responsabilità per la disastrosa situazione di Gaza. Ma adesso non importa. Adesso è necessario andare oltre i soliti cliché sul “finanziamento del terrorismo” e sul presidente palestinese Mahmoud Abbas che “si unisce a un’organizzazione terroristica assassina,” come ha detto martedì il ministro dell’Educazione Naftali Bennet [del partito di estrema destra dei coloni “Casa Ebraica”, ndt.]. Adesso è necessario agire.

Non c’è più tempo, la fornitura di energia a Gaza deve essere immediatamente aumentata, e in misura superiore a quella che era prima dei tagli della fornitura da parte di Israele su richiesta di Abbas. Israele deve fornire a Gaza altre decine di milioni di metri cubi d’acqua.

Non è solo nell’interesse dei palestinesi. Anche Israele ha interesse che le acque reflue di Gaza vengano trattate invece di essere scaricate in mare, che l’acquifero di Gaza non collassi e che i suoi residenti abbiano cure mediche adeguate. Anche Israele ha interesse nella prevenzione di epidemie a Gaza.

Per Hamas, come movimento politico che vede se stesso come il vero rappresentante di tutti i palestinesi (a Gaza, in Cisgiordania e nella diaspora), cedere il controllo di Gaza è nei suoi stessi interessi, anche se perdesse i centri di potere e il controllo che si era abituato ad avere nell’ultimo decennio. I dirigenti di Hamas Yahya Sinwar e Ismail Haniyeh sono entrambi nati a Gaza e ci vivono ancora, per cui hanno fatto esperienza diretta del suo disastro umano ed ambientale. Sanno che la loro organizzazione non può continuare a condurre i propri esperimenti di gestione a spese del benessere del suo popolo.

Le iniziative punitive che Israele ed i Paesi occidentali hanno preso contro il governo eletto di Hamas immediatamente dopo la sua costituzione 11 anni fa consentono all’organizzazione di cedere le chiavi del potere senza ammettere pubblicamente la sconfitta. In Cisgiordania e nella diaspora – anche se, per ovvie ragioni, non a Gaza – in effetti i palestinesi ammirano la sua scelta di armarsi e di affrontare militarmente Israele. Questo potrebbe essere sufficiente perché Israele si opponga alla riconciliazione, se la minacciosa previsione dell’ONU secondo cui Gaza entro il 2020 sarà inabitabile non incombesse sulle nostre teste.

Perché l’ANP e il suo partito di governo Fatah vogliono prendersi l’ingrato compito di governare la crisi di Gaza? Finora sembra abbiano dei problemi a dimostrare che lo stiano facendo per senso di responsabilità nazionale piuttosto che per ragioni personali o di fazione. Alcuni abitanti di Gaza hanno detto che la delegazione di Ramallah [sede del governo dell’ANP, ndt.] è entrata come se si trattasse di vittoriosi conquistatori.

Abbas ha già cercato di rovinare l’atmosfera con i suoi modi riluttanti e le precondizioni che ha posto ad Hamas in un’intervista televisiva lunedì, compreso il disarmo e la fine del coinvolgimento del Qatar a Gaza. I gazawi credono che avrebbe potuto fare le cose in modo diverso, lasciando le condizioni a dopo l’inizio dei negoziati. Abbas sta facendo dubitare la gente che Fatah, o almeno lui stesso, voglia veramente consentire la riconciliazione e togliere le sanzioni che ha imposto a Gaza.

Evitare che Gaza precipiti in un disastro peggiore è una ragione per cui l’ANP ha intenzione di riconciliarsi. Un’altra possibile spiegazione è un rinnovato tentativo diplomatico di ottenere che lo “Stato di Palestina” venga accolto come membro a pieno titolo dell’ONU.

Facendo richieste alla comunità internazionale, comprese richieste di fare pressione su Israele, Abbas e i suoi successori devono dimostrare di rappresentare tutto il popolo dei territori occupati nel 1967. Rinunciare a Gaza, anche se è più conveniente dal punto di vista finanziario, indebolisce la sua posizione di apertura diplomatica.

Il palese coinvolgimento dell’Egitto nel processo di riconciliazione fornisce il vento in poppa all’ANP e invia un segnale ad Israele: come in passato, e a dispetto dei desideri di Israele, l’Egitto non ha intenzione di lasciare che Gaza venga annessa ad esso o staccata dal resto della popolazione palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 

 




Le riserve di acqua naturale di Israele si stanno prosciugando

*Nota redazionale: riteniamo interessante per il lettore tradurre questo breve articolo sulla situazione idrica in Israele, nonostante non riguardi direttamente i palestinesi, se non quelli con nazionalità israeliana. Infatti questa scarsità di risorse idriche mette in luce lo sfruttamento indiscriminato del territorio da parte di un sistema economico, principalmente agricolo, che ha utilizzato le risorse idriche per sviluppare una produzione per il mercato con un fortissimo impatto ambientale. Questa situazione smaschera anche la presunta capacità del sistema israeliano di utilizzare al meglio l’acqua a disposizione e la pretesa di Israele di essere un modello da questo punto di vista. Ma soprattutto preannuncia ulteriori problemi per i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza. I primi sono già stati vittime per due estati di seguito dell’appropriazione delle acque dei territori occupati da parte dei coloni e dello Stato di Israele, di cui abbiamo dato conto in alcuni articoli che si possono trovare sul sito. Rischiano quindi di vedersi privare ulteriormente delle proprie stesse risorse idriche a favore dei coloni e dei cittadini israeliani. Quelli di Gaza, in cui più del 90% dell’acqua non risponde ai criteri di potabilità stabiliti dall’OMS, importano da Israele una parte del proprio fabbisogno idrico, che rischia di venire decurtato per soddisfare le necessità della popolazione israeliana.

Mentre gli impianti di desalinizzazione forniscono due terzi dell’uso domestico di acqua, le sorgenti di acqua naturale sono essenziali per coprire le altre necessità. Proposti gravi tagli.

 Zafrir Rinat

2 ottobre 2017, Haaretz

L’autorità per le acque sta proponendo i tagli più drastici all’uso dell’acqua dell’ultimo decennio, perché alla fine di settembre solo una delle tre principali sorgenti di acqua naturale di Israele era ancora utilizzabile. Le altre due erano al di sotto della linea rossa, il che significa che il pompaggio deve finire.

La decisione è stata anche motivata dalle previsioni di piogge al di sotto della media nel prossimo anno.

Sia il lago Kinneret che l’acquifero montano occidentale erano al di sotto della linea rossa a settembre, che è considerato la fine dell’anno idrologico. L’acquifero costiero era ancora utilizzabile, ma anche questo ha solo una piccola quantità d’acqua da sfruttare, che si trova nella sua parte meridionale.

Quando una sorgente d’acqua scende al di sotto della linea rossa, la qualità dell’acqua viene danneggiata perché l’acqua salmastra si può infiltrare dal mare o da acquiferi circostanti.

Secondo il rapporto annuale emesso dal servizio idrologico statale, nel complesso le fonti di acqua naturale di Israele sono sotto di un milione di metri cubici rispetto ai livelli ottimali, cioè il livello al quale la qualità dell’acqua è maggiormente garantita. Il lago Kinneret è sceso al di sotto della linea rossa mesi fa.

L’acquifero costiero è 618 milioni di metri cubi al di sopra della linea rossa, ma di questi solo 63 milioni di metri cubi nella parte meridionale sono attualmente utilizzabili, perché il resto è già stato contaminato. Questa quantità è circa la metà della produzione annuale di un impianto di desalinizzazione e meno di un decimo del consumo domestico annuale di Israele.

Benché in teoria se ne potrebbe pompare ancora dall’acquifero, ciò danneggerebbe ulteriormente la qualità dell’acqua.

Normalmente gli impianti di desalinizzazione riforniscono due terzi dell’uso domestico di acqua. Ma, poiché le sorgenti di acqua naturale sono essenziali per coprire il resto dei consumi, l’autorità per l’acqua è molto preoccupata per la sua riduzione. Questa preoccupazione è aggravata da previsioni di piogge inferiori alla media nel prossimo inverno, forse anche in modo significativo inferiori alla media.

La scorsa settimana il comitato esecutivo dell’autorità per le acque si è riunito per redigere raccomandazioni sull’uso dell’acqua per il prossimo anno. Le sue decisioni, che verranno inviate per l’approvazione al consiglio direttivo statale, sono di ridurre drasticamente di 130 milioni di metri cubi le destinazioni di acqua dello scorso anno.

Di questi, 80 milioni di metri cubi saranno sottratti ai coltivatori, il che rappresenta una riduzione di decine di punti percentuali. Il resto dovrebbe venire dall’irrigazione comunale di parchi e giardini.

I coltivatori sono furiosi per la proposta. L’associazione di produttori di frutta israeliani, per esempio, ha affermato che il taglio obbligherebbe li a sradicare i loro frutteti.

Ma gli esperti hanno detto al comitato esecutivo che il pompaggio dal lago Kinneret dovrà essere quasi del tutto interrotto – ed anche così si prevede che il lago scenda al suo livello più basso della storia. Hanno anche detto che la maggioranza delle trivellazioni nella Galilea occidentale dovrebbero essere interrotte se si devono evitare danni alle sorgenti di acqua naturale.

L’autorità per le acque sta proponendo i tagli più drastici all’uso dell’acqua dell’ultimo decennio, perché alla fine di settembre solo una delle tre principali sorgenti di acqua naturale di Israele era ancora utilizzabile. Le altre due erano al di sotto della linea rossa, il che significa che il pompaggio deve finire.

La decisione è stata anche motivata dalle previsioni di piogge al di sotto della media nel prossimo anno.

Sia il lago Kinneret che l’acquifero montano occidentale erano al di sotto della linea rossa a settembre, che è considerato la fine dell’anno idrologico. L’acquifero costiero era ancora utilizzabile, ma anche questo ha solo una piccola quantità d’acqua da sfruttare, che si trova nella sua parte meridionale.

Quando una sorgente d’acqua scende al di sotto della linea rossa, la qualità dell’acqua viene danneggiata perché l’acqua salmastra si può infiltrare dal mare o da acquiferi circostanti.

Secondo il rapporto annuale emesso dal servizio idrologico statale, nel complesso le fonti di acqua naturale di Israele sono sotto di un milione di metri cubici rispetto ai livelli ottimali, cioè il livello al quale la qualità dell’acqua è maggiormente garantita. Il lago Kinneret è sceso al di sotto della linea rossa mesi fa.

L’acquifero costiero è 618 milioni di metri cubi al di sopra della linea rossa, ma di questi solo 63 milioni di metri cubi nella parte meridionale sono attualmente utilizzabili, perché il resto è già stato contaminato. Questa quantità è circa la metà della produzione annuale di un impianto di desalinizzazione e meno di un decimo del consumo domestico annuale di Israele.

Benché in teoria se ne potrebbe pompare ancora dall’acquifero, ciò danneggerebbe ulteriormente la qualità dell’acqua.

Normalmente gli impianti di desalinizzazione riforniscono due terzi dell’uso domestico di acqua. Ma, poiché le sorgenti di acqua naturale sono essenziali per coprire il resto dei consumi, l’autorità per l’acqua è molto preoccupata per la sua riduzione. Questa preoccupazione è aggravata da previsioni di piogge inferiori alla media nel prossimo inverno, forse anche in modo significativo inferiori alla media.

La scorsa settimana il comitato esecutivo dell’autorità per le acque si è riunito per redigere raccomandazioni sull’uso dell’acqua per il prossimo anno. Le sue decisioni, che verranno inviate per l’approvazione al consiglio direttivo statale, sono di ridurre drasticamente di 130 milioni di metri cubi le destinazioni di acqua dello scorso anno.

Di questi, 80 milioni di metri cubi saranno sottratti ai coltivatori, il che rappresenta una riduzione di decine di punti percentuali. Il resto dovrebbe venire dall’irrigazione comunale di parchi e giardini.

I coltivatori sono furiosi per la proposta. L’associazione di produttori di frutta israeliani, per esempio, ha affermato che il taglio obbligherebbe li a sradicare i loro frutteti.

Ma gli esperti hanno detto al comitato esecutivo che il pompaggio dal lago Kinneret dovrà essere quasi del tutto interrotto – ed anche così si prevede che il lago scenda al suo livello più basso della storia. Hanno anche detto che la maggioranza delle trivellazioni nella Galilea occidentale dovrebbero essere interrotte se si devono evitare danni alle sorgenti di acqua naturale.

(traduzione di Amedeo Rossi)