Promemoria al “New York Times”: andate al villaggio di Ahed Tamimi in Palestina e dite la verità
22 marzo 2018
A: David Halbfinger, capo della redazione di Gerusalemme del New York Times
Ahed Tamimi, che ha solo diciassette anni, è ormai una dei palestinesi più noti di sempre, ma i lettori del tuo “New York Times” sono ancora all’oscuro di tutto. Hai scritto solo due articoli su di lei: il primo, un testo relativamente lungo a dicembre, era un resoconto con una “narrazione a confronto” su come palestinesi ed israeliani interpretano in modo diverso la sua resistenza all’occupazione. (Il tuo secondo articolo, oggi, è solo una sintesi su come un tribunale militare israeliano l’ha condannata a 8 mesi di reclusione. Il resoconto di oggi non è neanche incluso nell’edizione cartacea del “Times”).
Basta con le “narrazioni a confronto”. Vai al suo villaggio nella Palestina occupata, Nabi Saleh, e racconta qualche fatto. Finora tutto quello che hai avuto da dire nel tuo primo articolo è stato che i Tamimi vivono in “un piccolo villaggio” che ha “da molto tempo un contenzioso con un vicino insediamento israeliano, Halamish, che secondo gli abitanti di Nabi Saleh avrebbe rubato la loro terra e la loro acqua.”
Un momento. Restiamo ai fatti. Verifica se gli abitanti di Nabi Saleh hanno ragione. Ben Ehrenreich, che nel 2013 ha pubblicato un lungo articolo sulla vostra rivista a proposito del villaggio, ha già fornito qualche precedente. Alla fine degli anni ’70 Israele si è impossessato di più di 60 ettari delle terre di Nabi Saleh, apparentemente per “ragioni militari”, ma poi li ha dati a coloni ebrei. Negli anni seguenti Israele ha rubato altra terra palestinese nella zona, come racconta Ehrenreich nel suo eccellente libro “The Way to the Spring: Life and Death in Palestine” [La via per la sorgente: vita e morte in Palestina]. In base alle leggi internazionali l’esproprio di terre è illegale, come riconosce ogni altro Paese al mondo, tranne Israele. In seguito i coloni ebrei hanno confiscato una sorgente d’acqua palestinese, chiamata “Sorgente dell’Arco”, ed hanno costruito vicino a questa uno stagno per i pesci. I palestinesi hanno di nuovo protestato. Anni dopo, spiega Ehrenreich, “i coloni hanno retroattivamente fatto richiesta per avere una licenza edilizia, che le autorità israeliane hanno rifiutato di concedere, sentenziando che “i richiedenti non hanno dimostrato i loro diritti sulla terra in questione.” Così ora i coloni non stanno sfidando solo le leggi internazionali, ma le loro stesse autorità. Eppure in qualche modo continuano a controllare la sorgente. Scopri perché.
Potresti anche fare un resoconto intervistando sia i coloni israeliani che i palestinesi della zona. Noi di “Mondoweiss” abbiamo scoperto che i coloni ebrei sono piuttosto disponibili a parlare apertamente e in modo aggressivo, per cui non censurare il loro estremismo. I coloni ebrei fanno vendere più copie e possiamo garantire che le loro colorite citazioni attireranno lettori per il tuo articolo.
Poi comincia a indagare sul livello di violenza nella zona, e chi ne è responsabile. Fai pure, racconta che alcuni giovani palestinesi lanciano pietre contro l’esercito israeliano (anche se dovresti sottolineare che neppure un solo soldato israeliano è mai stato ucciso da chi lancia pietre). Ma dovresti anche verificare quanti palestinesi di Nabi Saleh sono stati uccisi o seriamente feriti durante anni di manifestazioni per lo più non violente. Lo zio materno di Ahed Tamimi, Rushdie, è stato ucciso da proiettili letali e sua madre, Nariman, è stata colpita a una gamba e per un anno ha dovuto usare un bastone.
Non ti sarà difficile fare interviste a palestinesi di Nabi Saleh. A quanto pare Ben Ehrenreich non ha avuto problemi a trovare abitanti che parlassero con lui. Anche il fondatore di “Mondoweiss”, Phil Weiss, ha visitato il villaggio, ed ha scoperto che Bassem Tamimi, il padre di Ahed, parla un inglese fluente ed è ospitale.
Dovresti anche parlare con i soldati di leva israeliani che sono lì. Come i coloni, anche loro possono fornirti citazioni senza peli sulla lingua. Ma poi contatta “Breaking the Silence”, la coraggiosa organizzazione dei veterani israeliani contro l’occupazione. Forse qualcuno di loro è stato distaccato a Nabi Saleh e può dirti quello che sta dietro alla vicenda. E non dimenticare di verificare a B’Tselem, la famosa organizzazione per i diritti umani israeliana. A quanto pare alcuni dei tuoi predecessori del “New York Times” hanno avuto dei problemi a trovarli.
Infine dovresti cercare di intervistare la stessa Ahed Tamimi. Lei a quanto pare rimarrà in prigione fino a luglio, e Israele ovviamente cercherà di zittirla. Ma il “New York Times” è un’istituzione potente e potresti almeno chiedere.
Potrai sicuramente parlare con i membri della sua famiglia che non sono in prigione. Permettici di ricordarti che non hai citato neppure uno dei Tamimi in nessuno dei tuoi articoli. Dovresti iniziare dando loro la possibilità di rispondere a quell’affermazione che hai inserito nel tuo primo articolo di dicembre: “Che la sua famiglia sembri incoraggiare i rischiosi scontri dei figli con i soldati offende alcuni palestinesi e fa infuriare molti israeliani.”
(traduzione di Amedeo Rossi)