Mike Pence ha appena confermato l’uscita dell’America dal processo di pace in Medio Oriente

Sam Bahour

23 gennaio 2018, Haaretz

Quando Pence afferma: ‘Noi stiamo con Israele. La vostra causa è la nostra causa, la vostra lotta è la nostra lotta’, è chiaro che l’America è interessata solamente ad offrire ad Israele un cieco appoggio politico e ad abbandonare i palestinesi. Una vera pace ora non può che significare aggirare l’amministrazione USA

Il vicepresidente USA non avrebbe potuto dirlo più chiaramente.

Sono qui per trasmettervi un solo semplice messaggio. L’America sta con Israele. Noi stiamo con Israele perché la vostra causa è la nostra causa, i vostri valori sono i nostri valori e la vostra lotta è la nostra lotta,” ha detto lunedì alla Knesset (il parlamento) israeliana.

Ha rilanciato il piano dell’amministrazione Trump di spostare l’ambasciata a Gerusalemme ed ha ripetuto come un mantra l’affermazione che la decisione statunitense di riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele era giustificata in quanto “dato di fatto”. Il termine ‘palestinese’ non è stato quasi pronunciato e ‘Palestina’ – neanche una volta.

Pence ha anche detto che gli USA avrebbero sostenuto una soluzione dei due Stati, ma solo se entrambe le parti l’avessero appoggiata – ribadendo la posizione di Trump quando ha fatto l’annuncio. Che cosa significa? Che gli USA stanno rinunciando alla soluzione dei due Stati. Uno Stato palestinese sovrano non è più un obbiettivo necessario e centrale della politica estera americana.

Donald Trump, a quanto pare, non farà niente per bloccare o disapprovare l’accelerata costruzione di colonie da parte di Israele, o l’autorizzazione retroattiva degli avamposti costruiti su terre private palestinesi, avendo ammorbidito la vecchia e stanca retorica statunitense di “le colonie sono un ostacolo alla pace” con “le colonie potrebbero non aiutare” la pace. Quindi la loro costruzione continuerà, indefinitamente.

L’impresa coloniale israeliana ha acquisito, e gli USA hanno volontariamente venduto, tempo e spazio per consolidarsi, rendendo così sempre più impossibile la realizzazione di una soluzione di due Stati.

Alla luce di questa realtà, la comunità internazionale deve ora riconoscere che l’approccio “a guida USA” alla soluzione del conflitto israelo-palestinese è destinato al fallimento. Non vi è ora alcun dubbio che l’inafferrabile pace non si verificherà mai durante la presidenza Trump. È assolutamente chiaro – dopo due decenni di negoziati falliti sotto gli auspici USA – che la leadership americana è inutile e controproducente negli sforzi per la soluzione di questo conflitto.

Se la comunità internazionale intende ottenere due Stati per due popoli dovrà perseguire una posizione politica indipendente che aggiri gli americani. L’influenza politica della comunità internazionale in questo ambito è stata a lungo irrilevante, dato il monopolio USA sul processo di pace. Adesso è il momento che si faccia sentire.

La comunità internazionale per troppo tempo si è affidata alla leadership sbagliata. Questo tragico errore storico non solo è costato miliardi ai contribuenti della comunità internazionale, ma ha anche condotto ad una realtà diametralmente opposta a ciò che intendevano i responsabili delle politiche globali.

Dopo 24 anni, la fiducia nella “leadership” americana ha portato alla creazione di tanti bantustan palestinesi, finanziati dai contribuenti europei, circondati da una potenza militare occupante che continua ad occupare impunemente: l’UE ed i suoi Stati membri sono di gran lunga i maggiori donatori nei confronti dei palestinesi.

Israele – entusiasta che una parte terza intenda sovvenzionare la sua occupazione militare – continua ad ampliare e consolidare la sua impresa coloniale, con il sostegno di ampi settori dell’opinione pubblica e del governo americani.

Storicamente USA e UE hanno condiviso il comune obbiettivo di risolvere il conflitto israelo-palestinese nella cornice di una soluzione a due Stati. Ma da quando Trump occupa la Casa Bianca ed i repubblicani ora controllano i tre poteri del governo USA, vi è stato un significativo slittamento a destra nella politica del partito repubblicano verso Israele e Palestina.

Al contrario, gli europei si sono mossi verso un riconoscimento dello Stato di Palestina. Il riconoscimento svedese è ora ufficiale, mentre i parlamenti di Regno Unito, Irlanda, Spagna, Francia, Lussemburgo, insieme al Parlamento Europeo, hanno tutti approvato il riconoscimento. In seguito alla dichiarazione di Trump su Gerusalemme, tutto indica che più Paesi andranno verso il riconoscimento della Palestina per salvaguardare la soluzione dei due Stati.

L’America sostiene l’occupazione israeliana. L’Europa senza volerlo la sovvenziona. L’amministrazione Trump farà ben poco per contrastare il suo stesso partito o rischiare la collera dell’influente lobby israeliana negli USA, favorevole alle colonie. Trump continuerà a difendere l’approccio di non intervento, “tocca alle due parti decidere”. Il risultato è che Israele, che ha tutto il potere, è poco incentivato a fare concessioni, mentre i palestinesi, che non hanno potere e dovrebbero essere “protetti” in base al diritto internazionale, sono lasciati alla loro disperazione.

L’America è parte del problema

L’intransigenza di Israele e la sua palese violazione del diritto internazionale sono alimentate dalla sicurezza che, qualunque cosa faccia, gli USA lo proteggeranno sempre da un serio biasimo. La disperazione palestinese si basa sulla convinzione che l’enorme sostegno americano ad Israele renda inutili i negoziati, in quanto Israele ha poco interesse a fare concessioni, ricevendo così tanto denaro, armi e cieco sostegno politico.

Quindi che cosa può fare la comunità internazionale, più che votare contro la dichiarazione di Trump nelle varie istanze delle Nazioni Unite? La comunità internazionale può rimboccarsi le maniche, gestire una politica forte e affrontare l’occupante senza aspettare che la leadership americana ottenga risultati.

Se le esperienze di Bosnia, Kosovo, Timor est e Sudafrica insegnano qualcosa, un occupante o un regime di apartheid cambieranno direzione solo attraverso un’articolata combinazione di sanzioni, isolamento internazionale e, come ultima risorsa, forza militare.

La comunità internazionale deve cogliere l’occasione e dimostrare ai suoi componenti che l’Europa sta sprecando il suo denaro e la sua credibilità indulgendo al gioco americano dell’imparzialità. È chiaro che l’America non ha scrupoli morali o politici a che Israele resti una forza di occupazione. Una volta che la comunità internazionale finalmente riconoscerà questa realtà e andrà avanti, troverà la forza e la legittimazione per proporre politiche proprie, conformi al diritto internazionale, alla Carta delle Nazioni Unite ed ai propri standard morali.

Sam Bahour è un analista politico per ‘Al-Shabaka: rete di informazione politica palestinese’ ed è membro del segretariato del Gruppo di Strategia per la Palestina.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




In parole e azioni: la genesi della violenza israeliana

Ramzy Baroud

16 gennaio 2018, The Palestinian Chronicle

Non passa giorno senza che un importante politico o intellettuale israeliano faccia una vergognosa dichiarazione oltraggiosa contro i palestinesi.

Molte di queste dichiarazioni tendono a raccogliere una scarsa attenzione o evocano giustamente un meritato sdegno.

Proprio di recente, il ministro dell’Agricoltura israeliano, Uri Ariel, ha auspicato più morti e feriti per i palestinesi di Gaza.

Cos’è quest’arma speciale che abbiamo, che spariamo e vediamo colonne di fumo e fuoco, ma nessuno rimane ferito? È tempo che là ci siano anche feriti e morti,” ha detto.

La richiesta di Ariel di uccidere più palestinesi è arrivata subito dopo altre dichiarazioni nauseabonde riguardanti una ragazzina di 16 anni, Ahed Tamimi. Ahed è stata arrestata durante una violenta incursione dell’esercito israeliano in casa sua nel villaggio cisgiordano di Nabi Saleh.

Un video l’ha ripresa mentre schiaffeggiava un soldato israeliano il giorno dopo che l’esercito israeliano aveva sparato alla testa a suo cugino, riducendolo in coma.

Il ministro dell’Educazione Naftali Bennett, noto per le sue posizioni politiche estremiste, ha chiesto che Ahed e altre ragazze palestinesi “passino il resto dei loro giorni in prigione”.

Un importante giornalista israeliano, Ben Caspit, ha auspicato una punizione ancora più dura. Ha suggerito che Ahed e ragazze come lei debbano essere violentate in carcere: “Nel caso delle ragazze, dovremmo far loro pagare un prezzo in qualche altra circostanza, al buio, senza testimoni né telecamere,” ha scritto in ebraico.

Questa mentalità violenta e rivoltante, tuttavia, non è una novità. È la prosecuzione di un vecchio, radicato sistema di pensiero che è fondato su una lunga storia di violenze.

Indubbiamente le opinioni di Ariel, Bennett e Caspit non sono affermazioni irose proferite in un momento di rabbia. Sono tutte un riflesso delle concrete politiche che sono state portate avanti per oltre 70 anni. Infatti violentare e imprigionare a vita sono comportamenti che hanno accompagnato lo Stato di Israele fin dai suoi inizi.

Questa eredità di violenza continua a caratterizzare Israele fino ai nostri giorni, attraverso l’uso di quello che lo storico israeliano Ilan Pappe descrive come “genocidio incrementale”.

Attraverso questa lunga tradizione, poco è cambiato, salvo nomi e titoli. Le milizie sioniste che hanno orchestrato il genocidio dei palestinesi prima della fondazione di Israele nel 1948 si unirono per formare l’esercito israeliano, ed i dirigenti di questi gruppi divennero leader israeliani.

La nascita violenta di Israele nel 1947-48 fu il culmine di un discorso violento che la precedette di molti anni. Fu il tempo in cui gli insegnamenti del sionismo dei primi anni vennero messi in pratica e i risultati furono semplicemente orribili.

La tattica di isolare ed attaccare un certo villaggio o cittadina e giustiziare la sua popolazione con un orribile massacro indiscriminato fu una strategia utilizzata ripetutamente dalle bande sioniste per obbligare la popolazione di villaggi e cittadine circostanti a fuggire,” mi ha detto Ahmad Al-Haaj quando gli ho chiesto di riflettere sul passato e sul presente di Israele.

Ahmad Al-Haaj è uno storico palestinese e un esperto della Nakba, la “Catastrofe” occorsa ai palestinesi nel 1948.

La competenza dell’ottantacinquenne intellettuale sull’argomento iniziò 70 anni fa, quando, a 15 anni, assistette al massacro di Beit Daras per mano della milizia ebraica “Haganah”.

La distruzione del villaggio palestinese del sud e l’uccisione di decine dei suoi abitanti ebbe come effetto lo spopolamento di molti villaggi delle vicinanze, compreso al-Sawafir, il villaggio natale di Al-Haaj’s.

Il ben noto massacro di Deir Yassin fu il primo esempio di tali uccisioni immotivate, un modello che venne replicato in altre zone della Palestina,” dice Al-Haaj.

All’epoca la pulizia etnica della Palestina venne orchestrata da molte milizie sioniste. La principale milizia ebraica fu l’”Haganah”, che dipendeva dall’Agenzia Ebraica. Quest’ultima funzionava quasi come un governo, sotto gli auspici del governo del Mandato britannico, mentre l’”Haganah” fungeva da suo esercito.

Tuttavia anche altri gruppi scissionisti operavano in base ad un proprio progetto. Tra questi, due principali bande erano l’”Irgun” (Organizzazione Militare Nazionale) e il “Lehi” (noto anche come “Banda Stern”). Questi gruppi misero in atto numerosi attacchi terroristici, comprese bombe sugli autobus ed assassinii mirati.

Menachem Begin, nato in Russia, era il leader dell’”Irgun” che, insieme alla “Banda Stern” e ad altre milizie ebraiche, massacrò centinaia di civili a Deir Yassin.

Dite ai soldati: avete fatto la storia di Israele con il vostro attacco e la vostra conquista. Continuate così fino alla vittoria. Come a Deir Yassin, così ovunque attaccheremo e puniremo il nemico. Dio, Dio, tu ci hai scelti per la conquista,” scrisse Begin all’epoca. Descrisse il massacro come uno “splendido atto di conquista”.

Il rapporto intrinseco tra parole ed azioni rimane immutato.

Circa 30 anni dopo Begin, un tempo un terrorista ricercato, divenne primo ministro di Israele. Accelerò il furto di terre della recentemente occupata Cisgiordania e di Gerusalemme est, scatenò una guerra in Libano, annesse Gerusalemme occupata ad Israele e perpetrò il massacro di Sabra e Shatila nel 1982.

Alcuni degli altri terroristi diventati politici e principali comandanti dell’esercito inclusero Begin, Moshe Dayan, Yitzhak Rabin, Ariel Sharon, Rafael Eitan e Yitzhak Shamir. Ognuno di questi dirigenti ha un curriculum costellato di violenza.

Shamir ricoprì il ruolo di primo ministro di Israele dal 1986 al 1992. Nel 1941 Shamir venne imprigionato dai britannici per il suo ruolo nella “Banda Stern”. In seguito, come primo ministro, ordinò una violenta repressione contro la ribellione palestinese, per lo più non violenta, nel 1987, in cui si rompevano deliberatamente gli arti dei ragazzini accusati di lanciare pietre contro i soldati israeliani.

Quindi, quando ministri del governo come Ariel e Bennett invocano una violenza ingiustificata contro i palestinesi, stanno semplicemente continuando un’eredità sanguinosa che nel passato ha caratterizzato ogni leader israeliano. È l’atteggiamento violento che continua a dominare il governo israeliano e i suoi rapporti con i palestinesi; di fatto con tutti i suoi vicini.

– Ramzi Baroud è un giornalista, autore ed editorialista di Palestine Chronicle. Il suo libro di prossima pubblicazione è “The Last Earth: A Palestinian Story[“L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra). Baroud ha un dottorato in Studi Palestinesi all’università di Exeter ed è docente non residente presso l’“Orfalea Center for Global and International Studies” dell’università della California a Santa Barbara.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Israele demolisce un’altra scuola finanziata dall’Unione Europea

Tamara Nassar,

6 febbraio 2018, The Electronic Intifada

Il 4 febbraio le forze d’occupazione israeliane hanno demolito due edifici scolastici nella comunità di Abu Nuwwar, situata nella cosiddetta area E1 della Cisgiordania occupata, ad est di Gerusalemme.

La distruzione lascia più di 25 bambini di terza e quarta elementare senza un posto dove studiare.

“La demolizione di strutture scolastiche è uno degli strumenti che Israele usa nel tentativo di espellere le comunità palestinesi dalle loro case, in modo da poter concentrare i residenti in enclaves e utilizzare il territorio per i propri scopi”, ha dichiarato l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem.

Secondo B’Tselem, il 13 dicembre le forze d’occupazione hanno emesso un ordine di demolizione per l’aula di quarta elementare e la demolizione è proseguita domenica nonostante fosse in corso un procedimento legale contro l’ordine [di demolizione].

Le fotografie postate su Twitter da media palestinesi mostrano bambini seduti in mezzo alle macerie della loro scuola distrutta.

Uno di loro tiene un cartello che dice: “Ho il diritto di studiare. No alla demolizione della mia scuola. Siamo i bambini di Abu Nuwwar.”

Un testimone dice nel video che le forze occupanti israeliane hanno confiscato i cellulari prima della demolizione.

Complicità dell’Unione Europea

La scuola è stata costruita a settembre con il finanziamento dell’Unione Europea e dell’Autorità Nazionale Palestinese, ma nessuna delle due ha fatto nulla per rendere responsabile Israele della distruzione delle aule.

Questo è in linea con l’inazione dell’UE relativamente alle decine di milioni di dollari di progetti che essa ha finanziato e che Israele ha distrutto negli ultimi anni.

L’UE non ha emesso alcuna dichiarazione di condanna della demolizione.

È la quinta volta che Israele demolisce quella scuola. Secondo la Reuters, ogni volta è stata ricostruita con l’aiuto di fondi dell’UE e di organizzazioni non governative.

Il braccio burocratico dell’occupazione militare israeliana, il COGAT (Coordinamento delle Attività Governative nei Territori Occupati, ndtr.), ha affermato che “la struttura è stata costruita illegalmente e senza i permessi necessari.”

Israele nega il permesso praticamente ad ogni costruzione palestinese in area C, dove si trova Abu Nuwwar, costringendo molti a costruire senza l’autorizzazione militare ed a vivere nella costante paura che la propria casa venga demolita.

Secondo l’agenzia di informazioni ufficiale palestinese Wafa, oltre agli edifici, Israele vieta ai palestinesi di Abu Nuwwar anche di costruire strade che “permetterebbero ad uno scuolabus di accedere alla comunità e portare in modo sicuro i bambini avanti e indietro da scuola.”

L’area C include circa il 60% della Cisgiordania ed è sotto il totale controllo militare israeliano, in base a quanto previsto dagli accordi di Oslo firmati da Israele e dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina nei primi anni ’90.

Espulsione forzata

I politici israeliani stanno invocando sempre più spesso l’annessione permanente dell’area C, che lascerebbe la maggioranza dei palestinesi della Cisgiordania imprigionata in piccole isole territoriali.

La comunità di Abu Nuwwar, come molte altre nell’area C, ha subito continue aggressioni da parte dell’esercito israeliano nel tentativo di espellerle con la forza.

In ottobre le forze israeliane hanno confiscato le porte delle aule che hanno demolito domenica.

In agosto, le forze israeliane hanno dichiarato la comunità di Abu Nuwwar zona militare chiusa ed hanno confiscato i pannelli solari che fornivano elettricità all’asilo.

L’area E1 [ad est di Gerusalemme, ndt.] è destinata da Israele all’espansione della sua mega colonia di Maaleh Adumim, che completerebbe l’accerchiamento di Gerusalemme ed isolerebbe l’una dall’altra le aree settentrionale e meridionale della Cisgiordania.

Abu Nuwwar è una delle 12 comunità palestinesi, con un totale di circa 1.400 abitanti, nell’area est di Gerusalemme, che rischia l’espulsione da parte di Israele. Le altre includono Jabal al-Baba e Khan al-Ahmar.

Sempre in agosto Israele ha distrutto due scuole finanziate dall’Europa in Cisgiordania.

La mancanza di un’efficace risposta dell’UE ha quindi incoraggiato Israele a procedere con la demolizione di domenica.

Susiya sotto minaccia

Intanto il console generale francese ha visitato il villaggio di Susiya nell’area C, “per sostenere gli abitanti minacciati di trasferimento forzato”, secondo un tweet del consolato francese di Gerusalemme di lunedì.

Tali visite simboliche intendono segnalare la disapprovazione internazionale delle demolizioni di massa pianificate da Israele delle case della comunità – un crimine di guerra.

Ma in passato Israele le ha ignorate, con la certezza di non venire mai chiamato a rispondere di crimini di guerra ed altre violazioni contro i palestinesi.

La settimana scorsa la senatrice USA Dianne Feinstein ha twittato che è stato “un colpo al cuore” il fatto che l’Alta Corte israeliana abbia “approvato la demolizione di sette edifici nel villaggio palestinese di Susiya, distruggendo le case di 42 persone, metà delle quali sono bambini o malati.”

A dicembre Feinstein ed altri nove senatori hanno fatto appello direttamente al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu perché bloccasse le demolizioni.

Tamara Nassar è assistente redattrice di The Electronic Intifada.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Una balbettante risposta ad un rifugiato palestinese

Gideon Levy

4 febbraio 2018,Haaretz

Una pesante ombra morale ha oscurato la fondazione di Israele ed i palestinesi hanno il diritto ad una riparazione per l’ingiustizia.

AMMAN – A me è sembrato che l’uomo tremasse quando ha chiesto di parlare. Sembrava agitato. Voleva solo chiedere: “Come vi sentite vivendo in Israele, sulla nostra terra e nelle nostre case?” Una kefiah sulle spalle (il solo nella stanza ad indossarla), è il proprietario di un’agenzia giordana di pubbliche relazioni, un uomo anziano con i capelli brizzolati. Gli organizzatori avevano esitato ad invitarlo. È conosciuto come l’estremista del gruppo. Io ero felice che fosse venuto. Dice che non aveva mai incontrato un israeliano nella sua vita. Sua moglie non c’era; non aveva trovato il coraggio di venire.

La sera di martedì scorso l’ampia sala dell’appartamento nel quartiere occidentale Al Rabieh di Amman era gremito di rifugiati palestinesi – quelli nati sull’altro lato del fiume Giordano. Si incontrano una volta a settimana, ogni volta in una casa diversa, anziani cittadini borghesi invecchiati comodamente nel loro esilio. Alcuni sono stati espulsi o sono fuggiti dal loro Paese da bambini nel 1948; altri lo hanno dovuto fare nel 1967. Da allora si sono fatti una loro vita; sono gente che si è costruita una vita da benestanti. Alcuni di loro leggono Haaretz in inglese. Per la maggior parte hanno dato un taglio al passato e sono andati avanti.

Ma nessuno ha dimenticato e forse nessuno ha neppure perdonato. In Israele non hanno mai capito la forza di questi sentimenti e quanto siano profondi. Si possono accusare i palestinesi di crogiolarsi nel passato, si può sostenere che hanno avuto un ruolo nel decidere del proprio destino – ma non si possono ignorare i loro sentimenti.

Non sono possibili paragoni storici: è difficile paragonare l’espulsione di nativi centinaia di anni orsono all’espulsione di un popolo che ricorda ancora la propria casa in cui ora vivono degli stranieri. Gli ebrei d’Europa e dei Paesi arabi hanno ottenuto una nuova patria ed alcuni di loro hanno ricevuto addirittura un risarcimento. Non vale nemmeno la pena di discutere il maldestro confronto con una manciata di coloni evacuati.

La domanda è sorta nella sala del defunto “artista nazionale” palestinese Ismail Shammout e della sua vedova, l’artista Tamam al-Akhal, risuonando tra i muri coperti di quadri. Per un attimo la cruciale domanda resta là, messa a nudo: Com’ è vivere sulla terra rubata ad altri?

Un penoso silenzio è caduto nella stanza. Alcuni si sono sentiti a disagio. Non è bello mettere così in imbarazzo i propri ospiti.

Non so se ci sia una risposta. Bisogna riconoscerlo. Per la destra israeliana, i nazionalisti e i razzisti, per quelli che credono che questa terra appartenga agli ebrei perché Abramo è passato di qui ed ha acquistato una grotta o perché dio lo ha promesso, non è un problema rispondere. Si può anche sostenere che gli ebrei hanno sempre sognato questa terra, ma il fatto è che non si sono mai preoccupati di stanziarsi qui in massa. Si potrebbe dire – giustamente – che gli ebrei non avevano dove fuggire durante l’Olocausto. Ma queste non sono risposte per l’artista Akhal, nella cui casa d’infanzia a Jaffa vive un’artista israeliana, una donna che molti anni dopo l’ ha cacciata via e non le ha neanche permesso di vedere la casa.

Chi ha posto la domanda l’ ha ribadita: “Voglio capire come vi sentite vivendo in Israele.” Io ho risposto che mi sento molto in colpa verso il suo popolo, e provo anche vergogna. Non solo per il 1948, ma soprattutto per quanto accaduto da allora, che è stato una diretta continuazione della linea ideologica dell’espulsione del 1948 e che non è mai cessata.

Poi gli ho parlato di mio padre, che è stato gettato tra le onde in una barca illegale di migranti e di mia madre, che è venuta in Israele attraverso ‘Youth Aliyah’ [organizzazione sionista che ha salvato migliaia di bambini ebrei durante il nazismo portandoli in Palestina, ndtr.]. Non avevano altro luogo in cui fuggire se non questo Paese, che all’epoca non era il loro. Ed io non ho dove andare, perché questo Paese è oggi anche il mio Paese. “Ma voi tutte le mattine nuotate in una piscina su una terra che non vi appartiene”, ha insistito l’uomo. Io sono stato zitto.

Quale dovrebbe essere la risposta? Per loro questa è la loro terra che gli è stata tolta con la forza. Non si può negarlo. Una pesante ombra morale ha oscurato la fondazione dello Stato, anche se ciò era inevitabile e persino giustificato. Dobbiamo imparare a convivere con questo. E soprattutto dobbiamo trarre l’unica conclusione che ne emerge con forza: i palestinesi hanno il diritto ad una riparazione per l’ingiustizia, attraverso l’inizio di un nuovo capitolo, costruito interamente sull’uguaglianza in questa terra.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Lasciamo che la soluzione dei due Stati muoia di morte naturale

Richard Falk

1 gennaio 2018,middleeasteye

Solo un movimento di solidarietà globale, che esercita una pressione sufficiente su Israele, può creare una trazione politica per uno Stato laico condiviso ugualmente da israeliani e palestinesi

Nonostante tutte le apparenze contrarie, coloro che in Occidente  non vogliono unirsi al partito vittorioso israeliano si aggrappano fermamente alla soluzione dei due stati. Israele ha indicato in misura sempre crescente, con le sue azioni e parole, comprese quelle del primo ministro Benjamin Netanyahu, un’opposizione a una Palestina autenticamente indipendente e sovrana.

Il progetto di espansione degli insediamenti sta accelerando con le promesse fatte da una serie di figure politiche israeliane che nessun colono sarebbe mai stato espulso da un accordo anche se l’abitazione illegale non fosse situata in un blocco di insediamenti.

Domenica, il Partito del Likud di Netanyahu ha invitato unanimemente i legislatori a una risoluzione non vincolante  per unire efficacemente gli insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata, terra che i palestinesi vogliono per uno Stato futuro.

Aggrappato alla soluzione dei due Stati

Per di più, Netanyahu, anche se a volte parla come se preferisse una ripresa dei negoziati di pace, sembra più autentico quando chiede il riconoscimento di Israele come Stato del popolo ebraico come precondizione per qualsiasi ripresa dei colloqui con i palestinesi.

Per completare il tutto, la decisione di Trump del 6 dicembre dello scorso anno di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e di dare un seguito spostando l’ambasciata degli Stati Uniti toglie dai futuri negoziati una delle questioni più delicate: lo status e la condivisione di Gerusalemme.

Tutto sommato sembra giunto il momento di riconoscere tre conclusioni correlate:

(1) La leadership di Israele ha respinto la Soluzione a due Stati come via per la risoluzione del conflitto;

(2) Israele ha creato condizioni, quasi impossibili da invertire, che rendono del tutto irrealistico aspettarsi la creazione di uno Stato palestinese;

(3) Trump, ancor più dei precedenti presidenti, ha fortemente e visibilmente impegnato la diplomazia americana  a favore di qualsiasi leader israeliano cerchi la fine di questa lotta epica tra i due popoli.

Eppure molte persone di buona volontà e dedite alla pace si aggrappano alla soluzione dei due Stati.

Le parole di Amos Oz, il celebre romanziere israeliano, esprimono un sentimento ampiamente condiviso:

“… nonostante le battute d’arresto, dobbiamo continuare a lavorare per una soluzione a due Stati: rimane l’unica soluzione pragmatica e pratica di questo nostro conflitto che ha portato così tanto spargimento di sangue e dolore in questa terra”.

È anche significativo che Oz abbia fatto questa dichiarazione nel corso di un appello per il finanziamento di fine anno 2017 a favore di ‘J Street’, la voce del sionismo moderato, negli Stati Uniti.

Quello che Oz dice, ed è opinione diffusa, è che non v’è alcuna soluzione disponibile per la Palestina a meno che non ci sia uno Stato ebraico sovrano indipendente lungo i confini del 1967 come nucleo essenziale di ogni credibile accordo diplomatico.

In altre parole, ogni alternativa non sarebbe “pragmatica, pratica” secondo Oz e molti altri. Poiché questo è raramente articolato, ma sembra poggiare sull’asserzione che il movimento sionista, fin dal suo inizio, ha cercato una patria per il popolo ebraico che potrebbe essere garantita ed adeguatamente proclamata solo se sotto la protezione di uno Stato ebraico

Per molti anni la leadership palestinese, riconosciuta a livello internazionale, ha condiviso questo punto di vista e ha dato la sua benedizione formale nella sua Dichiarazione PNC/OLP 1988 che guardava all’accettazione di Israele come Stato legittimo se l’occupazione fosse finita, le forze israeliane si fossero ritirate e la sovranità palestinese stabilita entro i confini del 1967 (che erano significativamente più estesi di quelli proposti dall’ONU attraverso  la risoluzione 181 dell’Assemblea generale – cioè, Israele avrebbe avuto il 78% anziché il 55% del territorio complessivo acquisito dal mandato britannico).

Questo tipo di risultato è stato avallato anche dall’Iniziativa Pace Araba del 2002 e presentato con fiducia come soluzione durante la presidenza di Obama.

Persino Hamas ha appoggiato lo spirito dell’approccio dei due Stati proponendo nel corso dell’ultimo decennio un cessate il fuoco a lungo termine, fino a 50 anni, se Israele dovesse porre fine all’occupazione di Gerusalemme Est, Cisgiordania e Gaza che in effetti avrebbero materializzato la soluzione dei due Stati di fatto: Israele e Palestina

Seri dubbi

Ci sono almeno quattro problemi, opportunamente nascosti sotto il tappeto dai sostenitori dei due Stati, uno dei quali è sufficientemente grave da sollevare seri dubbi circa la fattibilità e l’opportunità della Soluzione dei due Stati:

1 – Il sionismo liberale espresse un punto di vista verso una soluzione diplomatica che non è stata condivisa dai governi israeliani più di destra guidati dal Likud che hanno dominato la politica israeliana nel corso del 21° secolo; l’obiettivo israeliano prevedeva l’espansione territoriale – in particolare per quanto riguarda un’allargata e annessa Gerusalemme, con una vasta rete di insediamenti e collegamenti di trasporto in Cisgiordania – sostenuto dalla convinzione fondamentale che Israele non dovesse stabilire confini permanenti fino a che l’intera ‘terra promessa’ come raffigurata nella Bibbia non fosse ritenuta parte di Israele.

Palestinesi si dirigono verso un checkpoint israeliano  / AFP PHOTO / Musa AL SHAER

In effetti, nonostante qualche timidezza nell’affrontare un processo diplomatico, Israele non ha mai credibilmente avallato un impegno nei confronti di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 basato sull’uguaglianza dei due popoli.

2 – In secondo luogo, Israele ha creato fatti concreti sul terreno che hanno definitivamente contraddetto la sua dichiarata intenzione di cercare una pace sostenibile basata sulla soluzione dei due Stati.

3 – In terzo luogo, la soluzione dei due Stati, come previsto dai suoi sostenitori, ha di fatto trascurato la difficile situazione della minoranza palestinese in Israele, che ammonta al 20% della popolazione, ovvero a circa 1,5 milioni di persone. Aspettarsi che una minoranza non ebraica così numerosa accetti l’egemonia etnica e le politiche e le pratiche discriminatorie dello Stato israeliano è irrealistica, oltre a essere contraria agli standard internazionali sui diritti umani.

4 – E infine, oltre a questo, sostenere Israele in relazione al popolo palestinese espropriato e oppresso è dipeso dalla creazione di strutture di dominio etnico che costituiscono il crimine dell’apartheid.

Smantellare le strutture dell’apartheid

Come in Sud Africa, non può esserci pace con i palestinesi fino a quando non saranno smantellate completamente le strutture dell’apartheid utilizzate per soggiogare il popolo palestinese (comprese quelle imposte ai profughi e agli esiliati palestinesi), ciò non accadrà finché la leadership e il pubblico israeliano non rinunceranno a insistere sul fatto che Israele è esclusivamente lo Stato del popolo ebraico, includendo un illimitato ed esclusivo diritto al ritorno per gli ebrei e altri privilegi basati esclusivamente sull’identità etnica.

Tutto questo ci spinge a scartare la soluzione dei due Stati come indesiderata da Israele, inaccettabile per i palestinesi e non diplomaticamente raggiungibile, anche se emergesse inaspettatamente una forte volontà politica  sinceramente dedicata alla sua attuazione.

A fronte di una tale critica situazione siamo obbligati a fare del nostro meglio per rispondere a questa domanda inquietante: “C’è una soluzione che sia desiderabile e raggiungibile, anche se non è attualmente visibile nell’orizzonte politico?”

Seguendo queste linee, prefigurate 20 anni fa da Edward Said, due principi fondamentali devono essere raggiunti se si vuole raggiungere una pace sostenibile: agli israeliani deve essere data una patria ebraica all’interno di una Palestina riconfigurata e i due popoli devono stabilire un’autorità costituzionale che difenda i principi fondamentali di uguaglianza collettiva e dignità umana individuale.

Realizzare una simile visione sembrerebbe richiedere la creazione di uno stato unificato laico, magari con due bandiere e due nomi. Vi sono molte varianti, purché sia ​​rispettata l’uguaglianza dei due popoli nelle strutture costituzionali e istituzionali del governo.

Se l’approccio liberista sionista sembra impraticabile e inaccettabile, questa sarà  l’alternativa favorita, “una inutile utopia” o al massimo una fonte di false speranze?

Se i palestinesi dovessero proporre una tale soluzione nell’attuale atmosfera politica, Israele senza dubbio o la ignorerebbe o reagirebbe in modo sprezzante, e gran parte del resto della comunità internazionale li deriderebbe. Forse, ma ciò che viene proposto è un’utopia utile e l’unico percorso realistico verso una pace sostenibile e giusta.

Non v’è dubbio che l’attuale panorama di forze è tale che è prevedibile un rigetto iniziale. Anche se  l’Autorità palestinese dovesse presentare una visione del genere sotto forma di una proposta elaborata con molta attenzione, costituirebbe nuovo terreno per un dibattito più corrispondente alle effettive circostanze affrontate dagli israeliani e dai palestinesi.

Un movimento di solidarietà globale

La principale questione politica ed etica è come creare una spinta politica per uno Stato laico condiviso ugualmente da israeliani e palestinesi. Ritengo che ciò possa avvenire solo in questo contesto se il movimento di solidarietà mondiale che attualmente sostiene la lotta nazionale palestinese eserciterà pressioni sufficienti su Israele in modo che la leadership israeliana riveda i suoi interessi. Il precedente caso sudafricano, pur differendo in molti aspetti, è tuttora istruttivo.

Pochi immaginavano che in Sudafrica una transizione pacifica dall’apartheid a una democrazia costituzionale basata sull’eguaglianza razziale fosse lontanamente possibile, fino a quando non è successo.

Prevedo una potenziale analogia riguardo Israele/Palestina, anche se indubbiamente sarebbero presenti  una serie di fattori che dimostrano l’originalità di quest’ultima fase di sviluppo. In politica, se la volontà politica e le capacità necessarie sono presenti e mobilitate, l’impossibile può verificarsi e realizzarsi, come in Sudafrica e nelle lotte contro i regimi coloniali europei nella seconda metà del XX secolo.

Inoltre, senza una tale politica di impossibilità, persisterà una sofferenza enorme. La strada per una vera pace e giustizia sia per i palestinesi che per gli israeliani deve basarsi sulla loro convivenza sulla base del rispetto reciproco in una versione matura e democratica dello Stato di diritto, sostenuta da pesi e contrappesi e diritti fondamentali costituzionalmente forti.

Chi è Richard Falk

Richard Falk è professore emerito di diritto internazionale all’Università di Princeton. È autore o coautore di 20 libri e redattore o co-editore di altri 20 volumi. Nel 2008, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (UNHRC) ha nominato Falk per un mandato di sei anni come relatore speciale delle Nazioni Unite sulla “situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967.”

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina

 




Israele ha creato una nuova categoria di terrorismo

Amira Hass

|30 gennaio, 2018 | Haaretz

Sul sito della Knesset compare una nuova categoria di terrorismo, “costruzione di terrore.” Quelli condannati in anticipo comprendono l’Autorità Nazionale Palestinese, i beduini e l’Unione Europea.

Coerenza esige che durante il loro viaggio a Bruxelles questa settimana, i delegati israeliani presentino alla responsabile della politica estera dell’Unione Europea, Federica Mogherini, una convocazione al commissariato di polizia di Ma’aleh Adumim per essere interrogata su una sospetta attività terroristica.

Con una mano i rappresentanti israeliani, per via dei loro subappaltatori palestinesi, riceveranno un lauto assegno dall’UE per compensare l’ingente taglio di Donald Trump al finanziamento all’Autorità Nazionale Palestinese e all’UNRWA. (Vedi sotto: “Il taglio al finanziamento dell’ANP indebolisce il coordinamento della sicurezza”). Con l’altra mano consegneranno la convocazione per indagare su una sospetta attività e aiuto al terrorismo.

Per via di Auschwitz o a causa dei legami scientifici e militari con Israele, i rappresentanti europei accetteranno la convocazione con un sorriso. “Abbiamo sempre saputo che gli ebrei hanno uno sviluppato e alto senso dell’umorismo” diranno.

Ma si sbagliano. Questo non è uno scherzo. Si preparano altre espulsioni. Sul sito della Knesset è comparso una nuova categoria di terrorismo, “costruzione di terrore”. Quelli condannati in anticipo comprendono l’ANP, i beduini e l’Unione Europea. Il pubblico ministero, il giudice ed esecutore è il parlamentare Moti Yogev di Habayit Hayehudi [Casa Ebraica, il partito di estrema destra dei coloni ndt] che è anche presidente della sottocommissione del Comitato per la politica estera e la difesa della Knesset per l’espulsione dei palestinesi, anche conosciuta come sottocommissione per gli affari civili e la sicurezza nella Giudea e Samaria [cioè la Cisgiordania ndt]

Egli ha dichiarato che la costruzione palestinese nella Cisgiordania costituisce “terrorismo” quando avviene nel territorio che Israele con scaltrezza ha trasformato in un altro macigno sulla nostra esistenza – l’area C, nella quale ogni tenda, recinto per animali e condotto dell’acqua richiede un permesso israeliano di costruzione che non è mai concesso. Chiunque voglia alloggiare una giovane coppia in una stanza di sua proprietà, o ricostruirne una in pessime condizioni, [sostituire] una tenda fallata, o costruire un’aula di un asilo, è costretto a violare le leggi del padrone.

Giovedì scorso, la sottocommissione per le espulsioni era fuori di sé per la gioia: nel 2017 ci sono stati progressi nelle demolizioni di strutture palestinesi nell’area C, alcune delle quali costruite con finanziamento europeo. Nelle audizioni della commissione i parlamentari non si sono mai stancati di sottolineare la faccia tosta europea di finanziare strutture. Creando una realtà immaginaria con la loro terminologia, hanno definito le strutture “caravillas” [assente nel vocabolario inglese da assimilare a baracche ndt]. Le comunità palestinesi vengono chiamate “avamposti” e la loro presenza per decenni in questo territorio, “una sopraffazione”. Il territorio occupato [da Israele] è definito “territorio dello Stato”.

Abbiamo inventato il termine “terrorismo popolare” per descrivere le manifestazioni dei civili contro i nostri soldati armati. Abbiamo criminalizzato il BDS come terrorismo anche se il boicottaggio è lo strumento più antico nella storia della lotta nonviolenta contro i regimi oppressivi. Abbiamo chiamato “atto di guerra l’uso di istanze legali ”, quando i palestinesi hanno osato presentare il loro caso ai tribunali internazionali. Ora abbiamo anche accusato di terrorismo chiunque costruisca una scuola o una latrina. Presto li accuseremo di terrorismo per la loro tenace insistenza a respirare.

La riunione di giovedì scorso era incentrata sulla comunità [beduina] Jahalin che ha costruito una scuola con vecchi copertoni in un’area dove vivono da decenni, ma che la colonia di Kfar Adumim desidera [incamerare]. L’Amministrazione Civile [è l’istituzione israeliana che sovrintende al posto del potere militare, ndt] è determinata a deportare con la forza la comunità in un’area assegnata a loro a Abu Dis contro il parere di Abu Dis.

L’oratore più esplicito nella riunione è stato probabilmente il vice sindaco di Ma’aleh Adumim Guy Yifrah. Nell’interesse di espandere la sua colonia negli anni novanta , durante i negoziati di Oslo, i nostri soldati e burocrati hanno espulso centinaia di appartenenti alla tribù Jahalin dalle terre su cui hanno vissuto fin da quando furono espulsi dal Negev dopo il 1948.

Sono stati scaricati su una terra accanto alla discarica di Abu Dis. Ora, il vice sindaco ha detto che dare persino più terra nella stessa area a un altro clan della stessa tribù sarebbe un errore. “ Potrebbe far pensare ai Jahalin che stanno vicino a Ma’aleh Adumim , che lo Stato si è riconciliato con la loro residenza lì.”

Cosa stava dicendo esattamente? Che in effetti lo Stato non si è riconciliato con la loro presenza anche a Abu Dis. Il signor Yifrah ci sta dicendo che l’espulsione pianificata deve essere un altro passo verso l’espulsione finale in una località ignota.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




La sorgente del conflitto

Ben Ehrenreich, The Way to the Spring: Life and Death in Palestine, Penguin Press, 2016.

Amedeo Rossi

Sono ottimista perché persino nella loro disperazione, senza nessun motivo di speranza, le persone continuano a resistere. Non posso pensare a molte altre ragioni per essere orgoglioso come essere umano, ma questa è sufficiente.”

 Così Ben Ehrenreich, figlio della famosa sociologa americana Barbara Ehrenreich e a cui il libro è dedicato, conclude il prologo a questo libro, che raccoglie le sue esperienze nei molteplici viaggi in Palestina dal 2011 al 2014 per alcune riviste statunitensi. Nei suoi racconti in effetti i motivi di speranza sono pochi, tante sono le ingiustizie ed i soprusi a cui ha assistito e che racconta. E sono molte le persone, i luoghi, le vicende, tanto che l’autore ha inserito all’inizio del volume un elenco di “personaggi ed interpreti” e una loro sintetica scheda per ognuno dei principali luoghi visitati, anche più volte nel corso degli anni. Per ragioni di spazio mi limiterò a citare solo quelli più presenti.

La sorgente del titolo è sia una vera e propria fonte d’acqua che una metafora della situazione nei territori palestinesi occupati. Si tratta di Ein al-Qaws, una fonte del villaggio palestinese di Nabi Saleh, di cui si è impossessata una colonia israeliana dei dintorni. Ma il riferimento alla sorgente del titolo è anche un richiamo più generale all’occupazione israeliana dei territori palestinesi ed alla conseguente appropriazione di terre e risorse.

Proprio le vicende di Nabi Saleh e della famiglia Tamimi, che l’ha spesso ospitato, occupano una parte rilevante del libro. Tutti i venerdì ci sono manifestazioni di protesta degli abitanti del villaggio, che si dirigono verso la sorgente, finché non vengono respinti dai soldati israeliani. Gli scontri hanno spesso avuto esiti drammatici, con vari morti, molti feriti, molti arresti.

La famiglia Tamimi è tra le più attive nella resistenza non armata. Alla fine del 2017 è divenuta suo malgrado ancora più famosa a causa dell’incarcerazione, insieme alla madre e ad una cugina, di una delle figlie, la sedicenne Ahed, per aver schiaffeggiato due soldati dopo che suo cugino era stato gravemente ferito alla testa da un proiettile di gomma. Ahed rischia una condanna a 10 anni. A proposito del protagonismo dei minorenni, Ehrenreich racconta che, quando qualche straniero chiede conto agli abitanti del villaggio della presenza dei figli alle manifestazioni, la risposta degli adulti è tragicamente realistica: L’esperienza ha dimostrato che non ci sono luoghi sicuri in cui nascondere i figli, e partecipando alle manifestazioni i bambini hanno imparato a superare la loro paura e a vedere se stessi come qualcosa di diverso da vittime passive.

La famiglia Tamimi è spesso presente nel libro sia per il rapporto di amicizia che si è instaurato con l’autore, sia per il protagonismo della resistenza popolare di Nabi Saleh contro l’occupazione e i molti episodi drammatici che l’hanno segnata. Ma ci sono anche le descrizioni della tragica situazione di Hebron, che l’autore presenta con una lista di cose che i palestinesi del luogo considerano normali, tra cui: “Venire presi di mira da armi da fuoco, da lanci di pietre e di bottiglie molotov contro la propria casa; soldati che sparano lacrimogeni contro gli scolari per segnare l’inizio e la fine delle lezioni; essere arrestati, interrogati per ore e rilasciati senza imputazioni né scuse; avere un soldato con un fucile automatico piazzato tutto il tempo proprio dietro o davanti a casa; ecc.” La presenza di qualche centinaio di coloni fondamentalisti nazional-religiosi che hanno occupato alcune case nel centro storico della città condiziona la vita dei 200.000 abitanti palestinesi anche nei minimi dettagli della vita quotidiana. L’autore vi incontra un altro dei dirigenti più noti della resistenza popolare all’occupazione, Issa Amro, il leader dello YAS (Giovani contro l’Occupazione), e si trova ad affrontare insieme a questo gruppo di palestinesi le provocazioni dei coloni e la repressione dei soldati.Altrettanto difficile è la vita dei beduini di Umm al-Kheir, un villaggio più volte distrutto e sempre tenacemente ricostruito dai pastori che vi abitano, accampati in tende e costruzioni precarie, sempre minacciati dagli interventi dell’esercito e dagli abitanti della colonia di Carmel che vogliono impossessarsi delle loro terre. Due di questi hanno presentato una richiesta di danni (più di 20.000 €!!) e di demolizione contro il rudimentale forno utilizzato dai beduini per cuocere il pane, sostenendo che il suo fumo danneggia la loro salute e quella dei loro figli: “Lo chiamiamo il forno di Chernobyl”, racconta uno dei palestinesi a Ehrenreich, che commenta: “Principalmente il fumo del forno puzzava di altre persone, altri che i coloni non potevano capire e neanche lo volevano, e che semplicemente si rifiutavano – cocciutamente e con una testardaggine che doveva risultare esasperante – di morire o di andarsene.” Un’altra vicenda emblematica che evidenzia l’approccio che i coloni, e gli ebrei israeliani in generale, hanno nei confronti della presenza dei palestinesi.

Quando Ehrenreich dopo qualche tempo è tornato nel villaggio, sempre più misero, l’esercito israeliano aveva distrutto per tre volte il forno e gli abitanti l’avevano sempre ricostruito. Camminando con il giornalista, Eid, uno dei beduini, “ha detto qualcosa a proposito dell’importanza di non perdere la speranza. Gli ho chiesto come farlo. ‘Abbiamo solo quest’unica vita’ ha detto Eid. “Ed è sacra [] non dobbiamo sprecarla.” Una riflessione che segna ancor più la distanza dai coloni, che dedicano la propria vita a rendere invivibile quella degli altri. Al contempo questa riflessione ben rappresenta un’altra forma di resistenza dei palestinesi, il sumud, la sopportazione e la resistenza passiva, perché non andarsene nonostante tutto è la principale forma di protesta contro la pulizia etnica che è il principale obiettivo dell’occupazione.

Insieme agli avvenimenti a cui ha assistito personalmente, l’autore cita il contesto politico e diplomatico in cui essi si inseriscono: i viaggi del segretario di Stato John Kerry e i tentativi falliti di riannodare i cosiddetti “colloqui di pace, le vicende della politica interna israeliana e di quella palestinese, la situazione in Medio Oriente.

Non mancano i riferimenti critici nei confronti dei dirigenti palestinesi, di Hamas e soprattutto dell’ANP. È particolarmente significativo il capitolo dedicato a Rawabi, una città di cinquemila appartamenti e con i relativi servizi in via di costruzione nei pressi di Ramallah. Bassem Tamini la descrive come “Una nuova città palestinese. Come una colonia.” Ma, spiega Ehrenreich, la parentela non è solo estetica. La mega-speculazione edilizia, destinata ad ospitare la nuova classe media fiorita all’ombra dell’ANP, coinvolge l’ex-primo ministro palestinese Fayyad, un tecnocrate molto amato a Washington, una società finanziaria pubblica, AMAL, come garante degli investimenti, una società privata statunitense nel cui consiglio di amministrazione siedono molti ex-politici di amministrazioni sia repubblicane che democratiche, il governo del Qatar e personalità israeliane legate all’esercito e all’occupazione. L’autore spiega: “Quando inizi a mettere insieme le varie istituzioni coinvolte in Rawabi, o con qualunque altro importante progetto di sviluppo in Cisgiordania, cominciano a saltar fuori gli stessi gruppi o individui, la seducente opacità di società tra presunti nemici.

Al di là delle esperienze di vita raccontate, questo libro è ricco di spunti e suscita nel lettore indignazione, ma anche molte riflessioni su come e perché tutto ciò sia possibile senza che la comunità internazionale intervenga. In ex ergo al prologo l’autore cita una frase dello scrittore ed intellettuale libanese Elias Khoury: “Sono spaventato da una storia che ha un’unica versione. La storia ha decine di versioni, e perciò cristallizzarla in una sola non può che portare alla morte.” Le vicende che Ehrenreich racconta sono molte e diverse tra loro, alcune seguite dall’autore nel corso degli anni. Ma la visione complessiva che se ne ricava non può che essere una durissima critica delle politiche israeliane di occupazione e di colonizzazione. La “storia con un’unica versione” è quella continuamente ripetuta dalla propaganda israeliana e dai mezzi di comunicazione che se ne fanno portavoce. Una narrazione che questo libro contribuisce a smentire.




Faranno un deserto e lo chiameranno pace?

Jeff Halper, La guerra contro il popolo. Israele, i palestinesi e la pacificazione globale, Edizioni Epoké, Alessandria 2017, pp. 338, euro 16,00.

 Francesco Ciafaloni

L’ultimo libro di Jeff Halper, antropologo ed attivista politico ebreo americano, cittadino israeliano dal ‘73, promotore del movimento contro la distruzione delle case dei palestinesi (ICAHD), attivo nel boicottaggio di Israele, segna una discontinuità netta rispetto ai suoi libri precedenti nei problemi affrontati, nelle fonti usate, nel modo di usarle, nella scrittura. Siamo abituati ad un autore che scrive di ciò che fa, di persone umane, di dolore e danno da evitare, di solidarietà e uguaglianza da costruire, di resistenza non violenta, di scuola e libri di testo. Scopriamo che questa volta si occupa di Sistema mondo, di imposizione della sicurezza (dei potenti, contro il popolo) con le armi, di egemonia globale del centro sulle periferie e delle élite transnazionali sul centro, del ruolo di Israele nella sicurezza globale, di sistemi d’arma, di potenziamento dei soldati, di robot e droni da combattimento, di logistica, di servizi segreti e manipolazione dell’informazione, di strategie: della guerra reale o minacciata, in una parola, come mezzo per controllare il mondo. Del resto è esattamente ciò che promette il titolo. La sorpresa è che qui non si racconta la storia di una guerra in atto. Si descrivono invece i mezzi, le tecniche, i linguaggi, le alleanze con cui si prepara una guerra globale possibile, eternamente minacciata al mondo intero, parzialmente realizzata ove necessario. Si descrive il ruolo importante che Israele ha nel fornire quei mezzi e quelle tecniche ai potenti che li richiedano. Si sostiene che quei mezzi e quelle tecniche, e le alleanze che essi consentono, sono determinanti per confermare il dominio di Israele sulla terra tra il Giordano ed il mare e il suo potere in Medio Oriente.

È questo perdurante dominio la causa della discontinuità. Abbiamo lasciato Jeff Halper in piedi davanti ad un bulldozer israeliano per impedire la distruzione di una casa palestinese. Lo ritroviamo, nelle conclusioni del volume, ad ascoltare lo storico e sociologo statunitense Immanuel Wallerstein che parla di economia mondo e attribuisce la debolezza della propria parte politica alla impossibilità di delineare una alternativa globale allo stato di cose presente. Perché?

La risposta dell’autore è che non si spiega il successo di Israele nel sopravvivere alla condanna morale per le sue politiche di occupazione discriminante ed oppressiva, la sua capacità di tenere sotto controllo gli occupati e di sconfiggere e reprimere chi protesta, senza mettere in conto la sua forza militare, non solo sul campo, che sarebbe ovvio, ma su scala globale; la possibilità di stringere alleanze vendendo tecnologie ed armi, offrendo se stessa come modello di repressione, di pacificazione, di guerra contro il popolo. Non si può andare avanti a cercare di impedire una demolizione dopo l’altra senza cercare di spiegare perché la parte propria, che dovrebbe essere politicamente vincente, almeno sul piano internazionale, finisca invece sempre isolata, sconfitta dall’indifferenza, senza cercare di capire e contrastare l’origine, i mezzi, della forza del nemico.

Non credo sia fuori tema osservare che un sociologo italiano morto non molto tempo fa, Luciano Gallino, è stato costretto dalle cose ad una discontinuità simile. Dopo aver passato buona parte della vita ad occuparsi di lavoro ed organizzazione del lavoro in fabbrica, di significato e storia del significato dei concetti della propria disciplina, ha finito occupandosi di finanza, di sociologia mondo, di sociologia del possibile, di teoria critica della società, di responsabilità etica degli scienziati. Se il sistema della oppressione diventa intrinsecamente globale, bisogna ripensare criticamente come funziona il mondo. Se sono globali la produzione e il trasporto delle merci, oltre alla comunicazione e all’informazione, bisogna occuparsi non solo dei precari che lavorano per la logistica o dei ragazzi in bicicletta con lo zaino fucsia di Foodora ma anche di logistica come sistema globale.

Quindi Jeff Halper ha fatto benissimo ad allargare il campo della sua analisi. Forse non tutti gli aspetti affrontati sono però ugualmente utili e necessari per noi lettori. Penso che l’autore dimostri a sufficienza la solidità della propria tesi di fondo, cioè l’importanza della vittoria ideologica su scala mondiale e della connessione, tecnica e militare, con le potenze dominanti, ed ancor più con quelle periferiche, per il successo politico ed economico dello Stato di Israele. Il mondo è peggiorato. Sono talmente tanti gli Stati che fanno alle loro minoranze e ai loro vicini ciò che Israele ha fatto e fa ai palestinesi che le eventuali condanne di alcuni governi restano puramente verbali.

Non è detto però che le descrizioni di tecniche, armi, linguaggi, strategie, siano tutte indispensabili. Alcuni di noi sono nati, come me, prima dell’ultima guerra mondiale, hanno conservato l’abitudine di cercare di capire come funzionano le armi e leggeranno e controlleranno. Ma si può essere convinti della superiorità tecnica di alcuni sistemi d’arma israeliani anche senza sapere come funzionano, perché abbiamo visto in televisione gli effetti del loro uso. Anche senza conoscere i mezzi per potenziare le capacità fisiche e mentali dei combattenti che gli eserciti moderni cercano di mettere a punto, siamo già convinti che gli strumenti di cui dispongono gli danno considerevoli vantaggi su quelli che si ribellano al loro dominio. I quali però non si lasciano sconfiggere senza reagire.

Perciò il libro mi sembra fin troppo pessimista. Non tiene conto di una vecchia massima che, in metafora, è utile anche oggi: “Con le baionette si possono fare molte cose, ma non sedercisi sopra.” Per le potenze dominanti è facile sconfiggere gli eserciti dei paesi periferici; è impossibile governarne le città.

Forse l’autore sostiene che il dominio dell’informazione unito alla superiorità militare e a un sistema globale di alleanze e complicità può pacificare il mondo, cioè dominarlo di fatto, senza un vero consenso, senza una vera pace. Può avere ragione in generale o aver ragione su alcuni punti e torto su altri. Bisogna leggere il libro e controllare le singole affermazioni, in biblioteca e in rete, per cercare di capire cosa succede davvero quando la televisione ci porta in casa i fuochi d’artificio dell’ultima impresa militare, percepire la gravità delle tragedie delle vittime.

Se si ascoltano alla radio o si guardano in televisione i resoconti di alcuni eventi di questi giorni (23-24 gennaio) si trovano delle conferme alla tesi del libro della centralità del controllo globale della forza, ma anche delle difficoltà del dominio dei militarmente forti.

Mike Pence, vicepresidente degli Stati Uniti, ha tenuto un discorso, entusiasticamente accolto dalla maggioranza, alla Knesset, ripetendo, con più dettagli, la promessa del trasferimento della capitale di Israele a Gerusalemme, dove, secondo lui, avrebbe dovuto stare fin dalla fondazione dello Stato, sottolineando il significato salvifico per il mondo dell’alleanza e della identità di valori tra Israele e Stati Uniti. I deputati palestinesi che hanno protestato sono stati prontamente sospinti fuori dalla sala da commessi con kippà. Hanan Ashrawi, storica dirigente palestinese, che abbiamo sentito in passato parlare con eloquenza e competenza, durante un programma della BBC è apparsa recriminatoria e prolissa, è stata interrotta dal conduttore – “Perché nascondete la testa sotto la sabbia?” – non ha retto il confronto con il lapidario e trionfalistico intervento del portavoce dei vincitori. Il vento che spira sul mondo è contro di lei. L’alleanza ideologica e militare tra la potenza dominante globale e quella locale ha il vento in poppa.

Ma la farebbero male i vincitori a inorgoglirsi troppo della supremazia militare e dell’appoggio americano.

I saggi amici della Prussia le dicono sottovoce, non come minaccia ma come avvertimento: Vae victoribus!” [Guai ai vincitori] – scrisse Renan nel 1870, subito dopo la sconfitta francese nella guerra franco-prussiana.

Francesco Ciafaloni, nato il primo agosto 1937 a Teramo, ha lavorato come ingegnere del petrolio per l’Agip dal 1961 al 1966. È stato redattore di Paolo Boringhieri dal ’66 al ’70 e poi di Giulio Einaudi dal ’70 alla crisi dell’inizio degli anni ’80. Da allora ha lavorato soprattutto coi migranti, prima alle dipendenze della Cgil, poi come volontario. Ha lavorato per il “Comitato oltre il razzismo”. Attualmente collabora con i mensili “Una città” e “Gli asini” e con il sito “Workingclass”.




Graffiti improntati all’odio sono comparsi nel villaggio in Cisgiordania della ragazzina palestinese: ‘Pena di morte per Ahed Tamimi’

Yotam Berger

2 febbraio 2018 Haaretz

Tamimi è stata incarcerata fin dal momento in cui è stata ripresa mentre schiaffeggiava due soldati israeliani nel suo villaggio lo scorso dicembre.

Fonti locali hanno riferito che giovedì notte sono stati scritti dei graffiti in ebraico all’entrata del villaggio di Nabi Saleh in Cisgiordania. Tra gli altri slogan, uno di essi diceva: “Nella Terra di Israele non c’è posto per la famiglia Tamimi.” Altri dicevano: “Saluti dall’unità di rappresaglia delle Forze di Difesa israeliane” e “Pena di morte per Ahed Tamimi.”

Tamimi, che è in carcere fino al termine dei procedimenti legali contro di lei, iniziati dopo che è stata ripresa mentre schiaffeggiava due soldati dell’esercito israeliano nel suo villaggio a dicembre, vive a Nabi Saleh con la sua famiglia. Il dipartimento di polizia di Giudea e Samaria (nomi storici della Cisgiordania, ndtr.) ha aperto un’inchiesta dopo aver ricevuto notizia dell’incidente.

Il padre di Tamimi, Bassem, venerdì mattina ha detto a Haaretz che “questa è un’ulteriore testimonianza che la società israeliana ha perso la ragione. Non ne siamo sorpresi. Per gente che ammazza i bambini, scrivere simili slogan non è eccessivo. Questa è la stessa gente che ha bruciato viva la famiglia Dawabsheh. Ovviamente si tratta di una nuova minaccia contro di noi. Chiaramente, chi invoca la pena di morte per Ahed Tamimi si considera giudice e giustiziere.”

“Noi non abbiamo sporto denuncia alla polizia, dal momento che non la riconosciamo”, ha aggiunto Bassem. “Hanno anche scritto che cacceranno la famiglia da Nabi Saleh, e noi diciamo – nessun problema, mandateci via. Noi possiamo tornare a Haifa e Jaffa e in tutti i luoghi da cui ci avete cacciati.”

Il villaggio di Nabi Saleh, con una popolazione di alcune centinaia di persone, si trova accanto alla colonia di Halamish. All’entrata c’è un checkpoint non presidiato e telecamere di sorveglianza. Gli abitanti hanno detto che gli slogan sono stati scritti a partire dall’ingresso verso il centro del villaggio, fino a poca distanza dalla casa della famiglia, che è in un vicolo.

L’arresto di Tamimi il mese scorso è stato prorogato fino al termine dei procedimenti legali contro di lei, come anche la detenzione di sua madre Nariman. Il giudice militare, Maggiore Haim Baliti, ha respinto le obiezioni della difesa contro la proroga, scrivendo che “l’entità delle sue azioni e della sua iniziativa, il livello di violenza contro militari che svolgevano il loro lavoro per fermare i disordini pubblici nel villaggio, tutto questo indica un livello di rischio che non lascia alternative al prolungamento della detenzione.”

Tamimi è accusata di aver aggredito un soldato in circostanze aggravate, di aver minacciato un soldato, di aver impedito le attività di un soldato, di istigazione e di lancio di oggetti contro una persona o una proprietà. Oltre all’incidente documentato in cui ha preso a pugni un soldato, è stata anche accusata di diversi episodi di lanci di pietre. Secondo l’accusa, Tamimi ha aggredito un maggiore ed un sergente maggiore vicino alla sua casa. Sua madre ha filmato l’aggressione e l’ha postata su Facebook. L’accusa sostiene che Tamimi ha spinto i soldati e li ha minacciati dicendo che li avrebbe presi a pugni se non se ne fossero andati, prendendoli a calci e colpendoli in faccia.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Lieberman sulla possibilità di una guerra in Libano: se gli israeliani saranno costretti ad andare nei rifugi antiaerei, lo saranno anche tutti gli abitanti di Beirut

Yaniv Kubovich

1 febbraio 2018, Haaretz

Il ministro della Difesa israeliano afferma che le tensioni crescenti lungo il confine nord potrebbero portare ad un conflitto, nel quale Israele potrebbe prendere in considerazione un attacco di terra.

Mercoledì il ministro della Difesa Avigdor Lieberman si è espresso riguardo alla possibilità di un conflitto con il Libano, dicendo che i soldati israeliani potrebbero dover intervenire in profondità nel territorio libanese e operare sul campo di battaglia, se scoppiasse la guerra.

Le affermazioni di Lieberman sono le ultime di una serie di avvertimenti da parte di alti ufficiali israeliani riguardo ai tentativi di Hezbollah di armarsi di missili di precisione prodotti in Libano.

“Operare sul terreno non è di per sé un obbiettivo. L’obbiettivo è porre fine alla guerra”, ha detto Lieberman durante una conferenza dell’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale all’università di Tel Aviv.

“Nessuno cerca un’avventura, ma se non abbiamo scelta l’obbiettivo è porre termine (agli scontri) il più presto ed il più inequivocabilmente possibile”, ha aggiunto. “Purtroppo ciò che vediamo in tutti i conflitti nel Medio Oriente è che senza i soldati sul terreno non si arriva ad una conclusione.”

“Questo tipo di operazioni richiede un grande sforzo ed anche, disgraziatamente, delle vittime. Tutte le opzioni sono aperte ed io non sono vincolato a nessuna posizione”, ha aggiunto. “Dobbiamo prepararci anche ad un intervento sul terreno, anche nel caso in cui non venga attuato.”

“Lo faremo con pieno dispiego della forza. Non dobbiamo avere esitazioni. Procederemo il più velocemente possibile”, ha detto Lieberman.

“Non assisteremo a scene come quelle della seconda guerra del Libano, in cui gli abitanti di Beirut erano al mare e a Tel Aviv la gente era nei rifugi antiaerei. Se in Israele si andrà nei rifugi, allora nella prossima guerra vi andranno anche tutti gli abitanti di Beirut.”

Parlando ai giornalisti dopo il suo incontro con il presidente russo Vladimir Putin, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto che le fabbriche di missili di precisione iraniane in Libano erano già in “fase avanzata” e che lui aveva segnalato alla sua controparte russa che si tratta di una minaccia che Israele non è disposto ad accettare.

Secondo Netanyahu i russi “comprendono pienamente la nostra posizione e l’importanza che noi attribuiamo a queste minacce.” Ha aggiunto che i rapporti di Israele con il Cremlino sono importanti per il coordinamento sulla sicurezza tra i Paesi: “L’esercito russo è sul nostro confine e noi siamo riusciti a salvaguardare i nostri interessi e la nostra libertà di agire coordinando le aspettative.”

“L’organizzazione terroristica Hezbollah viola le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU mantenendo una presenza militare nella regione, dotandosi di sistemi di armamento ed incrementando le proprie capacità militari”, ha detto giovedì Gadi Eisenkot [capo di stato maggiore di Israele, ndtr.].

Il portavoce dell’esercito israeliano Ronen Manelis ha scritto in un articolo, pubblicato domenica, che gli ufficiali della difesa israeliani ritengono che l’Iran abbia ripreso a costruire una fabbrica di armi di precisione in Libano.

La produzione dei missili in Libano costituisce per l’esercito israeliano un problema diverso dalle sue preoccupazioni riguardo alla Siria. Secondo informazioni sui media esteri, l’esercito israeliano ha compiuto sforzi in Siria negli ultimi anni per impedire il contrabbando, lo stoccaggio in depositi e la produzione di armi destinate a Hezbollah.

Perciò dirigenti politici e militari israeliani hanno inviato avvertimenti, sia attraverso articoli di alti ufficiali dell’esercito, sia attraverso affermazioni di importanti ministri, compresi il ministro della Difesa Avigdor Lieberman e dell’Educazione Naftali Bennett, il capo del partito di destra Habayit Hayehudi [La casa ebraica, il partito di estrema destra dei coloni, ndtr.].

Per l’esercito un attacco agli impianti è l’ extrema ratio e verrà data priorità ad attività clandestine, al rilevamento dei siti e ad uno sforzo diplomatico per fermare la produzione negli stabilimenti. L’esercito ritiene che un attacco agli impianti potrebbe peggiorare la situazione fino a portare ad un conflitto di alta intensità, come accaduto nella seconda guerra del Libano del 2006.

Questa settimana fonti dell’esercito hanno detto che qualunque operazione nell’area potrebbe condurre ad una guerra, come è successo con il rapimento dei soldati Eldad Regev e Ehud Goldwasser nel 2006, un atto che ha portato alla seconda guerra del Libano. Un evento analogo è stato il rapimento di tre studenti della yeshiva [scuola rabbinica, ndtr.] in Cisgiordania nel 2014, che ha scatenato l’operazione israeliana ‘Margine Protettivo’ a Gaza.

Oltre che per la produzione di missili, l’esercito israeliano è preoccupato anche per le azioni di Hezbollah lungo il confine. Vi sono circa 240 villaggi nel sud del Libano che Hezbollah ha trasformato in zone di combattimento in caso di guerra.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)