La crisi della chiesa del Sacro Sepolcro: Israele rompe i ponti con il mondo cristiano

*Nota redazionale. Dopo pochi giorni di chiusura della chiesa del Santo Sepolcro Israele è stato costretto a sospendere l’iter del disegno di legge nel parlamento e convincere il sindaco di Gerusalemme Barkat a fare altrettanto riguardo alla tassazione delle proprietà ecclesiastiche. Nonostante questo articolo sia quindi superato dai fatti, riteniamo ugualmente interessante quest’articolo in quanto rappresenta una critica interna ad Israele sulle scelte politiche in materia di politiche riguardo alla presenza cristiana in Palestina.

Nir Hasson

27 febbraio 2018,Haaretz

I decisori politici hanno continuato ad ignorare le sensibilità politiche, religiose e diplomatiche nei tentativi di soluzione dei problemi che riguardano la comunità cristiana di Gerusalemme.

La chiesa del Santo Sepolcro nella Città Vecchia di Gerusalemme è un luogo che va al ritmo del Medio Evo e si conforma a una serie inflessibile di norme definite a metà del XIX° secolo. Una delle consuetudini non scritte è una continua disputa tra le tre Chiese che la gestiscono: cattolica, greco-ortodossa e armena.

Sapendo tutto ciò, l’incidente avvenuto domenica è stato un evento storico. I capi delle tre comunità, il patriarca greco-ortodosso, il patriarca armeno e il custode cattolico per la Terra Santa, si sono incontrati all’ingresso della chiesa. Hanno fatto andare via i turisti ed hanno chiuso le pesanti porte. Sono stati appesi grandi cartelli, stampati in anticipo, con le immagini dei due nemici della chiesa: il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat e la parlamentare della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] Rachel Azaria del [partito di centro, ndt.] Kulanu. In alto era scritto: “La misura è colma”.

La protesta è arrivata come risposta a due recenti iniziative fondamentali. Una è stata la decisione di porre fine all’esenzione dalla tassa municipale sulle proprietà delle Chiese a Gerusalemme e di imporre un blocco sui conti bancari delle chiese per le tasse non pagate. La seconda è una legge presentata da Azaria che permetterebbe l’esproprio delle terre vendute dalle chiese ad acquirenti privati. Era nell’ordine del giorno di domenica della commissione della Knesset che deciderà se la coalizione di governo appoggerà la proposta di legge oppure no.

L’azione di domenica delle Chiese mostra che sono in una situazione intollerabile, con pressioni da ogni parte: Israele, i loro fedeli palestinesi, le istituzioni ecclesiastiche, i pellegrini ed i Paesi che le appoggiano (Giordania, Grecia, Armenia e il Vaticano). I responsabili politici ignorano in continuazione le sensibilità politiche, religiose e diplomatiche quando tentano di risolvere problemi che riguardano le Chiese.

Secondo le Chiese, l’accordo che ha consentito loro di non pagare le tasse municipali è esistito dai tempi dell’impero ottomano e tutti i governi britannici, giordani ed israeliani l’hanno rispettato. Dicono che l’iniziativa di raccogliere le tasse fa parte della lotta di Barkat contro il governo nazionale e contro il ministro delle Finanze Moshe Kahlon sul bilancio della città. Nel contempo il sindaco sostiene che l’accordo sulle tasse si applica solo ai luoghi di culto e non alle proprietà commerciali possedute dalle Chiese.

Tra le tasse e la legge portata avanti da Azaria, è quest’ultima che ha maggiormente preoccupato i leader religiosi. Secondo la proposta di legge il governo sarebbe in grado di espropriare la terra che è stata di proprietà delle Chiese e venduta a società immobiliari private. La legge discrimina le Chiese rispetto ad altre istituzioni o privati cittadini. (Una domanda pertinente è cosa direbbe Israele se una simile iniziativa fosse presa in un altro Paese per le proprietà possedute dalle sinagoghe). Oltretutto sarebbe applicata in modo retroattivo.

La legge obbligherebbe le Chiese a pagare per i fallimenti del “Fondo Nazionale Ebraico” e dell’”Amministrazione Israeliana della Terra”. Per comprendere i loro errori è sufficiente vedere l’accordo sulla terra nel quartiere di Rehavia a Gerusalemme, stilato nella prima metà del XX° secolo. All’epoca le Chiese cedettero terreni a Rehavia e in altri quartieri al FNE per 99 anni.

Nel contratto di Rehavia, che sta mettendo in pericolo le vite di 1.300 famiglie, un’impresa privata acquistò i diritti di possesso per 500 dunam (5.000 ettari) di terreni nel cuore di Gerusalemme per 200 anni solo per 78 milioni di shekel (circa 18 milioni di €). Se il governo avesse agito in modo più intelligente, avrebbe potuto facilmente acquistare i diritti su questa terra per una cifra simile – un piccolo cambiamento, considerando la dimensione dell’area e la sua importanza. Avrebbe potuto avere indietro parte del denaro dai residenti e dagli affaristi prolungando i loro contratti di affitto. Ma i responsabili non hanno agito, permettendo a speculatori privati di entrare in scena.

Una volta terminato il contratto di concessione di 99 anni, invece del suo rinnovo praticamente automatico da parte del FNE per un affitto simbolico, i terreni saranno trasferiti a un’impresa privata. I residenti che vivono in edifici coinvolti nella vendita dovranno negoziare con gli operatori immobiliari privati quello che succederà delle loro case, che avranno già perso più di metà del loro valore.

Se la legge viene approvata, nessuno vorrà fare affari con le Chiese: chi vuole comprare terreni che in futuro possono essere espropriati?

Chiunque abbia a che fare con questa legge – compresi quelli che l’hanno redatta – sa molto bene che non ha nessuna possibilità di essere approvata dalla Knesset nell’attuale formulazione. Viola talmente tanti principi costituzionali che è un caso esemplare di annullamento da parte della Corte Suprema. La legge è stata pensata per essere una minaccia a operatori e speculatori immobiliari, in modo che arrivino ad un accordo con il governo. Ma nel contempo, la domanda è se questo è il modo in cui Israele vuole comunicare con il mondo cristiano.

(traduzione di Amedeo Rossi)