Dopo una brutale aggressione al figlio minorenne, una famiglia palestinese querela Israele e l’impresa olandese che fornisce cani all’esercito [israeliano]

Yumna Patel

26 febbraio 2018, Mondoweiss

Quando aveva 15 anni, Hamza Abu Hashem è stato aggredito da cani dell’esercito israeliano ed ha riportato gravi ferite alle gambe, alle braccia e alla schiena.

In un video dell’aggressione, che è avvenuta il 23 dicembre 2014 nel villaggio di Beit Ummar nel sud della Cisgiordania occupata, si possono sentire soldati israeliani dire “dagliele, figlio di puttana” e “chi ha paura?”, mentre il ragazzo piangeva e urlava di dolore.

Dopo che il video è stato reso pubblico, Michael Ben-Ari, un ex deputato del partito di destra “National Union Party”, lo ha postato sulla sua pagina Facebook dicendo: “I soldati stanno dando una lezione al piccolo terrorista. Diffondete! In modo che ogni piccolo terrorista che pensi di fare del male ai nostri soldati saprà che ci sarà un prezzo da pagare.”

Hamza è stato arrestato immediatamente dopo l’aggressione, per la quarta volta da quando aveva 11 anni, e condannato a tre mesi e mezzo di prigione con l’accusa di aver lanciato pietre – un crimine che è costato a lui e ai suoi cinque fratelli il carcere per decine di volte in due decenni.

Prima di essere trasferito in prigione è stato ricoverato in ospedale in Israele per una settimana, con le mani incatenate al letto per tutto il tempo e senza che la sua famiglia potesse visitarlo.

Adesso, quattro anni dopo l’aggressione che gli ha lasciato la mente ed il corpo segnati per tutta la vita, Hamza, insieme alla sua famiglia, sta facendo causa al governo israeliano per l’aggressione, ed anche all’impresa olandese che per più di 20 anni ha fornito ad Israele cani da attacco.

Secondo un reportage del 2015 del giornale olandese NRC, ‘Four Winds K9’, l’impresa a cui Hamza sta facendo causa, risulta aver esportato in Israele “cani di servizio” per 23 anni.

Nel reportage, NRC cita il proprietario di ‘Four Winds K9, Tonny Boeijen, che avrebbe detto di aver spedito in Israele ogni anno decine di cani addestrati all’attacco, e che il 90% dei cani dell’esercito israeliano venivano addestrati dalla sua impresa.

In seguito alle pressioni di politici olandesi e di organizzazioni come l’Ong palestinese per i diritti umani Al-Haq, nel giugno 2016 l’impresa ha comunicato che avrebbe interrotto l’esportazione di “cani da attacco” ad Israele ed avrebbe fornito allo Stato solo dei “segugi”, mentre la comproprietaria dell’impresa Linda Boeijen ha detto a NRC: “Non intendiamo violare i diritti umani.”

Ma per i genitori di Hamza, Ahmad e Hamda, questo non è abbastanza. “Dobbiamo mettere fine alla vendita di tutti i cani all’esercito israeliano di occupazione”, hanno detto a Mondoweiss nel loro salotto, mentre sullo schermo televisivo scorreva il video dell’aggressione ad Hamza.

Vogliamo sottolineare che non si tratta di soldi”, ha detto categoricamente Ahmad, dicendo a Mondoweiss che la famiglia non ha richiesto un solo shekel in nessuna delle sue denunce.

È intervenuta Hamda: “Nel corso degli anni, mio marito e tutti i miei sei ragazzi sono stati incarcerati molte volte da Israele, ed abbiamo pagato decine di migliaia di dollari di cauzione all’occupante. Tuttavia, non è il denaro che vogliamo.”

Scuotendo la testa, Hamda ha detto a Mondoweiss che l’ultima volta che la sua famiglia di 10 persone si è riunita è stato durante l’ultimo Ramadan, appena prima che il figlio maggiore Thaer, che è tuttora in carcere, fosse nuovamente arrestato. Prima di allora, dice che non ricorda nemmeno l’ultima volta in cui si sono trovati tutti insieme.

L’associazione per i diritti dei prigionieri Addameer ha calcolato che circa il 40% degli uomini palestinesi viene arrestato da Israele ad un certo punto della propria vita.

L’impresa olandese ha cercato di chiudere la faccenda con noi, dicendo che avrebbero dato a Hamza circa 10.000 euro se avessimo ritirato la denuncia e non avessimo pubblicato nulla della sua vicenda”, ha continuato. “Che insulto è questo? Pensano che vogliamo del denaro? No, vogliamo che i diritti di tutti i bambini palestinesi vengano protetti, ecco che cosa vogliamo.”

Per Ahmad e Hamda vi sono due principali obiettivi che sperano di raggiungere attraverso la loro denuncia. Primo, nella loro denuncia contro il governo israeliano – che ammettono abbia poca probabilità di ottenere giustizia – l’obiettivo è rendere responsabili i soldati che hanno aggredito Hamza ed i politici come Ben-Ari, che loro dicono abbia in seguito istigato alla violenza contro i bambini. “Israele non assicura quasi mai giustizia ai palestinesi vittime dell’occupazione, ma, anche se solo simbolicamente, dobbiamo portarli in tribunale per i loro crimini”, ha detto Ahmad, aggiungendo che è stato dopo aver visto i commenti di Ben-Ari riguardo a Hamza che si è deciso a sporgere denuncia.

Secondo, per Ahmad e Hamda il presupposto della loro denuncia contro ‘Four Winds K9 è che per anni l’impresa ha scientemente venduto cani ad una potenza occupante che viola sistematicamente i diritti e le leggi internazionali.

L’impresa, e tutte le imprese del mondo, dovrebbero sapere che quando vendono ad Israele stanno facendo profitti grazie all’oppressione, alle uccisioni e all’incarcerazione di bambini”, ha detto Ahmad, e Hamda ha annuito. “Lo scopo di tutto questo è ottenere giustizia, sì, ma anche di impedire che ciò che è avvenuto a mio figlio accada ad altri bambini ed altre persone, in Palestina e in tutto il mondo.”

Segnato per tutta la vita

Oggi, a 19 anni, Hamza – che ha perso gran parte della sua infanzia in diverse prigioni israeliane per il reato di lancio di pietre – è più maturo dei suoi anni per come si comporta e per come parla, ma dice di essere ancora colto da un’indescrivibile, infantile paura quando vede dei soldati israeliani con i loro cani, costantemente presenti a Beit Ummar.

Adesso, tutte le volte che vedo proteste o disordini nel villaggio, sono terrorizzato e cerco di scappare via il più presto possibile”, ha detto Hamza a Mondoweiss, mentre camminavamo nello spiazzo dove anni fa è stato aggredito.

Ero stato arrestato molte volte dall’occupante israeliano prima dell’aggressione, ma quella è stata di gran lunga la cosa più spaventosa accaduta a me e alla mia famiglia”, ha detto.

Seguito da Seja, la sua sorellina più piccola, Hamza ha indicato le decine di bambini che giocavano a calcio in una strada vicina, “Ciò che è ancor più spaventoso della mia aggressione, tuttavia, è che ci sono persone che intendono fornire all’occupante cani e armi, che in ogni momento possono essere usati contro questi bambini.”

Ecco perché non cederemo a tentativi di corruzione o minacce”, ha detto, “è una questione che è molto più grande di me. Si tratta del diritto di ogni bambino palestinese di vivere un’infanzia normale, una cosa che a me non è stata concessa.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Bisognava uccidere qualche palestinese

Amira Hass

20 febbraio 2018 Haaretz

L’imbarazzo provocato dalla negligenza dei soldati israeliani sabato non poteva essere cancellato bombardando le postazioni di Hamas. Era necessario qualcos’altro.

Nell’attacco terroristico al confine di Gaza alle 21,30 di sabato due ragazzi di 15 e 17 anni sono stati uccisi ed altri due, di 16 e 17 anni, feriti. Dei soldati israeliani hanno sparato circa 10 granate in territorio palestinese contro i quattro, che si trovavano a circa 50 metri ad ovest del confine.

I corpi di Abdullah Armilat e di Salem Sabah sono stati trovati da una squadra della Mezzaluna Rossa palestinese, che è riuscita a raggiungerli solo domenica mattina. Sia il quindicenne Armilat che il diciassettenne Sabah sono probabilmente morti dissanguati dopo essere stati feriti da proiettili delle granate israeliane.

Il luogo, ad est di Shokka nel sud della Striscia di Gaza, è conosciuto come un posto attraverso il quale i giovani, che sperano o di trovare lavoro o di essere arrestati, fuggendo così dalla vita di povertà senza speranza a cui sono condannati, cercano di passare in Israele. Secondo i dati più recenti, circa il 60% dei giovani di Gaza sono disoccupati. In televisione, o dalle poche alture di Gaza, i giovani palestinesi possono vedere le ampie comunità ebraiche, immerse nel verde, che alimentano la delusione dei gazawi rispetto al lavoro, alle opportunità e agli spazi aperti.

Un altro punto di passaggio, o di tentativo di passaggio, ben noto all’esercito israeliano, si trova nel centro di Gaza. Proprio in questo mese cinque giovani usciti di là per cercare lavoro sono stati catturati ed arrestati. Molti di coloro che cercano di passare in Israele lo fanno di notte, come Armilat e Sabah. La grande maggioranza, come Armilat, Sabah e i loro due amici, provengono da famiglie beduine della zona.

I due ragazzi che si sono salvati sono ora curati all’ospedale europeo di Gaza, nel sud della città. Uno, con ferite più leggere, ha detto ad un ricercatore del Centro palestinese per i diritti umani che lui e i suoi amici, le cui vite sono state spezzate in così giovane età, effettivamente speravano di passare il confine e cercare lavoro in Israele. Quando il medico ha detto al suo angosciato padre che suo figlio sarebbe stato dimesso il giorno successivo, lui è scoppiato in lacrime ed ha baciato la mano del medico.

Recentemente c’è stato un ulteriore incremento nel numero di persone che tentano di entrare in Israele senza permesso. Di fronte all’opprimente povertà ed alla crescente disperazione, i giovani si sono fatti più audaci.

“L’esercito israeliano è strano: a volte è difficile capirlo”, ha detto un abitante di Rafah che è per me come un fratello minore. Non ci siamo visti per 10 anni, ma abbiamo mantenuto confidenza e strette relazioni per telefono.

“A volte vedi che l’esercito si pone dei limiti, dimostrando di saper fare distinzioni”, ha continuato. “Normalmente, se chi viene fermato dai soldati ha meno di 18 anni, lo rilasciano immediatamente e lo rimandano a Gaza. I soldati conoscono bene questo posto e sanno che le persone che passano di lì sperano di trovare lavoro. Sono attrezzati per vedere di notte e avrebbero potuto vedere che i quattro ragazzini erano disarmati. Quindi perché colpirli direttamente ed ucciderli?”.

Hai torto, mio giovane amico, non è assolutamente così. Già da sabato mattina, quando dei soldati israeliani sono stati gravemente feriti da una bomba nel territorio di Gaza, i portavoce sia delle fonti ufficiali che dei media hanno preparato il terreno per una rapida vendetta. Hanno detto che dal 2014, durante l’operazione ‘Margine Protettivo’ (l’attacco israeliano a Gaza, ndtr.), non vi era stato un incidente così grave. L’esplosione di un ordigno destinato a soldati ben addestrati e ben armati è stato riportato dai media come un attacco terroristico. Il capo del Comando sud dell’esercito, Eyal Zamir, domenica ha dichiarato che “L’attacco a soldati dell’esercito israeliano è un grave atto terroristico”, come se l’obbiettivo fossero stati dei bambini in un asilo o delle donne sull’autobus che tornavano con le loro borse dal mercato. La rabbia è esplosa nei programmi televisivi del sabato e ha continuato a crescere.

L’imbarazzo causato dalla penosa negligenza dei soldati non poteva essere cancellato semplicemente bombardando le vuote postazioni di Hamas. Ci voleva qualcosa di più. In altri termini, alcuni palestinesi disponibili per essere uccisi, che potessero essere sepolti in una generica frase negli articoli dei media, con l’aiuto del monopolio che noi deteniamo sul diritto di definire che cosa costituisca terrorismo.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Protezione per i ladri di terra

Editoriale Haaretz, 27 febbraio 2018

Un governo è obbligato a proteggere i diritti delle persone sotto occupazione. Ayelet Shaked lo sta rendendo difficile.

La motivazione del recente disegno di legge, promosso dalla ministra della Giustizia Ayelet Shaked, che toglie l’autorità di esaminare le petizioni dei palestinesi della Cisgiordania all’Alta Corte di Giustizia e la attribuisce alla Corte Distrettuale di Gerusalemme, è stata sintetizzata dalla ministra sulla sua pagina Facebook. In seguito alla legge, ha scritto, “Il ricorso automatico all’Alta Corte da parte dei palestinesi e dalle associazioni di sinistra finanziate da denaro straniero non avverrà più.”

Il significato del disegno di legge approvato domenica dalla Commissione Ministeriale per la Legislazione è che l’Alta Corte non sarà più il tribunale di prima istanza per i reclami palestinesi sulle decisioni relative a pianificazione e edificazione, ingresso e uscita dai territori e richieste di libertà di informazione. La rivoluzione prodotta da questa legge mira a rendere ancor più difficili le azioni dei palestinesi danneggiati da azioni governative.

Ciò che è peggio, la promessa di Shaked che la nuova legge ridurrà la pressione sulla corte non è convincente, dato che nessuno garantisce che questi casi non saranno alla fine impugnati presso la Corte Suprema. Shaked semplicemente non tollera l’intervento dell’Alta Corte contro il furto di terre e la costruzione illegale su terreni palestinesi, intervento che ha già portato alla demolizione di case di coloni e la restituzione dei terreni su cui erano state costruite quelle case ai proprietari, come è successo ad Amona e Netiv Ha’avot. Shaked intende porre una barriera tra i palestinesi e l’Alta Corte di Giustizia sotto forma della Corte Distrettuale di Gerusalemme.

Nel 2000 è stata approvata la Legge sui Tribunali per le Questioni Amministrative, in base alla quale certe questioni legali su cui la legge è chiara e coerente, e non necessita di frequenti aggiornamenti, sono state spostate dall’Alta Corte di Giustizia alle corti distrettuali. Ma qualunque caso di carattere fondamentale, o che riguardi decisioni del governo centrale, viene ancora esaminato dai giudici della più alta corte.

Nel caso dei palestinesi, che sono soggetti al governo militare in un’area sotto occupazione, il loro timore di vedere messi a repentaglio i propri diritti umani si realizza quotidianamente, da cui l’importanza di consentire all’Alta Corte di continuare ad occuparsi delle loro istanze. Lo scopo era di attribuire adeguato peso al diritto internazionale, alle iniquità perpetrate dal governo ed all’obbligo di Israele di rispettare i diritti dei palestinesi. Questi principi, che sono considerati dall’attuale governo come ostacoli al totale ed aggressivo controllo dei territori, non sono abitualmente presi in considerazione dalla corte distrettuale.

Shaked sostiene: “Non meno importante è porre fine alla discriminazione contro i residenti di Giudea e Samaria (nome storico della Cisgiordania, ndtr). I loro diritti devono essere uguali a quelli di ogni altro cittadino.” Il cinismo di Shaked non ha limiti. In un luogo in cui non vi è eguaglianza tra lo status di un residente palestinese e quello di un israeliano, ed un grande solco separa i diritti dei due gruppi di residenti, il governo è obbligato a proteggere realmente i diritti di coloro che sono soggetti all’occupazione. Questa nuova legge deve essere immediatamente abrogata.

Questo articolo è l’editoriale di apertura di Haaretz, pubblicato sui giornali ebraici e inglesi in Israele.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Per poter lasciare Gaza, Israele chiede ai minorenni palestinesi di impegnarsi a non ritornare per un anno

Amira Hass

24 febbraio 2018, Haaretz

Israele impone drastiche restrizioni ai ragazzi di Gaza che lasciano la Striscia per andare all’estero, chiedendo loro di firmare un impegno a rimanere lontani.

Il 24 gennaio la diciassettenne Hadil ed i suoi tre fratelli sono arrivati al checkpoint di Erez al confine tra Israele e la Striscia di Gaza. Il giorno prima avevano ricevuto un permesso israeliano per lasciare Gaza, passando da Israele alla Giordania attraverso il ponte Allenby (ponte sul fiume Giordano, passaggio tra Cisgiordania e Giordania, ndtr). Poiché Israele non ha permesso al loro fratello maggiore di accompagnarli nel viaggio per incontrare il loro padre, che vive in Svezia, Hadil ha assunto il ruolo di adulta responsabile.

A Erez un rappresentante dell’Ufficio israeliano di Coordinamento e Contatto ha chiesto ai quattro di firmare un impegno a non rientrare a Gaza per un intero anno, aggiungendo che, se non avessero firmato, non avrebbero potuto partire. Non avendo scelta, Hadil ha firmato per tutti loro.

Hadil non avrebbe mai immaginato che la sua firma su quell’accordo avrebbe fatto sì che l’Ufficio di Contatto emettesse disposizioni ancora più restrittive alla sua controparte palestinese, la Commissione palestinese per gli Affari Civili, e che quest’ultima sfidasse le nuove regole.

Questo caso getta luce su un problema generale relativo allo status della Commissione per gli Affari Civili, il cui compito è ricevere le richieste palestinesi di uscita da Gaza e trasmetterle ad Israele per l’approvazione o il respingimento. Il problema che sorge qui, e non per la prima volta, è dove stia il confine tra una necessaria cooperazione su questioni civili che riguardano la vita dei palestinesi e una collaborazione da parte dei responsabili dell’Autorità Nazionale Palestinese con i burocrati israeliani che sabotano i diritti fondamentali dei palestinesi.

Far firmare a dei minori un accordo così impegnativo è illegale, secondo Gisha – Centro Legale per la Libertà di Movimento, il cui intervento ha garantito i permessi di uscita a Hadil e ai suoi fratelli. L’avvocata di Gisha, Osnat Cohen-Lifshitz, lo ha scritto al capitano Nadav Glass, consulente legale del dipartimento di Gaza dell’Ufficio di Contatto.

“Non è la prima volta che i rappresentanti dell’Ufficio di Contatto fanno firmare a dei minori accordi la cui legittimità è dubbia persino quando siano degli adulti costretti a firmarli”, ha scritto. “Questo è ancor più vero quando dei minori non accompagnati sono costretti a firmare un documento senza il consenso e la firma dei loro genitori.”

Il 7 febbraio Glass ha risposto che le firme dei minori non erano valide. D’ora in poi, ha scritto, l’ufficio avrebbe controllato che gli impegni a non ritornare a Gaza per un anno sarebbero stati firmati da un genitore o da un tutore del minore.

“Per assicurare un comportamento corretto su questa questione in particolare, e sulla firma di accordi in generale, abbiamo deciso di ribadire che le richieste da parte di residenti della Striscia di Gaza, sia adulti che minori, di entrare in Israele per viaggiare all’estero per lunghi periodi siano trasmesse dalla Commissione Affari Civili con già allegato un impegno legalmente sottoscritto”, ha aggiunto. “Se le richieste vengono inoltrate senza il richiesto documento firmato, verranno respinte. E’ stata inviata una dichiarazione in tal senso alla Commissione Affari Civili.”

A partire dal 1997 Israele ha vietato agli abitanti di Gaza di andare all’estero attraverso il ponte Allenby senza un permesso speciale, che viene rilasciato col contagocce. Questa nuova disposizione era una delle tante restrizioni israeliane alla libertà di movimento, divenute più severe dopo la firma degli Accordi di Oslo del 1993, che hanno progressivamente isolato Gaza dalla Cisgiordania.

Finché il valico di confine di Rafah tra Gaza e l’Egitto restava aperto più o meno regolarmente, come nel 1997, questa restrizione era tollerabile. Ma attualmente Rafah è aperto solo alcuni giorni all’anno.

Inoltre nel 2007 Israele ha istituito un divieto indiscriminato per i palestinesi ad uscire da Gaza attraverso il checkpoint di Erez, tranne in alcuni casi umanitari rigorosamente stabiliti (malattia, morte, matrimonio o parentele di primo grado). Nel tempo questa restrizione si è un poco allentata, ma anche oggi solo poche migliaia dei due milioni di abitanti di Gaza hanno il permesso di uscire attraverso Erez.

Nel febbraio 2016 Israele ha deciso di permettere ai gazawi di andare all’estero attraverso Allenby, ma solo se promettevano di non ritornare per un anno. Questa condizione non costituiva un problema per le persone alle quali era destinata la modifica – i palestinesi residenti all’estero rimasti “bloccati” a Gaza durante una visita, o che avessero programmato lunghi soggiorni all’estero per studio o lavoro.

Una fonte palestinese ha detto che la Commissione Affari Civili e le autorità israeliane avevano stabilito questo accordo tra di loro. Le persone che viaggiavano a causa di malattie o eventi familiari e gli accademici che uscivano per brevi viaggi dovevano essere esonerati dall’impegno a non tornare per un anno.

Tuttavia, la Commissione non ha mai preteso che le persone che richiedevano permessi di uscita firmassero l’impegno a non tornare per un anno. Perciò veniva loro richiesto di firmare a Erez o ad Allenby. Chiunque rifiutasse doveva ritornare a casa.

In seguito al caso di Hadil e i suoi fratelli, la Commissione ha detto a Gisha che l’Ufficio di Contatto israeliano aveva iniziato a chiedere che fosse accluso ad ogni richiesta di uscita un impegno firmato. L’ufficio rifiuta di esaminare richieste che arrivano prive del documento firmato, ma la Commissione Affari Civili (palestinese) continua a rifiutarsi di chiedere alle persone di firmarlo.

L’Ufficio di Contatto recentemente ha anche chiesto alla Commissione di classificare più richieste di uscita come “per lungo soggiorno” all’estero, anche in casi umanitari come la partecipazione ad un matrimonio o la visita ad un ammalato. Effettivamente, in base alle ultime indicazioni ricevute dalla Commissione, chiunque si rechi all’estero deve firmare un impegno a non rientrare a Gaza per un anno.

Un mese fa, per esempio, Gisha ha inviato una petizione all’Alta Corte di Giustizia a nome di una giovane donna, suo padre e una zia, che volevano andare in Giordania per il suo matrimonio. L’Ufficio di Contatto ha detto a Gisha che tutte le tre richieste sarebbero state classificate come “lungo soggiorno”, chiedendo loro di firmare l’impegno a non tornare per un anno.

La Corte ha ordinato all’ufficio di riconsiderare il caso e i legali del governo hanno detto che non avrebbero insistito per la firma della sposa. Ma quando i tre sono arrivati a Erez, alla sposa è stato chiesto di firmare l’impegno. Solo l’intervento di Gisha ha fatto in modo che venisse annullato.

I dati ottenuti da Gisha, in base alla Legge sulla libertà di informazione, dal Coordinatore israeliano per le Attività di Governo nei Territori (COGAT) rivelano un largo scarto tra il numero di gazawi che richiedono permessi di uscita attraverso Allenby ed il numero di concessioni, ed anche tra questo ed il numero effettivamente utilizzato. Per esempio, nell’agosto 2017, sono state sottoposte 475 richieste, ne sono state approvate 169 e 39 respinte. Ma solo 96 persone sono realmente uscite, compresi 28 minori.

Il COGAT non ha detto se questa discrepanza fosse dovuta ad un rifiuto di firmare l’impegno a Erez. Ha anche rifiutato di dire quanti gazawi abbiano cercato di tornare a Gaza prima della scadenza dell’impegno annuale, o di specificare i “motivi umanitari” che consentono a chi ha firmato di chiedere di tornare a casa prima.

Un portavoce del COGAT, alla richiesta di spiegare la logica retrostante all’impegno a non tornare, ha risposto: “ Nel 2016 è stata presa la decisione di aiutare i residenti della Striscia di Gaza che non possedevano i requisiti vigenti per andare all’estero (essere pazienti, studenti ed accademici). All’interno di quella decisione, è stato aggiunto un criterio per i residenti di Gaza che andavano all’estero attraverso Israele. Per ottemperare a questa decisione, devono firmare che si tratta di un lungo soggiorno all’estero, di oltre un anno. Da quando è stato aggiunto il suddetto criterio le procedure per la firma di questo documento non sono cambiate. Tuttavia, per regolare e semplificare il procedimento, è stato recentemente deciso che i documenti firmati devono essere inoltrati con largo anticipo.”

Gisha ha detto che i criteri, “che Israele ha inventato e che cambia quando vuole”, sono rigidi e che chiedere alle persone di promettere di non ritornare per un anno è immorale, illegale e inumano.

La Commissione Affari Civili, come rappresentante dell’ANP, mantiene finora il rifiuto di inviare le richieste per permessi di uscita all’Ufficio di Contatto con un impegno firmato di non tornare a casa per un anno. Questa posizione di principio significa che le richieste di permesso di uscita non vengono esaminate, per cui le persone non possono andare all’estero. Ma è molto probabile che l’impellente bisogno delle persone di spostarsi avrà la meglio su questa istanza di principio nazionale, come è successo più di una volta nei rapporti tra l’ANP e Israele.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Un palestinese detenuto dai militari muore a Gerico in seguito alle percosse dei soldati israeliani

Jack Khoury, Yaniv Kubovich

22 febbraio 2018 | Haaretz

I militari dicono che l’uomo avrebbe minacciato i soldati con una sbarra di ferro. Le riprese mostrano i soldati che sopraffanno il palestinese sbattendolo a terra. Testimonianze: non è stata trovata alcuna ferita da arma da fuoco nel corpo.

Un palestinese è morto dopo essere stato arrestato martedì durante la notte da soldati israeliani nella città di Gerico, nei Territori Occupati. Una ONG palestinese ha affermato che l’uomo è stato percosso a morte dai soldati.

La risposta ufficiale dei militari sostiene che l’uomo sia stato ucciso dai soldati mentre li minacciava con una sbarra di ferro. Fonti militari hanno poi sostenuto che si sarebbe sparato all’uomo durante l’arresto, ma sul corpo non è stata trovata alcuna ferita da proiettile. Dunque si sta imponendo l’opinione che l’uomo sia morto per le percosse subite da parte dei soldati.

Un video visibile in rete mostra un incidente in cui un palestinese viene assalito da soldati israeliani durante un’operazione militare a Gerico. L’esercito ha confermato che il palestinese è morto più tardi per le ferite riportate. Il video mostra i soldati che sopraffanno il palestinese e continuano a picchiarlo mentre è steso a terra circondato da molti soldati.

I militari hanno confermato che il video documenta un incidente accaduto mercoledì notte a Gerico, ma sostiene che le riprese non permettono di capire pienamente l’incidente.

L’esercito israeliano ha sostenuto che durante un raid nella città della Cisgiordania sono scoppiate delle rivolte in cui “un terrorista armato di una sbarra di ferro ha minacciato i soldati cercando di attaccarli. I militari hanno risposto sparando, e affrontando il terrorista da vicino sono riusciti a fermarlo. Gli hanno trovato addosso un coltello. E’ stato portato via dalla zona dai militari per essere curato. Più tardi è stato dichiarato morto.”

Una dichiarazione precedente dell’esercito affermava che l’uomo avrebbe attaccato i soldati con un coltello e tentato di rubare un fucile, aggiungendo che sarebbe stato curato sul posto dai medici militari. Il video non mostra alcun tentativo di rubare un fucile. Più tardi, l’esercito ha ritrattato la dichiarazione e ne ha rilasciata una nuova.

Il ‘Palestinian Prisoners’ Club’ ha identificato l’uomo nel trentatreenne Yasin al-Saradih.

La dichiarazione afferma che l’uomo è stato picchiato e ferito con inalazione di gas lacrimogeno. La sua famiglia ha detto ad Haaretz che al-Saradih non soffriva di malattie né di altri disturbi di salute, che era single e che faceva ogni specie di lavoro, dall’ edilizia all’agricoltura. Era anche calciatore e giocava nel centro Alhalhel di Gerico.

Nel 2002 era stato ferito da un proiettile durante la seconda intifada, ma non faceva parte di alcuna fazione palestinese né di alcuna organizzazione. La sua famiglia dice che, per quanto ne sapessero, non era ricercato da alcuna struttura di sicurezza.

Secondo la famiglia, spesso i giovani trascorrono la notte in centro città, specialmente chi non ha un lavoro fisso. Quando l’esercito israeliano entra in città, si hanno spesso scontri e scoppi di violenza.

Eid Barahmeh, capo del Prisoners’ Club di Gerico, ha detto ad Haaretz che Yasin è stato arrestato intorno alle 2 di notte. Due ore dopo è stata notificata la morte alla famiglia. Secondo Barahmeh, il corpo di al-Saradih è stato trasferito all’Istituto Legale di Abu Kabir, e un medico incaricato dalla famiglia era presente all’autopsia.

L’esercito ha confermato che il video si riferisce ad un incidente avvenuto durante la notte a Gerico.

Lo scorso venerdì, due palestinesi sono stati uccisi e altri due feriti dalle granate israeliane mentre si avvicinavano al confine di Gaza, ha detto il Ministro della Sanità palestinese. Le salme sono state identificate come Salem Mohammed Sabah e Abdullah Ayman Sheikha, entrambi diciassettenni di Rafah.

Durante lo stesso fine settimana, l’esercito ha colpito 18 obbiettivi nella striscia di Gaza in seguito ad un intensificarsi delle attività sul confine. Sabato un razzo sparato da Gaza ha colpito una casa in un insediamento israeliano, causando danni materiali.

(Traduzione di Luciana Galliano)




La storia mai raccontata degli ebrei che se ne andarono dalla Palestina mandataria

Nir Hasson

Haaretz 16 febbraio 2018

Nei tre decenni precedenti la fondazione di Israele circa 60.000 ebrei lasciarono il Paese per ragioni finanziarie o ideologiche. Un nuovo libro rivela una pagina nera della storia sionista, compresa l’espulsione forzata degli immigrati ebrei “onerosi”.

Nell’ottobre 1926 a Varsavia ebbe luogo un avvenimento decisamente inusuale: si tenne un processo pubblico contro il movimento sionista per il modo in cui aveva trattato quelli che erano immigrati nella Palestina sotto mandato britannico durante quel periodo. A testimoniare erano ex-immigrati che avevano tentato senza successo la sorte nella Palestina mandataria e poi se n’erano andati. Uno di loro, un industriale di nome Rubin era partito quando la fabbrica di sigarette che aveva fondato non riuscì ad entrare nel mercato locale perché i fumatori preferivano marche importate, per cui chiuse la sua fabbrica e tornò in Polonia.

Nella sua testimonianza Rubin raccontò di come venne convocato ad una riunione con la “Brigata dei Difensori della Lingua” – un gruppo di appoggio alla recentemente rinata lingua ebraica nella Palestina mandataria. Lo rimproverarono per i suoi pacchetti di sigarette, che mostravano diciture in inglese, mentre sulla scrivania del segretario [della brigata, ndt.] che lo rimproverava si trovava un pacchetto di sigarette “Mabrouk” di fabbricazione egiziana.

Il testimone concluse affermando che nella Palestina sotto Mandato britannico venivano semplicemente boicottati i prodotti degli ebrei polacchi – anche se erano i migliori ed i più economici”, riferì il quotidiano “Doar Hayom” [uno dei primi giornali sionisti in Palestina e di destra, ndt.].

Il processo pubblico mette in luce una storia sconosciuta e, secondo qualcuno, deliberatamente messa a tacere nella storia sionista: quella degli ebrei che prima immigrarono, ma in seguito emigrarono durante il periodo dell’incremento della comunità ebraica (l’Yishuv) nella Palestina del Mandato britannico. Ebrei che erano immigrati per ragioni ideologiche o per necessità, tentarono la sorte ma ripartirono quando le cose non gli andarono bene. (In ebraico quelli che lasciano lo Stato ebraico sono chiamati “yordim”, che letteralmente significa “scendere”).

Il dottor Meir Margalit ha fatto una ricerca sulla storia degli emigranti ed ha recentemente pubblicato un libro in ebraico: “Tornare in lacrime. L’emigrazione durante il periodo del Mandato britannico.”

Margalit, un ex-consigliere comunale del Meretz [partito della sinistra sionista, ndt.] a Gerusalemme e immigrato dall’Argentina, a cui spesso è stato chiesto se ha fatto una buona scelta a venire qui, ha scritto lo studio come tesi di dottorato, prima all’Università Ebraica e poi all’università di Haifa. Spiega che lo spostamento di università è dovuto al soggetto della sua dissertazione e alla contrarietà per il suo interesse riguardo all’argomento.

Mi hanno etichettato come un ‘nuovo storico’ [corrente storiografica israeliana che ha messo in dubbio la versione ufficiale delle vicende precedenti e successive alla fondazione dello Stato, ndt.]” dice Margalit, raccontando come la sua ricerca ha innescato molte discussioni accese. “Per esempio, è stato scritto che, negli anni dal 1927 al 1929, gli emigranti se ne andarono per la carestia. Il tutor della mia tesi ha sostenuto che, in base ai dati macroeconomici, non c’è stata nessuna carestia nell’Israele pre-statale. Alla fine siamo arrivati alla conclusione che non ci fu una carestia ma c’era gente affamata.”

Margalit ha deciso che si doveva attenere al principio di ascoltare la narrazione degli emigranti come loro stessi l’hanno raccontata, senza mettersi a discutere con loro.

Quando la famiglia Mendelsohn lasciò (la Palestina mandataria) nel 1942 – dopo che l’esercito di Erwin Rommel aveva raggiunto le vicinanze del Paese – spiegando che ‘non erano fuggiti dalla furia di Hitler in Germania per caderne preda in Palestina,’ non abbiamo voluto verificare se in termini militari la paura fosse giustificata,” dice Margalit, per fare un esempio.

Egli sostiene che quelle voci rivelano un lato oscuro e ignorato della narrazione sionista.

Un fenomeno significativo

In termini demografici questo è un fenomeno significativo. Secondo stime, durante la Prima e la Seconda Aliyahs [lett. “salita”, l’emigrazione degli ebrei in Palestina, avvenuta in varie fasi, ndt.] (1882-1903 e 1904-1914 rispettivamente), oltre la metà di tutti i nuovi immigrati aveva lasciato il Paese persino prima che scoppiasse la Prima Guerra Mondiale nel 1914. Margalit si è concentrato sui circa 60.000 immigrati ebrei che se ne andarono durante il periodo del Mandato, dal 1923 al 1948. Negli anni di maggior insediamento ebraico nella Palestina mandataria – alla vigilia della fondazione dello Stato nel 1947 – circa il 10% di tutti i nuovi immigrati sarebbe emigrato.

Insieme a quelli che se ne andarono prima dell’inizio del dominio britannico nel 1917, gli emigranti furono circa 90.000 persone. Tuttavia Margalit sottolinea che, confrontata con altre ondate di immigrazione durante lo stesso periodo, questa dovrebbe essere considerata un successo. Per esempio, degli italiani che lasciarono la loro patria durante lo stesso periodo e andarono in Sud America, circa il 30% tornò più tardi in Italia.

Ma, a differenza degli italiani, gli ebrei della Palestina mandataria affrontarono difficoltà molto maggiori dopo essere emigrati. Ovviamente durante la Seconda Guerra Mondiale non c’erano possibilità di tornare in Europa, ma era pericoloso persino viaggiare verso altre destinazioni.

Margalit afferma che c’erano migliaia di persone che avrebbero voluto emigrare dalla Palestina mandataria, ma mancavano di mezzi. “A volte non avevano le otto sterline palestinesi per comprare un biglietto. Ci sono prove di persone che si riunivano nei porti e gridavano ai nuovi immigrati: “Perché venite qui?” O andavano agli uffici delle compagnie di navigazione per vedere se fosse possibile avere un posto in quarta o quinta classe.”

Altre crude testimonianze descrivevano come alcune persone erano riuscite a raggiungere un porto europeo, ma rimanevano bloccate là senza alcuna speranza di raggiungere le città d’origine, morendo lentamente di inedia e malattie. Questi racconti, sostiene Margalit, scoraggiavano quelli che volevano lasciare la Palestina mandataria.

Una delle storie più sconvolgenti riguardante quelli che volevano andarsene dalla Palestina mandataria è quella delle migliaia di aspiranti ad emigrare che si rivolgevano all’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati dopo la Seconda Guerra Mondiale, chiedendo di essere inclusi nelle liste dei rifugiati con diritto a tornare ai loro Paesi d’origine in Europa – come gli sfollati dispersi in tutta Europa.

Un gruppo chiamato “Organizzazione per il Ritorno degli Immigrati Tedeschi” si rivolse all’ONU con la richiesta di rimandarli in Austria e in Cecoslovacchia. Nel 1947 vennero inoltrate 485 richieste per un passaporto austriaco nella Palestina mandataria. E il console polacco a Tel Aviv parlò di 14.500 ebrei polacchi che chiedevano visti per tornare alla loro patria.

La dirigenza sionista lavorò per impedire che agli ebrei venisse concesso il “diritto al ritorno” nei Paesi europei, sostiene Margalit.

Ci sono prove di un accordo tra l’Agenzia Ebraica [una delle principali istituzioni sioniste, ndt.] e il consolato polacco nella Palestina mandataria, affinché provocasse ritardi infiniti per gli ebrei che volevano tornare, in modo che perdessero il desiderio di andarsene,” dice Margalit. “È chiaro perché l’Agenzia non voleva che tornassero, ed è anche chiaro perché non lo volevano neanche i polacchi – c’erano parecchi problemi di antisemitismo e di odio, così come questioni di proprietà. Ma è chiaro che se la porta fosse stata aperta il numero sarebbe notevolmente aumentato,” afferma.

Secondo Margalit, non furono solo quelli che ebbero successo e si fermarono qui che scrissero la storia dell’‘Israele pre-statale’, ma anche quelli che non rimasero. “Non sono solo i vincitori che hanno fatto la storia,” dice. “Quando ho osservato la storia con gli occhi degli emigranti, ho scoperto cose che non conoscevo.”

Per esempio, continua: “In generale descriviamo l’assimilazione delle prime ondate di aliyah come una storia di successo – eppure ho improvvisamente capito che non era vero. La dirigenza ebraica nella Palestina mandataria semplicemente perse il controllo e quelli che rimasero – lo fecero solo grazie ai propri sforzi.”

Triste e vergognoso

Il libro di Margalit racconta che la questione più triste e vergognosa riguardo al movimento sionista fu l’emigrazione forzata – soprattutto dei malati cronici o dei disadattati sociali, che vennero deportati dalle organizzazioni sioniste in modo che non diventassero un peso per la comunità ebraica.

Yehoshua Gordon era direttore dell’ufficio immigrazione a Tel Aviv durante il periodo del Mandato, e nel 1921 si lamentò che gli immigrati malati non solo venivano rimandati in Europa, ma che non stavano ricevendo le cure necessarie in Europa e stavano persino “morendo di malattia per le strade.” Ma, nonostante le critiche, rimandare indietro questi immigrati diventò una politica ufficiale nel 1926.

Margalit scrive che, un anno più tardi, vennero rese pubbliche istruzioni secondo le quali un immigrato che non fosse in grado di provvedere a se stesso potesse ricevere danaro per coprire le spese del viaggio di ritorno, mentre quelli che sceglievano di rimanere avrebbero ricevuto “assistenza economica a breve termine perché trovassero un contratto di lavoro – se erano in grado di dimostrare che, con questo contratto, avrebbero potuto sistemarsi stabilmente nel Paese.”

Uno degli immigrati, Moshe Ashberg, a cui venne detto che se ne doveva andare, effettivamente in lettere agli impiegati dell’ufficio immigrazione implorò che lo risparmiassero: “Ho paura di non poter vivere qui, perché non ho nessuno da cui andare,” scrisse.

Ma la maggior parte degli emigrati se ne andò di spontanea volontà. Tra costoro c’erano imprenditori borghesi che decisero di tentare la fortuna altrove, e anche pionieri [gli ebrei che fondarono le prime comunità in Palestina, ndt.]. Margalit ha scoperto che le difficoltà finanziarie erano la ragione principale citata per persone che tornarono al Paese d’origine o emigrarono del tutto in un altro Paese. La gente che non trovò lavoro o che vide che la propria situazione stava costantemente peggiorando scelse di andarsene per “salvare il salvabile”, come dice Margalit.

C’erano anche quelli che se ne andarono perché temevano per la propria vita – sia a causa dei tumulti arabi del 1929, della rivolta araba del 1936-39 o per timore delle truppe di Rommel e di una possibile occupazione tedesca durante la Seconda Guerra Mondiale. E poco prima della guerra d’Indipendenza del 1948 [definizione israeliana della guerra contro i Paesi arabi dopo la fondazione dello Stato di Israele, ndt.] gli inglesi aiutarono la comunità degli ebrei messianici [movimento ebreo cristiano di matrice evangelica, ndt.] a lasciare il Paese, dato che avevano paura sia degli ebrei che degli arabi.

Rivoluzione ideologica

Ci furono anche quelli che lasciarono la Palestina mandataria per pura e semplice nostalgia della patria. “Si trovano documenti strazianti, gente che scrive: ‘Ho sognato di venire qui, e improvvisamente sto sognando la casa e la famiglia.’” Altri se ne andarono per ragioni ideologiche: socialisti che ritenevano che il sionismo stesse tradendo la sua missione di fondare una società modello; ultraortodossi (o haredi) che vedevano i pionieri come profanatori della terra, e che preferirono praticare l’ebraismo nelle “corti” hassidiche in Polonia piuttosto che nel pre-Stato di Israele.

Capisco quelli che se ne andarono per ragioni ideologiche più degli altri – ho avuto pensieri simili,” ammette Margalit. “Tuttavia a un certo momento, mentre stavo scrivendo e vedevo le difficoltà dell’epoca, ho pensato che la domanda non fosse perché la gente emigrava, ma perché rimase.”

Il fatto che fosse così difficile lasciare il Paese è stata la fortuna del movimento sionista,” ritiene Margalit. “Se non fosse stato per le circostanze storiche, saremmo arrivati all’aprile 1948 molto più deboli di quanto eravamo all’epoca. E allora la decisione di (David) Ben-Gurion (di dichiarare la fondazione dello Stato) sarebbe stata diversa.”

Margalit, 65 anni, padre di tre figli e con un nipote, immigrò dall’Argentina nel 1972 come membro del movimento giovanile del Betar [della destra sionista, ndt.]. Poco dopo il suo arrivo, venne arruolato nell’esercito israeliano e fu uno dei fondatori della colonia di Netzarim nella Striscia di Gaza. Però venne ferito durante la guerra dello Yom Kippur, e durante la sua convalescenza in ospedale subì una rivoluzione ideologica, spostandosi da destra a sinistra.

Per anni è stato attivo nel “Israeli Committee Against House Demolitions” [Comitato Israeliano contro la Demolizione delle Case”, ndt.] e, quando era consigliere del consiglio comunale della Città di Gerusalemme, ha lavorato a favore dei palestinesi a Gerusalemme est.

Ammette che la storia degli emigrati ebrei lo tocca al di là dell’aspetto della ricerca: “Nel 2012 ho visitato l’Argentina e mi sono incontrato con membri del movimento (Betar) che sono rimasti o sono tornati, e ho fatto un confronto tra me e loro,” racconta. “Tutti attorno a me erano benestanti, ma io sono uno di quelli che il 4 di ogni mese si chiede dove troverà i soldi per pagare l’affitto. Mi domando anche che diritto ho di far crescere i bambini in questo Paese pericoloso, sull’orlo di un vulcano. Questo è qualcosa che passa per la testa di molti israeliani sani di mente che conosco.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Incoraggiato da Trump, Israele stringe la presa su Gerusalemme

Tamara Nassar

15 febbraio 2018, Electronic Intifada

Israele ha iniziato i lavori per un nuovo grande progetto di insediamento nella Gerusalemme est occupata. Secondo il “Palestinian Center for Human Rights” [“Centro Palestinese per i diritti umani”, ndt.] (PCHR), lo scorso martedì pomeriggio sono iniziati i lavori per la costruzione di un centro per studi religiosi ebraici nella Città Vecchia di Gerusalemme.

Il centro è a poca distanza dalla moschea di Al-Aqsa, uno dei luoghi più sacri per l’Islam. Il PCHR ha affermato che il progetto è una diretta violazione dei diritti palestinesi su Gerusalemme, e che “altererebbe e cambierebbe gravemente le caratteristiche storiche della città.”

Fa parte di un piano per eliminare la cultura palestinese, reinventare la storia di Gerusalemme in base ad una narrazione sionista ed espellere i palestinesi dalla città.

Il progetto è iniziato nello stesso momento in cui le autorità israeliane stanno installando un posto di blocco militare alla Porta di Damasco, una delle entrate della Città Vecchia, frequentemente utilizzata dai palestinesi.

La decisione del presidente Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele sembra aver dato “via libera alle autorità israeliane per espropriare il territorio palestinese, in particolare nella Gerusalemme occupata, a favore dei progetti di colonizzazione,” ha aggiunto il PCHR.

Le autorità israeliane hanno approvato il piano nel 2015. Il progetto prevede la costruzione di un edificio di tre piani su 2.800 m2 a Gerusalemme est.

La costruzione di questa colonia violerebbe le leggi internazionali.

Violerebbe anche una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvata nel dicembre 2016, che afferma che Israele deve “cessare immediatamente e completamente ogni attività di colonizzazione nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme est.”

L’Autorità Nazionale Palestinese ha chiesto ai governi del resto del mondo di bloccare la costruzione del progetto e di fare pressioni su Israele perché rispetti le leggi internazionali.

Imposizione di tasse alle Chiese palestinesi

I palestinesi stanno anche condannando la decisione di Israele di iniziare a raccogliere tasse dalle Chiese e dalle istituzioni delle Nazioni Unite a Gerusalemme.

Le autorità dell’occupazione israeliana hanno preso questa iniziativa – che è l’ultima aggressione contro la nostra capitale, Gerusalemme occupata, e contro i suoi abitanti originari – per realizzare le illusioni delle autorità occupanti di espellerli a forza,” ha affermato Yousef al-Mahmoud, un portavoce dell’Autorità Nazionale Palestinese.

La decisione del consiglio comunale di Gerusalemme controllato da Israele si basa su una richiesta da parte di Gabriel Hallevy, un professore israeliano di diritto, secondo cui le esenzioni di imposta per le Chiese riguardano solo le proprietà utilizzate per il culto o per insegnare la religione.

Il consiglio comunale ha iniziato a raccogliere circa 186 milioni di dollari da 887 proprietà a Gerusalemme che sono di Chiese e delle agenzie ONU, dopo aver congelato i loro conti bancari.

Le organizzazioni colpite comprendono l’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.

Il municipio ha già sequestrato circa 3 milioni di dollari dalla Chiesa cattolica, 2 milioni da quella anglicana, 500.000 dollari da quella armena e 161.000 dalla Chiesa greco ortodossa.

Svuotare Gerusalemme

I capi religiosi hanno affermato che Nir Barkat, il sindaco israeliano di Gerusalemme, sta violando i trattati internazionali che esentano le Chiese dalle tasse statali.

Al-Ahmoud dell’ANP ha affermato che non ci sono leggi al mondo che impongono tasse su luoghi di preghiera, tranne le leggi dell’occupazione.

Ora Israele cerca di reinterpretare queste leggi, che sono rimaste in vigore fin dai giorni dell’Impero Ottomano.

Atallah Hanna, un arcivescovo della Chiesa greco ortodossa, ha affermato che l’imposizione di tasse segna l’ultimo tentativo di Israele di svuotare Gerusalemme dalle sue istituzioni religiose e dagli abitanti palestinesi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




54 pazienti sono morti in attesa che Israele gli permettesse di uscire da Gaza

Ali Abunimah

14 febbraio 2018, The Electronic Intifada

Cinquantaquattro palestinesi sono morti l’anno scorso aspettando che Israele permettesse loro di lasciare la Striscia di Gaza per curarsi.

Una di loro era Faten Ahmed, una ragazza ventiseienne con una rara forma di cancro. E’ morta in agosto mentre aspettava da Israele il permesso di viaggiare per ricevere trattamenti di chemioterapia e radioterapia non disponibili a Gaza.

Aveva già mancato otto appuntamenti ospedalieri a causa di ritardi o rifiuti da parte di Israele del “benestare di sicurezza”, riferisce l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Ahmed è una delle cinque donne morte di cancro nello stesso mese in attesa del permesso da Israele che non è mai arrivato.

In totale, fra i morti l’anno scorso in attesa del permesso, 46 erano malati di cancro.

Uno scioccante numero di morti

Questo sconcertante pedaggio evidenzia l’impatto letale dell’assedio sempre più stretto di Israele sui due milioni di persone che vivono a Gaza.

Vediamo sempre più Israele ritardare o negare l’accesso a trattamenti che potrebbero salvare delle vite, che sia il cancro o altro, e di conseguenza un numero impressionante di malati palestinesi muoiono, mentre il sistema sanitario di Gaza – sottoposto a mezzo secolo di occupazione e a un decennio di blocco totale – è sempre meno in grado di provvedere ai bisogni della popolazione” ha detto martedì Aimee Shalan, amministratore delegato di Medical Aids for Palestinians.

La sua associazione assistenziale, insieme ad Amnesty International, Human Rights Watch, il Centro Al Mezan per i Diritti Umani e i Medici per i Diritti Umani di Israele, ha rivolto un urgente appello a Israele affinché “tolga le illegali restrizioni totali alla libertà di movimento della popolazione di Gaza, molto problematiche per coloro con gravi problemi di salute.”

Nel 2017 le autorità di occupazione israeliane hanno accettato solo il 54% delle domande di permesso a lasciare Gaza per ragioni mediche, la percentuale più bassa da quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha cominciato a raccogliere dati nel 2008.

Israele ha tragicamente rafforzato la stretta mortale; la percentuale di permessi concessi è caduta dal 92 % del 2012 all’82% del 2014 per poi scendere al 62 % nel 2016 prima di raggiungere l’anno scorso il punto più basso.

Le associazioni per la salute e i diritti umani segnalano che l’ONU e il Comitato Internazionale della Croce Rossa hanno dichiarato il blocco di terra, navale e aereo di Israele su Gaza, che impedisce i movimenti della popolazione, una “punizione collettiva” – un crimine di guerra.

I palestinesi di Gaza hanno perso più di 11.000 appuntamenti medici programmati nel 2017 in seguito al rifiuto o alla risposta fuori tempo delle autorità israeliane alle richieste di permessi”, dichiarano le associazioni.

La complicità di Egitto e Autorità Nazionale Palestinese

Le associazioni sottolineano anche come l’Egitto e l’Autorità Nazionale Palestinese con sede a Ramallah abbiano avuto un ruolo nel peggiorare la situazione: “L’Egitto ha per lo più tenuto chiuso dal 2013 il valico di Rafah alla popolazione di Gaza, contribuendo così a diminuire l’accesso alle cure mediche.”

In quanto Stato confinante con un territorio che soffre di una lunga crisi umanitaria, l’Egitto dovrebbe facilitare l’accesso della popolazione agli aiuti umanitari”, affermano. “Ciò nonostante, la responsabilità finale resta a Israele, la forza di occupazione.”

L’Autorità Nazionale Palestinese ha anche drasticamente ridotto il sostegno finanziario alle cure mediche fuori Gaza come parte delle sanzioni intese a forzare Hamas perché ceda il controllo sulla gestione di Gaza.

Queste restrizioni da parte dell’ ANP hanno causato almeno un morto, secondo le associazioni. Ma le autorità mediche di Gaza hanno detto che più di una dozzina di persone, inclusa una bimba di tre anni con un problema cardiaco, sono morte aspettando un sostegno economico da Ramallah.

Tutto questo accade nel mezzo di una crisi prodotta dal prolungato assedio, che ha portato al collasso di pezzi fondamentali del sistema sanitario.

In una condizione di diffusa povertà e disoccupazione, almeno il 10% dei bambini più piccoli soffre di malnutrizione cronica, a Gaza manca più della metà di tutte le medicine e le dotazioni mediche necessarie o è inferiore al fabbisogno mensile, e la cronica mancanza di elettricità ha fatto sì che le autorità abbiano tagliato sulla sanità e altri servizi essenziali”, affermano le associazioni della sanità e dei diritti umani.

Fine dell’assedio

All’inizio di questo mese, gli ospedali di Gaza hanno cominciato a chiudere i battenti poiché i generatori d’emergenza sono rimasti senza combustibile, costringendo a rimandare centinaia di operazioni chirurgiche.

Mercoledì, RT (Russia Today) ha mandato in onda questo resoconto da Gaza sulla situazione critica dei malati di cancro. La corrispondente Anya Parampil ha parlato con Zakia Tafish il cui marito Jamil è morto dopo che gli è stato più volte impedito di andare a Gerusalemme a operarsi.

L’emittente ha anche trasmesso un notiziario sul peggioramento della situazione degli ospedali nei territori.

A seguito dell’allarme ONU sull’incombente catastrofe, il Qatar e gli Emirati Arabi si sono impegnati la scorsa settimana ad un finanziamento a breve termine di 11 milioni di dollari per prevenire per qualche altro mese una catastrofe ancora peggiore.

Comunque, come notano le associazioni dei diritti umani, non c’è altra soluzione a lungo termine che la fine dell’assedio.

Le restrizioni di movimento imposte dal governo israeliano sono direttamente legate alla morte dei pazienti e all’aggravarsi delle sofferenze, dovendo i malati chiedere i permessi”, ha detto Issam Younis direttore di Al Mezan.

Queste pratiche fanno parte del regime di chiusura e di permessi che impedisce ai malati di vivere dignitosamente, e viola il diritto alla vita.”

Medical Aid for Palestinian, con sede in Inghilterra, si sta appellando alla gente perché si rivolga ai legislatori del parlamento britannico e “chieda loro di premere sul governo britannico affinché agisca per salvare delle vite a Gaza.”

(Traduzione di Luciana Galliano)

 




Dalla destra israeliana un appello alla deportazione di centinaia di migliaia di persone. E poi? Una Nakba?

Bradley Burston

13 febbraio 2018,Haaretz

Che cosa dovremmo pensare? Che ci sono problemi che possiamo soltanto espellere? Bene, perché no? Per qualcuno, frustrato dalla mancanza di politiche chiare, è un pensiero accattivante. Ma ecco perché no.

All’inizio di questo mese un articolo su “Makor Rishon” [giornale israeliano vicino alla destra religiosa ed ai coloni, ndt.], portabandiera ideologico della destra israeliana, affermava: “E’ giunto il tempo per una campagna pubblica per la deportazione degli illegali.” L’autore, Tzachi Levy, citava dati governativi che mostrano che almeno 230.000 non cittadini risiedono in Israele senza permesso, compresi, ha detto, non meno di 100.000 palestinesi della Cisgiordania, alcuni nelle città arabe israeliane, altri a Gerusalemme est, altri ancora tra i beduini del Negev.

Levy ha detto che le persone senza documenti costituiscono sia una minaccia alla sicurezza, sia il pericolo di “un tentativo di mettere in atto un ‘diritto al ritorno’ (dei palestinesi) dalla porta di servizio, sfruttando lo stato sociale israeliano.”

Che cosa dovremmo pensare? Che ci sono dei problemi che possiamo solamente espellere? Bene, perché no? Per qualcuno in Israele, frustrato da un governo che ha poche politiche chiare su qualunque questione, compreso il futuro della Cisgiordania, della Palestina e della democrazia all’interno di Israele, questo è un pensiero accattivante.

Il mese scorso, quando Raziel Shevach, un rabbino della Cisgiordania, paramedico e padre di sei figli, è stato ucciso in un attacco armato terroristico, il ministro dell’Agricoltura Uri Ariel, di estrema destra, ha invitato immediatamente il governo “ad espellere la famiglia dell’assassino per creare un deterrente.” Non vi era nessuna indicazione che la famiglia dello sparatore fosse in alcun modo coinvolta.

Ma ecco perché no:

Nella psiche nazionale sia degli israeliani che dei palestinesi l’orrore trasmesso dallo spettro della deportazione e dell’esilio non ha eguali. In molti modi lo stesso ebraismo, le sue scritture, la sua liturgia, il suo fulcro sono uno sforzo di superare e affrontare il dolore di migliaia di anni di esilio. In molti modi la cultura, la nazionalità e l’essere popolo dei palestinesi sono inseparabili dalla memoria e dall’angoscia evocate dal termine Nakba, la catastrofe – l’esodo di oltre 700.000 palestinesi che fuggirono o vennero espulsi dalle loro case nel periodo della guerra del 1948.

Persino in quest’epoca apparentemente moderna vi sono molti, da entrambe le parti, che affermerebbero senza riserve che, se dovessero scegliere, preferirebbero sinceramente la morte rispetto all’espulsione dalla propria casa e dalla propria terra.

Questo è il motivo per cui, in momenti in cui si fanno appelli da parte della destra israeliana ad usare la deportazione come strumento per risolvere i problemi di Israele, l’appello stesso può avere effetti incendiari.

Questo è uno di quei momenti.

Per settimane attivisti e commentatori di sinistra hanno messo in guardia che le deportazioni di massa di richiedenti asilo africani potrebbero servire come una specie di prova da parte del governo condotta in vista di una futura “soluzione” su basi demografiche, senza compromessi e fuori dalle vie diplomatiche, alle questioni poste da una numerosa, popolazione palestinese priva di diritti in Cisgiordania – lo spettro del

trasferimento” di popolazione e, in questo processo, della dissoluzione degli ultimi legami rimasti tra Israele e la democrazia.

Ora, benché non sia chiaro se suonino come avvertimento o come auspicio, toni simili si sono sentiti provenire dalla destra.

Che cosa dovremmo pensare quando Eldad Beck [famoso giornalista israeliano di centro destra, ndt.], un sostenitore del piano del governo di deportare decine di migliaia di richiedenti asilo africani, richiama la nostra attenzione sull’articolo di opinione di “Makor Rishon”, commentando così in un post su Facebook di sabato:

Non escluderei la possibilità che la lotta per sventare la deportazione di infiltrati dall’Africa sia in realtà finalizzata a promuovere una lotta contro una più significativa deportazione di infiltrati arabi.”

Per di più, mentre l’amministrazione Netanyahu – sfidando gli appelli di esperti di diritto internazionale e l’indignazione espressa da ampi strati del mondo ebraico e del pubblico israeliano – proseguiva i preparativi per espellere molti dei 37.000 richiedenti asilo africani residenti in Israele, la ministra della Giustizia di estrema destra Ayelet Shaked lunedì ha esternato un semplice ma sconvolgente messaggio in difesa del governo: la pulizia etnica al servizio del sionismo. Per essere precisi, Shaked non ha usato né il termine sionismo né la forte espressione pulizia etnica. Non ne aveva bisogno.

Citando le leggi emanate per preservare demograficamente una maggioranza ebraica in Israele – Shaked ha affermato che “lo Stato dovrebbe dire che è giusto conservare la maggioranza ebraica anche al prezzo della violazione dei diritti.”

Difendendo la determinazione del governo a tenere il termine “eguaglianza” fuori dalla proposta di legge sullo Stato-Nazione ebraico, Shaked ha detto: “ci sono luoghi in cui il carattere dello Stato di Israele come Stato ebraico deve essere mantenuto, e questo a volte avviene a scapito dell’eguaglianza.”

E, per paura che il vero motivo della deportazione da parte del governo dei richiedenti asilo africani sia frainteso rispetto a ciò che è – una malaccorta, non necessaria retata razzista ed una persecuzione che fa di migranti rispettosi della legge dei capri espiatori, invece di occuparsi dei reali problemi sociali degli israeliani nel sud di Tel Aviv – Shaked ha rilanciato: parlando lunedì al Congresso su giudaismo e democrazia, ha detto che, se non fosse stato per il muro che Israele ha costruito sul confine egiziano col Sinai, che riduce efficacemente il flusso dei richiedenti asilo, “qui assisteremmo ad una specie di strisciante conquista da parte dell’Africa.”

Lasciamo da parte, per il momento, il fatto che il governo, procedendo con le deportazioni, agisce in modo opposto al parere di alcuni dei suoi più forti sostenitori, in particolare il procuratore e difensore di Israele Alan Dershowitz [famoso avvocato e docente di diritto internazionale statunitense, sostenitore incondizionato di Israele, ndt.], che all’inizio di quest’anno ha detto: “Non si può evitare l’odore di razzismo quando c’è una situazione in cui 40.000 persone di colore vengono deportate in massa, senza che siano prese in considerazione individualmente ed ogni caso analizzato nel merito.”

O la conclusione di Dershowitz che la “Legge sul Ritorno”, che concede automaticamente il diritto alla cittadinanza a chiunque venga riconosciuto come ebreo dai dirigenti di Israele, “non dovrebbe essere una legge che esclude altri dal venire valutati come cittadini.”

E lasciamo da parte anche i punti deboli che non vedono gli avamposti [insediamenti illegali dei coloni israeliani in Ciagiordania, ndt.] nell’argomentazione di Makor Rishon, che afferma:” In uno Stato di diritto, chiunque si trovi qui illegalmente dovrebbe essere gentilmente mandato via da Israele.”

E tralasciamo anche, per il momento, le menzogne che il governo ha detto e continua a diffondere, a sostegno di un piano che ha dimostrato sempre più di essere utilizzato dal Likud e dallo Shas [partito religioso di destra, ndt.] nelle campagne di incitamento contro la popolazione nera.

E’ ora di chiedere che cosa stia facendo al popolo di questo Paese il discorso – e le prove – di un Israele che cerca di deportare lontano i suoi problemi.

E’ ora di chiedere se ciò che si sta tradendo siano esattamente la compassione e la generosità del “cuore ebraico”, che i ministri del governo esaltano così spesso come un dato di fatto.

Per fare un esempio, Mr. Macho ringhia in difesa dell’espulsione di bambini. Ecco Levy di “Makor Rishon” che biasima il governo per aver deciso, almeno in questa fase, di esentare alcune famiglie dalla deportazione – compresi bambini che non hanno mai conosciuto una patria e una cultura oltre Israele:

Dovunque nel mondo le famiglie migrano e i bambini si adattano.

Chiaramente, non è piacevole tornare in un Paese del Terzo Mondo, ma smettiamola con il politicamente corretto – non stiamo mandando nessuno a morire e, anche se la situazione non è bella, Israele non può caricare sulle sue deboli spalle tutti i problemi del Terzo Mondo.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Israele colpisce Gaza dopo che due soldati sono stati feriti, due palestinesi morti

MEE e agenzie

Domenica 18 febbraio 2018,Middle East Eye

L’esercito israeliano afferma che le sue forze hanno sparato “colpi di avvertimento” verso palestinesi che si stavano avvicinando alla barriera di confine tra Israele e Gaza

Fonti ospedaliere hanno affermato che domenica le forze israeliane hanno ucciso due adolescenti palestinesi nella Striscia di Gaza, mentre cresce la tensione dopo un presunto attacco con bombe che ha ferito alcuni soldati israeliani sul confine dell’enclave.

L’esplosione di sabato e i successivi attacchi aerei israeliani hanno segnato una delle più gravi escalation nel territorio governato da Hamas da quando il movimento islamico e Israele hanno combattuto un conflitto nel 2014 [l’attacco denominato “Margine protettivo”, ndt.].

Domenica medici di Gaza hanno affermato di aver recuperato i corpi di due palestinesi di 17 anni uccisi dal fuoco di un carro armato israeliano. L’esercito israeliano ha sostenuto che le sue forze hanno sparato” colpi di avvertimento” verso un certo numero di palestinesi che si stavano avvicinando alla recinzione di confine “in modo sospetto”.

Sono stati identificati dal ministero della Salute di Gaza come Salam Sabah e Abdullah Abu Sheikha, entrambi di 17 anni, che sono stati uccisi a est di Rafah nel sud dell’enclave. Dovevano essere sepolti più tardi domenica.

Sabato quattro soldati israeliani sono rimasti feriti, due in modo grave, quando un ordigno esplosivo artigianale è scoppiato lungo la barriera di confine di Gaza, ma secondo l’esercito nessuno di loro è in pericolo di vita.

Israele ha risposto con quelli che l’esercito ha definito attacchi aerei e fuoco dei carri armati contro 18 obiettivi di Hamas e della Jihad Islamica, compresi impianti per la fabbricazione di armi, campi di addestramento e postazioni di osservazione.

L’ala militare di Hamas, Izz ad Din al Qassam, ha sostenuto sabato notte di aver utilizzato missili antiaerei contro i jet israeliani sul territorio costiero.

Ciò è avvenuto nel quadro della resistenza contro la continua aggressione sionista contro il nostro popolo nella Striscia di Gaza,” ha detto il gruppo senza ulteriori spiegazioni.

Escalation”

Nessun gruppo armato a Gaza ha rivendicato la responsabilità dell’esplosione di sabato. Il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha detto che i “Comitati di Resistenza Popolare”, uno dei gruppi armati minori di Gaza, ha fatto esplodere la bomba che ha ferito i soldati.

Scoveremo i responsabili dell’incidente di ieri,” ha detto Lieberman a Radio Israele domenica, aggiungendo che Hamas é in ultima istanza responsabile di quanto avviene a Gaza.

Il portavoce di Hamas Fawzi Barhoum ha accusato Israele delle violenze.

Hamas ritiene l’occupazione israeliana totalmente responsabile delle conseguenze per la sua continua escalation contro il nostro popolo,” ha affermato Barhoum in una dichiarazione.

Hamas e Israele hanno combattuto tre conflitti dal 2008. Il conflitto più recente, nel 2014, è stato in parte combattuto a causa di tunnel da Gaza che venivano utilizzati per lanciare attacchi.

Israele ha ripetutamente colpito obiettivi di Hamas nel sud della Striscia di Gaza all’inizio di febbraio, sostenendo che i palestinesi là avevano sparato un missile nel suo territorio.

La tensione tra i palestinesi e Israele è stata alta da quando il presidente USA Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico in dicembre.

Venerdì una fonte ufficiale dell’amministrazione USA ha detto all’agenzia AFP che Netanyahu visiterà la Casa Bianca il prossimo mese.

La visita del 5 marzo arriva mentre Netanyahu deve affrontare uno scandalo che ha visto la polizia raccomandare che sia imputato per corruzione.

(traduzione di Amedeo Rossi)