La crociata annessionista di Israele a Gerusalemme: il ruolo di Ma’ale Adumim e del corridoio E1

Zena Agha

26 marzo 2018, Al Shabaka

Sintesi

Negli scorsi mesi Israele ha fatto una serie di continui tentativi di annettersi colonie che confinano con Gerusalemme. Il più ambizioso: la legge della “Gerusalemme più grande”, che intende annettere Ma’ale Adumim, Givat Zeev, Beitar Illit e il blocco di Etzion – una colonia inserita tra Gerusalemme ed Hebron – che era in programma per l’approvazione da parte della commissione ministeriale israeliana per le leggi alla fine dell’ottobre 20171. Il suo scopo finale era di “ebraicizzare” Gerusalemme per mezzo di una manipolazione demografica e di un’espansione territoriale [dei confini di Gerusalemme, ndt.].

Benché Netanyahu abbia rimandato a tempo indefinito la legge a causa delle pressioni degli Stati Uniti, preoccupati che ciò potesse ostacolare gli sforzi di far risuscitare i colloqui di pace, il tentativo recondito continua a vivere in altre misure. In seguito al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte del presidente USA Donald Trump nel dicembre 2017, Israele ha accentuato i tentativi per annettere la terra e cambiare l’aspetto demografico di Gerusalemme.

L’attuale governo di Benjamin Netanyahu ha sfacciatamente proposto una sfilza di altri progetti, risoluzioni e leggi che rafforzerebbero la presa di Israele su Gerusalemme. Sostenuti dal consenso di Trump, i politici, amministratori e pianificatori israeliani hanno approvato anche la costruzione di migliaia di unità abitative nelle colonie sia all’interno che attorno a Gerusalemme e nei Territori Palestinesi Occupati [TPO], nonostante il fatto che la fondazione di queste colonie nei TPO rappresenti una violazione dell’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra. Garantirsi una maggioranza demografica ed espandere le colonie fanno anche parte di un piano più complessivo di Israele per annettersi la Cisgiordania.

Questo commento politico esplora le implicazioni dell’annessione della zona di Gerusalemme, in particolare l’impatto dell’annessione della colonia urbana di Ma’ale Adumim e dell’area territoriale nota come E1, che la collega a Gerusalemme. Mostra come l’annessione di questi luoghi renderebbe impraticabile un futuro Stato palestinese, separando di fatto tra loro la parte settentrionale della Cisgiordania e quella meridionale. Tale annessione mette in luce anche i metodi di colonizzazione israeliani nei TPO: confisca delle terre, annessione strisciante, manipolazione della demografia e trasferimento della popolazione. L’articolo conclude con dei suggerimenti su quanto la comunità internazionale, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e gli stessi palestinesi possono fare per arginare questo esito catastrofico.

Annessione fin dai primi giorni dell’occupazione

Il 27 giugno 1967, 20 giorni dopo che l’esercito israeliano aveva occupato Gerusalemme fino alla sua parte più orientale, Israele si annesse circa 71 km2 di terre all’interno dei confini ampliati della municipalità israeliana di Gerusalemme. Ciò riunì la Città Vecchia, la parte occidentale israeliana della città, la città in precedenza amministrata dalla Giordania e 28 villaggi palestinesi (ed i loro pascoli) in un’unica area metropolitana – tutto ciò nel tentativo di creare una unificata, “eterna” capitale ebraica. L’annessione incluse circa 69.000 palestinesi che vivevano sul territorio.

Dal 1967 Israele ha limitato potere, proprietà e abitazioni dei palestinesi nella zona di Gerusalemme, incrementando al contempo la presenza ed il controllo da parte degli ebrei israeliani. Mentre Gerusalemme continua ad essere l’unico territorio palestinese ufficialmente annesso dal 1967, la destra nazionalista in Israele ha a lungo chiesto la totale annessione dei TPO.

Nel corso degli anni sono state proposte leggi simili a quella della “Gerusalemme più grande”. La legge in sé è stata una riproposizione di un progetto simile degli anni ’90, e il parlamentare della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] Yisrael Katz ha presentato una proposta simile nel 2007. Entrambe vennero accantonate a causa delle preoccupazioni in merito a reazioni internazionali e palestinesi.

Come i precedenti tentativi, la legge della “Gerusalemme più grande” riguardava la demografia. Stabiliva che i 150.000 coloni che vivono nelle cittadine e nei municipi in questione venissero considerati abitanti di Gerusalemme, consentendogli quindi di votare nelle elezioni comunali e di influenzare i risultati elettorali. Al contempo la Knesset ha aggiunto un emendamento alla “Legge fondamentale” del 1980, “Gerusalemme capitale di Israele”, che consente al governo di separare zone della città dalla municipalità di Gerusalemme, pur esigendo che queste nuove amministrazioni rimanessero sotto sovranità israeliana. Ciò intendeva chiaramente eliminare i 100.000 palestinesi che vivono nel quartiere di Kufr Aqab, nel campo profughi di Shuafat e ad Anata – che si trova oltre la barriera di separazione – riclassificandoli come municipi di rango inferiore e togliendoli dall’anagrafe [di Gerusalemme].

Queste misure avrebbero garantito che la popolazione palestinese – che attualmente comprende circa il 40% della popolazione di Gerusalemme –scendesse al 32%, semplicemente ridefinendo i confini della città. Il parlamentare Kish ha espresso questa visione demografica in modo piuttosto ingenuo: “Gerusalemme ingloberà una popolazione che garantirà l’equilibrio demografico.” Allo stesso modo il deputato Katz ha sottolineato che la legge avrebbe “garantito una maggioranza ebraica nella città unificata,” insediando in questo modo Gerusalemme come la capitale di Israele.

Inoltre sono già in corso preparativi per l’annessione della Cisgiordania, come dimostra la risoluzione non vincolante votata all’unanimità il 1 gennaio 2018 dal comitato centrale del Likud [principale partito della destra israeliana al governo da molti anni, ndt.]. La risoluzione chiede che Netanyahu, i dirigenti e politici del partito “applichino le leggi di Israele e la sua sovranità su tutte le zone liberate dell’insediamento ebraico in Giudea e Samaria” – il nome utilizzato dai nazional-religiosi in riferimento alla Cisgiordania. Come ha proclamato l’ex-ministro dell’Educazione e rivale di Netanyahu Gideon Sa’ar: “(L’annessione) verrà realizzata in pochi anni. Lasciateci guidare il Likud…L’obiettivo della nostra generazione è rimuovere ogni punto interrogativo che incombe sul futuro delle colonie.”

Mentre a metà febbraio Netanyahu ha scartato una legge basata su questa risoluzione in risposta alla disapprovazione USA, il suo spirito è evidente in una serie di più sottili ma ugualmente pericolose leggi presentate da parlamentari israeliani. A metà febbraio, per esempio, la Knesset ha approvato una legge che estende la giurisdizione dello Stato all’interno della Cisgiordania, mettendo college e università delle colonie sotto l’autorità della commissione israeliana per l’Educazione superiore. Benché il suo impatto diretto sia in qualche modo ridotto, i sostenitori della legge hanno creato un contesto retorico e legislativo in cui l’applicazione della legge israeliana nelle colonie non è più discutibile – un passo verso l’obiettivo finale di annettere parti della Cisgiordania.

In modo ancor più significativo, la ministra della Giustizia Ayelet Shaked (Casa Ebraica [partito di estrema destra dei coloni, ndt.]) ha proposto una legge, fatta propria dal governo all’inizio di marzo, che propone di togliere alla Corte suprema israeliana la giurisdizione sulle terre contese in Cisgiordania. Se approvata, la legge garantirebbe che il tribunale distrettuale di Gerusalemme, invece della Corte suprema, si occupi dei casi riguardanti palestinesi che intendono fare ricorso legale nei conflitti territoriali con i coloni. Questo è un passo che stabilisce un precedente che imporrebbe concretamente la legge israeliana sulla Cisgiordania occupata.

L’intento di questa legge è duplice: in primo luogo, attribuendo a un tribunale israeliano la giurisdizione sui palestinesi non cittadini che vivono al di là della Linea Verde [il confine tra Israele e Giordania prima della guerra del ’67, ndt.], Shaked intende estendere (ulteriormente) le leggi interne e il sistema giuridico di Israele in Cisgiordania. In secondo luogo, dà un ulteriore vantaggio nei tribunali ai coloni rispetto alle denunce palestinesi. Secondo un funzionario del ministero di Giustizia, Shaked vede la Corte Suprema israeliana come “eccessivamente preoccupata delle leggi internazionali e della protezione dei diritti della popolazione ‘occupata’ in Giudea e Samaria.”

Simili atteggiamenti stanno ricevendo una base d’appoggio internazionale. In una riunione durante la conferenza dell’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, principale gruppo di pressione filoisraeliano negli USA, ndt.] a Washington nel marzo 2018, Oded Ravivi, il capo del consiglio della colonia di Efrat, ha invitato i parlamentari statunitensi ad appoggiare l’annessione della Cisgiordania e l’incremento nella costruzione di colonie. Ha affermato: “Non è un segreto che alla Knesset ci sono stati diversi tentativi riguardo all’annessione o all’adozione delle leggi israeliane in Giudea e Samaria…Penso che sia giunto il momento di applicare le leggi israeliane in Giudea e Samaria.”

Quindi, mentre la costruzione (o espansione) di colonie illegali e i tentativi di annessione sono stati messi in pratica senza sosta dal 1967, è chiaro che la Palestina sta affrontando un momento cruciale. Se la legge della “Gerusalemme più grande”, ed ogni modifica di essa, dovessero essere messe in atto, ci sarebbero due conseguenze epocali: taglierebbe fuori i palestinesi dalla loro capitale, Gerusalemme, ebraicizzando la città dal punto di vista demografico e spaziale, e colonizzerebbe il punto più stretto della Cisgiordania, rendendo impossibile uno Stato palestinese con continuità territoriale.

Per entrambi questi risultati è fondamentale la proposta di annessione della colonia urbana di Ma’ale Adumim e della striscia di terra che la unisce a Gerusalemme, nota come corridoio E1. Dal punto di vista demografico l’inclusione di Ma’ale Adumim nel Comune di Gerusalemme farebbe aumentare drasticamente il numero di abitanti ebrei israeliani nella città, e, dal punto di vista spaziale, l’annessione del corridoio E1 sarebbe il colpo di grazia per la soluzione dei due Stati.

Ma’ale Adumim: il gioiello nella corona della colonizzazione

Ma’ale Adumim si trova nei pressi di Gerico, nei TPO, e funge da sobborgo ebraico di Gerusalemme, contando 40.000 abitanti. L’esatta “fondazione” di Ma’ale Adumim è incerta. È nata come avamposto di 15 coloni estremisti nel 1975 ed ha ottenuto lo status di cittadina nel 1991 – la prima ad ottenerlo in Cisgiordania.

Il primo governo di Menachem Begin (1977-81) la pianificò e la costruì. I confini, definiti nel 1979, coprivano circa 3.500 ettari con 2.600 unità abitative. Contrariamente alla voce corrente secondo cui le terre tra Gerico e Gerusalemme vennero “ereditate” dai giordani e quindi erano “terre dello Stato”, Ma’ale Adumim venne costruita su terreni di proprietà di abitanti dei villaggi palestinesi di Abu Dis, Anata, Azariya, At-Tur e Isawiya. Inoltre i Jahalin, la tribù beduina che in precedenza abitava sulle colline di Ma’ale Adumim, vennero deportati a forza in una vicina discarica dopo la demolizione dei loro accampamenti di tende. La colonia venne estesa ad altri 1.300 ettari che Israele dichiarò “terre dello Stato” durante gli anni ’80 e ’90. Ciò determinò un’ulteriore espulsione forzata dei Jahalin nel 1997 e 1998, con la deportazione di 100 famiglie.

Ma’ale Adumim mirava a raggiungere due obiettivi generali: penetrare strategicamente all’interno dei TPO e consolidare il controllo di Israele su Gerusalemme. Nel primo caso, la posizione di Ma’ale Adumim venne scelta espressamente: il principale architetto e urbanista della colonia, Thomas Leitersdorf, disse che il suo posizionamento nella parte centrale della Cisgiordania era “senza dubbio, politico …(e) accuratamente prefissato – il luogo più distante da Israele che fosse plausibilmente possibile.”

Nel tentativo di creare concreti “fatti sul terreno”, a Ma’ale Adumim vennero fornite tutte le risorse necessarie e si sviluppò alla velocità della luce. In un periodo di tre anni gli urbanisti israeliani costruirono una cittadina composta da migliaia di appartamenti identici. Una pianificazione così rigida, in cui ogni casa è una copia esatta della successiva, è, nelle parole di Dana Erekat [architetta ed urbanista palestinese, ndt.] “la quintessenza del colonialismo di popolamento. È egemonia colonialista” – in contrasto con lo sviluppo organico del paesaggio palestinese circostante.

Il governo israeliano intendeva aumentare il numero di ebrei israeliani all’interno ed attorno alla città, anche finanziando la colonia e incentivando i propri cittadini a sistemarvisi. Il principale obiettivo era appoggiare la migrazione di coppie giovani di classe media, offrendo loro migliori condizioni abitative vicino a Gerusalemme ad un costo significativamente inferiore. Questi coloni non ideologizzati erano spinti dal desiderio di una migliore qualità di vita. Oggi la ripartizione demografica è circa di [abitanti] per il 75% laici e per il 25% religiosi2.

Dal 1975 Ma’ale Adumim è diventata una vera e propria città, con una biblioteca, un teatro, un’area industriale, centri commerciali, 15 scuole e 78 asili. Circa il 70% degli abitanti si reca a Gerusalemme per lavoro, senza quasi neanche accorgendosi di attraversare un territorio occupato.

Ma’ale Adumim, insieme a colonie vicine che sono spuntate tutto intorno, forma una zona edificata impattante che si frappone al paesaggio palestinese e isola i palestinesi dalla loro capitale e tra loro. È il gioiello nella corona del progetto di colonizzazione israeliana.

Gli effetti devastanti dell’annessione della E1.

Qualunque annessione di Ma’ale Adumim e di altre parti della Cisgiordania dipenderebbe dall’acquisizione di una parte strategicamente significativa della terra nota come E1. Il corridoio E1misura approssimativamente 12 km2 e si trova all’interno dell’Area C controllata da Israele, tra Gerusalemme e Ma’ale Adumim. Il principale obiettivo di Israele nell’acquisizione dell’E1 è garantire la continuità territoriale tra Ma’ale Adumim ed Israele, creando un blocco urbano ebraico tra Ma’ale Adumim e Gerusalemme. Ciò rafforzerebbe il controllo di Israele su Gerusalemme est, schiacciando i suoi distretti palestinesi tra quartieri ebraici e rendendo lo schema dei due Stati ancor meno possibile.

Il membro della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] Naftali Bennett (Casa Ebraica [partito di estrema destra dei coloni, ndt.]), ministro dell’Educazione di destra, ha parlato di annettere Ma’ale Adumim e l’E1. In preparazione della presentazione di una legge per l’annessione, nel 2017 ha dichiarato che “evidentemente è tempo di un cambiamento quantistico… L’approccio incrementale non ha funzionato. Dobbiamo comprendere che è una nuova situazione. Dobbiamo fare le cose in grande, con coraggio e in fretta.” Questa “nuova situazione” è un primo passo verso la totale annessione della Cisgiordania.

L’E1 non è semplicemente una fascia di terra, ma è anche destinata alla colonizzazione. Il primo ministro Yitzhak Rabin (1992-95) estese il confine di Ma’ale Adumim per mettere l’E1 sotto il suo controllo – coprendo circa 4.800 ettari – ed ogni primo ministro israeliano dopo Rabin ha tentato di costruire blocchi di edifici nella zona. Il piano generale dell’E1 (piano n° 420/4) ha ricevuto l’approvazione nel 1999 ed è diviso in piani dettagliati separati, che coprono circa 1.200 ettari di terreno, la maggior parte dei quali sono stati dichiarati da Israele “terra dello Stato”. Attualmente una riserva d’acqua, una zona industriale e una stazione di polizia sono state sottoposte a controllo pubblico e costruite. Inoltre la maggior parte delle infrastrutture per i servizi è già stata realizzata, comprese strade asfaltate, muri di sostegno, rotonde e illuminazione delle strade, per oltre 5.5 milioni di dollari.

Tali infrastrutture sono in previsione di una nuova colonia israeliana chiamata “Mevaseret Adumim”, che includerebbe 3.500 unità abitative nella sua zona residenziale. Apparentemente intesa per alleviare la carenza di abitazioni a Ma’ale Adumim e offrire servizi regionali e strutture commerciali e turistiche, in sostanza incrementerebbe la popolazione ebraica nella zona di Gerusalemme. “Mevaseret Adumim” è diventata un grido di battaglia della destra israeliana in Israele. Netanyahu ha ripetutamente promesso di costruirla – sotto la pressione sia dei gruppi di destra che dell’astuto sindaco di Ma’ale Adumim, Benny Kasriel.

L’effetto dell’annessione e/o colonizzazione nel corridoio E1 sarebbe devastante. In primo luogo creerebbe una “punta sporgente” a metà strada attraverso il punto più stretto della Cisgiordania (28 km tra est e ovest). Ciò taglierebbe la strada tra Ramallah e Betlemme, interromperebbe la contiguità territoriale tra la Cisgiordania settentrionale e quella meridionale e in ultima analisi porrebbe fine alle speranze di uno schema a due Stati.

In secondo luogo isolerebbe ulteriormente i palestinesi di Gerusalemme e separerebbe i palestinesi della Cisgiordania da Gerusalemme. Per molti palestinesi dei TPO Gerusalemme è il centro economico e culturale. La costruzione del “Muro di Separazione” attraverso parti della Cisgiordania e attorno all’anello delle colonie attualmente esistenti ha già negato ai palestinesi l’accesso a Gerusalemme. I palestinesi con la carta d’identità della Cisgiordania non possono più commerciare, studiare, ricevere cure mediche o visitare amici e familiari senza un permesso dell’apparato di sicurezza israeliano.

Oltretutto non dovrebbe essere trascurato il significato religioso di tale annessione. Gerusalemme è la sede di molti dei luoghi religiosi più sacri per i palestinesi musulmani e cristiani, compresa la “Spianata delle Moschee” (dove si trova la moschea di Al-Aqsa) e la chiesa del Sacro Sepolcro. L’annessione non farebbe che esasperare le restrizioni religiose imposte sui palestinesi, a cui viene negato il diritto di pregare liberamente nei luoghi santi.

Inoltre l’E1 è disseminata di enclave di circa 77.5 ettari di terra palestinese di proprietà privata. Dato che Israele non è stato in grado di dichiararle “terra dello Stato”, non sono ufficialmente incluse nell’annessione o nei piani di colonizzazione. Qualunque costruzione di insediamenti nell’E1 le circonderebbe inevitabilmente con zone ebraiche israeliane edificate, limitando la possibilità dei proprietari palestinesi di accedervi e coltivare i loro campi.

Ciò inciderebbe sulle infrastrutture locali. Per esempio, le strade attualmente utilizzate dai palestinesi diventerebbero, come nel caso di altre colonie, strade locali per l’uso dei coloni e verrebbe negato l’accesso ai palestinesi. Un rapporto dell’Ong israeliana B’Tselem afferma che, se non venissero costruite strade alternative, il divieto di accesso ridurrebbe notevolmente la libertà di movimento dei palestinesi nella già ridotta area.

Riconoscendo le conseguenze spaziali, politiche e diplomatiche del fatto di tagliare a metà la Cisgiordania, Israele sta costruendo la “Circonvallazione orientale” nei pressi di Gerusalemme. Soprannominata la “strada dell’apartheid” a causa del muro che corre a metà separando automobilisti israeliani e palestinesi, intende agevolare gli spostamenti dei palestinesi tra il nord e il sud della Cisgiordania per garantire la “contiguità dei trasporti”. Ma è anche intesa a collegare meglio le colonie israeliane a Gerusalemme, impedendo agli automobilisti palestinesi di accedere a Gerusalemme. Le implicazioni della strada sono devastanti per la libertà di movimento dei palestinesi e per il loro eventuale futuro “Stato”.

Insomma, la contestata annessione del corridoio E1 intende inserire formalmente Ma’ale Adumim nell’enclave di Gerusalemme, dividendo diagonalmente il territorio e tagliando anche fuori i palestinesi da Gerusalemme – quella che dovrebbe essere la loro capitale. Espellerebbe anche comunità palestinesi che hanno vissuto lì da generazioni.

Trasferimento di popolazione

La messa in pratica delle intenzioni di annessione/colonizzazione dell’E1 richiederebbe l’immediata espulsione dei beduini che vivono sulla terra, una violazione delle leggi internazionali. Attualmente ci sono circa 2.700 beduini, la metà dei quali sono bambini, nei pressi di Ma’ale Adumim. La maggioranza di queste comunità fa parte della tribù Jahalin.

Benché i beduini abbiano vissuto dagli anni ’50 su quella terra – che Israele ha destinato loro dopo averli espulsi dalla zona di Tel Arad, nel Negev – l’amministrazione civile [in realtà il governo militare israeliano, ndt.] (che gestisce le attività nei TPO) ha stabilito che essi non possano fare costruzioni considerate “legali” da Israele. Le autorità israeliane hanno anche privato deliberatamente i Jahalin dell’accesso a servizi fondamentali, come acqua ed elettricità, per rendere insopportabile la loro vita sul territorio. Non gli viene consentito di lavorare o di costruire sulla terra. Oltretutto l’esercito israeliano limita la loro possibilità di accedere alle loro terre per pascolare le greggi, obbligandoli a dipendere dall’acquisto di costoso foraggio per le pecore. Alcuni pastori sono stati obbligati a vendere le proprie greggi, con il risultato che solo il 30% dei residenti continua a guadagnarsi da vivere con l’allevamento. Gli altri lavorano come braccianti, anche nelle colonie vicine.

Tentativi da parte di stranieri di migliorare la situazione dei beduini sono stati ostacolati. Nel marzo 2017 Israele ha emanato 42 ordini di demolizione contro il misero villaggio di Khan al-Ahmar nell’E1, facendo arrabbiare l’Unione Europea, che aveva finanziato molti degli edifici del villaggio, compresa una scuola che ospitava più di 150 bambini dai sei a quindici anni – alcuni di comunità vicine3. Nel settembre 2017 a Khan al-Ahmar vivono 21 famiglie che rappresentano 146 persone, compresi 85 minori.

In base agli attuali progetti dell’E1, i Jahalin devono essere espulsi e ricollocati in tre baraccopoli. Ciò costringe i beduini a uno stile di vita che è in totale contrasto con il loro nomadismo. Nel contesto dell’occupazione militare ogni trasferimento di “persone protette” – come queste comunità – compresa la confisca e la distruzione di proprietà da parte del potere occupante, rappresenta una grave violazione delle leggi internazionali4. Per estensione, ogni progetto militare inteso a deportare permanentemente persone sotto occupazione è un crimine di guerra5. Eppure, nonostante il chiaro contesto giuridico internazionale che condanna queste pratiche, i tentativi israeliani di spostare i beduini continuano – utilizzando leggi interne come mezzo per occultare le rivendicazioni di beduini e palestinesi sulla terra6.

Suggerimenti

L’annessione dell’E1 e di Ma’ale Adumim altererebbe in modo drammatico la situazione geopolitica in Palestina-Israele. Non solo sancirebbe l’”ebraicizzazione” di Gerusalemme da parte di Israele, ma metterebbe a repentaglio il futuro Stato palestinese definito dagli accordi di Oslo. Queste tensioni si manifestano continuamente nella Knesset, nel congresso USA, alle Nazioni Unite, all’Unione Europea, sui media e più generalmente nel campo umanitario. Le molte parti coinvolte nel progetto di annessione di Ma’ale Adumim la rendono una perenne fonte di discussioni, contrasti e resistenza.

La comunità internazionale, l’ANP e la società civile palestinese possono prendere iniziative per bloccare questa flagrante violazione delle leggi internazionali:

  • Dato che è evidente che l’amministrazione Trump non sarà la forza di contenzione della coalizione di destra alla Knesset, Nazioni diverse dagli USA così come istituzioni internazionali devono esercitare pressioni sul governo israeliano per fare in modo che ogni legge di annessione risulti onerosa. La società civile palestinese e il movimento di solidarietà con la Palestina nelle loro attuali e future campagne con i parlamentari devono approfondire la sensibilizzazione su quanto il progetto di colonizzazione israeliano sia vicino al punto di non ritorno.

  • L’UE dovrebbe andare oltre le frasi fatte di condanna quando la sua assistenza umanitaria a comunità vulnerabili è confiscata o distrutta. Dovrebbe rendere responsabile attivamente Israele con pressioni diplomatiche, come il riconoscimento dello Stato palestinese. Allo stesso tempo il movimento di solidarietà con la Palestina dovrebbe identificare modi per fare pressione sull’UE spingendola ad attenersi alle sue stesse regole e ai suoi obblighi in base alle leggi internazionali.

  • L’ANP dovrebbe chiarire che la messa in atto di qualunque legge per l’annessione rappresenterebbe la linea rossa che, se superata, metterebbe fine a qualunque cooperazione tra l’ANP ed Israele. Un movimento di base organizzato dovrebbe sia far pressione sull’ANP che rafforzare la propria azione.

  • L’ANP dovrebbe creare un proprio progetto territoriale della zona tra Gerusalemme e Ma’ale Adumim, appoggiata da fatti che sottolineino l’importanza dell’area per l’esistenza di un futuro Stato palestinese. Questa visione alternativa dovrebbe essere creata da geografi, urbanisti e gruppi di ricercatori palestinesi.

La valanga di recenti leggi è semplicemente l’ultimo esempio del furto di terra palestinese da parte di Israele e del processo di colonizzazione sionista che ha avuto inizio da prima della fondazione dello Stato di Israele. Benché sia improbabile che la realizzazione di questi suggerimenti bloccherebbe Israele nella sua missione ideologica di “ebraicizzare” tutta la Palestina-Israele, tali iniziative potrebbero sfruttare il sentimento filo-palestinese raccogliendo impulso in Occidente e richiamare all’ordine Israele per la sua occupazione consolidata e per le pratiche di colonizzazione.

Note

  1. La legge è stata proposta dai membri della Knesset Yoav Kish (Likud) e Bezalel Smotrich (Jewish Home) ed appoggiata dal ministro dei Trasporti Yisrael Katz (Likud) e dal primo ministro Benjamin Netanyahu (Likud).

  2. Sebbene in Cisgiordania le colonie rurali superino quelle urbane di 94 a 50, il numero di coloni israeliani che vivono in insediamenti urbani è di circa 477.000, più di otto volte quello dei coloni israeliani in colonie rurali, che è di circa 60.000.

  3. L’UE ha invitato Israele ad “accelerare l’approvazione di piani regolatori palestinesi, interrompere la deportazione forzata di popolazione e le demolizioni di case ed infrastrutture palestinesi, semplificare le procedure amministrative per ottenere concessioni edilizie, garantire l’accesso all’acqua e a soddisfare le necessità umanitarie.”

  4. Le leggi umanitarie internazionali proibiscono il trasferimento forzato se non per la sicurezza degli abitanti o per urgenti necessità militari.

  5. Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale stabilisce che il trasferimento forzato di popolazione include “minaccia dell’uso della forza o coercizione, come quella provocata dalla paura di essere vittima di violenze, di costrizione, di detenzione, di oppressione psicologica o di abuso di potere contro una o più persone o altre persone, o approfittando di un contesto di coercizione.”

  6. Questa prassi di trasferimento di popolazione trova riscontro all’interno della Linea Verde. I beduini che vivono nei cosiddetti “villaggi non riconosciuti” nel deserto del Naqab/Negev sono perennemente a rischio di “ricollocazione”. Più di recente le autorità israeliane hanno annunciato l’espulsione degli abitanti della cittadina beduina di Umm Al-Hiran per fare spazio alla cittadina ebraica chiamata Hiran.

Zena Agha è la collaboratrice politica per gli USA di Al-Shabaka, la rete politica palestinese. L’esperienza di Zena si concentra sulla politica, la diplomazia e il giornalismo. In precedenza ha lavorato all’ambasciata irachena di Parigi, alla delegazione palestinese all’UNESCO e a “The Economist”. Oltre a editoriali su “The Independent”, le esperienze mediatiche di Zena includono El Pais, PRI’s the World, il BBC World Service e BBC Arabic. Zena è stata premiata con una borsa di studio Kennedy per frequentare l’università di Harvard, dove ha completato un master in studi sul Medio Oriente. I suoi principali interessi di ricerca includono la storia moderna del Medio Oriente, la memoria e la produzione narrativa, le pratiche territoriali.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Perché l’esercito israeliano ha confiscato i soldi della figlia di un palestinese cieca e in lutto?

Amira Hass

3 aprile 2018, Haaretz

L’esercito israeliano ha confiscato il denaro di Yasmin Eshtayyeh a un valico di frontiera, definendolo “denaro terrorista” – senza prove, interrogatori o processi. Lei non ha permesso che le avversità le impedissero di lottare per riaverlo.

Circa 5.000 shekel (1.425 dollari) mi hanno portato a Yasmin Eshtayyeh; più precisamente, una combinazione di 357 dollari, 500 shekel e 668 dinari giordani. Sono le valute e gli importi che le autorità israeliane al valico di confine con la Giordania hanno tolto, sequestrato e confiscato dalle borse di Eshtayyeh e di sua sorella Suhad nel 2013. Lo scorso 14 febbraio, un anonimo soldato dell’ufficio del difensore civico della direzione del Comando Centrale delle Forze di Difesa Israeliane ha stabilito che Eshtayyeh non ha il diritto di appello o obiezione. Fine della discussione.

E immediatamente, dietro un’esile storia di israeliani che confiscano denaro, è apparsa l’intera vita di una giovane donna di 31 anni cieca dalla nascita. La memoria le dice che si è accorta di essere diversa solo a 5 anni. I suoi genitori, e in particolare suo padre, Sael, l’hanno circondata e coccolata protettivamente. Sua madre, Muna, l’ha sempre lavata e vestita (ancor oggi sua madre le sceglie i vestiti).

Una volta, una cuginetta andò a trovarla e fecero il bagno insieme. All’improvviso la cugina scomparve. Dov’era? Era andata a vestirsi. E fu allora che Yasmin, 5 anni, capì che i bambini della sua età si vestivano da soli. Poi, o prima, notò anche che per strada gli altri bambini correvano, saltavano, andavano al supermercato da soli, mentre lei – qualcuno la teneva sempre per mano. Gli indizi erano sempre più numerosi. Il concetto di vista non le era ancora del tutto chiaro, ma lo era la sua differenza dagli altri.

La coscienza dell’esistenza di un’entità suprema che tutto governa ha preceduto la sua consapevolezza della cecità e del senso della vista. Almeno questo è quello che le dice la memoria. All’età di 4 anni o giù di lì – nel 1991 – la famiglia era seduta nel cortile di casa nel villaggio di Salem, a est di Nablus.

“All’improvviso qualcuno ha gridato: ‘Vieni qui, altrimenti sparo'”, racconta. Il “vieni qui” era in ebraico, il resto in arabo. Sapeva già cosa fosse sparare. A quanto pare aveva anche sentito la parola “esercito”. I colpi sull’asfalto che aveva sentito, lo sapeva, erano pietre lanciate dai bambini. Le parole non si erano ancora trasformate in un concetto completo. Quello fu il suo primo incontro cosciente con la voce di un soldato, rappresentante del dominio in terra.

“Pensavo che un soldato fosse un essere gigantesco”, ricorda. “Più grande delle persone normali. Non capivo come potesse comportarsi in questo modo, contro gli esseri umani.” Come per molti altri, “ebreo” e “soldato” divennero sinonimi nel suo lessico. Fu la più grande tragedia della sua vita, a 17 anni, a permetterle di distinguere tra i due.

Richiesta respinta”

Non dimenticherà mai il soldato di nome Uri. “Uno dei peggiori che ho visto nella mia vita”, dice. Usando proprio questa parola: “visto”. Nel dicembre 2013 partecipava con altre donne palestinesi ad un incontro ad Amman sul progresso dei diritti delle donne disabili in Medio Oriente. La ragazza che aveva scoperto solo a 5 anni che le bambine si vestono da sole era ora titolare di un master in inglese e in traduzione, e abile rappresentante delle donne disabili che vogliono integrarsi nella società e nel lavoro.

Eshtayyeh lavorava per l’organizzazione palestinese ‘Stars of Hope’, fondata per promuovere l’integrazione delle donne con disabilità, e ha rappresentato l’organizzazione ad una conferenza sotto l’egida delle Nazioni Unite in dicembre. Sua sorella si è unita a lei come accompagnatrice. Quando sono tornate, il 22 dicembre, le altre donne hanno attraversato il valico al-Karameh (“dignità” in arabo) (noto anche come il valico di Allenby) senza incidenti ma, con loro grande stupore, lei e sua sorella sono state trattenute.

Furono fermate al controllo dei passaporti, fu loro chiesto di rimuovere i copricapo e i cappotti e di togliersi le scarpe. Furono perquisite corporalmente e furono presi loro i soldi trovati nelle borse. Eshtayyeh racconta della stanza angusta in cui furono portate, dell’acqua potabile che non venne loro offerta e del bagno a cui non fu loro permesso di andare, e del soldato Uri, che non le lasciava muovere, e gli urlava contro. C’era anche un poliziotto israeliano che si presentò come Ahmed. “Mi disse: ‘Siamo preoccupati che qualcuno di Hamas possa usarti.’ Risposi che avevo studiato all’università, viaggiato all’estero e lavorato, e che non avevo mai permesso a nessuno di approfittarsi di me.”

Furono interrogate sulla provenienza del denaro. La risposta era facile: 500 shekel (attualmente $ 142) e altri 98 dinari ($ 138) provenivano dal suo stipendio alla Birzeit University, dove lavorava come consulente presso il Center for Development Studies. Era molto orgogliosa di potersi mantenere e aiutare la famiglia. Aveva ricevuto altri dollari da ‘Stars of Hope’ per coprire le spese del viaggio, e avrebbe dovuto restituire quanto rimasto. Il denaro preso a sua sorella veniva da alcune ragazze e donne della famiglia che volevano gli comprassero dei cosmetici nella capitale giordana. Ma le giornate alla conferenza erano state più lunghe e intense di quanto ci si aspettasse, avevano avuto poco tempo per fare compere e, soprattutto, avevano scoperto che Amman non era meno cara.

Nonostante le spiegazioni, prima che se ne andassero fu consegnata loro una notifica della polizia israeliana in cui si dichiarava che i loro soldi erano stati sequestrati “per via del sospetto trasferimento di fondi collegati a un’associazione illegale, e il comandante delle forze israeliane in Giudea e Samaria [ la Cisgiordania] intende confiscare il denaro sequestrato”. Verso le 01:30, di quel giorno di dicembre di quattro anni fa, dopo un ritardo di otto ore, fu loro permesso di lasciare il terminal vuoto. Pregarono che gli fossero lasciati un po’ di soldi per poter prendere un taxi per tornare a casa. Quelli che avevano preso i loro soldi rifiutarono. Allora aspettarono qualche ora in più che uno zio arrivasse in macchina nel mezzo della notte dall’area di Nablus per venirle a prendere.

Quello fu l’inizio di una saga burocratica e legale che continua fino ad oggi, che ha introdotto nella vita di Yasmin Eshtayyeh non solo soldati e agenti di polizia ma anche i giudici della Corte Suprema Elyakim Rubinstein (ora in pensione), Noam Sohlberg e Menachem Mazuz.

Due amici israeliani hanno scritto al consulente legale militare in Giudea e Samaria, chiedendo che i soldi fossero restituiti. La risposta del consulente legale è arrivata l’8 aprile 2014. Dichiarava che solo un giorno prima, cioè il 7 aprile, era stato emesso un ordine di confisca del denaro, “alla luce della presentazione di informazioni di intelligence affidabili e comprovate.” Senza prove, senza evidenze, senza spiegazioni né dettagli, senza ascoltare ciò che le donne avevano da dire. Non sono state arrestate, non sono state convocate per un interrogatorio sul reato che avrebbero presumibilmente commesso, non sono state processate.

Fino al 25 dicembre 2013, i palestinesi le cui proprietà fossero state confiscate per ordine del comandante militare potevano almeno ricorrere a un tribunale militare. Ma quel giorno il maggiore Gen. Nitzan Alon, all’epoca capo del Comando centrale e sovrano in Cisgiordania, firmò un ordine che privava i tribunali militari di tale autorità ed esonerava quindi i confiscatori dal dover fornire una parvenza di prova e trasparenza.

In una società in cui famiglie anche numerose dipendono da un solo stipendio, dove il salario minimo mensile è di 1.400 shekel ($ 405), e molte donne guadagnano anche meno di questo, 5.000 shekel ($ 1.425) sono una grande quantità di denaro. Le sorelle si sono rivolte a Yesh Din: Volunteers for Human Rights, un’organizzazione che opera in Israele e in Cisgiordania. Gli avvocati di Yesh Din Michael Sfard, Emily Schaeffer Omer-Man e Noa Amrami hanno presentato una petizione all’Alta Corte di Giustizia a loro nome. La petizione sosteneva che l’ordine di confisca era illegale, così come la negazione del diritto di ricorso. L’Alta Corte ha unito la loro petizione a due casi simili. I giudici non hanno nemmeno considerato i casi di confisca nelle petizioni e hanno stabilito che non vi fosse alcun impedimento legale nell’ordine del capo del Comando centrale che negava il diritto di appello. Allo stesso tempo, hanno suggerito che l’esercito rendesse possibile “un forum di opposizione o appello sulle decisioni di confisca”, per ridurre il numero di petizioni all’Alta Corte. Pensavano che i casi specifici che erano stati loro sottoposti avrebbero potuto essere risolti nel quadro di un simile “forum”.

L’esercito ha accettato la proposta, con una differenza sostanziale: è stata debitamente istituita una commissione composta da rappresentanti dell’ufficio dell’avvocato militare, del Corpo di intelligence e dell’Amministrazione civile, ma la sua autorità è stata limitata a discutere di “sequestro di oggetti”, una fase precedente alla confisca. Chiunque la cui proprietà fosse già stata dichiarata confiscata avrebbe dovuto dirle addio. Lo scorso maggio, i giudici hanno espresso soddisfazione, hanno dichiarato che la petizione aveva “raggiunto un obiettivo importante” e ordinato allo stato di pagare ai rappresentanti dei tre ricorrenti le spese legali di 10.000 shekel ($ 2.850).

Per Yasmin e Suhad Eshtayyeh questo era un risultato kafkiano. Grazie alla loro e ad altre petizioni, i giudici avevano suggerito che l’ordine fosse emendato ed è stata istituita una commissione militare per ascoltare le obiezioni, ma esse stesse non potevano comparire dinanzi alla commissione perché i loro soldi erano già stati dichiarati “confiscati”. Sfard e un altro avvocato di Yesh Din, Sophia Brodsky, hanno chiesto a un rappresentante del pubblico ministero, l’avvocato Roy Shweika, di trovare una via d’uscita. Questi ha rifiutato. Hanno chiesto un chiarimento al tribunale, che aveva erroneamente pensato che il verdetto avesse suggerito una soluzione anche per i ricorrenti. Lo scorso novembre, il giudice Sohlberg ha stabilito che, per quanto lo riguardava, le sorelle potevano presentare una nuova petizione. In altre parole, altre spese legali da pagare, e altro impegno. Più tempo e risorse mentali e materiali sprecate.

Gli avvocati quindi hanno scritto all’attuale capo del Comando Centrale, il generale maggiore Roni Numa, e al consigliere legale, tenente generale Eyal Toledano, nella speranza che forse avrebbero accettato di essere più flessibili, revocare l’ordine di confisca e consentire alle sorelle di presentare la loro obiezione alla commissione che era stata istituita grazie alla loro petizione. Ma il soldato anonimo dell’ufficio del difensore civico nell’ufficio del consulente legale, che ha risposto il mese scorso, si è attenuto ad una spiegazione che si morde la coda: le informazioni che hanno portato alla confisca (senza il diritto di appello) erano solide e affidabili, la commissione discute solo ricorsi sui sequestri prima della confisca. “Il caso del vostro cliente non è compatibile con l’autorità della commissione.” Richiesta negata.

L’Unità Portavoce dell’esercito israeliano, rispondendo a una richiesta di chiarificazioni, ha detto ad Haaretz: “Nel 2014, i soldi confiscati ai palestinesi citati nell’articolo, secondo informazioni attendibili, erano denaro del terrorismo proveniente dall’organizzazione di Hamas”. Tra l’altro, Hamas non è mai stato menzionato nelle notifiche ufficiali che le due hanno ricevuto.

Vedere il mare

“Sappiamo che il cambiamento è possibile”, afferma la “Guida per la sensibilizzazione (pubblica) e la difesa dei soggetti disabili: concetti e relativa applicazione”, pubblicata dal Centro di studi sullo sviluppo della Birzeit University. Yasmin Eshtayyeh è uno degli autori della guida. Il centro unisce lo sviluppo del pensiero teorico all’attività pubblica e sociale. Yasmin vi ha lavorato come consulente in un progetto che è durato circa un anno e mezzo, sull’atteggiamento della società nei confronti delle persone con disabilità. La guida menziona, come prova della possibilità di cambiare, le attività delle associazioni palestinesi di persone disabili e una legge palestinese del 1999 che chiarisce i loro diritti. Nell’aprile 2015, ha preso parte a un evento pubblico in cui ha parlato di come le persone possano aiutare il cambiamento col loro crederci. L’occasione era l’annuale cerimonia del Memorial Day tenuta dall’organizzazione israelo-palestinese Combatants for Peace (Combattenti per la Pace), a cui era stata invitata come figlia in lutto: un colono di Itamar, Yehoshua Elitzur, aveva assassinato suo padre Sael il 27 settembre 2004.

Nel suo discorso ha dichiarato: “La rabbia e l’odio che mi accompagnavano avrebbero probabilmente continuato a perseguitarmi se non avessi incontrato altri ebrei”. Pochi giorni dopo l’omicidio di suo padre, gli attivisti del ‘Villages Group’ (associazione di israeliani e palestinesi finalizzata a sviluppare reciproci rapporti umani, ndtr.) in Israele si sono recati nel suo villaggio per esprimere le loro condoglianze e la loro rabbia. Eshtayyeh ha detto al pubblico alla cerimonia che in un primo momento si era rifiutata di stringere la mano a una delle attiviste, “perché era ebrea.” Gradualmente, ha ceduto e ha conosciuto altri membri del gruppo di attivisti. Loro e altri ebrei israeliani l’hanno portata a credere nei cambiamenti che possono promuovere le persone. Al villaggio uno degli attivisti ha dato lezioni di musica. Eshtayyeh è stata invitata come interprete. Si è innamorata dell’arpa, che le ha permesso di “vedere il mare, dove non sono mai andata”, e ha cominciato a imparare a suonare lo strumento.

Dopo la cerimonia si è unita al Parents Circle-Families Forum (il forum delle famiglie in lutto) e da allora ne è membro attivo.

Suo padre ha lavorato per 18 anni in una società con sede a Rishon Letzion che distribuisce bombole di gas da cucina. Fu licenziato da quel lavoro durante la seconda intifada. All’età di 46 anni, ha iniziato a lavorare come conducente di un taxi collettivo. Ai tempi dei blocchi stradali e delle strade chiuse ai palestinesi, ciò significava viaggiare su strade sterrate e superare le lunghe code ai posti di blocco per portare la gente al lavoro, a scuola, al mercato e alle cliniche mediche.

Alla cerimonia commemorativa ha detto: “Mio padre era l’unico a provvedere per noi. E il peggior incubo della nostra vita accadde il 27 settembre 2004. Mio padre andò a lavorare come faceva ogni giorno, e quando imboccò una tangenziale costruita dai coloni, in modo che potessero viaggiare senza sfiorare i palestinesi, un colono lo attaccò e gli sparò al cuore. L’assassino è un tedesco che si è convertito al giudaismo e vive in un avamposto di coloni vicino a Itamar.

L’assassino, che fu condannato per omicidio colposo, fu per qualche ragione messo agli arresti domiciliari dopo l’omicidio e di nuovo dopo la condanna. Prima che la sentenza fosse pronunciata, scomparve. Il corrispondente di Haaretz Shay Fogelman lo ha cercato, in un viaggio labirintico che combinava il lavoro investigativo con la storia, a cui ha dedicato cinque anni della sua vita e che si è trasformata in un film che sarebbe stato proiettato pochi mesi dopo. Nel frattempo, Yehoshua Elitzur è stato rintracciato in Brasile, da cui è stato estradato in Israele a metà gennaio di quest’anno. Ora è in prigione, in attesa della condanna.

La caccia a Elitzur ha portato Fogelman vicino alla famiglia Eshtayyeh. Yasmin lo ricorda con particolare affetto. È stato testimone dell’assurda situazione in cui si trovano molte famiglie palestinesi i cui cari siano stati uccisi da soldati o civili israeliani: il servizio di sicurezza Shin Bet e l’esercito li considerano “pericolosi”. La conseguenza è che quasi ogni anno i soldati vengono mandati a irrompere nella casa della famiglia di Yasmin nel cuore della notte a fare perquisizioni. “Va bene che perquisiscano, ma lasciano sempre dietro di sé cose rotte e un gran casino”, dice.

Due anni fa, Eshtayyeh e suo fratello minore, Mohammed, anche lui cieco dalla nascita, sono andati allo Sheba Medical Center di Tel Hashomer per una visita oculistica speciale. I due potrebbero essere idonei all’impianto di un dispositivo che consenta loro di vedere. La madre, che ha 57 anni, li ha accompagnati. Al checkpoint le è stato detto: “Accesso negato”. I due hanno aspettato che degli amici del forum delle famiglie delle vittime venissero a accompagnarli. Da quando ha intensificato la sua attività nel forum, anche Yasmin è stata aggiunta alla lista dei palestinesi cui viene negato l’ingresso in Israele, dopo molti anni in cui ha sempre ottenuto i permessi.

Nonostante i suoi titoli accademici e il successo in progetti a tempo definito, Eshtayyeh non riesce a trovare un lavoro fisso – il suo più grande desiderio. L’implementazione della legge palestinese per l’integrazione dei disabili nella società è in ritardo, afferma, e le persone con disabilità continuano a sentirsi discriminate. Anche quelli che ci vedono e non hanno bisogno di usare una sedia a rotelle spesso hanno bisogno di appoggi per trovare un lavoro. La discriminazione contro le donne con disabilità è ancora più acuta e le diffidenze della società sono ancora più forti: una donna cieca ha poche possibilità di crescere una famiglia.

Eppure, raccontami dei giorni felici della tua vita, le ho chiesto qualche settimana fa mentre eravamo sedute sulla veranda della loro casa. Un grande sorriso ha illuminato la sua faccia: “I due giorni più felici della mia vita sono state le feste che la mamma ha organizzato per me in onore della mia prima laurea, in lingua e letteratura inglese, e poi per la mia seconda laurea, in traduzione”, ha detto. C’erano tutti e di tutto. Le danze popolari di Debka, i fuochi d’artificio, i vestiti delle feste, una pettinatura speciale sotto il fazzoletto e decine di persone della famiglia e del villaggio venute a condividere la sua gioia e il suo orgoglio.

(Traduzione di Luciana Galliano)

 




B’Tselem esorta i soldati a rifiutarsi di sparare sui manifestanti a Gaza: sparare a manifestanti disarmati è illegale, e l’ordine di farlo è totalmente illegale

4 aprile 2018, B’Tselem

Domani (giovedì 5) B’Tselem lancerà una campagna dal titolo “Mi spiace, comandante, non posso sparare”. La campagna prevede annunci sui giornali che spiegano ai soldati che devono rifiutarsi di aprire il fuoco su dimostranti disarmati. L’organizzazione intraprende questo insolito passo dopo gli eventi di venerdì scorso, quando i soldati hanno sparato vere pallottole contro manifestanti disarmati. Su 17 palestinesi uccisi quel giorno, almeno 12 sono stati uccisi durante le proteste. Altre centinaia sono stati feriti da colpi di arma da fuoco.

Le forze armate si stanno preparando alle manifestazioni, ma invece di tentare di ridurre il numero di morti o feriti, fonti ufficiali hanno annunciato in anticipo che i soldati faranno fuoco contro i manifestanti anche se si trovano a centinaia di metri dal confine. B’Tselem ha messo in guardia dal verosimile risultato di questa politica e ora, in vista delle manifestazioni previste questo venerdì, sta nuovamente specificando che sparare a manifestanti disarmati è illegale e che gli ordini di sparare in tal modo sono manifestamente illegali.

La responsabilità di diramare questi ordini illegali e le loro conseguenze letali ricadono sui responsabili politici e, soprattutto, sul primo ministro israeliano, sul ministro della difesa e sul capo di stato maggiore. Sono sempre loro che hanno anche l’obbligo di modificare queste regole immediatamente, prima delle proteste pianificate per questo venerdì, al fine di evitare ulteriori vittime. Detto questo, è comunque un reato osservare degli ordini palesemente illegali. Pertanto, fino a quando i soldati sul campo continueranno a ricevere l’ordine di fare fuoco contro civili disarmati, hanno il dovere di rifiutarsi di obbedire.

B’Tselem vuole sottolineare che l’illegalità di tali ordini “non è una questione di forma, né trascurabile, né parzialmente opinabile”. Al contrario, si tratta di “un’illegalità inconfondibile palesemente evidente nell’ordine stesso, è un comando di natura chiaramente criminale o tale che le azioni che ordina sono chiaramente di natura criminale. È un’illegalità che offende l’occhio e oltraggia il cuore, se l’occhio non è cieco e il cuore non è insensibile o corrotto “.

Contrariamente all’impressione che danno gli alti ufficiali militari e i ministri del governo, all’esercito non è permesso agire come meglio crede, né Israele può determinare da solo ciò che è lecito e ciò che non lo è quando si tratta di manifestanti. Come per tutti i paesi, le azioni di Israele sono soggette alle disposizioni del diritto internazionale e alle restrizioni imposte sull’uso delle armi, e in particolare sull’uso dei proiettili. Le disposizioni ne limitano l’uso a casi che comportino un pericolo mortale tangibile e immediato e solo in assenza di altre alternative. Israele non può semplicemente decidere di svincolarsi da queste regole.

L’uso di munizioni vere è palesemente illegale nel caso di soldati che sparino da una grande distanza contro manifestanti situati dall’altra parte della recinzione che separa Israele dalla Striscia di Gaza. Inoltre, non è consentito ordinare ai soldati di sparare munizioni vere a persone che si avvicinano alla recinzione, la danneggiano o tentano di attraversarla. Ovviamente, l’esercito è autorizzato a prevenire tali azioni, e persino ad arrestare persone che tentino di eseguirle, ma gli è assolutamente proibito sparare vere munizioni solo per questi motivi.

(traduzione. di Luciana Galliano)




A Gaza Israele va oltre la sua consueta ferocia

Amira Hass

3 aprile 2018, Haaretz

Gli israeliani si sono assuefatti ai riferimenti storici; non c’è da meravigliarsi che possano giustificare il fuoco omicida contro dimostranti disarmati.

Nella Striscia di Gaza Israele mostra il peggio di sé. Questa affermazione non intende in nessun modo sminuire la ferocia, sia deliberata che accidentale, che caratterizza la sua politica verso gli altri palestinesi – in Israele e in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est. Né ridimensiona gli orrori dei suoi attacchi di rappresaglia (alias operazioni militari) in Cisgiordania prima del 1967 o le sue aggressioni a civili in Libano.

Tuttavia a Gaza Israele va oltre la sua abituale crudeltà. In particolare là spinge i soldati, i comandanti, i funzionari pubblici ed i civili a mostrare comportamenti e tratti del loro carattere che in ogni altro contesto verrebbero considerati sadici e criminali, o quanto meno non degni di una società avanzata.

C’è spazio solo per quattro riferimenti. I due massacri perpetrati dai soldati israeliani contro la popolazione di Gaza durante la guerra del Sinai del 1956 [l’aggressione di Fancia, Gran Bretagna ed Israele contro l’Egitto in seguito alla nazionalizzazione del Canale di Suez, ndt.] sono sfuggiti alle nostre coscienze come se non fossero mai accaduti, nonostante i fatti documentati.

Secondo un rapporto del capo dell’UNRWA [agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ndt.] consegnato alle Nazioni Unite nel gennaio 1957, il 3 novembre [1956], durante la conquista di Khan Yunis (e nel corso di un’operazione volta a requisire armi e a radunare centinaia di uomini per scoprire soldati egiziani e combattenti palestinesi) i soldati israeliani uccisero 275 palestinesi – 140 rifugiati e 135 abitanti del luogo. Il 12 novembre (dopo la fine degli scontri) i soldati israeliani a Rafah uccisero 103 rifugiati, sette abitanti del luogo ed un egiziano.

I ricordi dei sopravvissuti sono stati documentati in una grafic novel dal giornalista e ricercatore Joe Sacco: corpi disseminati nelle strade, gente messa contro un muro ed uccisa, persone in fuga con le mani alzate mentre i soldati dietro di loro puntavano li tenevano sotto tiro con i fucili, teste che esplodevano. Nel 1982 il giornalista Mark Gefen, del quotidiano in ebraico ormai chiuso “Al Hamishmar”, ricordò il suo servizio militare nel 1956, comprese quelle teste colpite e quei corpi disseminati a Khan Yunis (Haaretz edizione in ebraico, 5 febbraio 2010).

Pochi mesi dopo l’occupazione della Striscia di Gaza nel 1967, il ricercatore indipendente Yizhar Be’er scrisse: “Abbiamo fatto passi concreti per sfoltire la popolazione di Gaza. Nel febbraio 1968 il primo ministro [israeliano] Levi Eshkol ha deciso di nominare Ada Sereni a capo del progetto di emigrazione. Il suo compito consiste nel reperire Paesi di destinazione ed incoraggiare la gente ad andarvi, senza che fosse evidente il coinvolgimento del governo israeliano.”

“Sereni è stata scelta per l’incarico per i suoi rapporti con l’Italia e la sua esperienza nell’organizzare la ha’ apala dei sopravvissuti all’Olocausto dopo la seconda guerra mondiale”, ha aggiunto, usando il termine che si riferiva all’immigrazione clandestina verso il futuro Stato di Israele durante il mandato britannico.

“In uno dei loro incontri, Eshkol ha chiesto preoccupato a Sereni: ‘Quanti arabi hai già mandato via?’“, scrisse Be’er. Sereni disse ad Eshkol che vi erano 40.000 famiglie di rifugiati a Gaza. “‘Se voi stanziate 1.000 sterline per ogni famiglia sarà possibile risolvere il problema. Siete d’accordo a risolvere il problema di Gaza con quattro milioni di sterline?’ chiese lei, e si rispose da sola: ‘Secondo me è un prezzo molto ragionevole’” (sito web “Parot Kedoshot”, 26 giugno 2017).

Nel 1991 Israele iniziò ad imprigionare di fatto tutti gli abitanti di Gaza. Nel settembre 2007 il governo di Ehud Olmert decise un blocco totale, che includeva limitazioni all’importazione di alimenti e materie prime e il divieto di esportazione.

I funzionari dell’ufficio del Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori [ente israeliano che governa nei territori occupati, ndt.], coadiuvati dal ministero della Sanità, calcolarono la quantità di calorie quotidiane necessarie perché i prigionieri del più grande carcere al mondo non raggiungessero la linea rossa della malnutrizione. I carcerieri – cioè i funzionari pubblici e gli ufficiali dell’esercito – consideravano le proprie azioni come un gesto umanitario.

Negli attacchi a Gaza a partire dal 2008, i criteri israeliani per uccidere in modo lecito e proporzionato in base ai principi etici ebraici divennero più chiari. Un combattente della Jihad islamica che stesse dormendo è un obiettivo ammissibile. Le famiglie dei militanti di Hamas, compresi i bambini, meritavano anch’esse di essere uccise. Lo stesso valeva per i loro vicini. E anche per chiunque facesse bollire l’acqua su un fuoco all’aperto. E per chiunque suonasse nell’orchestra della polizia.

In altri termini, gli israeliani hanno gradualmente intrapreso un processo di immunizzazione dai riferimenti storici. Perciò non meraviglia il fatto che possano sinceramente giustificare il fuoco omicida su dimostranti disarmati e che i genitori siano orgogliosi dei loro figli soldati che hanno sparato alla schiena su manifestanti in fuga.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Come soldati, anche a noi è stato detto di aprire il fuoco contro i manifestanti a Gaza

Shai Eluk

2 aprile 2018,+972 Magazine

Sei anni fa ero sul confine con Gaza. Gli stessi dimostranti, le stesse proteste. Anche gli ordini di aprire il fuoco contro assembramenti di persone sono rimasti gli stessi

Sei anni fa ero là. Era venerdì 30 marzo 2012, “Giorno della Terra” sul confine con Gaza. Le manifestazioni iniziarono dopo la preghiera di mezzogiorno. Un gruppo di cecchini aveva preso posizione la notte precedente, mentre il resto dell’unità era schierato con armi antisommossa, vicino alla barriera. L’ordine era chiaro: se un palestinese avesse superato la zona di sicurezza – 300 metri dalla barriera all’interno della Striscia di Gaza – si sarebbe dovuto sparare alle gambe dei “principali sobillatori”.

Questo ordine, che non ha mai definito esattamente come un soldato dovrebbe identificare, isolare e sparare a un “principale sobillatore” tra decine di migliaia di manifestanti, all’epoca mi turbò. Ha continuato a turbarmi lo scorso fine settimana, dopo che cecchini dell’esercito israeliano hanno aperto il fuoco contro dimostranti palestinesi sul confine di Gaza. “Come può essere legittimo un ordine di aprire il fuoco contro un assembramento di persone?” chiesi al vice comandante della mia compagnia sei anni fa. Devo ancora avere una risposta.

Cosa sarebbe successo se quei soldati avessero passato tutto il loro servizio militare sul fronte di Gaza? Come soldati che avevano appena terminato la formazione, il “Giorno della Terra” era l’opportunità ideale per vedere qualche “azione”. Lo stesso può probabilmente dirsi dei soldati che venerdì hanno ucciso almeno 16 manifestanti. Anche i loro comandanti molto probabilmente erano eccitati.

Sono certo che se fossimo stati chiamati a fare lo stesso per anni, qualcosa sarebbe cambiato. Dopo tutto questa situazione – ogni anno, nello stesso momento, nello stesso posto, con un’alta probabilità che un palestinese, non un israeliano, perda la vita – ha un senso solo la prima volta, soprattutto agli occhi di uno sbarbatello diciottenne.

Ma qualunque soldato che fosse tornato al confine con Gaza ogni anno, che avesse visto cadere al suolo un palestinese dopo l’altro, riuscirebbe a immaginare una soluzione migliore della situazione. Qualunque soldato che fosse tornato a vedere gli stessi manifestanti avvicinarsi alla barriera – che, più di ogni altra cosa, significa che la morte possa non essere un’alternativa così cattiva – capisce che ci deve essere un’altra soluzione.

Uno dei miei amici ha ucciso un manifestante sul confine con Gaza. Io faccio parte di un gruppo che porta sulle proprie spalle questa morte. L’unica differenza tra me e il mio amico è stata il caso. Se fossi stato mandato al corso per tiratori scelti piuttosto che a quello della sanità, sarei stato quello che ha sparato. Tutto il gruppo espresse il proprio appoggio all’operazione, e il sangue – nonostante il fatto che tutti siamo stati congedati dall’esercito – è ancora sulle nostre mani. Dubito che qualcun altro oltre a me se ne ricordi.

Ogni anno è nuovo, e sul confine con Gaza arrivano nuovi comandanti e nuovi soldati – carne fresca e comandanti con la memoria corta.

I soldati hanno un privilegio. Ogni tre o sei mesi si spostano in un’altra zona. Vedono solo una piccola parte della disperazione di Gaza, ma prima hanno anche la possibilità di elaborare o riflettere su questo, di andare a vedere la disperazione a Hebron, Ramallah e Nablus.

Il soldato picchia alla porta della famiglia Abu Awad in piena notte solo una volta. Spara ai manifestanti del “Giorno della Terra” solo una volta. Compie arresti per qualche mese, dopodiché è sostituito da un altro soldato. Poi è congedato.

Gli abitanti di Gaza e della Cisgiordania stanno celebrando 50 anni di occupazione. Ma non saranno sostituiti, e nessuno sta arrivando per congedarli o aiutarli a portarne il peso. Per noi soldati tutto è temporaneo. Per loro questo è permanente.

Shai Eluk è un ex-soldato della brigata Nahal e un attivista di “Combattants for Peace” [“Combattenti per la pace”, Ong israelo-palestinese che promuove forme non violente di lotta contro l’occupazione, ndt.]. Quest’articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su “Local Call” [“Chiamata Locale”, sito web d’informazione in ebraico].

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il massacro di Pasqua a Gaza

Neve Gordon

1 aprile 2018, Al Jazeera

Il massacro di Pasqua a Gaza non è stato affatto un’eccezione nella lunga storia della resistenza palestinese

Per decenni i sionisti hanno imputato ai palestinesi la prosecuzione del progetto coloniale di Israele: “Se solo i palestinesi avessero un Mahatma Gandhi,” molti progressisti israeliani hanno esclamato, “allora l’occupazione finirebbe.”

Ma se si volessero realmente trovare dei Mahatma Gandhi palestinesi basterebbe vedere le immagini dei notiziari sui manifestanti di venerdì notte. Palestinesi, stimati in 30.000, si sono uniti nella “Marcia del Ritorno” nonviolenta, che intendeva piazzare alcuni campi a qualche centinaio di metri dalla barriera militarizzata che circonda la Striscia di Gaza. Il loro obiettivo era protestare contro la loro incarcerazione nella più grande prigione a cielo aperto del mondo, così come contro la massiccia espropriazione della loro terra ancestrale – dopotutto il 70% della popolazione di Gaza è composta da rifugiati del ’48 le cui famiglie sono state proprietarie di terre in quello che è diventato Israele.

Mentre gli abitanti di Gaza marciavano verso la barriera militarizzata, stavo seduto con la mia famiglia, recitando l’Haggadah [testo ebraico che ricorda l’esodo degli ebrei dall’Egitto, ndt.] per la festa di Pesach, che ci dice che “in ogni generazione c’è il dovere di guardare se stessi come se fossimo noi stessi usciti dall’Egitto”. In altre parole, mentre i soldati sparavano proiettili letali contro manifestanti pacifici, ai genitori di quei soldati veniva chiesto di immaginarsi cosa significhi vivere a Gaza e che cosa ci vorrebbe per liberarsi da una simile prigionia. E quando la mia famiglia ha iniziato a cantare “Non devono più faticare in schiavitù, lasciate che il mio popolo se ne vada,” i siti di notizie riferivano che il numero di palestinesi morti aveva raggiunto i 17, mentre parecchie centinaia erano stati feriti.

L’accusa che i palestinesi non hanno adottato metodi di resistenza non violenta e quindi condividono la responsabilità della continua oppressione e espropriazione da parte di Israele non solo nega completamente la notevole asimmetria delle relazioni di potere tra il colonizzatore ed il colonizzato, ma, cosa non meno importante, non prende in considerazione la storia politica e le lotte anticoloniali, non ultima proprio quella palestinese. Inoltre ignora totalmente il fatto che il progetto coloniale di Israele è stato condotto attraverso una violenza ususrante, prolungata e diffusa e che, a differenza di quello che certi mezzi di informazione occidentali propongono, i palestinesi hanno sviluppato una forte e persistente tradizione di resistenza non violenta. Oltretutto, la richiesta di adottare un’ideologia non violenta ignora completamente la storia di altre lotte di liberazione: dall’Algeria al Vietnam, fino ad arrivare al Sud Africa.

Nonviolenza palestinese

La “Marcia del Ritorno” nonviolenta di venerdì e la risposta israeliana non sono affatto un’eccezione nella lunga storia della resistenza palestinese. La marcia è stata organizzata in coincidenza con l’anniversario del “Giorno della Terra”, che commemora quel tragico giorno del 1976 in cui le forze di sicurezza israeliane affrontarono uno sciopero generale e una protesta di massa organizzata dai cittadini palestinesi di Israele, la cui terra era stata confiscata. In quella protesta pacifica sei palestinesi vennero uccisi e altre centinaia feriti dall’esercito israeliano.

In Cisgiordania e nella Striscia di Gaza le cose sono sempre andate molto peggio, dato che ogni forma di resistenza palestinese non violenta è stata un diritto vietato dopo la guerra del 1967. Tenere incontri politici, sventolare bandiere o altri simboli nazionali, pubblicare o distribuire articoli o disegni di carattere politico o persino cantare o ascoltare canzoni nazionaliste – per non parlare dell’organizzazione di scioperi e manifestazioni – sono stati illegali fino al 1993 (ed alcuni lo sono ancora nell’Area C [oltre il 60% dei territori occupati, sotto totale controllo di Israele in base agli accordi di Oslo, ndt.]). Qualunque tentativo di protestare in uno di questi modi è stato inevitabilmente affrontato con la violenza.

Appena tre mesi dopo la Guerra del 1967, i palestinesi lanciarono con successo uno sciopero generale delle scuole in Cisgiordania: i docenti rifiutarono di presentarsi al lavoro, i ragazzini occuparono le strade per protestare contro l’occupazione e molti commercianti non aprirono i propri negozi. In risposta a questi atti di disobbedienza civile Israele mise in atto severe misure poliziesche, dal coprifuoco notturno ad altre restrizioni alla libertà di movimento, fino all’interruzione delle linee telefoniche, all’arresto di dirigenti e a crescenti maltrattamenti nei confronti della popolazione. Questo, in molti modi, diventò il modus operandi di Israele quando dovette affrontare la continua resistenza nonviolenta dei palestinesi.

Eppure sembra che vi sia una generale amnesia sociale riguardo alla reazione di Israele alle tattiche gandhiane. Quando i palestinesi lanciarono uno sciopero del commercio in Cisgiordania, il governo militare chiuse decine di negozi “fino a nuovo ordine”. Quando tentarono di emulare lo sciopero dei trasporti di Martin Luther King, le forze di sicurezza bloccarono completamente le linee dei bus locali. Inoltre durante la Prima Intifada i palestinesi adottarono strategie di disobbedienza civile di massa, compresi scioperi dei negozianti, boicottaggio dei prodotti israeliani, una rivolta fiscale e proteste quotidiane contro le forze di occupazione. Israele rispose con l’imposizione del coprifuoco, la limitazione della libertà di movimento e arresti di massa (per citare solo alcune delle misure violente). Tra il 1987 e il 1994, per esempio, i servizi segreti interrogarono più di 23.000 palestinesi, uno ogni cento abitanti della Cisgiordania e di Gaza. Ora sappiamo che molti di loro vennero torturati.

Quindi il dramma è che questo massacro di Pasqua non fa che unirsi a questa lunga lista della resistenza nonviolenta che è stata storicamente affrontata da Israele con la violenza e la repressione.

Le sommosse sono il linguaggio di chi non viene ascoltato”

Immaginiamo per un momento cosa significhi vivere in una prigione a cielo aperto, anno dopo anno. Immaginiamo di essere i prigionieri e che il carceriere abbia il potere di decidere quanto cibo possiamo mangiare, quando possiamo avere l’elettricità, quando possiamo ricevere trattamenti sanitari specialistici e se possiamo avere abbastanza acqua da bere. Immaginiamo anche che ogni volta che camminiamo nei pressi della barriera diventiamo bersaglio delle guardie. Quali azioni di resistenza nonviolenta sono effettivamente a nostra disposizione? Andreste pacificamente ad attraversare la barriera? Migliaia di palestinesi l’hanno coraggiosamente fatto e molti hanno pagato con la vita.

Anche se Gaza è, da molti punti di vista, unica, storicamente le popolazioni indigene si sono trovate in situazioni simili. Ciò è stato riconosciuto dalle Nazioni Unite, quando hanno affermato “la legittimità della lotta dei popoli per la liberazione dalla dominazione coloniale e straniera e dalla sottomissione ad altri con ogni mezzo possibile, compresa la lotta armata.” Lo stesso Gandhi pensava che in certe circostanze la violenza fosse una scelta strategica legittima: “Io credo”, scrisse, “che dove c’è solo la scelta tra la vigliaccheria e la violenza io raccomanderei la violenza…Pertanto io sostengo anche l’addestramento all’uso delle armi per quelli che credono nel metodo della violenza. Preferirei che l’India ricorresse alle armi per difendere il proprio onore piuttosto che diventasse o rimanesse vigliaccamente testimone impotente del proprio disonore.”

Si potrebbe sperare altrimenti – ed io sicuramente lo faccio -, ma nessun progetto coloniale è terminato senza che i colonizzati abbiano fatto ricorso alla violenza contro i loro oppressori. Chiedere o persino domandare con rabbia la liberazione non è mai stato efficace.

Ironicamente questo è anche uno dei messaggi fondamentali della festa della Pasqua ebraica. La storia dell’Esodo racconta come Mosè si rivolse varie volte al faraone, chiedendogli di liberare i figli di Israele dalla schiavitù. Eppure ogni volta il faraone rifiutò. Fu solo dopo che una terribile violenza venne scatenata contro gli egiziani che gli israeliti vennero liberati.

Questa di certo non è una cosa che possiamo mai augurarci, ma quando si guarda la risposta di Israele alla marcia non violenta dei palestinesi, quello che è chiaro è che dobbiamo urgentemente trovare un modo per capovolgere la domanda sionista per evitare futuri bagni di sangue. Piuttosto che chiedere quando i palestinesi produrranno un Mahatma Gandhi, dobbiamo domandarci: quando Israele produrrà un dirigente politico che non sostenga l’oppressione dei palestinesi attraverso l’uso di una violenza omicida? Quando, in altre parole, Israele finalmente si libererà di questa etica da faraone e comprenderà che i palestinesi hanno diritto alla libertà?

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Neve Gordon ha conseguito una borsa di studio “Marie Curie” ed è professore di Diritto Internazionale alla Queen Mary University di Londra.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Gaza: il sogno di un giovane scultore fermato da un cecchino israeliano

Patrizia Cecconi

1 aprile 2018, Pressenza

L’hanno ucciso così, con un colpo in fronte. Esecuzione senza processo detta pure assassinio. Era un artista. Aveva 28 anni, si chiamava Mohammed Abu Amr. Era scultore e gli piaceva realizzare alcune opere sulla spiaggia di Gaza. Come per tanti altri artisti palestinesi i temi delle sue creazioni  nascevano dalle particolari condizioni imposte dall’illegalità e dalla profonda ingiustizia subite da questo popolo da troppi decenni.
Usava la grafia araba in forma artistica Mohammed, e l’ultima delle sue opere, realizzata il giorno prima di essere assassinato, rappresentava il suo sogno, che poi è il sogno collettivo rivendicato nella “grande marcia del ritorno”che un popolo festoso ma determinato ha iniziato il 30 marzo, giornata della terra, e concluderà il 15 maggio, giornata della naqba, cioè la cacciata dei palestinesi dalle loro case nel 1948. Era il sogno del ritorno.
Manifestava a Shujaya a est di Gaza city, insieme a decine di migliaia di altre persone di ogni età, sesso e colore e di diverso credo religioso perchè – cosa che molti ignorano – in tutta la Palestina, Gaza compresa, i palestinesi sono sia cristiani, benchè in minoranza, che musulmani, e subiscono la stessa sorte.
La “grande marcia”, organizzata  da giovani palestinesi al di fuori dei partiti politici e quindi trasversale alle diverse fazioni,  aveva tutta l’aria di una grande festa di popolo, di questo popolo che viene spesso descritto in modo assolutamente opposto a quel che realmente è: un popolo che nelle avversità più incredibili riesce a trovare la capacità di vivere senza rinunciare, per quanto possibile,  alla gioia.
Non c’erano che tre o quattro internazionali nella Striscia a testimoniare l’evento, e le loro testimonianze coincidono tutte: una grande manifestazione pacifica, con bambini, vecchi, addirittura persone invalide, uomini e donne di ogni ceto sociale. La loro unica arma era la determinazione a marciare verso il border per dire agli assedianti che Gaza non ne può più, per ricordare al mondo le continue violazioni subite e, in particolare, per rivendicare il diritto al ritorno nelle loro case sancito dalla Risoluzione Onu 194, inapplicata da Israele come tante altre decine di Risoluzioni senza avere per questo alcuna sanzione.
Al solito, i media principali italiani hanno fatto a gara nel raccontare con grande sicurezza versioni lontane dalla realtà, pur non avendo i loro inviati nella Striscia. Tv e giornali hanno parlato per due giorni, quelli che ne hanno parlato, di scontri e battaglie  ed hanno aggiunto, come da velina israeliana pubblicamente diffusa, il tutto voluto dai vertici di  Hamas. Invece non si è trattato di battaglia, ma di un vero e proprio tirassegno a uomini, donne e bambini che manifestavano pacificamente e a mani nude.
Mohammed è stato uno dei primi martiri ad essere colpito. Potremmo dire vittima, e infatti lo è, ma le vittime degli oppressori sono testimoni del diritto a resistere e pertanto, anche etimologicamente, divengono martiri. I tiratori scelti che Israele aveva appostato lungo il border l’hanno colpito a distanza, e con mira perfetta lo hanno centrato sulla fronte. Le parole di Mohammed, consegnate alla memoria in seguito a un’intervista rilasciata pochi giorni prima di essere ucciso, ora sembrano un monumento alla speranza. Il giovane scultore non avrà il futuro che sognava, i cecchini israeliani hanno fermato la sua vita e la sua carriera a soli 28 anni e Mohammed non sarà più un artista, perché da ieri è diventato un martire e un eroe. Aveva detto nell’ultima intervista “sii umano, sii ottimista, fissa un obiettivo nella tua vita e apriti agli altri…. possiamo realizzare nei sogni quello che non siamo riusciti a realizzare nella realtà…immaginiamo che i nostri sogni diventino noi stessi come una realtà incarnata e superiamo così alcune delle nostre difficoltà e dei nostri conflitti psicologici”. Questa era la sua filosofia, ora è il suo testamento ideale.
Adesso lo scultore Mohammed, insieme ad altri 16 ragazzi, alcuni quasi bambini, arricchirà la lista degli eroi. Gaza ha perso un artista ed ha guadagnato un testimone e questo Israele, sempre pronto a convincere il mondo del suo bisogno di sicurezza dovrebbe capirlo.
Soprattutto dovrebbero capirlo i Governi e le Istituzioni che sostengono questo Paese sempre più ricco di manifesta illegalità. Dovrebbero capirlo non solo per quel principio di giustizia che i palestinesi rivendicano e che la comunità umana avrebbe diritto a veder rispettato, ma anche per la stessa sicurezza del Paese loro amico il quale,  macchiandosi di crimini sempre impuniti, incrementa l’odio e non certo la sicurezza.  E il sogno di Mohammed Abu Amr e degli altri sognatori uccisi con lui, seguiterà  ad essere  il sogno dei palestinesi  l’incubo di Israele.




Il massacro di Gaza è una vittoria mediatica per Hamas e un incubo mediatico per Israele

Chemi Shalev

31 marzo 2018, Haaretz

L’appoggio incondizionato di Trump rafforza Netanyahu, ma potrebbe anche innestare ripercussioni internazionali di critica per entrambi.

Per la prima volta da molto tempo durante il fine settimana il conflitto israelo-palestinese ha avuto un posto di rilievo negli articoli dei media internazionali. I portavoce israeliani hanno fornito prove che militanti di Hamas hanno cercato di aprire una breccia nella barriera di confine a Gaza spacciando la cosa come una presunta protesta popolare, ma gli opinionisti dell’Occidente preferiscono il video, divenuto virale, di un adolescente palestinese colpito alla schiena e una narrazione complessiva di gazawi senza speranza che protestano contro l’oppressione e contro il blocco. Quindici palestinesi sono stati uccisi, centinaia feriti e la barriera è rimasta intatta, ma sul campo di battaglia della propaganda Hamas ha riportato una vittoria.

Anche gli sviluppi futuri sono nelle mani dell’organizzazione islamista. Più Hamas continua con la “Marcia del Milione”, come è stata denominata, più riuscirà a separare le proteste dagli atti di violenza e terrorismo, e più avrà successo nello sfidare e nel mettere in difficoltà sia Israele che Mahmoud Abbas [il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndt.] e l’Autorità Nazionale Palestinese. Se i comandanti dell’esercito israeliano non troveranno un modo per respingere i tentativi di far breccia nella barriera senza provocare così tante vittime, le difficoltà di Israele cresceranno in modo esponenziale.

Il venerdì di sangue potrebbe essere presto dimenticato se rimarrà un evento isolato, ma se il bagno di sangue si ripeterà più volte durante la campagna di sei settimane che si prevede terminerà a metà maggio con il giorno della Nakba palestinese, la comunità internazionale sarà obbligata a riorientare la propria attenzione sul conflitto. Le critiche al primo ministro Benjamin Netanyahu, e le pressioni su di lui, praticamente scomparse negli ultimi mesi, potrebbero ridestarsi con un sentimento di rivalsa.

L’ipotesi di lavoro da parte israeliana è che il terrorismo e la violenza siano parti insite nell’identità di Hamas; il gruppo islamista sarebbe incapace di interrompere la “lotta armata”, anche solo provvisoriamente. Se così fosse le difficoltà di Israele si risolverebbero presto e Hamas dilapiderà il vantaggio acquisito con gli scontri di massa nei pressi della barriera. Se la concezione israeliana risulterà sbagliata, tuttavia, e Hamas dimostrerà di essere in grado di disciplina strategica e di controllo, potrebbe crearsi quello che è sempre stato l’incubo dell’hasbarà [propaganda, ndt.] israeliana: proteste palestinesi di massa e non violente che obblighino l’esercito israeliano ad uccidere e mutilare civili disarmati. Per quanto superficiali e insensate, le analogie con il Mahatma Gandhi, con [la lotta contro] l’apartheid del Sud Africa e persino con la lotta per i diritti civili in America offriranno il quadro della prossima fase della lotta palestinese.

L’immediato appoggio dell’amministrazione Trump, espresso in un tweet pasquale dell’inviato speciale Jason Greenblatt, che ha biasimato la provocazione di Hamas e la sua “marcia ostile”, è apparentemente un positivo sviluppo dal punto di vista israeliano. A differenza di Trump, Barack Obama avrebbe subito criticato quello che è stato universalmente descritto come un eccessivo uso della forza da parte di Israele, e si sarebbe consultato con i Paesi dell’Europa occidentale per un’adeguata risposta diplomatica. Israele ha invece festeggiato e Netanyahu ha come al solito esaltato la collaborazione senza precedenti con l’amministrazione Trump, ma potrebbe anche rivelarsi un’arma a doppio taglio, che potrebbe solo peggiorerà solo le cose.

Dopotutto Trump è uno dei presidenti USA più detestati della storia contemporanea, nell’opinione pubblica occidentale in generale e tra i progressisti americani in particolare. Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Trump e la sua decisione di spostarvi l’ambasciata USA sono generalmente considerati un contributo alla frustrazione e al senso di isolamento dei palestinesi. Finché Israele manterrà un basso profilo e non diventerà protagonista di notizie negative, i suoi stretti rapporti con Trump provocheranno solo danni marginali; in tempi di crisi, tuttavia, il danno potrebbe essere notevole. Le critiche contro Israele che sarebbero state tacitate in seguito al “Venerdì di sangue”, in ogni caso sono alimentate dall’ostilità diffusa verso Trump e le sue politiche – e da un desiderio di punire i suoi beniamini. Più l’amministrazione USA difende le azioni impopolari di Israele, più i suoi critici, compresi i progressisti americani, considereranno Trump e Netanyahu come uno sgradevole tutto unico.

L’incondizionato appoggio USA rafforza la determinazione di Netanyahu e dei suoi ministri nel continuare la politica di inattività sia rispetto a Gaza che nei confronti del processo di pace. Molti israeliani vedono Hamas semplicemente come un’organizzazione terroristica e la loro reazione istintiva è che Israele non possa e non debba essere percepito come arrendevole nei confronti del terrorismo e della violenza. In un momento in cui sembrano all’orizzonte elezioni anticipate [in Israele], l’ultima cosa che la coalizione di destra di Netanyahu vuol fare è allontanarsi dalle sue politiche consolidate, che significherebbe ammettere che le sue decisioni sono sbagliate. Le richieste da parte della sinistra di rivedere il comportamento dell’esercito israeliano a Gaza e riesaminare totalmente le politiche di Netanyahu nei confronti dei palestinesi potrebbero riportare il conflitto israelo-palestinese al centro del discorso pubblico dopo una lunga assenza, ma fornirebbero anche al primo ministro una scusa – se ne avesse bisogno – per spostare l’attenzione dalla crisi di Gaza ai nemici interni pronti a pugnalarlo alle spalle.

Tuttavia il Libro di Osea ci ha insegnato: “Chi semina vento raccoglie tempesta.” La continua paralisi diplomatica israeliana sulla questione palestinese e la sua errata convinzione che lo status quo possa essere conservato indefinitamente hanno dato l’avvio al colpo mediatico di Hamas: il gruppo islamista può improvvisamente vedere la luce alla fine dei tunnel che l’esercito israeliano sta sistematicamente distruggendo. Hamas può versare lacrime di coccodrillo sui morti e feriti, ma anche se il loro numero dovesse raddoppiare o triplicare nei prossimi giorni, sarebbe un prezzo irrisorio da pagare per risuscitare la propria importanza e spingere in un angolo sia Netanyahu che Abbas. Il fatto che Gerusalemme si sia messa nella posizione in cui un gruppo notoriamente terroristico che sogna ancora di distruggere l’”entità sionista” possa battere Israele nel giudizio dell’opinione pubblica ed assegnargli la parte del malvagio occupante con il grilletto facile è un errore madornale, che può solo peggiorare finché Netanyahu e il suo governo preferiranno trincerarsi dietro la loro ottusa arroganza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il NYTimes nasconde le uccisioni di manifestanti non violenti sul confine di Gaza da parte di Israele

James North

30 marzo 2018, Mondoweiss

Nota redazionale: riteniamo interessante per il lettore italiano questo articolo in quanto non solo il New York Times è uno dei più importanti giornali al mondo, ma anche perché buona parte delle critiche qui proposte si può applicare ai tre principali quotidiani italiani, che hanno parlato degli ultimi avvenimenti a Gaza come di “guerra”, “guerriglia”, “sparatorie”, “Assedio alle frontiere”, “giorno di battaglia”, come se da entrambe le parti ci fosse stata un’aggressione armata. Infine, come nel caso del quotidiano statunitense, nessuno dei giornalisti di questi quotidiani era presente o ha cercato di intervistare i manifestanti palestinesi.

Oggi il NYTimes continua con la sua informazione di parte su Israele/Palestina, con un reportage scioccante a senso unico che cerca di nascondere come Israele abbia aperto il fuoco contro una protesta palestinese non violenta e di massa all’interno dei confini di Gaza.

La disonestà inizia dalla prima frase dell’articolo del Times, in cui si asserisce che le proteste “sono degenerate quasi subito nel caos e nel bagno di sangue”, con “almeno cinque palestinesi uccisi in scontri con i soldati israeliani.”

Si noti lo scaltro tentativo di usare l’indeterminatezza per nascondere il fatto che Israele ha sparato munizioni letali (“sono degenerate…in un bagno di sangue”), e “scontri” – insinuando che entrambe le parti siano in qualche modo responsabili dei cinque morti.

La parzialità continua nel secondo paragrafo dell’articolo del Times, in cui sostiene – senza virgolette – che “migliaia di palestinesi stavano provocando disordini in sei località lungo il confine.” Al contrario, sia il Guardian [quotidiano inglese di centro sinistra, ndt.] che la BBC [televisione pubblica inglese, ndt.] nei loro reportage presentano le parole “provocando disordini” tra virgolette, e l’attribuiscono chiaramente all’esercito israeliano, sottolineando che si tratta della versione di una parte, non di un fatto dimostrato. Ecco la versione della BBC: “L’esercito israeliano ha informato di ‘disordini’ in sei luoghi ed ha affermato che stava ‘sparando contro i principali sobillatori.’”

La disonestà continua. Il Times descrive Hamas come “il gruppo di miliziani islamisti che domina Gaza ed è noto per la sua resistenza armata.” Va bene, piuttosto tendenzioso, ma dov’è la descrizione di Israele come “un governo che ha massicciamente attaccato Gaza per tre volte dal 2008, uccidendo migliaia di persone, per lo più civili e molti bambini?”

Poi il Times cita il blocco israeliano di Gaza, “che Israele definisce una necessità assoluta per la sicurezza.” Ma non leggerete l’altra versione, cioè che molti altri, palestinesi ed alcuni israeliani, controbattono che Israele continua con il blocco essenzialmente non per proteggere se stesso, ma per soffocare e screditare Hamas, che ha vinto le elezioni a Gaza nel 2006.

Poi ancor più di parte. Il Times: “Preparandosi alla violenza, Israele ha praticamente raddoppiato le sue forze lungo il confine, schierando cecchini, unità speciali e droni…” Ma c’è un’altra, molto più corretta, versione della vicenda: “Israele, per affrontare una sconfitta propagandistica in quanto migliaia di gazawi avevano lanciato una pacifica protesta di massa, ha fatto tutto il possibile per provocare la violenza e screditare la manifestazione ed intimidire ancora una volta i gazawi.”

Nascosta nell’articolo del Times c’è solo una minima cosa su quello che è realmente avvenuto, una citazione di B’Tselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani: B’Tselem “in un comunicato ha avvertito che ogni politica di ‘sparare per uccidere’ contro manifestanti disarmati sarebbe illegale…”

Quello che è sconvolgente e vergognoso nell’articolo del Times è che finora non c’è nessun reportage di prima mano da Gaza. Un giornale realmente interessato alla verità avrebbe mandato dei giornalisti sul confine a Gaza e avrebbe chiesto a qualcuno delle migliaia di manifestanti palestinesi cosa gli sia realmente successo – invece di ripetere solo [quello che ha detto] l’esercito israeliano.

(traduzione di Amedeo Rossi)