La “soluzione dei due Stati” ha sempre e solo voluto dire un grande Israele che governa su un bantustan palestinese. Lasciamola perdere

Jeff Halper

18 gennaio 2018, Haaretz

Quando gli ebrei della sinistra “estrema” conducono una battaglia per uno Stato unico, sostenendo il solo orizzonte politico che non sia l’apartheid, gli ebrei USA ci attaccano – perché lottiamo per gli stessi valori democratici che essi apprezzano così tanto a casa loro

Nel suo editoriale su Haaretz (“Ciò che una ‘soluzione dello Stato unico’ significa realmente: l’apartheid sancito da Israele o un’eterna, sanguinosa guerra civile”) Eric Yoffie chiede: “Non ci sono là israeliani sensati – di sinistra, di destra e soprattutto di centro – che comprendano i pericoli (di una soluzione dello Stato unico)?”

Questa domanda potrebbe essere posta esattamente al contrario: cos’altro deve succedere prima che gli israeliani, di sinistra, di destra e di centro, finalmente capiscano che il loro governo ha già deliberatamente, sistematicamente e concretamente eliminato la soluzione dei due Stati?

Yoffie propone una falsa simmetria: una sinistra e una destra “estremiste” che sostengono entrambe, nei fatti o esplicitamente, un unico Stato bi-nazionale, mentre un presunto futuro governo israeliano incarnerebbe ancora una volta un’“orgogliosa, liberale e democratica patria ebraica”, che viva in pace accanto ai suoi vicini palestinesi in una soluzione dei due Stati.

Questa è un’opinione, a dir poco, distorta. Di fatto ogni governo israeliano dal 1967 non è mai stato all’altezza di quegli orgogliosi valori liberali, perseguendo un Israele allargato che dominasse su un bantustan palestinese monco, anche se lo hanno fatto spacciandolo per una “soluzione dei due Stati”.

A poche settimane dall’inizio dell’occupazione nel 1967, il piano Allon (sotto il governo del primo ministro laburista Levi Eshkol) aveva già proposto che Israele annettesse il territorio circondando ed isolando i centri abitati palestinesi.

Questo piano ha guidato la politica di colonizzazione israeliana negli ultimi 50 anni ed è oggi un fatto compiuto irreversibile. Quando il “processo di pace” di Oslo iniziò, c’erano 200.000 coloni (e, sì, io includo Gerusalemme est, che è occupata, indipendentemente da quello che sostengono Israele e l’amministrazione Trump).

Nel 2000, alla fine di Oslo, c’erano 400.000 coloni in popolosi “blocchi di colonie” che hanno frammentato il territorio palestinese in circa 70 piccole enclave delle Aree A e B, oltre alla prigione che è Gaza. Oggi la popolazione di coloni si avvicina agli 800.000.

Se la soluzione dei due Stati è finita, ciò è dovuto ai successivi israeliani “sensati” al governo, in particolare Golda Meir e Ehud Barak [entrambi laburisti, ndt.], così come quelli del Likud [partito di destra, ndt.], di Kadima [partito di centro, ndt.] e della destra religiosa, e della sinistra sionista, della destra “estremista” e del sempre disponibile centro che li ha portati al governo.

Netanyahu e la destra religiosa hanno proclamato ai quattro venti la fine della soluzione dei due Stati, mentre entrambi i partiti della sinistra sionista, il Laburista ed il Meretz, hanno di fatto abbandonato la lotta per la pace, dichiarandosi partiti “socialdemocratici” preoccupati principalmente di questioni interne israeliane. I dirigenti laburisti, in particolare, per parecchi anni sono stati esplicitamente d’accordo con il Likud che “i tempi non sono maturi per una soluzione dei due Stati”.

Se un qualche settore della società israeliana ha mai sostenuto sinceramente la soluzione dei due Stati è stata la sinistra “estremista” – alla sinistra del Meretz – che ha lottato instancabilmente per questo al di fuori di qualunque governo (e, siamo onesti, anche l’Autorità Nazionale Palestinese sotto Arafat e Abbas l’ha appoggiata, persino quando i governi israeliani la stavano logorando).

Chi, se non la sinistra extraparlamentare, ha costantemente manifestato contro la costruzione di colonie, un’impresa perseguita con altrettanto vigore dai laburisti come dal Likud?

Quando, nel 1999, l’allora primo ministro Ehud Barak dichiarò, dopo il fallimento dei negoziati di Camp David, che “non c’erano controparti (palestinesi) per la pace,” l’opinione pubblica ebrea israeliana, compresi il Meretz, Peace Now [organizzazione pacifista, ndt.] e il resto della “sinistra sionista”, abbandonarono la ricerca di una pace giusta – ma non la sinistra “estremista”, che ha continuato ad impegnarsi persino quando la soluzione dei due Stati è scomparsa dalla nostra vista.

Ma Yoffie si sbaglia anche quando descrive quello che lui chiama la posizione per lo Stato unico della “sinistra estrema”. I gruppi di sinistra che riconoscono la fine della soluzione dei due Stati non si sono spostati verso un’alternativa dello Stato unico – almeno non ancora. Jewish Voice for Peace [gruppo di ebrei americani contrario all’occupazione ed alla colonizzazione della Cisgiordania, ndt.], che Yoffie demonizza perché appoggia il BDS, non sostiene attivamente una simile soluzione. Ed il resto della sinistra “estremista” sta ancora dibattendo su dove andare.

Benché molti di noi sostengano ancora la soluzione dei due Stati come una soluzione percorribile, se non giusta, ciò non può significare apartheid. Se l’“estrema” sinistra si è in effetti spostata su una posizione dello Stato unico è semplicemente perché abbiamo avuto il coraggio di riconoscere la realtà politica e i “fatti sul terreno”: la soluzione dei due Stati è morta quando l’impresa di colonizzazione ha raggiunto una massa critica, quando la frammentazione del territorio palestinese ha reso impossibile uno Stato palestinese sostenibile e sovrano.

Siamo rimasti con una sola via d’uscita. Dobbiamo trasformare lo Stato unico dell’ apartheid, che Israele ha creato, in uno Stato democratico di uguali diritti per tutti i suoi cittadini. Una democrazia – che non dovrebbe essere un concetto assolutamente estraneo a un americano come Yoffie, o agli israeliani che sostengono che il loro Paese è l’unica democrazia del Medio Oriente.

La sinistra “estremista” deve ora condurre una lotta per un unico Stato democratico binazionale in Israele/Palestina, non perché lo vogliamo, ma perché sono stati i sionisti “sensati” di Yoffie che ci hanno lasciato questa come unica opzione possibile rispetto all’apartheid. È l’unico modo per evitare che gli ebrei diventino gli afrikaaner [popolazione di origine olandese che ha colonizzato il Sudafrica ed ha imposto l’apartheid alla popolazione nativa, ndt.] , o peggio, del Medio Oriente.

Vogliamo una via d’uscita dal vicolo cieco del sionismo politico, e un ritorno al sionismo culturale di Ben-Yehuda, Henrietta Szold, Ahad Ha-am, Judah Magnes e Martin Buber, che immaginavano un popolo ebraico che vivesse insieme ai propri vicini palestinesi.

Questa è una sfida che libererà realmente entrambi i popoli, un progetto positivo di una nuova generazione di sionisti culturali. Abbiamo bisogno di uno Stato che offra uguali diritti a tutti i propri cittadini – un’unica cittadinanza, un unico voto, un unico parlamento – ma che garantisca il diritto costituzionale sia degli ebrei israeliani che degli arabi palestinesi alla propria identità, alla propria narrazione e alle proprie istituzioni.

Non c’è motivo di credere che ciò porterebbe ad una “guerra civile senza fine e sanguinosa”, come sostiene Yoffie. Gli ebrei israeliani avrebbero il diritto di vivere ovunque, comprese le colonie; i rifugiati palestinesi potrebbero tornare a casa; si svilupperebbe una società civile comune; economicamente il Paese fiorirebbe, sostenuto da due ricche e colte diaspore parallele, ebraica e palestinese.

Questa è la sfida che l’“estrema” sinistra deve cercare di realizzare. Che piaccia o meno, questo è tutto ciò che ci hanno lasciato i sionisti “sensati” sbandierati da Yoffie, insieme con la destra “estrema” che ci governa.

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Jeff Halper è il capo del Israeli Committee Against House Demolitions   [ICAHD, Comitato Israeliano contro la Demolizione delle Case, ndt.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele non rilascerà fino alla fine del processo l’adolescente palestinese che ha schiaffeggiato il soldato

Jack Khoury

17 gennaio, 2018 Haaretz

L’azione che ha manifestato e la gravità della violenza che lei ha messo in atto sono una prova che è pericolosa” dice il giudice che ha respinto la richiesta di rilasciarla.

Mercoledì [17 gen.] la corte d’appello israeliana ha stabilito che Ahed Tamimi, l’adolescente palestinese che è apparsa in un video mentre schiaffeggia un soldato dell’IDF , non verrà rilasciata fino a quando non terminerà il procedimento giudiziario nei suoi confronti.

Tamimi, la ragazza sedicenne di Nabi Saleh in Cisgiordania, è accusata di cinque imputazioni di aggressione alle forze di sicurezza e di istigazione. Sua madre è accusata di avere fotografato due incidenti e di istigazione sulle reti sociali.

Il giudice militare maggiore Haim Baliti ha respinto la richiesta di Tamimi di libertà provvisoria in attesa del suo processo. Nella sua argomentazione, il giudice ha notato che la Corte Suprema ha sottolineato che la libertà di espressione non consente di disturbare la pace o di commettere violenza, e che la difesa ha sbagliato nel mettere sullo stesso piano le azioni incendiarie [di Tamimi] e le proteste di un’attivista sociale. Le prove contro Tamimi, ha aggiunto, sono solide.

L’intraprendenza dimostrata, l’ampiezza e la gravità della violenza usata sono una prova che è pericolosa. La sua giovane età è un elemento da tenere in considerazione riguardo alla sua richiesta, ma nonostante ciò e tenendo conto considerazioni relative alla riabilitazione, non vi sono alternative concrete alla detenzione e non ne è stata presentata nessuna” ha detto Baliti.

Il giudice ha anche notato che Ahed è stata coinvolta in una lunga serie di precedenti reati e che il tempo trascorso da quando si sono svolti non ha prodotto effetti. “Questa è una persona che è stata coinvolta in molte occasioni in attacchi e minacce contro i soldati, usando anche un linguaggio provocatorio. Non ho altra scelta se non ordinare la sua detenzione fino alla fine del processo”.

La settimana scorsa, la corte ha deliberato di rilasciare la cugina di Ahed, Nur Tamimi, affermando che “deve rispettare le condizioni del rilascio come imposte dal tribunale, incluso il pagamento di una cauzione e qualcuno che garantisca per lei.”

Secondo l’avvocato di Ahed , Gaby Lasky, i fatti addebitati non giustificano una detenzione così lunga. Come ha detto lunedì a Haaretz, l’hanno trattenuta per trovare materiale sui precedenti incidenti e infatti hanno costruito un’accusa riguardante avvenimenti successi un anno e mezzo fa e anche prima, che non sono stati denunciati fino al suo attuale arresto. Non ci sono stati denunce o verbali su di essi.

In risposta questa decisione l’organizzazione israeliana contro l’occupazione B’tselem ha detto che l’udienza è “un chiaro esempio, uno fra i tanti, di come il sistema della giustizia militare non è uno strumento di giustizia, ma piuttosto un meccanismo fondamentale di repressione al servizio del controllo israeliano dei palestinesi nei territori”

La cugina di Ahed, Nur Tamimi è stata imputata dell’accusa di aggressione aggravata e di avere cercato di impedire a un soldato di portare a termine i suoi compiti lunedì. Lei è stata arrestata insieme alla cugina, Ahed, e alla madre di Ahed, Nariman. Nur è l’unica delle tre a non avere precedenti.

Giovedì scorso [11 gennaio], la corte militare ha ordinato il rilascio di Nur e ha prolungato la detenzione di Ahed e Nuriman. Tuttavia, il tribunale ha ritardato il rilascio di Nur fino a domenica per permettere alla procura militare di presentare appello contro il rilascio. Nur è l’unica delle tre a cui l’esercito non ha attribuito atti di violenza.

Il video che ha portato all’arresto di Nur e di Ahed Tamimi mostra le due che schiaffeggiano un soldato e che provano a tirare un calcio per provocare una reazione. Dopo che il primo soldato che ha aggredito non ha risposto con violenza, Ahed gli ha tirato un calcio e lo ha schiaffeggiato. Poi ha affrontato il secondo soldato che stava lì vicino e ha cercato di colpire anche lui. I due soldati non hanno risposto, né colpendole né scacciandole.

Nel contesto della vita sotto occupazione e delle consuete immagini di violenza tra palestinesi e soldati, queste sono segni che ispirano speranza, ed è così che sono state percepite in tutto il mondo.

Molti in Israele hanno visto questi fatti in modo diverso. Invece di autocontrollo e di moderazione, la destra ha visto fragilità, vigliaccheria e debolezza. L’esercito ha arrestato le ragazze Tamimi in seguito a queste critiche.

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Il carceriere della prigione di Gaza e la crescente soglia del collasso della Striscia

Amira Hass

16 gennaio 2018, Haaretz

L’isolamento della Striscia di Gaza e dei suoi abitanti, come progetto politico piuttosto che di sicurezza, è iniziato molto prima dei razzi Qassam

Il carceriere avverte che il campo di internamento è sull’orlo del collasso. È un bene che lo faccia, ed è un bene che il suo avvertimento sia diventato il titolo di testa su Haaretz. Ma è difficile ignorare a chi è indirizzato tale avvertimento: al governo e soprattutto al ministro della Difesa Avigdor Lieberman.

La preoccupazione del carceriere – cioè i dirigenti di alto livello dell’apparato di sicurezza – sembra sincera. Non vi è motivo di sospettare che stiano semplicemente preparando la propria difesa presso il Tribunale Penale Internazionale, per il giorno in cui vengano ricercati i sospettati per il continuo disastro noto come prigione della Striscia di Gaza.

Il livello del collasso di Gaza sale ogni anno, a causa dell’intollerabile capacità di resistenza dei palestinesi. Il sogno politico di Israele della Striscia di Gaza come entità separata geograficamente e politicamente può essere realizzato solo distruggendo la sua economia e le sue infrastrutture e la salute mentale e fisica dei suoi abitanti. Niente lo illustra meglio della questione dell’acqua.

Quando i dirigenti israeliani avvertono ipocritamente che il 95% dell’acqua di Gaza non è potabile, evitano [di citare] l’assurdità originaria: Israele costringe Gaza a procurarsi l’acqua dalla falda acquifera situata all’interno dei suoi confini. Questa falda acquifera, che nel 1950 forniva acqua a circa 300.000 persone, dovrebbe oggi fornirne la stessa quantità a due milioni di persone. Non c’è da meravigliarsi che vi siano eccesso di estrazione e contaminazione con acque di scarico e acqua di mare.

Il sogno israeliano della Striscia di Gaza come territorio separato geograficamente e politicamente ha provocato e continua a provocare una serie di danni la cui entità è difficile da calcolare. Le autorità, i Paesi donatori e le singole famiglie hanno speso e continuano a spendere enormi quantità di denaro per purificare l’acqua potabile. Come per i tunnel, questo avviene a spese dei finanziamenti per la sanità, l’educazione, le infrastrutture e le strutture per i bambini.

Lo dirò per l’ennesima volta: l’unica soluzione a breve termine è convogliare l’acqua a Gaza da Israele e dalla Cisgiordania, senza mercanteggiare sul prezzo o attendere la riconciliazione palestinese tra Fatah e Hamas. Da sette a dieci milioni di metri cubi all’anno [la quantità variabile di acqua fornita a Gaza da Israele, ndt.] è come versare un bicchier d’acqua in una piscina.

La desalinizzazione è impossibile quando le acque di scarico fluiscono in mare. E gli scarichi continueranno a fluire in mare finché Israele non ridurrà le rigide restrizioni all’entrata di materiali grezzi e pompe a Gaza ed alla libertà di movimento di ingegneri, imprenditori e consulenti. Ogni restrizione comporta perdite di tempo e di energia, pagamenti agli avvocati, inutili spese per stabilire il danno che è già stato causato, spese mediche per malattie che avrebbero potuto essere prevenute se si fosse permesso per tempo l’ingresso di una pompa, sottoutilizzo di manodopera e di competenze e fuga di cervelli.

Lo stesso vale per ogni altro aspetto della vita. I professionisti israeliani della sicurezza eseguono fedelmente i loro ordini di vietare la pesca, sparare ai contadini e costringere la gente ad aspettare ore per un interrogatorio di due minuti da parte del servizio di sicurezza dello Shin Bet, e poi si lamentano della diminuzione del numero di camion da carico che entrano a Gaza a causa della caduta del potere d’acquisto.

L’isolamento di Gaza e dei suoi abitanti, come progetto politico piuttosto che di sicurezza, è iniziato molto prima dei razzi Qassam. L’isolamento dei giovani di Gaza dal resto del mondo ha favorito il messaggio illusorio di Hamas. E la propaganda israeliana è riuscita ad attribuire la colpa all’accumulo di armi di Hamas, sempre un efficace strumento nella lotta interna per la leadership palestinese.

Israele esagera deliberatamente il rischio strategico costituito dalle armi di Hamas, rafforzando così l’immagine dell’organizzazione come salvatrice agli occhi dei disperati. La propaganda di Hamas è riuscita a dare la colpa ai tagli di fondi da parte dell’Autorità palestinese e a mettere a tacere le critiche alle sue pretese militari. L’ANP ha accettato l’isolamento della popolazione di Gaza, anche prima che Hamas prendesse il potere.

Gaza non è un’isola. Trattate i suoi residenti come esseri umani. Lasciateli partire per andare a studiare o a divertirsi a Nablus e a Betlemme ed anche a Haifa [in territorio israeliano, ndt.]; lasciateli andare a lavorare e a visitare amici e famigliari. Lasciateli produrre e coltivare ed esportare. Lasciate che israeliani, cisgiordani e turisti visitino Gaza. Gaza eviterà il collasso ed Israele eviterà un processo al Tribunale dell’Aia.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Israele sta testando nuovi tipi di gas lacrimogeni a Betlemme?

Ryan Rodrick Beiler

3 Gennaio 2018, The Electronic Intifada

Secondo un nuovo studio, ogni residente del campo profughi di Aida – nei pressi della città di Betlemme nella Cisgiordania occupata – potrebbe essere stato esposto a gas lacrimogeni lanciati dalle forze israeliane.

Lo studio, condotto da ricercatori dell’Università di California – fa notare l’uso “ampio, frequente ed indiscriminato” del gas lacrimogeno contro i palestinesi.

Il rapporto evidenzia episodi di [uso del] gas lacrimogeno della frequenza di due a tre volte alla settimana per più di un anno, e in alcuni mesi quasi ogni giorno.

In un discorso pronunciato a Novembre, Pierre Krähenbühl, massimo dirigente dell’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ha detto che tale ricerca dimostra che i residenti di Aida “sono esposti a più gas lacrimogeno di qualsiasi altra popolazione al mondo.”

Lanciano [il gas] ovunque nel campo” ha detto Salah Ajarma, direttore di Lajee, il centro culturale di Aida, a The Electronic Intifada. “Non importa loro dove sparano.”

Il nuovo rapporto ha utilizzato un questionario sviluppato dal ‘US Centers for Disease Control’ (Centro USA per il controllo delle malattie, ndtr.) per sondare un campione di 236 palestinesi che vivono a Aida, che ospita 6400 residenti.

Aida – di una superficie di soli 0.071 chilometri quadrati – ha una densità di popolazione più alta di alcune delle città più grandi del mondo.

Pericoloso uscire

I membri del gruppo che ha condotto lo studio, pubblicato dal Centro Diritti Umani dell’Università di California, Berkeley, hanno assistito a diversi episodi di lancio di gas lacrimogeni mentre conducevano la loro ricerca. Hanno concluso dalle loro interviste che l’utilizzo dei gas lacrimogeni da parte delle forze israeliane “non è limitato alle proteste o a coloro che minacciano di provocare violenze.”

A volte è pericoloso lasciare il centro quando ci sono gas lacrimogeni fuori”, ha detto Ajarma. Ha ricordato un giorno in cui ha affrontato dei soldati che sparavano gas lacrimogeni, chiedendo perché stessero sparando dato che nessun bambino stava lanciando pietre.

Hanno detto ‘Ieri [i bambini] hanno lanciato pietre e oggi vogliamo cominciare [a sparare] i gas lacrimogeni prima che comincino.’ Perciò per loro è una specie di esercitazione.” ha aggiunto.

Il rapporto dell’Università di California definisce il gas lacrimogeno come un termine generale per [indicare] irritanti chimici pensati per il controllo delle folle. Il rapporto nota anche che nuove tipologie di gas lacrimogeni, più potenti, che durano più a lungo e causano dolori e ferite più gravi– oltre ad essere più resistenti all’acqua – sono state sviluppate recentemente.

Un bambino intervistato per il rapporto ha descritto gli effetti del gas lacrimogeno: “Mi brucia la faccia, e mi sento girare la testa.”

Il bambino ha aggiunto: “è difficile respirare. Starnutisco. Mi brucia la gola. Non riesco ad aprire gli occhi. A volte svengo.”

Il preciso tipo di gas utilizzato dalle forze israeliane a Aida è sconosciuto. Tuttavia, le concordanti testimonianze fornite dai residenti del campo fanno pensare che essi siano esposti a tipi di arma più potenti.

Un lavoratore sanitario ha citato il rapporto sostenendo: “[l’effetto de] il vecchio gas lacrimogeno migliorava con un po’ d’acqua, ma [ora] quest’ultima peggiora solo le cose. Ovviamente, è una sostanza chimica diversa.”

Mohammad al-Azza, un giornalista e un residente del campo, ha detto a The Electronic Intifada di essere d’accordo sul fatto che ora il gas è più forte di prima.

Al-Azza, che insegna anche fotografia al Centro Lajee, ha fatto esperienza in prima persona dell’uso di armi per il “controllo delle folle” da parte delle forze israeliane.

In Aprile 2013, mentre fotografava le forze israeliane che invadevano il campo, un soldato gli ha sparato in faccia da una breve distanza con una pallottola d’acciaio rivestita di gomma che gli ha spaccato le ossa del volto, richiedendo diverse operazioni chirurgiche ricostruttive.

In aggiunta ai gas lacrimogeni, il nuovo rapporto rivela che la maggior parte dei residenti di Aida è stata esposta a bombe sonore, acqua sporca – una miscela maleodorante di sostanze chimiche sconosciute gettata da cannoni d’acqua ad alta pressione – e spray al peperoncino. Più del 50% dei residenti intervistati hanno assistito all’uso di pallottole d’acciaio rivestite di gomma, mentre il 6% è stato “testimone diretto” dello sparo di pallottole vere.

Più del 22% della popolazione sondata ha detto di essere stata colpita direttamente da una bomboletta di gas lacrimogeno in qualche momento della propria vita.

Queste scoperte coincidono con le mie stesse osservazioni. Ho assistito a molte occasioni in cui le forze israeliane hanno sparato proiettili di gas lacrimogeni direttamente contro i manifestanti palestinesi a Aida e altrove.

Letale

Il nuovo rapporto fa notare che secondo la Convenzione sulle Armi Chimiche del 1992, il gas lacrimogeno e altri irritanti chimici non possono essere utilizzati come armi, ma non ne è vietato l’uso per il mantenimento dell’ordine civile “purché le tipologie e le quantità siano conformi a tali obiettivi.”

Il rapporto conclude, tuttavia, che l’utilizzo del gas lacrimogeno da parte delle forze israeliane è “in discordanza con tutte le linee guida internazionali disponibili su come dovrebbe essere utilizzato.”

I residenti di Aida che hanno partecipato al sondaggio hanno raccontato di molti effetti fisici dovuti all’essere esposti ai gas lacrimogeni, inclusi asma, pruriti e mal di testa. [Il rapporto] mette anche in evidenza come una donna di 25 anni che ha partecipato al sondaggio abbia avuto un aborto alla fine del terzo trimestre di gravidanza. Una bomboletta di gas lacrimogeno era atterrata nel cortile della [casa della] donna alcuni giorni prima che avesse l’aborto; ha avuto gravi problemi respiratori nel periodo in cui era stata esposta al gas.

I gas lacrimogeni si sono dimostrati essere delle armi letali in diverse occasioni. Nell’aprile del 2014, per esempio, ho assistito al funerale di Noha Katamish – una residente di Aida di 45 anni – morta per gli effetti del gas che le forze israeliane avevano sparato attraverso la finestra del suo salotto. Salah Ajarma, del Centro Lajee, ha descritto come le case nel campo non possano dare rifugio dal gas. “A volte [la gente] va dai suoi vicini perché si sente più sicura, ma non è così.” ha aggiunto.

Molti degli impatti psicologici dell’uso del gas lacrimogeno da parte delle forze israeliane derivano dalla frequenza dell’utilizzo, dalla sua imprevedibilità e dall’impossibilità di scampare ai suoi effetti.

Un adolescente ha riferito, nel rapporto: “Non ci sentiamo sicuri nelle nostre case. Non ci sentiamo sicuri da nessuna parte.”

Il rapporto sostiene che l’imprevedibilità, in particolare, provoca stress perché gli attacchi che coinvolgono i gas lacrimogeni non sono sempre legati ad uno specifico tipo di incidenti, e questo crea “uno stato di ipertensione, paura e preoccupazione.”

Prodotto negli USA

I residenti hanno testimoniato che eventi pacifici come le feste di compleanno dei bambini o i picnic di famiglia sono stati interrotti da attacchi con i gas lacrimogeni, [episodi] spesso registrati per video. Un intervistato ha detto che i soldati israeliani usano i gas lacrimogeni “quando si annoiano, quando vogliono provocare incidenti o quando vogliono entrare nel campo.”

A volte sembra che lo facciano solo per divertimento”, ha detto un anziano abitante.

Di conseguenza i residenti di Aida raccontano di alti livelli di ansia, depressione, paura, disturbi del sonno e disfunzioni cognitive. Secondo gli autori del rapporto, questi sintomi sono coerenti con situazioni di acuto stress e di disordine da stress post-traumatico.

Secondo un adolescente che ha partecipato al sondaggio, “Ci siamo adattati, ma questo non è normale. Non è così che dovrebbero vivere dei bambini.”

Il rapporto sottolinea da un lato la responsabilità secondo il diritto internazionale delle forze militari israeliane per la sicurezza dei civili palestinesi sotto il loro controllo, ma dall’altra incita anche l’UNRWA a svolgere il suo mandato di provvedere praticamente alla protezione e all’assistenza dei profughi a Aida.

Le Nazioni Unite devono fare qualcosa di più utile per la popolazione qui”, ha detto Al-Azza del Centro Lajee.

Gli insegnanti e le guardie impiegate da UNRWA hanno fatto richiesta di specifici protocolli su come rispondere agli attacchi con gas lacrimogeni, così come di strutture, strumenti e attrezzature di protezione migliori. “Il muro [israeliano] è dall’altra parte della strada dalla scuola,” ha detto un insegnante citato nel rapporto. “Noi siamo in prima linea.”

Ajarma ha sottolineato che molte famiglie hanno ritirato i loro figli dalla scuola UNRWA a Aida e che li hanno mandati altrove – o si sono trasferiti completamente fuori dal campo – a causa delle continue incursioni delle forze israeliane.

Anche gli Stati Uniti sono responsabili dell’impatto del gas lacrimogeno su Aida. Al-Azza ha fatto notare che, come molte armi usate dall’esercito israeliano, il gas lacrimogeno a Aida è prodotto in USA. I bossoli delle bombe utilizzate dalle forze israeliane riportano spesso complete informazioni di contatto del produttore, Combined Systems, di Jamestown, Pennsylvania.

Negli scorsi anni, degli attivisti hanno appeso delle granate di gas lacrimogeni e dei bossoli di bombe “Made in the USA” dagli alberi di piazza Manger a Betlemme, affiancandoli appositamente a tabelloni che promuovono la sponsorizzazione USA delle disposizioni delle luci per le festività locali.

Gli attivisti hanno spesso usato le vacanze di Natale e la prossimità del campo alla Chiesa della Natività, ritenuta da molti cristiani il luogo di nascita di Gesù, per gettare luce sulla realtà presente che affrontano i residenti della zona di Betlemme.

Accanto alle granate e ai bossoli delle bombe, gli attivisti hanno anche esposto dei cartelli che dicono: “Questi sono gli aiuti USA ai palestinesi”, e “Complesso militare industriale USA, smettila di rendere il nostro Natale un inferno mandandoci i tuoi aiuti e fornendo le tue armi a Israele.”

Ryan Rodrick Beiler è un foto-reporter e membro del collettivo ActiveStills. Twitter: @RRodrickBeiler

(Traduzione di Tamara Taher)




Quando il sionismo è l’essenza della vita, una rottura ha gravi conseguenze

Jonathan Ofir 

9 gennaio 2018, Mondoweiss

Rompere con il sionismo può essere un’esperienza che sconvolge la vita.

In Israele la società ebreo-israeliana è nel suo complesso sionista – in una misura che varia dal cosiddetto “sionismo liberal” al sionismo fondamentalista. Non ci sono veramente, necessariamente, molte differenze quando uno parla di questa esperienza di rottura in un gruppo o nell’altro.

Il problema con il sionismo è che i suoi aderenti lo vedono fondamentalmente come una forma di “essenza della vita”. L’indottrinamento sionista insegna che si tratta “della nostra stessa esistenza”. Il “noi” è considerato generalmente essere “la Nazione ebraica” o “il popolo ebraico”, e pertanto l’individuo è visto come una piccola parte in tutto questo. Dato che la sopravvivenza del tutto include anche l’individuo, ogni rottura con il sionismo è considerata una specie di tradimento della società, che mette a rischio la forza e persino la sopravvivenza del “tutto”.

Narrazioni che sfidino la veridicità concreta della nozione di “sopravvivenza”, come mettere in evidenza la prospera esistenza ebrea altrove, è alquanto inutile per i sionisti. In base alla meta-narrazione sionista, tutto questo è provvisorio. La prosperità ebraica è provvisoria, e semplicemente attende un determinato momento in cui i gentili [i non ebrei, ndt.] “se la prenderanno con gli ebrei” ancora una volta, perché questo è ciò che avviene “in ogni generazione”, come recita il canto della Pasqua.

E la risposta sionista a questa presuntamente pericolosa, eterna situazione è uno Stato-Nazione ebraico. Perciò nel paradigma più ampio, i sionisti semplicemente vedono la soluzione – lo Stato-Nazione ebraico, come una soluzione di sopravvivenza. Non sono quindi inclini a vedere un qualunque “problema” che ne derivi, come le violazioni dei diritti umani e la sfida al diritto internazionale, come altro che meri ostacoli o sfide che deve affrontare questo “caso particolare” – Israele.

Perciò quando si evidenziano queste violazioni, ciò è irritante per i sionisti non necessariamente perché non ne siano consapevoli – ma perché mettendole in evidenza non si dimostra simpatia con le sfide che deve affrontare “il caso particolare” che per loro è Israele.

Dato che il caso di Israele e del sionismo necessita di una “dispensa speciale”, persino una rottura emotiva di un individuo con il sionismo può essere percepita come un pericolo. E quindi quando uno rompe con il sionismo, ciò è visto in termini molto emozionali e personali da coloro per i quali esso rappresenta l’“essenza della vita”.

Che allora si caratterizzi questo tipo di fedeltà al “sionismo essenza della vita” come una forma di adesione che ricorda società totalitarie, non aggiunge niente alla consapevolezza tra i propri simili. Per loro aggiunge semplicemente danno alla beffa.

D’altro canto, il discorso riguardo alle intrinseche violazioni dei diritti umani insite nel sionismo è semplicemente offensivo per i sionisti, e soprattutto per i “sionisti liberali”, in quanto suggerisce che l’intera ideologia in cui essi si identificano è incompatibile con i valori di uguaglianza e persino di democrazia. Natasha Roth fa un’eloquente sintesi di ciò nel suo articolo riguardante la recente lista nera israeliana di attivisti del BDS. Roth scrive:

Il governo israeliano a quanto pare considera il bando contro attivisti del BDS un comportamento accettabile per una democrazia, un punto di vista agevolato dal fatto di aver coltivato e promosso in modo molto accurato la menzogna secondo cui il BDS è un movimento antisemita che intende distruggere Israele. Questa menzogna ha avuto un significativo successo, nonostante la chiara affermazione sul sito ufficiale del movimento BDS secondo cui il suo obiettivo è garantire gli stessi diritti umani e civili per i palestinesi come per chiunque altro viva nei territori controllati da Israele. Ma se garantire gli stessi diritti a chiunque viva nel territorio controllato da Israele provocasse l’implosione dello Stato, allora sicuramente quelli che si oppongono al BDS su queste basi stanno ignorando un problema fondamentale – che per definizione uno Stato che non può sopravvivere se tutti i suoi abitanti hanno gli stessi diritti non è una democrazia.”

In altre parole, il sionismo priva di significato i presunti valori del “liberalismo”. Potrebbe benissimo essere che i “sionisti liberal” considerino i valori liberali il loro principale obiettivo, ma quando sionismo e liberalismo entrano in opposizione, i sionisti scelgono il sionismo. Per quanto riguarda i sionisti più fondamentalisti e più imperturbabilmente fascisti, ciò è un insulto meno grave, perché in ogni caso hanno una minore tendenza a rispettare la nozione “liberale”. Ma persino i fascisti tendono a pensare che i loro valori sono legati alla “libertà” e alla “superiorità morale” – semplicemente giudicano che gli “altri” non facciano parte del gruppo.

Così, quando avviene la rottura, questa porta inevitabilmente a riconsiderare la totalità dell’indottrinamento e dell’insieme di valori con cui uno è stato educato. Ci si trova a dover mettere in dubbio che la natura di questi valori, nella misura in cui sostengono un simile concetto – il sionismo – , sia l’essenza della vita. Se si è pensato di essere cresciuti con i valori del rispetto, allora si deve rispecchiare questa affermazione contro l’intrinseca mancanza di rispetto del sionismo nei confronti degli “altri” nativi – i palestinesi. Se questo specchio non rimanda l’immagine, se questa mancanza di rispetto – genocidario, si deve notare – non può essere riconciliata con il “rispetto”, lo specchio si frantuma. Si deve rieducare e rimettere insieme tutto l’insieme di valori per definire un nuovo e concreto concetto di rispetto. Questo esempio riguarda una lunga lista di valori.

Quindi la rottura con il sionismo diventa una rottura fondamentale da parte di se stessi con tutto un sistema di valori con cui si è cresciuti. La propria famiglia e i propri simili registrano il fatto che la distanza non è semplicemente “politica”; riguarda, inevitabilmente, il modo essenziale di essere. I sionisti percepiscono ciò come l’insinuazione che essi, i sionisti, sono visti come “altri” con meno valori, e istintivamente considerano quella valutazione come offensiva, che li rimanda persino all’idea “antisemita” degli ebrei come esseri inferiori (persino quando è un ebreo che rompe con il sionismo). Ciò è offensivo per tutto il modo di essere dei sionisti, a molti livelli. Essi proveranno inevitabilmente un’avversione naturale per questa persona.

La soluzione di questa avversione, se la gente vuole ancora avere rapporti reciproci, deve semplicemente essere evitare l’argomento per quanto possibile. Ma la consapevolezza sarà presente. Sarà come un elefante nella stanza, di cui non si può parlare – il sionismo.

La gente che vive in una simile società – che sostiene e custodisce il sionismo – sa tutto questo per istinto. Il prezzo di rompere con ciò può essere alto. Non è solo una rottura con la società, è una rottura con il proprio passato. Per molta gente un simile prezzo è semplicemente considerato troppo alto. Ma quelli che hanno compreso che i palestinesi stanno pagando ed hanno pagato un prezzo incomparabilmente alto per il sionismo devono considerare questo prezzo [che paga chi rompe con il sionismo, ndt,] assolutamente tollerabile e che ne vale la pena. La negazione intrinseca e generale da parte del sionismo delle sofferenze dei palestinesi è parte di questo meccanismo. Se la si nega e non si riesce a sentirla, si può conservare la maschera, la propria ipocrisia, e la convinzione che il sionismo sia l’unica soluzione.

Jonathan Ofir

Musicista, conduttore e blogger/autore israeliano che vive in Danimarca.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 

 




Rapporto OCHA del periodo 2 – 15 gennaio 2018

Nei Territori palestinesi occupati (oPt) [Cisgiordania e Striscia di Gaza], in quattro diversi episodi, le forze israeliane hanno ucciso quattro civili palestinesi, tre dei quali minori.

Tre delle uccisioni (due minori di 15 e 17 anni e un uomo di 25) sono avvenute in tre distinti episodi di proteste e scontri, il 3, 11 e 15 gennaio, nel villaggio di Deir Nidham (Ramallah), vicino alla recinzione perimetrale, ad est del Campo profughi di Al Bureij (Gaza) e nel villaggio di Jayyus (Qalqiliya); proteste seguenti al riconoscimento, da parte dell’amministrazione statunitense, di Gerusalemme quale capitale d’Israele. Un altro ragazzo di 17 anni è stato ucciso con arma da fuoco l’11 gennaio, in Iraq Burin (Nablus), durante scontri con lancio di pietre contro le forze israeliane.

Il 9 gennaio, sulla Strada 60, vicino all’incrocio di Sarra-Jit (Nablus), un colono israeliano di 35 anni è stato ucciso da palestinesi che hanno sparato da un’auto in corsa. A seguito dell’attacco, le forze israeliane hanno imposto restrizioni di accesso alla città di Nablus ed ai villaggi circostanti. Le operazioni di ricerca sono state intensificate, causando l’interruzione degli ingressi e delle uscite dalla città di Nablus.

Nei Territori palestinesi occupati, durante molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito complessivamente, 269 palestinesi, tra cui 83 minori. 67 di tali ferimenti si sono avuti nella Striscia di Gaza, in scontri verificatisi durante proteste vicino alla recinzione perimetrale. I rimanenti (202) sono stati registrati in Cisgiordania; la maggioranza durante proteste vicino al checkpoint di Huwwara (Nablus); a seguire, le città di Al Bireh (Ramallah), Abu Dis e Al ‘Eizariya (Gerusalemme). Altri 28 feriti sono stati registrati durante operazioni di ricerca-arresto, la maggior parte nel Campo profughi di Ad Duheisha (Betlemme). 61 dei feriti sono stati colpiti con armi da fuoco, 62 da proiettili di gomma, 137 hanno inalato gas lacrimogeno, con necessità di trattamento medico, o sono stati colpiti direttamente da bombolette lacrimogene.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 176 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 261 palestinesi, tra cui almeno 22 minori. Dieci di queste operazioni hanno provocato scontri con i residenti. Nella Striscia di Gaza, nei pressi di Khan Younis e Beit Hanoun, in due occasioni le forze israeliane hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

In Gaza, in almeno 13 casi, le forze israeliane, al fine di imporre le restrizioni di accesso, hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori presenti in zone limitrofe alla recinzione perimetrale ed in zone di pesca lungo la costa. Cinque pescatori sono stati feriti, altri otto, tra cui due minori, sono stati arrestati e tre barche sono state confiscate. È stato riferito che, in almeno quattro occasioni, membri di un gruppo armato di Gaza hanno sparato razzi verso Israele, tre dei quali atterrati nel sud di Israele: non sono stati segnalati feriti. In risposta, le autorità israeliane hanno portato quattro attacchi aerei e lanciato missili contro siti di addestramento militare ed aree aperte: segnalati danni, ma non feriti.

Secondo agricoltori palestinesi di Gaza, in quattro diverse occasioni, il 7 e il 9 gennaio, aerei israeliani hanno irrorato erbicidi su terreni agricoli situati lungo la recinzione perimetrale con Israele.

Il 13 gennaio, nei pressi della Striscia meridionale di Gaza, le forze navali egiziane hanno aperto il fuoco verso una barca da pesca, uccidendo un pescatore palestinese di 33 anni; non sono chiare le circostanze dell’episodio.

In Area C e in Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito e/o sequestrato tre strutture, sfollando due palestinesi e colpendo le proprietà di altri 16. Due delle strutture prese di mira (una abitativa ed una agricola) erano a Beit Hanina e Silwan (Gerusalemme Est); la terza (una struttura agricola) nella parte del villaggio di Al Khadr (Betlemme) che si trova in Area C. Sempre in Area C, le autorità israeliane hanno emesso sei ordini di arresto lavori contro tredici strutture nel villaggio di Duma e nella comunità di Khirbet al Marajim (Nablus); tra queste, due strutture abitative in uso e dodici rifugi per animali.

In 14 diversi episodi di cui sono stati protagonisti coloni israeliani, cinque palestinesi sono rimasti feriti, 115 alberi e sette veicoli di proprietà palestinese sono stati vandalizzati. Secondo quanto riferito, sette di questi episodi sono stati perpetrati da coloni dell’insediamento di Yitzhar contro abitanti dei villaggi di Madama, Burin, Yatma, Urif e Al Lubban ash Sharqiya (tutti a Nablus): 100 alberi danneggiati, un uomo aggredito fisicamente e quattro veicoli palestinesi danneggiati da lancio di pietre. Su terreni appartenenti a palestinesi di Deir al Hatab (Nablus), altri 15 alberi sono stati vandalizzati, a quanto riferito, da coloni dell’insediamento di Elon Moreh. Dopo l’attacco in cui è stato ucciso un colono israeliano [vedi sopra], coloni hanno attaccato abitazioni nei villaggi di Sarra, Huwwara (Nablus), Far’ata (Qalqiliya) e in Al Lubban ash Sharqiya (Nablus); sono stati segnalati danni alle abitazioni. In quest’ultima località, 42 palestinesi sono rimasti feriti negli scontri che hanno coinvolto forze israeliane. Nella città di Nablus, in seguito all’ingresso di coloni israeliani nel sito della Tomba di Giuseppe, altri cinque palestinesi sono rimasti feriti durante scontri con forze israeliane.

Secondo resoconti di media israeliani, ci sono stati almeno cinque casi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani, con conseguente danno a cinque veicoli privati: nei pressi di Betlemme, Gerusalemme e Ramallah. Inoltre, a Gerusalemme Est, nell’area di Shu’fat, sono stati segnalati danni alla metropolitana leggera.

In seguito alla scoperta di un tunnel (successivamente distrutto), le autorità israeliane hanno chiuso per due giorni (il 14 e il 15 gennaio) Kerem Shalom, l’unico valico per il transito delle merci di Gaza.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 23.000 persone, compresi i casi umanitari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Nella notte di mercoledì 17 gennaio 2018, le forze israeliane hanno effettuato un’operazione di ricerca-arresto in una casa situata tra il villaggio di Birqin (Jenin) e il Campo profughi di Jenin. Secondo fonti giornalistiche, nel corso dell’operazione sarebbe stato ucciso un palestinese coinvolto, a quanto riferito, nell’uccisione del colono israeliano avvenuta il 9 gennaio (vedi sopra). Durante l’operazione sono rimasti feriti altri tre palestinesi e due membri delle forze israeliane; tre abitazioni sono state demolite.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




“Non vedete che sto male”: cresce la campagna per la liberazione della palestinese ferita

Lubna Masarwa, Dania Akkad

Middle East Eye, 12 gennaio 2018

Israa Jaabis ha riportato ustioni su più della metà del corpo appena prima di essere incarcerata, nel 2015. Da allora lotta per ricevere cure mediche adeguate.

I sostenitori della donna palestinese detenuta che ha bisogno di cure mediche urgenti dicono che le autorità carcerarie israeliane la ignorano da due anni e ne chiedono l’immediata scarcerazione. La campagna per Israa Jaabis, che questa settimana si è guadagnata i titoli di testa sui media palestinesi, arriva mentre lei e il suo avvocato chiedono all’Alta Corte israeliana la riduzione della condanna a 11 anni. Si attende una decisione a giorni.
“Sono qui da due anni e non ricevo l’assistenza sanitaria di cui ho bisogno” ha dichiarato, giovedì, Jaabis alla Corte, ripresa dalle telecamere. “Non vedo alcuna ragione o buon motivo per cui io debba stare in carcere”. “Fisicamente, la situazione di Israa è veramente dura, ed è in condizioni difficili anche dal punto di vista psicologico” ha detto il suo avvocato, Lea Tsemel, dopo l’udienza.
Jaabis, 32 anni, è stata arrestata nell’ottobre del 2015 ed è accusata di aver tentato di far esplodere una bomba per colpire i soldati israeliani davanti a un checkpoint di Gerusalemme Est. Ma lei e la sua famiglia hanno dichiarato che stava traslocando per poter mantenere la residenza a Gerusalemme quando una bombola di gas da cucina difettosa ha preso fuoco a 500 metri dal checkpoint.
Jaabis, che ha un figlio di 10 anni, è rimasta gravemente ferita dalla fiammata, riportando ustioni sul 65% del corpo, tra cui le ferite più gravi a viso e mani. Dopo l’arresto, è stata portata al Hadassah Medical Centre, dove le sono state amputate otto dita. Prima che il trattamento medico fosse completato, però – dice la sua famiglia – è stata portata al carcere di HaSharon.
Da allora, lotta per ricevere cure adeguate e vive una vita dolorosa. Le ferite alle orecchie le hanno provocato continue infezioni e hanno compromesso l’udito. L’interno del naso è rimasto ustionato, quindi respira attraverso un piccolo foro. Non è in grado di sollevare una delle braccia e ha spasmi alle mani e ai piedi. “Non posso fasciare le ustioni perché per non riesco a mettermi le bende” ha scritto alla sorella e all’avvocato in una lettera diffusa sui social media come parte della campagna per liberarla. “Ho gli occhi secchi e provo molto dolore quando sono all’aria o ogni volta che li lavo con l’acqua. I miei occhi devono essere curati urgentemente, ma nessuno mi ascolta.”
Jaabis avrà bisogno di assistenza medica continua e di interventi chirurgici per riuscire a fare anche le cose più semplici, dice sua sorella Muna. “Sente forti dolori in ogni momento e di notte ha gli incubi. Le stanno cadendo i denti.” La famiglia di Israa si è offerta di pagare le cure, ma Muna dice che le autorità carcerarie hanno rifiutato. “Non è solo che è accusata di qualcosa che non ha commesso e di cui loro non hanno prove”, dice Muna, “Oltre a questo, l’hanno privata di diritti fondamentali come le cure mediche”.
Middle East Eye ha contattato venerdì il servizio penitenziario israeliano per un commento, e ci hanno detto di richiamare domenica per parlare con qualcuno del caso specifico di Israa. Centinaia in cerca di cure . Secondo un volontario che fornisce assistenza medica ai detenuti, e secondo il PHR-I (Physicians for Human Rights-Israel), sono centinaia i detenuti palestinesi come Israa che, ogni anno, fanno appello alle organizzazioni per i diritti, chiedendo aiuto per ottenere cure mediche.
“Devono sempre insistere, ripetendo le loro richieste di cure mediche” dice Niv Michaeli, coordinatore dei detenuti al PHR-I. “Ci vuole un sacco di tempo per ottenerle, e la qualità delle cure è molto bassa”. Amany Dayif, da tempo impegnata per i detenuti che necessitano di cure mediche nelle carceri israeliane, dice che nessuno sa quanti palestinesi detenuti da Israele abbiano bisogno di cure o quali siano le loro condizioni, perché manca la supervisione del Ministro della Salute israeliano.
“Il risultato è che il servizio penitenziario israeliano non ha alcun tipo di standard per le cure mediche. Per esempio, non si raccolgono regolarmente statistiche sulle patologie o sulla necessità di cure da parte dei detenuti, cose che sono considerate fondamentali nei sistemi sanitari degni di questo nome”. In base alla sua esperienza, dice, le autorità carcerarie israeliane gestiscono male il sistema sanitario carcerario, “principalmente perché si tratta di un’organizzazione della sicurezza che vede le cure mediche come l’ultima delle priorità”. Middle East Eye ha inviato un’email al servizio penitenziario per un commento sulle cure ai detenuti palestinesi, ma, fino a questa pubblicazione, non abbiamo ottenuto risposta.
(Traduzione di Elena Bellini)



Come i sionisti cristiani hanno ottenuto il loro uomo nella Casa Bianca

Morgan Strong

2 gennaio 2018, Middle East Eye

I sionisti cristiani sono riusciti ad avere, grazie alla posizione di Mike Pence e dei suoi compagni di fede alla Casa Bianca, un’incredibile influenza su quella che è la più potente Nazione sulla terra.

Il 18 luglio il vice presidente USA Mike Pence ha pronunciato il discorso d’apertura all’annuale riunione dei “Christians United for Israel” [“Cristiani Uniti per Israele”] (CUFI). Fondato nel 2006 dal pastore John Hagee, un evangelico di San Antonio, il CUFI sostiene di essere il più numeroso gruppo filo-israeliano degli Stati Uniti, con tre milioni di membri. Nel maggio 2016 Hagee ha appoggiato la candidatura di Trump a presidente.

Pence ha di nuovo sostenuto che l’amministrazione Trump avrebbe spostato l’ambasciata USA a Gerusalemme, questa volta di fronte ai sostenitori cristiani di Israele che sono diventati sempre più insoddisfatti per il fatto che Trump non abbia ancora tenuto fede alla sua promessa elettorale nei confronti di Israele – segnando quello che alcuni analisti hanno visto come un nuovo cambiamento ideologico della Casa Bianca.

Il cambiamento ideologico della Casa Bianca

Il discorso di Pence segna un cambiamento fondamentale nel linguaggio che la Casa Bianca ha storicamente utilizzato per esporre i rapporti degli Stati Uniti con Israele,” ha scritto sul “Washington Post” Dan Hummel, uno studioso dell’Harvard Kennedy School.

Questo cambiamento fondamentale è verso il sionismo cristiano, un’ideologia che basa il proprio appoggio ad Israele sulla convinzione che il moderno Stato di Israele sia una manifestazione delle profezie della Bibbia – e che il destino degli Stati Uniti sia profeticamente legato ad Israele.

Hummel descrive Pence come un “ardente sionista cristiano” che esprime il proprio appoggio ad Israele in termini esplicitamente profetici. La sua comparsa alla riunione “indica una nuova era dell’influenza del sionismo cristiano sulla Casa Bianca.”

Pence non è da solo nel tentativo di convincere Trump a realizzare quello che i cristiani sionisti vedono come una profezia biblica. Mike Huckabee, l’ex governatore dell’Arkansas, sua figlia Sara Huckabee Sanders, ora addetto stampa della Casa Bianca, e Sara Palin esercitano una grande influenza nell’amministrazione Trump e sono ardenti sionisti cristiani.

Roy Moore dell’Alabama, che Trump ha appoggiato in Alabama per l’elezione al Senato, è annoverato in questo gruppo.

L’apocalisse dei cristiani sionisti

I sionisti cristiani, che sono circa 20 milioni negli Stati Uniti, negli ultimi decenni hanno investito milioni di dollari a favore di un’espansione di Israele. Hanno sponsorizzato la migrazione di migliaia di ebrei dalla Russia, dall’Etiopia e da altri Paesi.

Hanno contribuito con milioni [di dollari] alla costruzione di nuove colonie nelle zone palestinesi occupate per sistemarvi i migranti. “Lo spostamento [dell’ambasciata Usa a Gerusalemme] dimostra che il nostro presidente mantiene fede alla sua parola,” ha detto Hagee.

Ha anche detto alcune altre cose meno lucide: “Restituire Gerusalemme ai palestinesi equivarrebbe a restituirla ai talebani.” Ha anche detto che il popolo ebraico sta per bruciare all’inferno per l’eternità, a meno che non abbandoni l’ebraismo e si converta al cristianesimo dopo la battaglia di Armageddon [probabilmente Tel Megiddo, nell’attuale Israele nei pressi di Nazareth, ndt.].

Ciò è qualcosa in cui John Hagee crede, e in cui credono tre milioni di fedeli del CUFI e inoltre i complessivi 40 milioni di membri del movimento evangelico, o almeno vi credono in parte.

Rimane la più terrificante supposizione che una parte, o quanto meno qualcuna, delle cose che Hagee crede possa essere creduta anche dallo stesso presidente. L’ossessione di Trump per l’Islam potrebbe essere parzialmente influenzata dalle opinioni contro l’Islam dell’ex capo del CUFI, il defunto pastore Jerry Falwell.

Non più un onesto mediatore

Il 6 dicembre Trump ha esplicitamente negato la persistente speranza per una soluzione dei Due Stati. “Dopo più di due decenni di deroghe, non siamo più vicini ad un accordo di pace definitivo tra Israele ed i palestinesi. Pertanto ho deciso che è tempo di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come la capitale di Israele. Sarebbe una follia ritenere che ripetere esattamente la stessa formula produrrebbe ora un risultato diverso o migliore,” ha detto.

Il riconoscimento di Gerusalemme come unica capitale di Israele è molto più che simbolico. In effetti nega uno dei più fondamentali impegni del processo di pace, una soluzione dei Due Stati.

Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas lo ha pienamente compreso. I palestinesi sono ora convinti che gli Stati Uniti non possano essere degli intermediari imparziali, o neutrali – benché gli Stati Uniti non siano mai stati dei mediatori veramente obiettivi.

L’enorme influenza politica di Israele negli Stati Uniti ha reso impossibili rapporti onesti, e questa duplicità è palesemente evidente ora. Il mese scorso in un summit internazionale Abbas ha detto che gli Stati Uniti non sono adeguati a mediare nel conflitto in Medio Oriente, segnando un importante cambiamento di politica dopo decenni passati a corteggiare la benevolenza americana.

Abbas ha annunciato il cambiamento, che arriva in risposta alla dichiarazione di Trump su Gerusalemme, durante un incontro dei dirigenti musulmani che ha condannato la mossa degli USA e ha chiesto il riconoscimento mondiale di uno Stato palestinese con capitale a Gerusalemme est.

Il 21 dicembre l’assemblea generale dell’ONU ha votato per condannare la decisione di Trump su Gerusalemme. Quasi tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite l’hanno condannata, nonostante le sue minacce di negare ulteriori finanziamenti agli Stati che avessero votato contro.

Ciò porta ad una drastica fine del processo di pace attraverso il fruttuoso tentativo di Jared Kushner, il genero di Trump e principale consigliere, di chiedere ai palestinesi di accettare una totale capitolazione alle richieste di Israele. La famiglia Kushner e lui stesso hanno contribuito con milioni [di dollari] agli sforzi di colonizzazioni israeliane in Cisgiordania.

Il risultato del suo obiettivo di negare qualunque soluzione ai palestinesi per le loro rivendicazioni non avrebbe mai dovuto essere stato in dubbio, dal momento in cui gli è stata concessa da Trump autorità assoluta.

Il ritorno del messia

Una questione essenziale per i sionisti integralisti e per i loro alleati cristiani è la collocazione delle rovine del primo e del secondo tempio ebraico sotto il complesso della moschea di Al-Aqsa, il terzo luogo più venerato dell’Islam. Un principio fondamentale della teoria dei sionisti cristiani è che un nuovo tempio venga costruito su queste antiche rovine.

I palestinesi credono che gli scavi archeologici israeliani sotto il complesso della moschea di Al-Aqsa per costruire il nuovo tempio costituisca una minaccia per la moschea. I sionisti cristiani sono assolutamente convinti che questo debba essere fatto per rispettare la profezia. Credono che una volta completata la costruzione del nuovo tempio il ritorno del messia sarà inevitabile.

L’unica speranza per i palestinesi è una graduale inclusione della popolazione palestinese della Cisgiordania e di Gaza in quella che diventerà un’entità unica, Israele. Un esito estremamente improbabile. Gli israeliani non acconsentiranno mai a concedere la cittadinanza ai palestinesi musulmani o cristiani, e il diritto di voto in quello che è ora dichiarato da Netanyahu come lo Stato ebraico.

Netanyahu ha l’incrollabile, forse delirante, convinzione di essere stato scelto da dio per guidare il popolo ebraico. Eyal Arad, un importante ex- consigliere politico, ha detto: “Il primo ministro ha una visione messianica di se stesso, come di una persona chiamata a salvare il popolo ebraico dal nuovo olocausto.”

Farebbe meglio a sbrigarsi. Ora è sottoposto alla quarta inchiesta per corruzione e malversazione da quando è al governo.

Anche Pence è convinto di essere chiamato da dio. Il suo passaggio biblico favorito, che spesso cita, è: “Poiché conosco i progetti che ho per te, dichiara il signore, progetti di farti prosperare e non di danneggiarti, progetti di darti speranza e un futuro.”

Pence è ambizioso, nonostante l’apparente mancanza di credenziali e i suoi errori politici come governatore dell’Indiana. Pence “ha chiarito” al comitato nazionale repubblicano di voler prendere il posto di Trump come candidato del GOP [il partito repubblicano, ndt.] per la presidenza all’indomani della registrazione di “Access Hollywood” [uno spettacolo televisivo. Nella registrazione Trump fa pesanti apprezzamenti sulle donne, ndt.] nell’ottobre 2016.

Un presidente veramente evangelico?

La scorsa estate il “New York Times” ha informato che sembrava che Pence si stesse preparando per la candidatura presidenziale. Pence ha risolutamente smentito la storia. Pence ha immaginato la reale possibilità che il GOP volti le spalle a Trump dopo un altro grave scandalo, garantendo la sua conseguente ascesa.

Gli Stati Uniti potrebbero finire per avere un presidente veramente evangelico. Ciò che è preoccupante non è che Pence creda in dio, ma che sembri sicuro che dio creda in lui.

I principali studiosi cristiani della Bibbia la vedono come un testo allegorico. I sionisti cristiani credono a un’interpretazione letterale del noioso e deprimente testo del libro dell’Apocalisse.

Il movimento sionista cristiano tuttavia non è un fenomeno recente. C’è stato più di un secolo di tentativi di restituire Israele ad una gloria biblica largamente illusoria. Nel 1600 re Giacomo I suggerì che “la fine del mondo” avrebbe avuto luogo in Palestina.

Come i sionisti cristiani ora, egli credeva che le tribù ebraiche dovessero essere riunite e tornare dalla diaspora in modo che la battaglia finale tra le forze del male e il messia potesse aver luogo ad Armageddon.

Un’altra dichiarazione Balfour

Lord Balfour, ministro degli Esteri britannico, e il suo primo ministro, David Lloyd George, erano entrambi simpatizzanti del sionismo cristiano. Nel 1917, tre anni prima che la Società delle Nazioni concedesse alla Gran Bretagna il mandato sulla Palestina, Balfour scrisse a lord Rothschild, appartenente alla ricchissima famiglia di banchieri ebrei e precoce sostenitore del sionismo, che “il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione di un focolare nazionale ebraico in Palestina e farà uso del suo massimo impegno per agevolare il raggiungimento di questo obiettivo.”

Lo Stato di Israele non avrebbe potuto nascere senza la dichiarazione Balfour. Quando gli Stati Uniti hanno riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, lo hanno fatto, almeno in parte, per invocare il messia e iniziare la preparazione della battaglia di Armageddon.

Questo è quello che credono i sionisti cristiani ed hanno senza sosta chiesto dall’amministrazione. La Bibbia ci dice che Gesù tornerà per mettere tutto quanto a posto.

I musulmani, gli ebrei, i buddisti, gli induisti, gli scintoisti, gli animisti, i seguaci del voodoo, i cattolici, gli agnostici e gli atei, ecc., verranno convertiti alle legioni del signore dei sionisti cristiani. Il messia, Gesù Cristo, prevarrà e porrà fine a tutto il male che ora ci colpisce. Annichilerà l’anticristo e la sua orda barbarica, che include i russi, ed egli, Gesù, regnerà come re sulla terra per mille anni di felicità ed abbondanza.

Ma in primo luogo credono che l’antico Israele debba essere reso totalmente immune da eretici di ogni convinzione religiosa, diversa dalla loro, in modo da rispettare la profezia biblica del ritorno di Cristo sulla terra.

Israele biblico

Secondo la liturgia sionista cristiana questo ritorno tuttavia non promette bene per gli israeliani. Purtroppo Israele non ci sarà più. Israele verrà distrutto durante questa apocalisse.

Secondo quello che credono, Gesù, addolorato che gli ebrei non lo vedano come il messia, ucciderà tutti gli ebrei che rifiutino di convertirsi al cristianesimo, o più precisamente al sionismo cristiano. Gesù non sembra essere uno che volge l’altra guancia quando viene offeso.

Se credi altrimenti, se credi che le profezie bibliche come le interpretano i sionisti cristiani siano una follia, fai parte della maggioranza senza speranza. Perché i sionisti cristiani sono riusciti ad avere alla Casa Bianca, grazie alla posizione di Mike Pence e dei suoi adepti, un’incredibile influenza su quella che forse è la più potente Nazione sulla terra.

Essi credono che solo l’apocalisse purificherà il mondo e che gli Stati Uniti debbano essere lo strumento che porterà a termine l’ira di dio. Le grandi risorse ed il potere militare degli Stati Uniti sono parte del piano divino per portare su di noi l’apocalisse.

Trump farà di tutto per incoraggiare la cieca lealtà di questo gregge che ha in eredità. Il partito Repubblicano dipende in modo massiccio dai sionisti cristiani sia per quanto riguarda i finanziamenti che i voti. Hanno un profondo effetto sull’orientamento del partito, anche se ora il partito sembra essere più teocratico che politico.

È molto probabile che i sionisti cristiani vadano a votare; sono più di venti milioni e sono finanziatori generosi. Sono la base di questa nuova teocrazia repubblicana.

Non vogliono la pace con i palestinesi. I palestinesi non hanno posto nell’Israele biblico. I sionisti cristiani vogliono che se ne vadano per purificare il nascente regno di Israele e consentire la loro eterna beatitudine in paradiso.

– Morgan Strong, un ex-professore di Storia del Medio Oriente, è stato consulente di “60 minuti” [programma televisivo statunitense di attualità della CBS, ndt.] sul Medio Oriente.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Apartheid dall’interno? I palestinesi cittadini di Israele

Yara Hawari

23 novembre 2017,Al-Shabaka

Sintesi

Importanti personalità del panorama internazionale hanno descritto la situazione in Cisgiordania come apartheid, citando caratteristiche proprie della segregazione, quali strade per soli coloni, insediamenti fortificati e il muro di separazione. Nel suo libro del 2006 “Peace not apartheid” [“Pace non Apartheid] , l’ex presidente USA Jimmy Carter ha adottato questo termine proprio a proposito dei Territori Palestinesi Occupati (TPO), mentre John Kerry nel 2014 ha avvertito che Israele “potrebbe” diventare uno Stato di apartheid se non si verificasse la soluzione dei due Stati.

Tuttavia, più recentemente, eminenti voci hanno applicato il termine alla situazione dei palestinesi cittadini di Israele. Jodi Rudoren, ex capo dell’ufficio di Gerusalemme del New York Times, ha detto: “…Penso che la questione dell’apartheid sia più attinente a come gli arabi israeliani (i palestinesi cittadini di Israele) vengono trattati nel contesto di Israele.” La Commissione Socio-Economica per l’Asia Occidentale delle Nazioni Unite (ESCWA) all’inizio di quest’anno ha pubblicato un rapporto in cui si afferma che Israele, fin dall’inizio, “ha imposto un regime di apartheid che domina il popolo palestinese nel suo complesso” – intendendo i palestinesi non solo dei TPO, ma anche quelli in esilio e quelli all’interno di Israele stesso. (1)

Questo documento politico prende in esame l’analisi dell’apartheid relativamente ai palestinesi cittadini di Israele, con particolare attenzione alla cittadinanza, alla terra, all’educazione e alle politiche. Si conclude con le strategie su come tale analisi possa essere utilizzata per sostenere i diritti dei cittadini palestinesi [di Israele] e contribuire a contrastare la frammentazione all’interno del popolo palestinese nel suo complesso.

L’apartheid e i suoi inizi

Il diritto internazionale consuetudinario e lo Statuto di Roma del Tribunale Penale Internazionale definiscono l’apartheid come “atti inumani….compiuti nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione e dominazione sistematica di un gruppo razziale su qualunque altro gruppo o gruppi razziali e commessi con l’intenzione di mantenere tale regime.”

Benché molti associno l’apartheid al Sudafrica, la definizione è applicabile universalmente e perciò confuta l’errato concetto che l’apartheid sia stato un caso eccezionale che da allora non si è più verificato. La definizione inoltre consente una comprensione dell’apartheid come un sistema che può assumere diverse caratteristiche e manifestarsi in vari modi, compreso quello economico (vedere l’articolo Rethinking our definition of apartheid [Ripensare alla nostra definizione di apartheid], che sostiene che l’apartheid non è ancora stato superato in Sudafrica).

Mentre 750.000 palestinesi furono espulsi dai confini del nuovo Stato ebraico nel 1948, 150.000 Palestinesi rimasero e vennero sottoposti alla legge marziale per quasi 20 anni. Quel periodo, noto come regime militare, si basava sulle Norme di Emergenza del 1945 introdotte dalle autorità del Mandato britannico, che le utilizzava per controllare gli arabi di Palestina. I meccanismi limitavano ogni aspetto della vita dei palestinesi all’interno del nuovo Stato, compresa la libertà di movimento e di espressione politica.

Questo periodo vide una massiccia appropriazione di terre, compiuta attraverso la Legge sulla Proprietà degli Assenti, varata dalla Knesset  nel 1950. La legge continua ad essere il principale strumento con cui Israele confisca i terreni, anche a Gerusalemme est. (2) Essa ha consentito allo Stato di appropriarsi della proprietà di chiunque abbia lasciato il proprio luogo di residenza tra il 29 novembre 1947 e il 19 maggio 1948. Questa legge ed altre, comprese quelle che costituiscono la Legge Fondamentale – che tuttora funge da Costituzione di Israele – hanno codificato l’apartheid nel sistema giuridico. Queste leggi hanno anche stabilito la dottrina fondamentale di Israele del predominio ebraico in uno Stato ebraico, con disuguaglianza per tutti gli altri.

Benché il regime militare sia stato abolito nel 1966, la comunità palestinese è rimasta una minaccia demografica e potenzialmente politica alla natura dello Stato. Perciò Israele ha mantenuto sia la segregazione che l’emarginazione dei palestinesi. Oggi i palestinesi di Israele sono 1,5 milioni, un quinto della popolazione totale. Non ci sono stati tentativi di assimilarli nella struttura coloniale, come in altri casi di regimi di colonizzazione di insediamento. La preoccupazione che Israele avesse un carattere esclusivamente ebraico ha lasciato i suoi cittadini palestinesi ai margini, eppure loro continuano a sopravvivere.

La cittadinanza come meccanismo di apartheid

Si dice spesso che i palestinesi in Israele sono cittadini “di seconda classe”, eppure questa frase non rispecchia la realtà. Anche se ai palestinesi rimasti all’interno dei confini del nuovo Stato è stata concessa la cittadinanza israeliana, fin dall’inizio non è stata usata come meccanismo di inclusione. Questo perché in Israele, a differenza della maggior parte dei Paesi, cittadinanza e nazionalità sono termini e categorie distinte. Mentre esiste la cittadinanza israeliana, non esiste la nazionalità israeliana; piuttosto, la nazionalità viene definita in base a criteri etnico-religiosi. Israele conta 137 possibili nazionalità, compresi ebrei, arabi e drusi, che sono registrate sulle carte di identità e nelle banche dati dell’anagrafe. Ma poiché lo Stato si definisce costituzionalmente come ebraico, coloro che hanno nazionalità ebraica contano di più della popolazione non ebrea (in maggioranza palestinese).

Dato che la nazione ebraica e lo Stato di Israele sono considerati una sola cosa, la conseguenza è l’esclusione dei cittadini non ebrei. Il rapporto ESCWA spiega che la distinzione tra cittadinanza e nazionalità consente un sistema razzista sofisticato e occulto, non necessariamente rilevabile dall’osservatore non esperto. Il sistema divide la popolazione in due categorie (ebrei e non ebrei), incarnando proprio la definizione di apartheid. I cittadini palestinesi sono quindi definiti “arabi israeliani”, termine diventato usuale nei principali media. Oltre a far parte del meccanismo binario di esclusione, questo termine tenta di negare l’identità palestinese di questi cittadini, mentre consente ad Israele di presentarsi come uno Stato eterogeneo e multiculturale. Questo incide sull’accesso alla terra, all’abitazione e all’educazione, come si esporrà più avanti.

Sia i cittadini palestinesi che gli ebrei israeliani hanno più volte sollevato la questione della cittadinanza e della nazionalità nei tribunali israeliani. Mentre i palestinesi lo hanno fatto nel tentativo di ottenere pieni diritti all’interno dello Stato, gli ebrei israeliani hanno in genere richiesto di abbandonare l’identità etnica e religiosa. Finora la Corte Suprema ha respinto tutte le petizioni per cambiare la legge, sulla base del fatto che la nazionalità israeliana potrebbe tecnicamente aprire all’inclusione di cittadini non ebrei e minacciare il dogma sionista di Israele come Stato della nazione ebraica.

Segregazione e esproprio della terra

Anche l’organizzazione dello spazio all’interno di Israele configura l’apartheid. La maggior parte dei palestinesi cittadini di Israele vive in villaggi e città di soli arabi, soltanto alcuni vivono in “città miste”. Questa segregazione non è casuale, né un “naturale” modello residenziale. Un esame sommario rivela l’obiettivo israeliano di comprimere il maggior numero di arabi palestinesi nella più piccola porzione possibile di terra. I villaggi sopravvissuti alla pulizia etnica del 1948 hanno visto espropriata molta della loro terra e da allora non è stata permessa alcuna espansione. Il risultato è che questi villaggi e cittadine arabi soffrono di un grave sovraffollamento e non hanno opportunità di riscatto attraverso sviluppo o crescita. Inoltre, dal 1948 non è stato costruito un solo nuovo villaggio o città arabi.

Se i palestinesi lasciano le loro città e villaggi di origine, non hanno la possibilità di comprare o affittare terra grazie a due principali meccanismi: i comitati di ammissione e le politiche discriminatorie del Fondo Nazionale Ebraico (JNF) e delle autorità statali. Le comunità rurali possono istituire comitati di ammissione che controllano l’“idoneità sociale” dei potenziali residenti, consentendo il fatto che i palestinesi che fanno richiesta vengano “legalmente” non accettati in quanto non sono ebrei. L’Alta Corte ha avallato questa prassi nonostante le contestazioni contro di essa.

L’Autorità Israeliana per la Terra (nota come Israeli Land Administration [Amministrazione Israeliana della Terra] fino al 2009) è stata incaricata fin dall’inizio di mantenere il mandato del Fondo Nazionale Ebraico per agire come affidatario della terra di Palestina per il popolo ebraico ed operare in base alla Legge del 1952 sullo status dell’Organizzazione Mondiale Sionista-Agenzia Ebraica, la cui funzione principale consiste nel radunare e insediare gli ebrei di tutto il mondo in Israele.

Quindi la pianificazione urbana e rurale e l’organizzazione dello spazio mantengono la preminenza del carattere ebraico dello Stato e corroborano la narrazione sionista. L’obiettivo del Piano Generale di Israele, formulato in base alla Legge del 1965 sulla pianificazione e l’edilizia, ribadisce questa politica: “Sviluppare aree in Israele in modo da permettere la realizzazione degli obbiettivi della società israeliana e delle sue diverse componenti, la realizzazione del suo carattere ebraico, l’inserimento di immigrati ebrei ed il mantenimento del suo carattere democratico.”

Questa ideologia e le politiche che la supportano hanno avuto conseguenze devastanti per le zone palestinesi lungo i confini del 1948. In Galilea, dove i palestinesi sono la maggioranza, il governo israeliano ha condotto decisi tentativi di “giudaizzare” la regione. Questo comprende l’accerchiamento dei villaggi palestinesi con insediamenti ebrei per impedire la contiguità geografica, – rivelando le preoccupazioni demografiche dello Stato, soprattutto il suo timore per la crescita della popolazione palestinese. Questa preoccupazione israeliana si è espressa anche attraverso continue espulsioni e trasferimenti di decine di migliaia di beduini palestinesi nel Naqab (Negev).

Ben 90.000 beduini vivono in “villaggi non riconosciuti”, il che significa che Israele considera questi villaggi illegali ed i loro abitanti “intrusi” nella terra dello Stato. La definizione di “illegali” deriva anzitutto dal fatto che molti dei villaggi sono precedenti alla nascita di Israele e la tradizione beduina determinava la proprietà della terra. Riguardo agli altri villaggi, i beduini li hanno creati dopo essere stati espulsi dalle loro terre ancestrali nel 1948 e non sono “autorizzati” dallo Stato. In questo modo, Israele rivendica la legittimità di privare molti beduini del Naqab dei servizi essenziali come l’acqua e l’elettricità e in molti casi distrugge i villaggi.

Il fatto che palestinesi ed ebrei vivano in aree segregate rende più facile per Israele privare dei servizi i palestinesi in altre zone all’interno dei confini del 1948. Le organizzazioni para-governative che si occupano di allocazione delle risorse favoriscono tale deprivazione. Queste organizzazioni sono enti ebraici o sionisti, comprese l’Agenzia Ebraica e l’Organizzazione Sionista Mondiale, ed il loro compito è essere al servizio del popolo ebraico e mantenere il carattere sionista dello Stato. Di conseguenza, negano risorse ai palestinesi allo stesso modo in cui viene loro negato lo spazio, sulla base del fatto che non sono ebrei. Pur se in molti Paesi esiste una distribuzione iniqua ed ingiusta delle risorse e della terra, raramente tali politiche sono inserite in modo così esplicito nella legge come in Israele.

Conservare il regime

Israele mantiene questo regime di apartheid tramite vari metodi di controllo esterno ed interno. All’interno dei confini del 1948 lo Stato cerca di sottomettere i palestinesi fin dall’inizio della loro esistenza attraverso il sistema educativo. Stabilito durante il regime militare, il sistema scolastico statale ha posto i bambini palestinesi e quelli ebrei israeliani in scuole separate. Il docente di Educazione dell’università Ben Gurion del Negev, Ismael Abu-Saad, ha affermato che, mentre le strutture formali del regime militare sono cambiate da allora, la strategia di usare “l’educazione come strumento a fini politici è perdurata e continua ancora oggi a determinare l’esperienza educativa degli studenti arabi palestinesi autoctoni in Israele.”

Questa strategia politica include il controllo del curriculum per eliminare l’identità palestinese ed impedire la mobilitazione contro lo Stato. Inoltre le scuole palestinesi hanno grande carenza di risorse: meno di un terzo di quanto viene speso per gli scolari ebrei israeliani è speso per quelli palestinesi. Questa mancanza di risorse non solo dimostra le palesi ineguaglianze tra le due categorie di cittadini, ma è anche un ostacolo per le opportunità dei ragazzi palestinesi nella loro vita futura.

Le scuole ebree israeliane godono di ampia autonomia relativamente al loro curriculum, mentre il ministero dell’Educazione stabilisce il curriculum delle scuole palestinesi. Non sorprende quindi che il curriculum delle scuole palestinesi sia quasi del tutto incentrato sulla storia, sui “valori” e sulla cultura ebraica, senza riferimenti alla storia palestinese e araba. La narrazione della Nakba, come i palestinesi chiamano la catastrofe della loro espulsione nel 1948, non esiste – e di fatto è messa al bando. La “Legge sul Finanziamento delle Fondazioni “di Israele, comunemente nota come “Legge della Nakba”, autorizza il ministro delle Finanze a ridurre o eliminare i finanziamenti statali a qualunque istituzione che commemori la Nakba o definisca il giorno dell’indipendenza israeliana un giorno di lutto.

Ciò riguarda scuole, Ong e amministrazioni comunali. La negazione di questo aspetto fondamentale della storia palestinese mira a recidere l’identità collettiva dei palestinesi, in cui la Nakba riveste un ruolo essenziale.

Se i palestinesi possono ottenere qualche successo nell’ambito del sistema giuridico israeliano attraverso azioni legali o ricorsi, non sono in grado di minacciare seriamente il regime razziale. E benché la partecipazione politica palestinese alla Knesset (parlamento israeliano) sia spesso citata come esempio della pluralità e della democrazia dello Stato, dal 1948 nessun partito arabo è stato incluso in una coalizione di governo e solo alcuni cittadini palestinesi sono stati designati in posizioni ministeriali.

I candidati alla Knesset possono essere esclusi se negano l’esistenza di Israele come Stato ebraico e democratico, il che rende la partecipazione politica in Israele basata sulla premessa di accettare che lo Stato è per il popolo ebraico e che l’esistenza dei palestinesi nello Stato non sarà mai uguale a quella delle loro controparti ebree.

La mobilitazione politica contro il regime è stata perciò condotta al di fuori della politica istituzionale, sia nella società civile che negli ambienti militanti, entrambi i quali sono sotto costante controllo e intimidazione. “Adalah”, il Centro Legale per i Diritti della minoranza araba in Israele, ha documentato la sistematica attività dello Stato di arresti e persecuzioni di soggetti rilevanti della società civile e di militanti politici. Analogamente, spesso lo Stato reprime con violenza le manifestazioni, in particolare nell’ottobre 2000, quando 13 cittadini palestinesi disarmati furono uccisi con armi da fuoco per aver protestato in solidarietà con i palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Nonostante queste crudeli e violente prassi, Israele conserva un’immagine di democrazia liberale e multiculturale – un alleato dell’Occidente in una regione altrimenti ostile. Dipinge il sionismo come un’ideologia di liberazione nazionale ebraica, invece che come base di un regime coloniale di insediamento che mantiene un sistema di apartheid. Israele è anche riuscito a orientare la discussione su che cosa sia la Palestina e chi sia un palestinese.

Sicuramente la Nakba ha diviso il popolo palestinese in tre parti: i palestinesi cittadini di Israele, i palestinesi in Cisgiordania e Gaza e i palestinesi in esilio (i rifugiati). Israele ed i vari processi di pace, compresi gli accordi di Oslo, hanno continuato a consolidare questa frammentazione attraverso la volutamente limitata interpretazione della Palestina come i “Territori Palestinesi Occupati” – e del popolo palestinese come persone all’interno di quei territori. Questo omette di riconoscere la Nakba come parte della storia palestinese e quindi esclude sia i palestinesi cittadini di Israele che i rifugiati in esilio dalla lotta di liberazione palestinese. Il rapporto ESCWA sottolinea che questa frammentazione è il principale strumento con cui Israele impone l’apartheid al popolo palestinese. È perciò importante elaborare strategie per usare l’analisi dell’apartheid e sfidare quella frammentazione.

L’analisi dell’apartheid come strategia per garantire diritti a tutti i palestinesi

Il termine “apartheid”, senza dubbio a causa delle sue gravi implicazioni politiche e giuridiche, non è ancora entrato nella sfera dei principali ambiti mediatici e politici in relazione ad Israele e Palestina. È stato solo occasionalmente applicato alla situazione della Cisgiordania. Anzi, il rapporto ESCWA, con la sua conclusione che Israele pratica l’apartheid su tutta la popolazione palestinese, è stato ritirato poco dopo la pubblicazione, in seguito all’enorme pressione da parte di USA ed Israele.

Ciononostante, l’analisi dell’apartheid può essere utilizzata strategicamente per contrastare la frammentazione del popolo palestinese e promuovere i suoi diritti, compresi quelli dei palestinesi cittadini di Israele. Ci sono molte ragioni per cui ’analisi dell’apartheid è particolarmente utile al riguardo.

Anzitutto, il diritto internazionale fornisce un modello e una definizione universali del termine, che riconosce che l’apartheid può assumere diverse forme. La comprensione dell’apartheid non si limita quindi a quello del regime sudafricano. Apartheid è anche un meccanismo inserito nel sistema giuridico, praticato e mantenuto dallo Stato. In quanto tale, il problema non riguarda i partiti politici o i politici al governo, ma piuttosto il fondamento costituzionale dello Stato stesso. Infine, l’analisi dell’apartheid riconosce che il regime israeliano di oppressione e discriminazione non solo colpisce tutte le componenti della società palestinese, ma di fatto dipende da tale frammentazione. Perciò le soluzioni a lungo termine alla violazione dei diritti dei palestinesi devono prendere in considerazione tutte le componenti del popolo palestinese, non solo i palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Il problema dell’apartheid riguarda il fondamento costituzionale dello Stato.

Creare questi punti di forza consente alcune possibili strategie. Chi si occupa di diritto internazionale e di analisi politica non deve rinunciare a perseguire i diritti dei palestinesi nel quadro dell’occupazione militare, in particolare del riconoscimento della Linea Verde [il confine tra Giordania ed Israele prima della guerra del ’67, ndt.]. Tuttavia i politici ed i soggetti della società civile devono anche evidenziare che i palestinesi cittadini di Israele ed i palestinesi rifugiati non sono separati dalla complessiva lotta palestinese. Tenere insieme questi elementi può aiutare a sfidare i limiti del discorso internazionale che detta i criteri su chi sia un palestinese.

Per i palestinesi, soprattutto per la leadership politica e della società civile, uno dei compiti più importanti dovrebbe essere contrastare la frammentazione imposta dal regime israeliano. I dirigenti devono prendere in considerazione l’epoca antecedente a Oslo, un periodo di maggior cooperazione attraverso la Linea Verde, e portare avanti il lavoro già in atto, benché su piccola scala, da parte di diverse Ong che si occupano soprattutto di raggruppare insieme i giovani palestinesi, come Baladna (Associazione per la gioventù araba con sede ad Haifa). Ciò che è necessario è uno sforzo collettivo sviluppato dai palestinesi di entrambi i lati della Linea Verde e in esilio, che spinga per una visione politica ed un futuro sostenibile.

Vi è un precedente di una tale visione tra i palestinesi cittadini di Israele. I ‘Documenti per una visione del futuro’, pubblicati nel 2006-2007, sono scaturiti dal lavoro collettivo di politici, intellettuali e leaders della società civile palestinesi. I documenti non solo enunciavano le richieste sociali e politiche della comunità palestinese in Israele, ma proponevano anche una sintetica narrazione palestinese. Ne è risultato un quadro teoretico e strutturato per i diritti dei palestinesi entro lo Stato di Israele. Il quadro disegnava il futuro a prescindere dalle limitazioni dall’alto al basso e avanzava proposte politiche concrete.

Però l’accento posto dai documenti su Israele mette in luce I loro limiti, soprattutto relativamente alla frammentazione. Ampliare questa visione attraverso ed oltre la Linea Verde e trasformarla in una richiesta di fine dell’apartheid e della frammentazione imposta, deve assumere un ruolo centrale nella lotta di liberazione palestinese. Solo attraverso un simile sviluppo tutti gli aspetti del regime israeliano di apartheid possono essere messi in discussione.

Note:

  1. Il rapporto ESCWA afferma: “Israele ha instaurato un regime di apartheid che domina i palestinesi nel loro complesso….Israele è colpevole di politiche e prassi che configurano il crimine di apartheid come giuridicamente definito nei dispositivi del diritto internazionale.”

  1. Un caso recente è stato il tentativo di sfratto nel 2014 della famiglia Ghaith-Sub Laban, che aveva vissuto nella sua casa nella città vecchia di Gerusalemme per 60 anni.

Yara Hawari

Yara Hawari è l’esperta di politica palestinese di Al-Shabaka: rete di politica palestinese.

E’ una studiosa-attivista anglo-palestinese, i cui lavori sono sempre improntati al suo impegno per la decolonizzazione. Originaria della Galilea, Yara ha passato la sua vita tra la Palestina e il Regno Unito. Attualmente è dottoranda all’ultimo anno presso il Centro Europeo per gli Studi Palestinesi all’università di Exeter. La sua tesi si incentra su progetti ed iniziative di storia orale in Galilea, e più ampiamente sulla storia orale come forma autoctona di produzione di conoscenza. Yara è anche assistente all’insegnamento post-laurea e lavora come giornalista freelance pubblicando per diversi organi di informazione, compresi Electronic Intifada e The Independent.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Abbas dichiara morti gli accordi di Oslo: “Il piano di pace di Trump è uno schiaffo e noi glielo restituiremo.”

Jack Khoury

15 gennaio 2018, Haaretz

Abbas: “Israele ha ucciso gli accordi di Oslo. Futuri negoziati avranno luogo nel contesto della comunità internazionale” Il vice capo di Fatah: “Congelare il riconoscimento di Israele è un’opzione”

Domenica il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha detto che Israele ha ucciso gli accordi di Oslo e durante una drammatica riunione a Ramallah ha definito il piano di pace per il Medio Oriente del presidente USA Donald Trump “uno schiaffo in faccia”, aggiungendo che “glielo restituiremo”.

Abbas ha aggiunto che “oggi è il giorno in cui sono finiti gli accordi di Oslo. Israele li ha uccisi. Siamo un’autorità senza potere, e un’occupazione senza alcun costo. Trump minaccia di tagliare i finanziamenti all’Autorità [Nazionale Palestinese] perché i negoziati sono falliti. Ma quando mai le trattative sono iniziate?!”

Ha aggiunto che “ogni futuro negoziato avrà luogo solo nel contesto della comunità internazionale, da parte di una commissione internazionale creata nell’ambito di una conferenza internazionale. Permettetemi di essere chiaro: non accetteremo la leadership dell’America in un processo politico che riguardi i negoziati.

L’ambasciatore USA in Israele David Friedman è un colono che si oppone alla fine dell’occupazione. È un essere umano aggressivo e non accetterò di incontrarmi con lui da nessuna parte. Hanno chiesto che mi incontrassi con lui e mi sono rifiutato, non a Gerusalemme, non ad Amman, non a Washington. Anche l’ambasciatrice USA all’ONU, Nikki Haley, minaccia di colpire le persone che nuocciono ad Israele con il tacco della sua scarpa, e noi risponderemo nello stesso modo.”

Il consiglio centrale palestinese si è riunito nel contesto dell’annuncio del presidente USA Donald Trump il 6 dicembre, in cui ha dichiarato che Gerusalemme è la capitale di Israele, e del contrasto senza precedenti che ciò ha provocato tra l’Autorità Nazionale Palestinese e Washington. Abbas ha detto: “Il ministro degli Esteri della Lega Araba ha accusato i palestinesi di non protestare abbastanza contro la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.”

Noi siamo un popolo che si è messo a fare proteste non-violente in seguito al riconoscimento di Trump (di Gerusalemme come capitale di Israele), e il risultato è stato 20 morti, più di 5.000 feriti e oltre 1000 arresti, e loro hanno la faccia tosta di dire che il popolo palestinese non è sceso nelle strade,” ha continuato, aggiungendo che “l’ho detto al ministro, che se egli vuole davvero aiutare il popolo palestinese ci appoggi e ci dia concretamente una mano. Sennò potete andare tutti quanti all’inferno.”

Poi Abbas si è rivolto al Regno Unito, affermando che “continuiamo a chiedere delle scuse dalla Gran Bretagna per la dichiarazione Balfour [in cui nel 1917 la GB si impegnava a favorire la costituzione di un “focolare ebraico” in Palestina, ndt.], e continueremo a chiedere che riconosca lo Stato palestinese.” Ha osservato che “la frase di Herzl ‘una terra senza popolo per un popolo senza terra’ era un’invenzione. Venne qui e vide un popolo, e per questa ragione parlò della necessità di sbarazzarsi dei palestinesi.”

Abbas ha parlato per circa due ore e mezza di come gli ebrei sono stati portati in Israele. Ha sottolineato che Inghilterra e Stati Uniti hanno partecipato al processo di trasferimento degli ebrei in Palestina dopo l’Olocausto, cercando di risolvere il problema di avere gli ebrei senza patirne le conseguenze.

Abbas ha continuato: “A Camp David hanno tentato un’operazione insensata. Hanno detto agli americani che eravamo pronti a rinunciare al diritto al ritorno, al 13% della Cisgiordania e a fornire agli ebrei uno spazio per pregare nella moschea di Al-Aqsa.

La nostra posizione è uno Stato palestinese all’interno dei confini del ’67 con capitale a Gerusalemme est e la messa in pratica delle decisioni della comunità internazionale, così come una soluzione giusta per i rifugiati.

Siamo a favore della lotta nazionale, che è più efficace perché non c’è nessun altro su cui possiamo contare.

Gli americani ci hanno chiesto di non entrare a far parte di 22 organizzazioni, compresa la Corte Penale Internazionale. Gli abbiamo detto che non l’avremmo fatto finché non avessero chiuso gli uffici dell’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che riunisce i principali gruppi palestinesi ed è dominata da Fatah, ndt.], non avessero spostato la loro ambasciata a Gerusalemme ed avessero congelato l’edificazione negli insediamenti. Non hanno accettato, e di conseguenza non siamo vincolati da nessun accordo. Aderiremo a quelle organizzazioni.

Abbiamo accettato 86 decisioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per i palestinesi, e nessuna di esse è stata messa in pratica. Ad altre 46 gli americani hanno posto il veto.

Israele ha importato impressionanti quantità di droga per distruggere la nostra generazione più giovane. Dobbiamo stare attenti, e per questa ragione abbiamo creato un’autorità per combattere le droghe e stiamo investendo molto nello sport, soprattutto nel calcio. Abbiamo già denunciato Israele alla FIFA.

Pubblicheremo una lista nera di 150 imprese che lavorano con le colonie e renderemo pubblici all’Interpol i nomi di decine di persone sospettate di corruzione.

I prigionieri e i membri delle loro famiglie sono nostri figli e continueremo a fornire loro un sussidio.

Le famiglie dei palestinesi uccisi hanno il diritto di rivolgersi alla Corte Penale Internazionale e di chiedere giustizia dalla comunità internazionale.

Non intendiamo accettare che gli USA tentino di farci delle imposizioni e non vogliamo accettarli come mediatori.

Non saremo un’autorità senza potere e un’occupazione senza costi. Difenderemo le nostre conquiste nella comunità internazionale e a livello locale, e continueremo a combattere il terrorismo, e a lottare con la non-violenza. Parteciperemo a tutti i processi politici guidati dalla comunità internazionale per la fine dell’occupazione.”

Il capo di “Iniziativa Nazionale Palestinese” [gruppo politico palestinese che sostiene la lotta non violenta contro l’occupazione, ndt.], il dottor Mustafa Barghouti, dopo il discorso di Abbas ha detto ad Haaretz: “Il discorso ha sollevato la questione. È chiaro che gli USA hanno esaurito il loro ruolo come unici sostenitori del processo di pace e i palestinesi hanno sottolineato che non accetteranno più nessuna imposizione di parti terze. Lunedì stileremo le conclusioni e da parte mia chiederò che la bozza includa la posizione secondo cui noi lavoreremo per mettere in pratica una soluzione dello Stato unico con gli stessi diritti civili e nazionali per tutti.”

Hamas ha attaccato Abbas dicendo che le sue dichiarazioni non sono condivise tra i palestinesi.

L’incontro di domenica nella città cisgiordana di Ramallah – sede del governo dell’Autorità Nazionale Palestinese – si è tenuto con i rappresentanti della maggior parte delle fazioni palestinesi, ma due importanti organizzazioni, Hamas e Jihad Islamica, hanno annunciato che non vi avrebbero partecipato, benché fossero state invitate.

Il portavoce di Hamas Fauzi Barhum ha criticato la decisione di convocare l’incontro a Ramallah, affermando che si sarebbe dovuto tenere in un altro Paese, per garantire la partecipazione dei principali rappresentanti di tutte le fazioni.

Haaretz è venuto a sapere che nelle discussioni che si sono tenute durante il fine settimana, sia nel Comitato Centrale di Fatah che nel Comitato Esecutivo dell’OLP, sono state prese in considerazione una serie di proposte, tra cui l’idea di annullare gli accordi di Oslo e il coordinamento per la sicurezza, sulla base del fatto che Israele ha violato tutti gli accordi per cui i palestinesi non sono più obbligati a continuare a rispettare i patti.

Altri membri di Fatah e dell’OLP hanno appoggiato l’opzione di continuare con i tentativi a livello internazionale, soprattutto attraverso le Nazioni Unite, l’Unione Europea, la Cina e la Russia, per portare avanti il riconoscimento internazionale dello Stato palestinese all’interno dei confini del 1967.

Secondo funzionari di Fatah la prossima mossa palestinese sarà la messa in pratica della loro richiesta di rendere il conflitto una questione internazionale e di chiedere che l’ONU istituisca un gruppo per risolverla. I funzionari hanno detto che gli Stati Uniti potrebbero essere membri di questo gruppo, ma non gli unici mediatori del processo politico.

Il vice capo di Fatah Mahmoud Al-Aloul ha detto che molti palestinesi hanno grandi aspettative per la decisione del consiglio centrale. “Dobbiamo rispondere a queste aspettative, perché oggi siamo arrivati ad un punto di svolta della questione nazionale palestinese.” Al-Aloul ha aggiunto che queste decisioni sono difficili e non porteranno ad abbandonare gli amici di Fatah.

Al-Aloul ha detto ad Haaretz che il consiglio centrale di Fatah ha preso le sue decisioni in modo indipendente e che c’è una lista di suggerimenti che devono essere presi in considerazione, compreso il congelamento del riconoscimento di Israele.

Le decisioni prese dal consiglio sono state trasmesse al comitato esecutivo dell’OLP per essere messe in pratica.

Haaretz ha saputo anche che durante gli ultimi giorni Paesi europei ed arabi come l’Arabia Saudita hanno fatto pressioni sull’ANP, e su Abbas in particolare, perché non prendessero iniziative radicali e per consentire un’azione a livello internazionale e diplomatico.

Un altro suggerimento chiederebbe al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di riconoscere lo Stato palestinese all’interno dei confini del ’67, così come la definizione delle terre dell’ANP come un Paese sotto occupazione. Un’ulteriore indicazione è stata di rivolgersi alla Corte Internazionale di Giustizia per iniziare un procedimento legale contro Israele.

Il consiglio centrale palestinese è un ente consultivo che si riunisce quando è impossibile convocare una seduta del Consiglio Nazionale Palestinese (l’organo legislativo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina), e si prevede che fornisca al comitato esecutivo dell’OLP, che è l’organo esecutivo palestinese di maggior importanza, raccomandazioni relative alle politiche.

Un importante membro del comitato esecutivo dell’OLP ha detto ad Haaretz che, nonostante l’atmosfera drammatica che i collaboratori di Abbas hanno cercato di creare, non ci si aspettano cambiamenti radicali.

(traduzione di Amedeo Rossi)