La sinistra sionista di estrema destra israeliana

Gideon Levy

27 maggio 2018, Haaretz

Eitan Cabel, del partito Laburista, non propone la pace ma l’annessione. I suoi palestinesi non avrebbero uno status né diritti, e ovviamente sono da ritenere responsabili per questo.

È un peccato che Eitan Cabel non sia segretario del partito Laburista. Se lo fosse, il partito Laburista potrebbe affermare ufficialmente di essere arrivato alla fine del suo percorso. Ma anche così, il suo editoriale sull’edizione di Haaretz in ebraico di venerdì rispecchia adeguatamente le posizioni del suo partito e più in generale quelle della più ampia “Unione Sionista” [coalizione elettorale di cui il partito Laburista è la componente principale ed attualmente all’opposizione, ndt.]. Di fatto il partito Laburista non ha posizioni diverse da quelle che Cabel ha precisato. Perciò dovremmo essere grati al coraggioso parlamentare della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.]: ha esposto la verità sul suo partito e sull’intera sinistra sionista.

Sul problema più grave la sinistra sionista non fa altro che imitare le posizioni della destra. La novità di Cabel è che queste sono le posizioni dell’estrema destra. Cabel e Naftali Bennett [ministro dell’Educazione e leader del partito di estrema destra “Casa Ebraica”, ndt.] sono fratelli, “Casa Ebraica” e ”Unione Sionista” sono gemelli, non c’è più nessuna differenza tra loro. Il vuoto e ipocrita “carro” – una metafora dei valori e del patrimonio ideale – della sinistra sionista è arrivato alla fine del suo percorso. Quanto meno un membro coraggioso addirittura se ne vanta.

Cabel propone un’iniziativa sobria. Non pace ma annessione. Non un’annessione come quella che c’è stata finora, ma un’annessione totale. I palestinesi di Cabel non hanno uno status né diritti passati, presenti o futuri; è persino dubbio che essi esistano. Ovviamente sono da ritenere responsabili di questo e gli ebrei devono avere tutta la terra.

Solo una cosa terrorizza il socialdemocratico di Rosh Ha’ayin [cittadinia del centro di Israele, ndt.] – che, il cielo non voglia, nella Knesset ci saranno 30 deputati arabi. I suoi genitori non sono immigrati dallo Yemen per questo. Shoshana e Avshalom non sono venuti qui per vivere con gli arabi. Quello ce l’avevano già in Yemen. Essi e il loro figlio vogliono uno Stato razzialmente puro. Se un quarto dei deputati fosse arabo ciò distruggerebbe il loro sogno. Il compagno di partito di Bennett Bezalel Smotrich [noto per le posizioni particolarmente estremiste, ndt.] non avrebbe potuto dirlo in termini più razzisti.

Cabel vuole che si faccia qualcosa. Sa che non c‘è una controparte palestinese e non ci sarà mai. Quindi avanti, prendiamo l’iniziativa. Possiamo pensare a un trasferimento, indubbiamente un’iniziativa, atroce quanto l’annessione, ma anche di più, però almeno ciò garantirebbe una soluzione finale. Comunque, Cabel non ci è ancora arrivato. Forse presto farà carriera nei ranghi del partito. Nel frattempo Cabel ne ha abbastanza della limitazione dei blocchi di colonie, il più grande imbroglio della sinistra sionista, su cui c’è un presunto consenso generale.

Una breve storia dei blocchi, proprio come una breve storia delle colonie: prima si trattava di annettere Gerusalemme est. Ciò non poteva essere fatto senza un “confine di sicurezza”, per cui la valle del Giordano è stata aggiunta alle zone intoccabili. Poi è arrivato il blocco di Gush Etzion [gruppo di colonie israeliane nei territori occupati fondato a partire dal 1967, ndt.] in perenne espansione, senza cui Israele non può essere immaginato, e come possiamo lasciare fuori Ma’aleh Adumim [grande colonia nei pressi di Gerusalemme, riconosciuta come città dal governo israeliano, ndt.], che è stata fondata per tagliare in due la Cisgiordania? E cosa ne sarà, fratelli ebrei, della città universitaria di Ariel [colonia nel centro della Cisgiordania, dove sorge la prima università nelle colonie, ndt.]?

Queste sono state tutte aggiunte alla lista non dalla destra ma dalla sinistra sionista, che ha sostenuto la fondazione di uno Stato palestinese, certamente uno Stato palestinese tra Jenin e il suo campo profughi. Ora Cabel sta annettendo anche Karnei Shomron, e cosa dire di Shavei Shomron, Yitzhar e Itamar? Rehelim, Havat Gilad e Baladim [altre colonie in Cisgiordania, ndt.]? Perché no? Il destino dei coloni, che stanno vivendo sotto la “legge marziale”, spezza il cuore di Cabel, perciò, perché non annettere anche loro? Non sono esseri umani? Non sono ebrei? Cabel è un uomo con una coscienza, il suo cuore è sempre dalla parte degli oppressi.

Cabel è uno dei dirigenti del campo della pace, e come dice il nome del suo campo, offre ai palestinesi negoziati prima o poi, quando si comporteranno correttamente. Nel 1948 hanno perso il 78% del loro Paese, ed ora Cabel sta sezionando i resti di ciò che rimane e rubando per sé i blocchi [di colonie], un prezzo per il ladro e il colono.

Ma la Palestina non è perduta. Cabel, di sinistra, vuole discutere di quello che resta. C’è una possibilità che rinunci al campo profughi di Al-Fawwar [a sud di Hebron, ndt.]. Se ci sarà una dirigenza palestinese all’altezza, che mangi con coltello e forchetta, in un giorno di particolare generosità Cabel e il suo partito le offriranno persino il campo profughi di Al-Arroub [sulla strada tra Hebron e Gerusalemme, ndt.]. Dai tempi del Mahatma Gandhi non c’è più stato un uomo di pace come Cabel, da quelli di Nelson Mandela non c’è più stato un simile combattente per la giustizia.

La richiesta di Cabel di essere sobri è un importante contributo al dibattito politico. Tornate sobri, amici di Cabel, non avete niente da offrire. Siete di destra, persino di estrema destra, ed ora siete senza la maschera che avete portato per 50 anni. Eliminate le elezioni in Israele. Dopotutto, (quasi) tutti sono per l’occupazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Rapporto OCHA del periodo 8 – 21 maggio 2018 (due settimane)

Il 14 maggio, nella Striscia di Gaza, secondo il Ministero della Salute Palestinese le forze israeliane hanno ucciso 59 palestinesi (tra cui sette minori) e ne hanno feriti 2.900: dalle ostilità del 2014, è il più alto numero di vittime registrato in un solo giorno nei Territori occupati.

I manifestanti palestinesi hanno ferito un soldato israeliano. Tra i feriti palestinesi di quel giorno, 1.322 (il 45%) sono stati colpiti con armi da fuoco. Le vittime rientrano nel contesto delle manifestazioni per “la Grande Marcia del Ritorno”, iniziate il 30 marzo, ed in coincidenza con il trasferimento ufficiale dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme.

In altre manifestazioni simili, svolte durante il periodo di riferimento, le forze israeliane hanno ucciso tre palestinesi e ferito 1.283. Nello stesso periodo, secondo il Ministero della Salute Palestinese, altri quattro sono morti per le ferite precedentemente riportate. Le proteste dovrebbero protrarsi fino al 5 giugno, data che rievoca l’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, avvenuta nel 1967.

Il gran numero di vittime e l’alta percentuale di feriti da armi da fuoco hanno sollevato preoccupazioni sull’uso eccessivo della forza. Il 18 maggio, il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha condannato “l’uso sproporzionato e indiscriminato della forza” da parte delle forze israeliane e ha chiesto l’istituzione di una “commissione d’inchiesta internazionale indipendente” che indaghi sulle uccisioni di palestinesi durante le proteste. Il 23 maggio, nel suo resoconto presso il Consiglio di Sicurezza ONU, il Coordinatore Speciale per il Processo di Pace, Nickolay Mladenov, ha condannato “le azioni che, a Gaza, hanno portato alla perdita di così tante vite ” ed ha aggiunto che, a sua volta, Hamas “non deve usare le proteste come copertura del tentativo di collocare bombe a ridosso della recinzione e mettere in atto provocazioni”.

Durante le manifestazioni dell’11 e 14 maggio, manifestanti palestinesi hanno fatto irruzione nella parte palestinese del valico di Kerem Shalom (quasi esclusivo punto di ingresso delle merci in Gaza) causando ingenti danni e bloccando le operazioni. La sala di controllo, il nastro trasportatore principale e le tubazioni del carburante e del gas da cucina sono stati incendiati e gravemente danneggiati. Il valico è stato parzialmente riaperto il 16 maggio per le merci imballate ed il 17 maggio per l’ingresso del carburante.

Secondo l’esercito israeliano, il 16 maggio, palestinesi hanno sparato da Gaza con mitragliatrice verso le forze israeliane e verso la città israeliana di Sderot; successivamente le forze israeliane hanno sparato colpi di carro armato ed hanno condotto diversi attacchi aerei contro siti militari. In precedenza, il 12 ed il 14 maggio, le forze israeliane avevano condotto una serie di attacchi aerei mirati ad aree aperte e a siti di addestramento militare, nella città di Gaza e nel nord della Striscia. Secondo fonti ufficiali israeliane, questi ultimi attacchi aerei erano in risposta alle violente attività intraprese durante le manifestazioni lungo la recinzione perimetrale. Nessuno di tali attacchi ha provocato vittime, ma alcuni siti militari di Gaza hanno subito danni.

Per far rispettare le restrizioni di accesso alle Aree Riservate di terra e di mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori in almeno 16 occasioni; ad est della città di Gaza un contadino è stato ferito. In Khan Younis, nelle vicinanze della recinzione perimetrale, altri due palestinesi sono rimasti feriti in scontri con le forze israeliane avvenuti mentre queste stavano svolgendo operazioni di spianatura del terreno e di scavo.

In Cisgiordania, durante proteste e scontri, le forze israeliane hanno ferito 641 palestinesi, tra cui 126 minori. Circa l’88% di questi ferimenti si sono verificati il 14 ed il 15 maggio, durante scontri scoppiati nel corso di manifestazioni in solidarietà con Gaza, contro il trasferimento dell’ambasciata statunitense e in memoria del 70° anniversario di ciò che i palestinesi chiamano “An Nakba” [“la Catastrofe”: ovvero la proclamazione dello Stato di Israele, avvenuta nel maggio 1948]. Il maggior numero di feriti si sono avuti negli scontri avvenuti nella città di Nablus; a seguire, gli scontri nei pressi del checkpoint DCO di Ramallah e quello di Huwwara (Nablus). Tredici persone sono rimaste ferite durante operazioni di ricerca-arresto. Oltre il 60% delle lesioni subìte da palestinesi durante il periodo di riferimento, sono state causate da inalazione di gas lacrimogeno richiedente cure mediche; tra questi un uomo di 58 anni cardiopatico, morto successivamente in un ospedale di Hebron.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 177 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 220 palestinesi. I numeri più alti di operazioni (41) e di arresti (56) si sono avuti nel governatorato di Gerusalemme.

In concomitanza con il mese mussulmano del Ramadan, iniziato il 17 maggio, le autorità israeliane hanno annunciato l’attenuazione delle restrizioni di accesso. Questo comporta la concessione di circa 2.000 permessi per visite familiari in Gerusalemme Est ed Israele. Per le preghiere del venerdì, gli uomini sopra i 40 anni, i minori sotto i 12 e le donne di tutte le età saranno ammessi a Gerusalemme Est senza permesso. Per la preghiera del venerdì (18 maggio), a Gerusalemme Est sono stati ammessi circa 39.300 palestinesi, attraverso tre posti di blocco circostanti. Secondo il DCL [Coordinamento e Collegamento Distrettuale] israeliano, il numero di ingressi è in calo: nel primo venerdì di Ramadan del 2017, ne furono registrati 65.000.

Citando la mancanza di permessi di costruzione, in zona C ed in Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno demolito tre strutture palestinesi. Tra le strutture prese di mira figura parte di una strada di campagna (finanziata da donatori) che consentiva agli agricoltori del villaggio di Haris (Salfit) di accedere ai loro terreni. Altre due strutture di sostentamento sono state demolite nel quartiere di Al ‘Isawiya a Gerusalemme Est e nel villaggio di Duma (Nablus).

Nella Valle del Giordano settentrionale, per consentire esercitazioni militari, le forze israeliane hanno sfollato, per otto ore, cinque famiglie della comunità di pastori di Humsa al Bqai’a. Questa Comunità deve far fronte a periodiche demolizioni e restrizioni di accesso che, insieme ai frequenti sfollamenti temporanei dovuti all’addestramento militare, destano preoccupazioni circa il rischio di trasferimento forzato dei residenti.

L’11 maggio, nel villaggio di Duma (Nablus), aggressori non identificati hanno dato fuoco a una casa palestinese. I residenti sono riusciti a mettersi in salvo, ma i mobili e la casa hanno subìto danni. Di conseguenza, i cinque membri della famiglia, tra cui due minori, hanno dovuto sfollare. Sul caso, le autorità palestinesi e israeliane hanno aperto due distinte indagini. Due attacchi incendiari analoghi furono compiuti da coloni israeliani nel villaggio di Duma, nel luglio 2015 e nel marzo 2016; nel primo caso morirono un bambino ed entrambi i genitori.

Sono stati segnalati almeno sette attacchi ad opera di coloni israeliani, con conseguenti lesioni a palestinesi o danni a loro proprietà. In tre distinti casi, a Turmus’ayya (Ramallah), Halhul (Hebron) e Burqa (Nablus), secondo fonti locali palestinesi circa 450 tra ulivi e vitigni sono stati vandalizzati da coloni israeliani. In altri tre episodi, coloni israeliani hanno forato i pneumatici di 30 veicoli palestinesi e spruzzato scritte tipo “questo è il prezzo che dovete pagare” sui muri di case di Shu’fat (Gerusalemme Est), Wadi Qana (Salfit) e Sarra (Nablus). Sarebbero stati rubati, da coloni, tre cavalli appartenenti a contadini della città di Nablus. La violenza dei coloni è in aumento: dall’inizio del 2018, la media settimanale di attacchi che causano lesioni personali o danni materiali è di cinque casi; nel 2017 la media era stata di tre e nel 2016 di due.

Sono stati segnalati almeno cinque episodi di lancio di pietre e due episodi di lancio di bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: sono rimasti feriti cinque israeliani, tra cui una donna e sono stati danneggiati tre veicoli privati. Gli episodi si sono verificati su strade vicino a Nablus, Ramallah, Betlemme, Hebron e Gerusalemme. Inoltre, nell’area di Shu’fat, a Gerusalemme Est, sono stati segnalati danni alla metropolitana leggera.

L’accesso ai servizi e ai mezzi di sussistenza di circa 7.000 palestinesi che vivono in tre comunità della Cisgiordania, è stato interrotto da restrizioni imposte da Israele. Nella parte di Hebron a controllo israeliano, l’esercito ha chiuso un passaggio di collegamento di un quartiere (As Salayyme) con il resto della città; chiusa, per tre giorni, anche la strada principale tra i villaggi di Madama e Burin (Nablus). Le misure sono state prese in risposta al lancio di pietre e bottiglie incendiarie contro veicoli di coloni israeliani e contro una torretta militare.

Le autorità egiziane hanno annunciato l’apertura ininterrotta, per tutto il mese del Ramadan, del valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto. Dalla sua apertura, avvenuta il 12 maggio, e fino alla fine del periodo di riferimento [di questo Rapporto], 4.865 palestinesi hanno attraversato in entrambe le direzioni. Dal 2014 questa è la più lunga e continuativa apertura del valico di Rafah.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 23 maggio, un quindicenne palestinese è morto per le ferite riportate il 15 maggio, nel corso di una manifestazione presso il checkpoint di Beit El / DCO in Al Bireh / Ramallah. Si trattava di una manifestazione commemorativa del 70° anniversario di quello che i palestinesi definiscono “An Nakba” del 1948 e di protesta contro l’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Lungo il confine di Gaza, sparano (anche) ai medici, o no?

Amira Hass

28 maggio 2018, Haaretz

Un’ambulanza al minuto, 1.300 persone colpite in un giorno: l’ospedale Shifa di Gaza affronta un’emergenza che travolgerebbe i migliori ospedali del mondo.

Dati clinici internazionali dicono che qualunque sistema sanitario occidentale collasserebbe se dovesse curare tante ferite da arma da fuoco ogni giorno quante ve ne sono state nella Striscia di Gaza il 14 maggio. Eppure il sistema sanitario di Gaza, che per anni è stato sull’orlo del collasso in seguito all’assedio israeliano ed alle lotte intestine palestinesi, ha sorprendentemente dimostrato di essere all’altezza della sfida. In Israele gli avvenimenti del 14 maggio sono già storia. Nella Striscia, le loro sanguinose conseguenze segneranno la vita di migliaia di famiglie negli anni a venire.

La cosa più scioccante, più dell’alto numero dei morti, è il numero delle persone ferite da armi da fuoco: circa metà delle oltre 2.770 persone che hanno ricevuto cure di emergenza avevano ferite da colpi di arma da fuoco. “Era chiaro che i soldati sparavano soprattutto per ferire e mutilare i dimostranti.” Questa è la conclusione che ho ascoltato dai miei interlocutori, alcuni dei quali con molta esperienza di sanguinosi conflitti internazionali. Lo scopo era di ferire, piuttosto che uccidere, il maggior numero di giovani per renderli per sempre disabili

I preparativi nelle 10 postazioni di smistamento e di traumatologia sono stati impressionanti. Ognuna delle postazioni allestite accanto ai luoghi delle proteste è stata dotata di infermieri e studenti di medicina volontari. Nell’arco di sei minuti in media riuscivano ad esaminare ogni paziente, stabilire il tipo di ferita, stabilizzare il paziente e decidere chi dovesse essere curato in un ospedale. A partire da mezzogiorno circa, è arrivata all’ospedale Shifa di Gaza un’ambulanza ogni minuto. Le sirene non smettevano di suonare. Ogni ambulanza trasportava quattro o cinque feriti.

Dodici sale operatorie hanno lavorato senza sosta. Le prime ad essere curate sono state le persone con ferite ai vasi sanguigni. Centinaia di persone con ferite meno gravi hanno atteso il proprio turno nei corridoi dell’ospedale, tra lamenti e capogiri. Gli unici analgesici disponibili erano destinati per lo più ai gravi mal di testa, non alle ferite da sparo. Anche se l’anno scorso il ministero della Sanità dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania non avesse ridotto le forniture di medicine alla Striscia di Gaza, in seguito alle direttive dei vertici politici palestinesi, c’è da dubitare che l’ospedale avrebbe avuto gli analgesici e gli anestetici necessari per curare i circa 1.300 pazienti con ferite da arma da fuoco ed eseguire le centinaia di operazioni svoltesi il 14 maggio.

Nessun ospedale al mondo dispone di chirurghi vascolari ed ortopedici sufficienti per operare centinaia di vittime di spari in un solo giorno. Sono stati reclutati chirurghi con altre specializzazioni per operare sotto la guida degli specialisti. Nessun ospedale ha sufficienti equipe mediche per curare così tanti pazienti. Dopo le 13,30, quando i familiari dei feriti hanno iniziato ad affluire nel già sovraffollato ospedale, la situazione ha incominciato ad andare fuori controllo. Una squadra di sicurezza armata del ministero dell’Interno controllato da Hamas è stata chiamata per ristabilire l’ordine ed è rimasta là fino alle 20,30. Nella notte, 70 dimostranti feriti stavano ancora attendendo di essere curati ed altri 40 hanno atteso fino al mattino seguente. Una settimana dopo, è arrivato il momento della chirurgia ortopedica e delle terapie di riabilitazione, ma nella Striscia non vi sono abbastanza fisioterapisti, chirurgi ortopedici e attrezzature mediche.

Secondo un rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità diffuso il 22 maggio, dal 30 marzo al 22 maggio durante le dimostrazioni lungo il confine con Israele sono state ferite in totale 13.190 persone, compresi 1.136 minori. Di queste, 3.360 sono state ferite da proiettili veri sparati dai nostri eroici e ben protetti soldati; 332 di loro versano ancora in condizioni critiche (due persone sono morte per le ferite nel fine settimana). Sono state eseguite cinque amputazioni degli arti superiori e 27 degli arti inferiori. Soltanto nella settimana dal 13 al 20 maggio i soldati israeliani hanno ferito 3.414 gazawi, 2.013 dei quali sono stati curati in ospedali e cliniche gestiti da organizzazioni non governative, compresi 271 minori e 127 donne; 1.366 avevano ferite da arma da fuoco.

I nostri valorosi soldati hanno sparato anche alle squadre mediche che si avvicinavano alla barriera per soccorrere le vittime. Gli ordini sono ordini, anche quando ciò significa sparare agli infermieri. Di conseguenza i medici lavorano in gruppi di sei: se uno viene ferito, altri due lo portano via per curarlo e i tre rimanenti continuano il lavoro, pregando di non rimanere anche loro feriti.

Il 14 maggio un infermiere della Difesa Civile Palestinese è stato ucciso, colpito mentre andava a soccorrere un dimostrante ferito. Per circa 20 minuti i suoi colleghi hanno cercato di raggiungerlo senza riuscirci, impediti dalla pesante sparatoria. L’infermiere è morto per collasso polmonare. Nella settimana dal 13 al 20 maggio altri 24 operatori sanitari sono stati feriti – otto da proiettili veri, sei da schegge di proiettili, uno da un candelotto lacrimogeno e nove per inalazione di gas lacrimogeni. Dodici ambulanze sono state danneggiate. Tra il 30 marzo e il 20 maggio in totale sono stati feriti 238 operatori medici e danneggiate 38 ambulanze.

Il 23 maggio, dopo aver visitato un ospedale ed un centro di riabilitazione a Gaza, il Commissario Generale dell’UNRWA Pierre Krahenbuhl ha evidenziato le ripercussioni dei recenti avvenimenti: “Sinceramente credo che gran parte del mondo sottovaluti del tutto la portata del disastro in termini umanitari che si è compiuto nella Striscia di Gaza dall’inizio delle marce il 30 marzo…In sette giorni di proteste sono state ferite altrettante persone, o addirittura un po’ di più, di quante lo furono durante l’intero conflitto del 2014. Ciò è veramente sconvolgente. Durante le mie visite, sono anche stato colpito non solo dal numero di feriti, ma anche dal tipo di ferite… La ricorrenza di piccole ferite in entrata e grandi ferite in uscita indica che i proiettili usati hanno provocato gravi danni agli organi interni, ai tessuti muscolari e alle ossa. Gli staff sia degli ospedali del ministero della Sanità di Gaza, sia delle cliniche delle ONG e dell’UNRWA stanno lottando per occuparsi di ferite e di cure estremamente complesse.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




La corte israeliana autorizza la demolizione del villaggio palestinese di Khan al-Ahmar

MEE e agenzie

giovedì 24 maggio 2018, Middle East Eye

Ignorando le richieste di governi europei e di importanti politici statunitensi, giovedì la Corte Suprema israeliana ha emesso una sentenza in favore della demolizione di un villaggio palestinese nella Cisgiordania occupata.

Gli attivisti hanno detto che l’udienza è stata l’ultimo ricorso concesso al villaggio di Khan al-Ahmar, situato sulla strada principale che conduce al Mar Morto, circondato da diverse colonie illegali israeliane ad est di Gerusalemme.

Non è stato chiarito quando avrà luogo la demolizione del villaggio, che ospita 180 abitanti.

Negli anni scorsi la comunità, costituita da circa 35 famiglie appartenenti alla tribù beduina Jahalin, ha subito diverse volte la demolizione delle sue precarie case e scuole, per lo più fatte di lamiera ondulata e legno, da parte dell’esercito israeliano.

Israele vuole demolire il villaggio come parte del cosiddetto piano E 1, che consiste nella costruzione di centinaia di insediamenti per collegare le colonie di Kfar Adumim e Ma’ale Adumim con Gerusalemme est nell’area C [sotto totale ma temporaneo controllo israeliano in base agli accordi di Oslo, ndt.] della Cisgiordania controllata da Israele.

L’anno scorso gli abitanti del villaggio hanno detto a Middle East Eye che avrebbero opposto resistenza ad ogni tentativo di cacciarli dalle loro case.

“L’area C è stata costruita intorno a noi e alle nostre case, non viceversa”, ha detto a MEE Eid Abu Khamis, il portavoce delle comunità beduine nel distretto di Gerusalemme e residente a Khan al-Ahmar.

“Siamo venuti qui dopo che loro (Israele) ci hanno buttato fuori dalle nostre terre durante la Nakba e adesso vogliono cacciarci da questa terra, dove abbiamo vissuto per più di 60 anni.”

Nella sua sentenza la Corte ha affermato di non aver trovato “nessuna ragione per intervenire sulla decisione del ministro della Difesa di applicare gli ordini di demolizione emessi contro le strutture illegali a Khan al-Ahamar.”

Gli abitanti verranno spostati altrove, ha aggiunto, con un metodo che i critici assimilano ad una deportazione. Secondo precedenti piani del governo israeliano, è molto probabile che la comunità verrà trasferita in una zona vicina alla discarica di Abu Dis, una zona periferica degradata cisgiordana di Gerusalemme est.

La Corte ha sentenziato che il villaggio era stato costruito senza i relativi permessi di edificazione.

Per i palestinesi nelle aree della Cisgiordania controllate da Israele è quasi impossibile ottenere questi permessi.

La presidenza palestinese ha denunciato la sentenza della Corte di giovedì, definendola un tentativo razzista di “sradicare i legittimi cittadini palestinesi dalla loro terra per assumerne il controllo e rimpiazzarli con coloni.”

“Questa politica di pulizia etnica è considerata la peggior forma di discriminazione razziale, che è diventata la caratteristica principale delle prassi e delle decisioni del governo israeliano e dei suoi diversi strumenti”, ha affermato in un comunicato.

L’anno scorso 10 senatori democratici USA, guidati da Bernie Sanders e Dianne Feinstein, hanno scongiurato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di bloccare i piani di demolizione dei villaggi palestinesi della Cisgiordania, compreso Khan al-Ahmar.

“Abbiamo a lungo sostenuto la soluzione dei due Stati come un’equa soluzione del conflitto israelo-palestinese”, hanno scritto i senatori.

“Tuttavia i tentativi del vostro governo di trasferire forzatamente intere comunità palestinesi ed espandere le colonie in tutta la Cisgiordania non solo compromettono direttamente una soluzione a due Stati, ma crediamo che mettano anche a rischio il futuro di Israele come democrazia ebraica.”

Anche l’UE ha duramente criticato i piani di espulsione degli abitanti di Khan al-Ahmar.

L’anno scorso, quando era ambasciatore dell’UE in Israele, Lars Faaborg-Andersen ha detto: “L’adozione di misure coercitive come i trasferimenti forzati, le espulsioni, le demolizioni e le confische di case e strutture umanitarie (comprese quelle finanziate dall’UE) e il divieto di fornire assistenza umanitaria violano gli obblighi di Israele in base al diritto internazionale.”

Israele demolisce regolarmente case e scuole palestinesi in Cisgiordania, sostenendo che sono state costruite senza permesso. Ma Human Rights Watch sottolinea che “l’esercito israeliano rifiuta di concedere i permessi alla maggior parte delle nuove costruzioni palestinesi nel 60% della Cisgiordania, dove detiene il controllo esclusivo sulla pianificazione e sull’edilizia, mentre favorisce la costruzione di colonie.”

Nel 2016 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione di condanna di “tutte le misure finalizzate ad alterare la composizione demografica, il carattere e lo status del territorio palestinese occupato dal 1967, compresa Gerusalemme est.”



(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Quel boato? È la Palestina che scatena uno tsunami legale contro i crimini di guerra israeliani

Victor Kattan

25 maggio 2018, Haaretz

La Palestina è decisa a far cadere su Israele tutto il peso delle leggi internazionali. E sta cominciando adesso.

Questa volta il governo di Benjamin Netanyahu potrebbe essere andato troppo in là nella difesa delle azioni delle sue forze armate a Gaza. Ciò potrebbe portare al fatto che Israele sia obbligato a difendere le proprie azioni davanti a una corte di diritto internazionale.

L’affermazione del ministro della Difesa Avigdor Lieberman secondo cui “non ci sono innocenti a Gaza”, dove più di 60 palestinesi sono stati uccisi durante manifestazioni il 14 maggio, non poteva essere ignorata dalla dirigenza palestinese. Secondo il rapporto presentato dalla Palestina alla Corte Penale Internazionale (CPI), le persone colpite da cecchini e dal fuoco dell’artiglieria comprendono sei minori, un amputato alle due gambe, un infermiere e 11 giornalisti.

Se teniamo conto della decisione del presidente USA Donald Trump di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme – che in sé è stata una flagrante violazione delle leggi internazionali – nello stesso giorno in cui ha avuto luogo la sparatoria, la dirigenza palestinese ha capito di dover prendere l’iniziativa, almeno per conservare la propria credibilità agli occhi del suo stesso popolo.

Supportato dai festeggiamenti che hanno accompagnato la decisione di Trump sull’ambasciata, il primo ministro Benjamin Netanyahu sembra aver trascurato, o non avere preso sul serio, importanti iniziative diplomatiche palestinesi negli ultimi mesi che, prese insieme, potrebbero aver rovinato la festa.

Nel settembre 2017 la Palestina ha aderito all’Interpol, l’organizzazione internazionale di polizia; in aprile ha presentato una denuncia contro Israele per aver violato i suoi impegni in base alla “Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di Ogni Forma di Discriminazione Razziale”; e proprio la settimana scorsa il Consiglio ONU sui Diritti Umani ha deciso di inviare una commissione di inchiesta, appoggiata da quasi tutti i membri del Consiglio tranne gli USA e l’Australia, per indagare sull’uccisione di palestinesi sul confine di Gaza da parte di Israele.

Ora il ministro degli Esteri della Palestina Riyad al-Maliki ha presentato un ricorso su propria iniziativa alla Corte Penale Internazionale in cui si chiede alla procuratrice Fatou Bensouda di aprire un’indagine sui crimini commessi sul territorio dello Stato di Palestina.

La dirigenza palestinese potrebbe prendere ulteriori passi presso altre corti e tribunali internazionali, come la Corte Internazionale di Giustizia, chiedendo all’Assemblea Generale dell’ONU di fare richiesta di un parere consultivo a quella corte, se facendolo vi vedesse un beneficio politico.

Benché Israele non riconosca lo Stato di Palestina, oltre 130 Stati lo fanno. Dato che Israele sta occupando il territorio di uno Stato membro, in linea di principio la CPI ha giurisdizione in materia.

Il ricorso su propria iniziativa è stato presentato alla procuratrice Bensouda da funzionari del ministero degli Affari Esteri della Palestina. Lo Stato di Palestina ha goduto dello status di Paese osservatore nell’Assemblea Generale dell’ONU dal 29 novembre 2012, ed ha ratificato o aderito a numerosi trattati – compreso lo Statuto di Roma che ha creato la CPI.

Gli USA, per favorire Israele, potrebbero rendere questo ricorso alle leggi internazionali disagevole per i palestinesi. Nel 2015 il congresso USA ha approvato l’“Omnibus Appropriations Act” [“Legge per la Raccolta dei Finanziamenti”, ndt.] per impedire il trasferimento di un sostegno economico all’Autorità Nazionale Palestinese se questa avesse avviato “un’inchiesta giuridicamente autorizzata della Corte Penale Internazionale o avesse attivamente sostenuto un simile inchiesta, che sottoponga cittadini israeliani a un’inchiesta per presunti crimini contro i palestinesi.”

Ovviamente i consiglieri giuridici della Palestina potrebbero sostenere di non aver iniziato loro, ma solo richiesto, l’apertura di un’inchiesta: solo il procuratore può avviare un’inchiesta.

Ma comunque l’amministrazione Trump ha già tagliato gli aiuti all’UNRWA, l’agenzia ONU incaricata di occuparsi dei rifugiati palestinesi, e ha tentato di chiudere la missione diplomatica della Palestina a Washington. Queste azioni hanno eliminato gli incentivi ed i privilegi economici che il presidente Obama, e le precedenti amministrazioni USA, avevano concesso alla dirigenza palestinese.

Finora questi benefici sembravano aver evitato che la dirigenza palestinese presentasse le proprie richieste contro Israele di fronte a corti e tribunali internazionali. La minaccia di ulteriori tagli all’Autorità Nazionale Palestinese evidentemente non ha dissuaso la leadership palestinese dal prendere questa iniziativa, che potrebbe indicare che essa ha trovato altri finanziatori che la tengono a galla.

La decisione di presentare un ricorso su propria iniziativa alla CPI è significativa perché mette pressione sulla procura affinché velocizzi il terzo esame preliminare che sta già svolgendo sulla Palestina.

Questa indagine è stata aperta quando la Palestina ha aderito alla Corte nel gennaio 2015 ed attualmente è nella fase 2 di un processo in 4 fasi. (La fase 1 consiste in una valutazione informativa; la 2 si concentra sulla giurisdizione; la 3 sulla potenziale ammissibilità dei casi; la 4 esamina l’interesse della giustizia).

Il testo del ricorso della Palestina alla CPI indica che, da quando nel gennaio 2015 la Palestina ha aderito alla Corte, il ministro degli Affari Esteri della Palestina ed i suoi giuristi dell’Aia hanno inviato all’ufficio del procuratore tre comunicazioni, un’osservazione e 25 successivi rapporti mensili.

Il ricorso “chiede alla procura di indagare, in base alla giurisdizione temporale della Corte, crimini precedenti, in corso e futuri che ricadono sotto la giurisdizione della Corte, commessi in ogni parte del territorio dello Stato di Palestina.” Il ricorso chiarisce che “lo Stato di Palestina comprende i territori palestinesi occupati dal 1967 da Israele, come definiti dalla linea dell’armistizio del 1949, e include la Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e la Striscia di Gaza.”

Nella sua dichiarazione sul ricorso, l’ufficio di Bensouda ha spiegato che ciò non porta automaticamente all’apertura di un’inchiesta.” Deve ancora completare le 4 fasi di esame preliminare.

Al momento tutti i ricorsi su propria iniziativa alla CPI sono stati presentati da Paesi africani, compresi la Repubblica centro-africana (due volte), la Repubblica Democratica del Congo, le Comore, il Gabon, il Mali e l’Uganda. L’attenzione esclusiva della Corte sul continente è stato argomento di critiche, anche se John Dugard, uno dei legali che questa settimana hanno accompagnato il ministro degli Esteri palestinese alla CPI, giustamente ha sostenuto che sono gli stessi Stati africani che hanno presentato questi ricorsi.

La Palestina è stato il primo Stato non africano a presentare un ricorso su propria iniziativa ed il secondo a prevedere accuse di crimini commessi da Israele.

Il primo venne fatto dalle Comore nel 2013 riguardo a presunti crimini commessi da Israele sulla nave Mavi Marmara, una nave passeggeri con bandiera delle Comore che nel 2010 portava pacifisti verso Gaza [10 passeggeri turchi vennero uccisi durante l’attacco israeliano in acque internazionali, ndt.]. Nonostante due ricorsi, in quel caso il procuratore decise di non aprire un’inchiesta e chiuse la sua inchiesta preliminare.

Non ci sono ragioni per cui il fatto di non essere arrivati a un processo riguardo alla Mavi Marmara possa impedire al procuratore di valutare con cura le denunce palestinesi di crimini commessi nello Stato di Palestina.

È vero, la procura potrebbe avere difficoltà a raccogliere prove, in quanto Israele difficilmente collaborerà, e non è obbligato a collaborare in quanto Israele non è uno Stato membro del Trattato di Roma. Tuttavia, come ben chiarisce il ricorso, i crimini commessi da Israele a Gerusalemme est, in Cisgiordania e a Gaza “sono tra i più ampiamente documentati nella storia contemporanea.”

Questi presunti crimini includono la politica di colonizzazione di Israele, che viola direttamente lo Statuto di Roma ed è stata una delle ragioni per cui Israele non l’ha firmato nel 1998. Secondo il ricorso palestinese, come documentato dall’Ufficio Statistico Centrale di Israele, rispetto allo stesso periodo dell’anno prima c’è stato un aumento del 70% delle costruzioni di colonie tra l’aprile 2016 e il marzo 2017.

Il ricorso sostiene anche che l’esercito israeliano e i coloni hanno ucciso o ferito oltre 1.100 minori palestinesi nel solo 2017. Si riferisce alle uccisioni a Gaza del 14 maggio, alla demolizione di case a partire dal 2016, alla distruzione ed appropriazione di proprietà, alla detenzione illegittima, compresi 700 palestinesi tenuti in detenzione amministrativa che viene rinnovata indefinitamente, senza imputazioni o processo, sulla base di prove “segrete” tenute nascoste ai detenuti ed ai loro avvocati. Altre accuse, precisate in precedenti comunicazioni, osservazioni e rapporti mensili inviati all’ufficio della procura non sono state rese note.

Dei sei Stati che finora hanno fatto ricorso su propria iniziativa alla CPI, la procura ha aperto inchieste su cinque di essi: la Repubblica centro-africana (due volte), il Congo, il Mali e l’Uganda. Un altro (relativo al Gabon) è ancora nella fase 2. Rifiutando di aprire un’indagine sulla flottiglia di Gaza, la procura ha considerato i presunti crimini “non di una gravità sufficiente”. Ma è improbabile che questo argomento impedisca alla procura di indagare su presunti crimini di Israele in Cisgiordania e a Gaza, che sembrano essere molti gravi.

Se la prassi precedente insegna qualcosa, pare ci sia una notevole probabilità che la procura apra questa inchiesta sul caso palestinese. I ricorsi su propria iniziativa si sono conclusi con un processo e con arresti nei casi relativi alla Repubblica centro-africana, al Congo e all’Uganda, dove ordini di arresto sono stati emanati nel 2005 contro membri dell’Esercito di Liberazione del Signore [gruppo di guerriglia con connotazioni religiose responsabile di molte atrocità, ndt.]. I sospettati sono rimasti alla macchia per un decennio finché uno di loro, Dominic Ongwen, si è consegnato alla CPI. Il suo processo è in corso.

Il ricorso della Palestina alla CPI non rende pubblici i nomi delle persone accusate di aver commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità in Palestina, ma è probabile che comprendano autorità ai più alti livelli dello Stato, compresi politici e membri delle forze armate. 

Benché gli ingranaggi della giustizia internazionale siano lenti, sono stati messi in movimento. È solo questione di tempo, finché la procura dovrà decidere se aprire un’inchiesta. Se decidesse che ci sono informazioni sufficienti per acconsentire all’apertura di un’indagine, è probabile che chieda la presenza di persone che vorrebbe interrogare e indagare perché implicate nella perpetrazione di crimini, perché testimoni di questi crimini, oppure perché ne sono stati essi stessi vittime.

Resta da vedere se Netanyahu sarà ancora il primo ministro di Israele quando, e se, il procuratore decidesse di aprire un’inchiesta. Nel frattempo Netanyahu non solo si deve preoccupare dei suoi problemi legali in patria [per accuse di corruzione, ndt.], ma anche di potenziali problemi legali all’estero, che potrebbero sorgere in un futuro non molto lontano.

Per il momento potrebbe essere al sicuro – dato che gode di immunità da procedimenti penali in base alle leggi consuetudinarie internazionali in quanto capo del governo israeliano. Israele non fa parte dello Statuto di Roma e potrebbe sostenere che non è vincolato alle norme dello Statuto che tolgono l’immunità ai capi di Stato per crimini che ricadono sotto di esso. I giuristi della Palestina potrebbero sostenere al contrario che i capi di Stato non godono di immunità se sono responsabili di aver commesso crimini in base allo Statuto di Roma. Potrebbero affermare che le disposizioni dello Statuto che prevedono l’esclusione dell’immunità dei capi di Stato per crimini di guerra e crimini contro l’umanità riflettono le leggi internazionali consuetudinarie, che sono vincolanti per ogni Stato, compreso Israele, anche se Israele non ha ratificato lo Statuto.

In base alle leggi internazionali membri dell’esercito israeliano di rango inferiore ed ex-autorità di governo non sarebbero tuttavia immuni dalla giurisdizione penale. Se la CPI emanasse un mandato, qualunque Stato che faccia parte dello Statuto di Roma potrebbe applicare quel mandato agli israeliani menzionati se visitassero il loro territorio.

Come potrebbe proteggerli Israele? Potrebbe conferire lo status diplomatico a ex-ufficiali offrendo loro posizioni di ambasciatore in Stati che non sono parti in causa o promuovere funzionari a importanti posizioni nel governo.

In un caso tristemente noto, il Regno Unito fornì all’ex ministra israeliana Tzipi Livni [denunciata da uno studio legale di Londra per crimini durante l’operazione militare “Piombo fuso” contro Gaza nel 2008-09, ndt.] un’immunità per una “missione speciale”, addirittura una provvisoria competenza giurisdizionale, benché non avesse più un incarico di governo.

Dato che 123 Stati fanno parte dello Statuto di Roma, compresa la Palestina, importanti autorità israeliane potenzialmente implicate in crimini di guerra a Gaza o nell’attività di colonizzazione di Israele dovranno presumibilmente pianificare con cautela le proprie vacanze. E se i calcoli politici e legali in patria diventassero sfavorevoli, Netanyahu potrebbe unirsi a questo gruppo maledetto.

L’unica soddisfazione che questi funzionari israeliani potrebbero allora trovare è che un’indagine della CPI potrebbe probabilmente prendere di mira anche Hamas, date le sue azioni durante l’operazione “Margine protettivo” nel 2014. A differenza dei funzionari israeliani, i membri di Hamas, compresi i suoi principali dirigenti, non godono di immunità, e sarebbero un obiettivo molto più facile per la Corte.

Victor Kattan è ricercatore senior all’Istituto per il Medio Oriente dell’università nazionale di Singapore (NUS) e ricercatore associato alla facoltà di diritto nella NUS.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Storie della Catastrofe: Esilio

Amena ElAshkar, Ali Ibrahim e Nadine Osama

17 Maggio 2018, The Electronic Intifada

Settant’anni fa i palestinesi hanno subito la Nakba, o Catastrofe, quando la maggioranza di loro lasciò o fu obbligata dalle milizie sioniste a lasciare la Palestina per far posto alla creazione dello Stato di Israele e garantire una maggioranza ebraica.

Circa 750.000 persone finirono per diventare profughi registrati dalle Nazioni Unite. Molti altri se la cavarono da soli. Non gli venne mai consentito di tornare alle loro terre o case, che vennero confiscate dal nascente Stato, e molti dei loro villaggi vennero successivamente distrutti. Qui alcuni sopravvissuti raccontano le loro storie.

Fatima Feisal, 78, Ein al-Hilweh campo profughi, Sidone, Libano. Originaria di Tarshiha, in Galilea.

Posso chiudere gli occhi e ricordare ogni singolo dettaglio del villaggio. Le strade, il quartiere. Gli alberi di fico e quelli con le bacche. Ogni piccolo particolare. Posso vederlo proprio davanti ai miei occhi. La mia famiglia viveva di agricoltura. Avevamo più di 100 capre. La più grande era la mia preferita. La cavalcavo come se andassi in bicicletta. La chiamavo “la mia bicicletta”.

Una volta stavo portando da mangiare al pastore che lavorava per noi. I coloni mi hanno incontrata e mi hanno chiesto il motivo della mia presenza. Ho risposto che stavo portando del cibo al pastore che stava con le nostre capre vicino a una delle colonie. Gli ho fatto vedere il cibo, ma non mi hanno creduta. Pensavano che portassi dei messaggi e che il pastore fosse un combattente per la libertà. Lo hanno fatto prigioniero, lo hanno torturato e gli hanno bruciato tutto il corpo.

Avevo 9 anni quando gli aerei hanno bombardato Tarshiha. È stata la notte peggiore della mia vita. La gente si nascondeva nella casa del capo del villaggio. Faceva parte della famiglia Huwari e aveva una grande casa. Ho visto come la casa è stata bombardata. Ho visto anche come gli abitanti cercavano di trarre in salvo le persone seppellite sotto le macerie.

Sono stata separata dalla mia famiglia e da mio fratello Ali e non avevo altra scelta che cercarlo. Era più giovane di me. Sembrava il giorno del giudizio universale. La gente correva e urlava. Sono andata alle grotte al confine del villaggio. Erano strapiene di persone che si proteggevano dai bombardamenti. Lo chiamavo per nome. Alla fine ha risposto. L’ho preso per mano e ci siamo allontanati dal villaggio. Abbiamo camminato per due ore verso un altro villaggio di nome Sabalan dove ci siamo riuniti con la nostra famiglia. Poi abbiamo proseguito verso il Libano.

Ho un ultimo desiderio. Ho 78 anni. Sarà il mio ultimo desiderio. C’era un albero di bacche proprio di fronte alla nostra casa a Tarshiha. Voglio ritornare lì e mangiare una bacca. Un’ ultima bacca.

Resoconto e foto di Amena ElAshkar

Naaseh Khaled Hamoudeh, 70 anni, Campo profughi di Wihdat, Amman. Proveniente da Deir Tarif, vicino a Ramla.

Sono nata in un villaggio il cui nome era Deir Tarif. Mio padre possedeva cammelli che usava per trasportare merci da un posto all’altro.

Quando è avvenuta la Nakba avevo uno o due mesi. I villaggi della nostra zona erano sotto attacco, uno dopo l’altro e tutta l’area era sotto assedio con poche riserve di cibo. I miei genitori andarono al paese più vicino per cercare cibo lasciando a mio fratello e alla mia sorella il compito di occuparsi di me. Allora mio fratello, di 15 anni, era il più grande. Ma i miei genitori non poterono ritornare perché la strada era bloccata e i sionisti si stavano avvicinando al villaggio.

Allora il capo del villaggio ha riunito tutti i bambini su un grande camion e ci ha portati a un villaggio di nome Shuqba. Siamo stati lì per un po’. Alcuni adulti si occupavano dei bambini senza i genitori. Sono stata allattata da differenti donne che avevano dei bambini piccoli. Ne abbiamo persi molti lungo il cammino. Hanno sparato senza alcun motivo a mio zio e a sua figlia da poco fidanzata. C’erano corpi nelle strade ed era difficile dare loro una degna sepoltura. Solamente le donne e le ragazze venivano sepolte. Il corpo di mio cugino ha potuto essere recuperato di notte con grande pericolo.

I nostri genitori ci hanno trovati dopo giorni di ricerche. Andavamo di villaggio in villaggio alla ricerca di cibo e di ricovero. Siamo andati a Qibya , poi a Kafr Thulth, infine a Deir Ammar.

In seguito la mia famiglia si è trasferita in Giordania e si è stabilita in una tendopoli vicino a Wadi al-Seer. Poi, circa nel 1955, siamo andati al campo di Wihdat. Eravamo in sette e dovevamo dormire tutti in una stanza. Non potevamo permetterci un tetto di metallo così coprimmo l’abitazione con una grande stoffa.

Tutti i miei ricordi si riferiscono al campo. Lo ritengo la mia casa, ma non rinuncerò mai al diritto al ritorno. La gente del campo fa una vita dura e soffre molto, ma ciò produce anche una profonda solidarietà nella nostra società. Mi occupo delle attività politiche e culturali del campo. Ho aderito nel 1962 al movimento nazionalista arabo e più tardi al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Ero solita ospitare a casa riunioni politiche clandestine.

Mi mancano quei giorni, la gente si dedicava di più era impegnata nella propria causa.

Mio figlio Ali è andato a studiare a Beirut. Quando c’è stata l’invasione israeliana l’ho chiamato e gli ho detto che non aveva altra scelta che combattere e difendere Beirut. Ero sempre preoccupata, per lui ma anche altrettanto preoccupata per tutti i combattenti che difendevano Beirut.

Un giorno torneremo. Il povero e il ricco, il senzatetto e quelli che vivono in grandi case e le persone più diverse potranno ritornare. Il diritto al ritorno è sacro. E se non sarò viva per ritornare, ritornerai tu, mio figlio. E se tu non ritornerai prima o poi saranno i tuoi figli a ritornare.

Reportage di Ali Ibrahim, foto di Nadine Osama

Widad Kawar, 87anni, Amman. Proveniente da Betlemme.

Sono nata a Betlemme e sono andata al collegio “Friends” [“Amici”] a Ramallah. Mi sono diplomata poche settimane prima della Nakba e sono tornata di corsa a casa a causa del peggioramento della situazione politica. Alcuni studenti giordani sono stati scortati in Giordania dall’esercito giordano. Io sono dovuta andare a Gerusalemme per prendere un tassì per Betlemme.

Dopo la Nakba sono andata a studiare al collegio femminile dell’Università Americana di Beirut. Quando sono tornata, Betlemme era un paese completamente diverso.

Betlemme era unica in quanto era sia una città che un villaggio, un luogo di tradizione e di modernità. Era il punto di riferimento per molti villaggi attorno, la sorella minore di Gerusalemme. Donne dei villaggi venivano a Betlemme nelle nostre case a vendere diversi prodotti. Ho sempre ammirato lo spirito e la vivacità con cui raccontavano le storie della vita in campagna. Il sabato le donne vendevano anche nei mercati delle principali città. È lì che allora ho cominciato a collezionare piccoli pezzi di tessuto ricamato e più tardi interi vestiti.

Dopo la Nakba, Betlemme era tagliata fuori da Gerusalemme e da molti villaggi intorno. Molti abitanti di questi villaggi sono diventati profughi a Betlemme, vivendo in spazi angusti o nei campi profughi. Queste persone erano abituate a lavorare nei campi che avevano curato per secoli. Avevano tradizioni, costumi e comportamenti diversi tra loro, che definivano la loro identità. Io ho cominciato a collezionare i vestiti insieme alle storie delle donne che li hanno portati.

Per me, il ricamo palestinese riflette l’identità, la società e la terra. Riflette l’identità perché ogni villaggio in Palestina aveva la propria cultura per mezzo della quale faceva orgogliosamente riferimento alla tradizione. È una rappresentazione della società, un caleidoscopio di storie diverse, di vestiti, culture e colori preparati insieme. Il vestito palestinese testimonia del tempo passato, che fu quando le donne costituivano una parte attiva della società, e nel loro tempo a disposizione si riunivano nei pomeriggi estivi ventilati e lavoravano insieme sui vestiti mentre si scambiavano le proprie conoscenze.

Rappresenta anche la terra perché i simboli e i colori sono stati ispirati dalla terra. L’albero di cipresso è un simbolo famoso che troviamo spesso nei disegni dei vestiti. Tante persone erano solite piantare cipressi intorno alle loro proprietà per segnare i confini e proteggere i raccolti dai forti venti. I colori di solito derivavano dalle piante del luogo, come il sommacco [arbusto utilizzato per uso cucina, salutistico e per tingere, ndt.] per colorare di rosso.

Resoconto di Ali Ibrahim, foto di Nadine Osama


Khazna al-Sahli, 88 anni, campo profughi di Burj al-Barajneh, Beirut. Proveniente da Balad al-Sheikh, vicino ad Haifa.

Il mio villaggio era bellissimo. Posso ancora vedere i campi come vedo te. Coltivavamo ogni sorta di ortaggi, melanzane, pomodori, grano. Mio padre era un contadino, ma mia madre veniva dalla città. Era di Haifa. Amavo andare con mio padre ad Haifa a vendere i nostri prodotti. Una volta non ho trovato le mie ciabatte per andare con lui e così sono andato a piedi nudi.

Tutto è cominciato quando il capo del villaggio ha bussato alla nostra porta. Ci ha detto che gli inglesi avevano consegnato tutto agli ebrei e ora questi stavano arrivando per cacciarci. “Dovete nascondervi”. Fino ad allora non c’erano stati problemi con gli ebrei di Neshar (una colonia sionista). Le case della colonia erano molto diverse dalle nostre. Gli ebrei vivevano in piccole case colorate. Vendevano i loro prodotti nel nostro villaggio e noi vendevamo i nostri a Neshar.

Il giorno che fuggimmo il capo del villaggio arrivò con tre automobili. Ci ha portato a Nazareth e da lì siamo andati in Siria, a Tel-Mnin. Siamo rimasti per tutto un mese in una stalla. Dopo siamo andati a quello che in seguito prese il nome di Yarmouk, il campo profughi a Damasco.

Resoconto e foto di Amena ElAshkar

Wael Abdo al-Sajdi, 88 anni, Amman. Proveniente da Gerusalemme.

Mio padre era un ingegnere civile che lavorava per le autorità del Mandato britannico e avrebbe lavorato in diversi luoghi della Palestina. La famiglia è originaria di Nablus, ma io sono nato nel 1930 a Gerusalemme, dove in quel periodo mio padre lavorava. Considero Gerusalemme come la mia casa. Ho studiato e passato l’infanzia lì. Ancora ricordo ogni strada e posso guidarti in qualunque percorso o scorciatoia.

La Nakba è cominciata prima del 1948. Ricordo che una volta mio padre venne mandato per un anno a Nablus. Ci fu un attacco dei combattenti per la libertà contro le truppe inglesi e questi decretarono il coprifuoco in città. Mi annoiavo, così uscii sul balcone. Tutte le strade erano vuote, tranne che per la presenza di un veicolo blindato dell’esercito con un grande fucile sopra che pattugliava la zona.

Un anziano, che tutti in città sapevano essere sordo, doveva non aver sentito l’annuncio del coprifuoco. Il soldato gli puntò l’arma contro, ma lui continuò a camminare. Lo ricordo ancora mentre cadeva a terra. Chiaramente non costituiva nessuna minaccia, ma il soldato non esitò a sparargli. Nessuno poté rimuovere il suo cadavere fino al giorno dopo.

Nel 2000, quando ho compiuto 70 anni, volevo veramente visitare Gerusalemme. Era impossibile in quel momento avere un permesso per entrare in città, ma ero determinato ad andarci in un modo o in un altro. Indossai un tipico abbigliamento occidentale, calzoncini, un cappello, una camicia vistosa e mi misi al collo la mia videocamera. Mi impegnai a pagare da solo il prezzo di un taxi collettivo perché l’autista mi portasse per vie secondarie a Gerusalemme. Gli dissi che avrei potuto entrare in città senza problemi.

Sfortunatamente c’era davvero un checkpoint. I soldati parlarono all’autista e quando mi chiesero la carta d’identità risposi solamente in italiano gesticolando. Mi credettero e ci lasciarono andare. In città avrei parlato solamente in italiano con i soldati. Andai alla mia vecchia casa che ora è un centro culturale turco. Chiesi se potevo fare un giro e accettarono quando gli dissi che avevo abitato lì con la mia famiglia. Visitai anche la mia scuola e i ristoranti dove con la famiglia eravamo soliti mangiare. Camminai per le strade e per i mercati che mi erano ancora familiari.

Ho pianto in ognuno di quei posti.

Resoconto di Ali Ibrahim, foto di Nadine Osama

Amena ElAshkar è un giornalista e fotografo del campo profughi di Burj al-Barajneh, Beirut.

Ali Ibrahim è un giornalista di Amman.

Nadine Osama è una ricercatrice e fotografa di Amman.

(traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Un affronto alla Storia: il Giro d’Italia usato per nascondere l’apartheid israeliana.

Ramzy Baroud

17 maggio 2018, Counterpunch.org

Per la prima volta dal suo debutto nel 1909, il 4 maggio [di quest’anno, n.d.t.] il Giro d’Italia, leggendaria gara ciclistica italiana, è iniziato fuori dall’Europa e, stranamente, dalla città di Gerusalemme.

Le contraddizioni che questa decisione porta con sé sono inevitabili. L’Italia è un Paese che sa bene cosa sia una crudele occupazione straniera e che è stato devastato dal fascismo e dalla guerra. È terrificante che oggi abbia un ruolo nei continui tentativi di Israele di “nascondere con un’imbiancata” o, in questo caso, di “nascondere con lo sport” l’occupazione militare e la violenza quotidiana contro il popolo palestinese.

Tutti i tentativi di convincere gli organizzatori della gara a non essere parte della propaganda politica israeliana sono falliti. A quanto pare, i milioni di dollari pagati agli organizzatori del Giro d’Italia, RCS Sport, sono stati molto più convincenti delle esperienze culturali condivise, della solidarietà, dei diritti umani e del diritto internazionale.

Il famoso scrittore italiano Dino Buzzati, negli anni ‘40, ha scritto sui giornali italiani diversi racconti in cui descriveva il simbolismo della gara nel contesto di una nazione malridotta che risorgeva dalle ceneri di una gigantesca distruzione.

Subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, gli organizzatori del Giro d’Italia si trovarono di fronte al compito apparentemente impossibile di organizzare una gara con poche biciclette e ancor meno atleti. Le strade erano state completamente distrutte durante la guerra, ma era più forte la determinazione a farcela.

Il Giro d’Italia del 1946, e soprattutto la leggendaria rivalità tra Fausto Coppi e Gino Bartali, divennero la metafora di un Paese che si rialzava dopo gli orrori della guerra, ridando vita alla propria identità nazionale, rappresentata dallo scontro finale tra atleti eroici che pedalavano tra tortuose strade di montagna per raggiungere il traguardo.

Conoscendo questa storia, Israele l’ha sfruttata in ogni modo possibile. Il governo israeliano, infatti, ha recentemente concesso al compianto Gino Bartali la cittadinanza onoraria, come riconoscimento del retaggio anti-nazista dell’atleta. L’ironia, ovviamente, è che il trattamento che gli israeliani riservano ai palestinesi – occupazione militare, razzismo, apartheid e violenze aberranti – ricorda proprio quella realtà che Bartali e altri milioni di italiani hanno combattuto per anni.

Quando, lo scorso settembre, i dirigenti israeliani hanno annunciato che il Giro d’Italia sarebbe partito da Gerusalemme, si sono dati da fare per collegare l’evento alle celebrazioni israeliane per i 70 anni di indipendenza.

Sono passati 70 anni anche da quando i palestinesi vennero cacciati dalle loro terre da milizie sioniste, il che ha portato alla Nakba, distruzione catastrofica della Palestina, e alla nascita di Israele come Stato ebraico. È allora che Gerusalemme Ovest divenne parte di Israele, mentre il resto della Città Santa, Gerusalemme Est, venne conquistata con la guerra del 1967, prima dell’annessione, ufficiale ma illegale, del 1981, a dispetto del diritto internazionale.

RCS Sport non può dire di non sapere quando si parla di come la decisione di collaborare e avvalorare l’apartheid israeliana segnerà per sempre la storia della gara. Quando hanno annunciato sul sito che la competizione sarebbe partita da “Gerusalemme Ovest”, la risposta israeliana è stata immediata e furente. Il Ministro dello Sport israeliano, Miri Regev, e quello del Turismo, Yariv Levi, hanno minacciato di interrompere la collaborazione, lamentando che “a Gerusalemme, la capitale di Israele, non ci sono Est o Ovest. Esiste solo un’unica Gerusalemme”.

Purtroppo, gli organizzatori del Giro d’Italia hanno chiesto scusa pubblicamente e hanno rimosso la parola “Ovest” dal sito e dai comunicati stampa.

Secondo il diritto internazionale, Gerusalemme Est è una città palestinese occupata. Questo fatto è stato ripetutamente ribadito da risoluzioni ONU, tra cui la più recente, la Risoluzione 2334 del 23 dicembre 2016, che condanna la costruzione di insediamenti illegali israeliani nei Territori occupati, inclusa Gerusalemme Est.

La realtà dei fatti contraddice palesemente le argomentazioni degli organizzatori del Giro d’Italia, secondo cui la gara sarebbe una celebrazione della pace. In realtà, è un modo di avallare l’apartheid, la violenza e i crimini di guerra.

Il fatto che la gara si sia svolta secondo il programma, nonostante fosse in corso l’assassinio di manifestanti palestinesi a Gaza, dimostra anche il livello di corruzione morale di chi sta dietro tutto questo. Oltre 50 palestinesi disarmati sono stati uccisi dal 30 marzo, dall’inizio cioè delle manifestazioni pacifiche al confine di Gaza, note come ”Grande Marcia del Ritorno”. Secondo il Ministero palestinese per la Gioventù e lo Sport, sono oltre 7.000 i feriti, e tra loro 30 atleti.

Uno dei feriti è Alaa al-Dali, 21 anni, ciclista, a cui è stata amputata una gamba, colpita da un proiettile il primo giorno delle proteste.

Sylvan Adams, filantropo ebreo canadese e uno dei maggiori finanziatori della gara, ha sostenuto che il proprio contributo sia motivato dal desiderio di promuovere Israele e sostenere il ciclismo come ”ponte tra i popoli”.

I palestinesi come Alaa, la cui carriera ciclistica è finita, sono, ovviamente, esclusi da questa sublime e selettiva definizione. I 12 milioni di dollari che gli organizzatori hanno ricevuto da Israele e dai suoi sostenitori sono stati un prezzo sufficiente per ignorare la sofferenza dei palestinesi e per agevolare la normalizzazione dei crimini israeliani contro il popolo palestinese?

Purtroppo, nel caso di RCS Sport, la risposta è sì.

Molte persone in Italia e ancor più nel mondo, ovviamente, non sono d’accordo. Nonostante il ruolo dei media nello “sport-washing” israeliano, centinaia di italiani hanno protestato durante le varie tappe della gara.

La quarta tappa del Giro d’Italia, a Catania, in Sicilia, è stata ritardata dalla protesta contro una competizione ”sporca di sangue palestinese”, secondo le parole dell’attivista Alfonso Di Stefano.

Renzo Ulivieri, presidente dell’Associazione Italiana Allenatori, è stato una delle prime voci italiane importanti a contestare la decisione di tenere la gara in Israele. “Avrei potuto rimanere indifferente, ma temo che sarei stato disprezzato dalle persone che stimo. Viva il popolo palestinese, libero sulla sua terra”, ha scritto in un post su Facebook.

RCS Sport ha causato al Giro, al ciclismo e agli italiani un danno imperdonabile in cambio di pochi milioni di dollari. Accettando di far partire la gara da un Paese colpevole di pratiche di apartheid e prolungata occupazione militare, [gli organizzatori, ndt.] hanno marchiato a vita la competizione.

Comunque, la generale ondata di indignazione provocata da questa decisione irresponsabile pare indicare che gli sforzi israeliani per normalizzare i propri crimini contro i palestinesi non stiano riuscendo a cambiare l’opinione pubblica e la percezione di Israele come potenza occupante, che merita di essere boicottata, non accettata.

  • Romana Rubeo, scrittrice italiana, ha contribuito a questo articolo.


Il Dr. Ramzy Barud scrive di Medio Oriente da oltre vent’anni. Editorialista di livello internazionale, esperto in comunicazione, è autore di diversi libri e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è ”My father was a freedom fighter: Gaza’s Untold Story (Pluto Press, Londra). Sito web: ramzybaroud.net

(Traduzione di Elena Bellini)

 

 




Come Israele testa la sua tecnologia avanzata sui manifestanti palestinesi

Daniel Hilton

18 maggio 2018, Middle East Eye

I candelotti lacrimogeni lanciati dai droni israeliani hanno provocato il panico, causato molti feriti e seminato morte durante le manifestazioni di questa settimana a Gaza e in Cisgiordania.

Il divario tra i manifestanti palestinesi e le forze israeliane è stato spesso paragonato alla lotta di Davide contro Golia. Ormai Golia non ha nemmeno più bisogno di scendere sul campo di battaglia.

Grazie ad una nuova invenzione, l’esercito israeliano ha utilizzato piccoli droni per lanciare gas lacrimogeni sulle manifestazioni dei palestinesi lungo il confine della Striscia di Gaza con Israele e nella Cisgiordania occupata.

Visti per la prima volta all’inizio di marzo, quando la catena libanese Al-Mayadeen ha filmato un gruppo di manifestanti di Gaza presi di mira da uno di essi, i droni che trasportano gas sono stati ampiamente utilizzati nelle manifestazioni di lunedì e martedì nell’enclave costiera e nella Cisgiordania occupata.

Sembra che per lanciare gas vengano utilizzati tre tipi di droni.

Il primo, sviluppato dall’impresa israeliana ISPRA e conosciuto col nome “Cyclone Riot Control Drone System”, è un piccolo drone che trasporta una scatola contenente nove cartucce in alluminio leggero che esplodono dopo il lancio.

Tuttavia sembra che siano stati utilizzati da Israele altri due modelli, che secondo esperti interpellati da MEE non sono mai stati visti prima.

Uno è un drone che libera gas direttamente dall’apparecchio, come uno spray, spandendo una nube su coloro che vi si trovano sotto.

L’altro, un dispositivo potenzialmente molto più pericoloso, è un drone tipo elicottero che trasporta granate esplosive in gomma con delle spirali metalliche che cadendo disperdono il gas.

Secondo gli esperti interpellati da MEE, quando le manifestazioni della ‘Grande Marcia del Ritorno’ hanno raggiunto il loro culmine all’inizio di questa settimana, il terzo tipo di drone è diventato quello di gran lunga più utilizzato.

Esso non sembra essere uno strumento sofisticato.

«E’ più sofisticato (di un drone commerciale), non è qualcosa che si possa acquistare a buon prezzo su Amazon, ma penso che sia abbastanza simile», ha dichiarato a MEE Itay Mack, un avvocato per i diritti umani ed attivista israeliano che si occupa delle esportazioni militari di Israele.

Il drone sembra essere dotato di un supporto a molla, che si apre per lasciar cadere un certo numero di candelotti lacrimogeni.

«Penso che la sicura dei candelotti venga sganciata manualmente quando vengono fissati al supporto prima del decollo», ha dichiarato a MEE James Bevan, direttore esecutivo di ‘Conflict Armament Research’.

Il supporto viene quindi rilasciato una volta che il drone si trova sulla zona su cui chi lo manovra intende sganciare il gas.

«Può trattarsi di una cosa semplice come un perno retraibile attaccato a un servomotore, che è collegato ai circuiti del drone», spiega Bevan. «È ciò che lo “Stato islamico” ha utilizzato in Iraq e in Siria. »

Secondo Bevan, lo “Stato islamico” è l’unico gruppo per il quale esistono prove concrete di utilizzo di questi piccoli droni elicotteri in situazioni di combattimento, soprattutto a Mosul (Iraq) e a Tall Afar (Siria).

«Constatiamo l’utilizzo di droni in altri scenari, anche da parte di organizzazioni non statali, ma si tratta di droni militari ad ala fissa », ha spiegato.

Nuova gittata, nuovo pericolo

Le manifestazioni di lunedì a Gaza coincidevano con la cerimonia di inaugurazione ufficiale della nuova ambasciata statunitense a Gerusalemme, mentre quelle di martedì segnavano il 70^ anniversario della Nakba – o “Catastrofe” – durante la quale 700.000 palestinesi furono espulsi dalle loro case nel 1948.

Durante questi due giorni 62 palestinesi sono stati uccisi da proiettili veri o da gas lacrimogeni sparati dalle forze israeliane che cercavano di reprimere le manifestazioni.

Il ministero della Sanità di Gaza ha affermato che almeno 980 palestinesi, tra cui molti minori, sono stati feriti dai gas lacrimogeni lanciati durante le manifestazioni di lunedì.

«Il problema dei candelotti lacrimogeni è che sono particolarmente pericolosi per i bambini e gli anziani.»

I droni hanno accresciuto il raggio d’azione delle forze israeliane. Prima i candelotti lacrimogeni venivano lanciati nella Striscia di Gaza da veicoli situati dal lato israeliano della linea di confine.

La grande barriera che separa l’enclave assediata da Israele limita la capacità dell’esercito israeliano di lanciare il gas dall’altro lato del confine, diversamente dalla Cisgiordania, dove i soldati sparano i candelotti con fucili appositamente attrezzati.

Le forze israeliane raramente fanno incursioni nella Striscia di Gaza, da cui si sono ritirate nel 2005, mentre mantengono una presenza significativa nella Cisgiordania occupata.

Questa nuova gittata consente agli israeliani di prendere di mira delle zone lontane dall’area di frontiera, quelle in cui è più probabile che vivano famiglie, minori e anziani.

Il gas, una minaccia per le persone vulnerabili

Il gas può essere mortale in due modi: asfissia e dose eccessiva, a seconda dei prodotti chimici utilizzati.

Negli ultimi anni la morte di parecchi palestinesi in Cisgiordania è stata legata all’inalazione di gas lacrimogeno. Nel 2015 un bimbo di otto mesi è morto nel villaggio di Beit Fajjar dopo che dei soldati hanno lanciato gas lacrimogeno sulla sua casa.

Nel 2014 anche il ministro palestinese Ziad Abu Ein è morto in seguito a complicanze legate all’inalazione di gas lacrimogeno, dopo aver partecipato ad una manifestazione vicino al villaggio di Turmusaya.

L’anno scorso un rapporto descriveva il campo profughi di Aida, nel sud della Cisgiordania, come «la comunità più esposta ai gas lacrimogeni al mondo.»

Durante le manifestazioni di questa settimana nella Striscia di Gaza, è stata uccisa dai gas lacrimogeni anche una neonata di otto mesi, Leila al-Ghandour. Sarebbe stata esposta al gas mentre si trovava in un luogo di proteste lontano dalla barriera di separazione israeliana, anche se, al momento in cui viene pubblicato questo articolo, MEE non ha potuto verificare in modo indipendente le circostanze della sua morte.

Proiettili sparati a caso

Anche se sono fatti di gomma, i candelotti lacrimogeni sganciati dai droni sono pesanti e il loro congegno a spirale è di metallo.

L’esercito israeliano è sottoposto a regolamenti che vietano di prendere di mira direttamente le persone con questi proiettili. I candelotti di gas sparati da fucili appositamente adattati sono particolarmente pericolosi a breve distanza.

Anche i lancia-granate a lunga gittata e di calibro 40 mm utilizzati da Israele sono considerati pericolosi in quanto la precisione dei loro tiri è ridotta.

Un portavoce dell’‘Omega Research Foundation’, un organismo che studia la fabbricazione, il commercio e l’utilizzo delle tecnologie militari, di polizia e di sicurezza, ha dichiarato a MEE che i droni potrebbero essere utilizzati per aumentare la precisione del rilascio dei gas lacrimogeni.

«Da un punto di vista meramente tecnico, i droni possono volare ad un’altezza che consente di lanciare in completa sicurezza i candelotti e di mirare alle persone che costituiscono una minaccia”, ha dichiarato il portavoce, che ha chiesto di restare anonimo.

Tuttavia, sequenze video delle proteste di questa settimana sembrano mostrare dei candelotti lanciati da grande altezza, il che riduce la precisione ed aumenta il rischio di ferite alla testa.

Una minaccia inesistente

Israele ha accusato a più riprese i manifestanti di Gaza di cercare di oltrepassare la barriera di confine e di piazzare degli esplosivi in territorio israeliano. Secondo Israele l’impiego di proiettili veri e di gas lacrimogeni è giustificato dalla minaccia che i manifestanti rappresenterebbero nel caso superassero la barriera.

I droni possono «sorvolare certe zone e sganciare lacrimogeni in settori dove non si vuole vi siano manifestanti», ha dichiarato all’AFP [Agenzia France Presse] Micky Rosenfeld, portavoce della polizia israeliana.

Tuttavia inviati di MEE presenti a Gaza e in Cisgiordania ed anche video diffusi online portano a pensare che le forze israeliane abbiano preso di mira aree lontane dalla zona di confine e persone che non sembravano costituire una minaccia.

Lunedì un giornalista di MEE e parecchi altri operatori dell’informazione sono stati colpiti dal gas lanciato da un drone. La zona presa di mira era chiaramente occupata da molti giornalisti e da veicoli che portavano una scritta “STAMPA” messa ben in evidenza.

In un’altra sequenza video un drone sgancia del gas su una tenda collettiva piena di donne e bambini, a quanto pare situata a più di 450 metri dal confine.

Sembra che in certe situazioni il lancio dei lacrimogeni dal cielo abbia seminato confusione e panico tra la gente invece di disperderla verso altri luoghi.

Martedì, durante una manifestazione vicino alla colonia israeliana illegale di Beit El, in Cisgiordania, almeno quattro droni hanno sganciato gas direttamente sui manifestanti.

Secondo un manifestante di 20 anni, che ha chiesto di parlare con MEE in forma anonima, « ne è derivato uno stato di panico» quando in cielo sono apparsi i droni.

«La gente correva in tutte le direzioni senza sapere dove andare, mentre i droni volavano sopra le nostre teste in attesa di sganciare i gas lacrimogeni», ha detto a MEE.

«Gli israeliani hanno cominciato ad utilizzare questi droni solo da qualche settimana. Agiscono in modo indiscriminato e sono spietati.”

Secondo Gabriel Avner, un consulente israeliano per la sicurezza, la politica condotta da Israele a Gaza si discosta dai metodi abituali di controllo delle masse.

«La situazione a Gaza in questo momento è completamente diversa da ciò che succede altrove (….). Loro [gli israeliani] vi vedono una zona di conflitto di grandi dimensioni», ha spiegato a MEE.

«C’è motivo di preoccuparsi in quanto le regole di ingaggio siano rigide » ha detto, prima di aggiungere che l’esercito israeliano avrebbe dovuto assicurarsi che i soldati fossero ben addestrati a comprendere le potenziali conseguenze dell’introduzione di questo tipo di nuove tecnologie.

Un «terrorismo degli aquiloni»

Tuttavia i droni non servono solo a lanciare gas lacrimogeni.

Alcuni palestinesi fanno volare degli aquiloni dall’altro lato del confine, spesso con lo scopo di appiccare incendi: questi aquiloni trasportano brace ardente per innescare incendi boschivi in territorio israeliano.

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, l’esercito israeliano si è rivolto a piloti di droni da competizione per intercettare gli aquiloni servendosi delle eliche e dei ganci attaccati agli apparecchi per tagliarne il filo e farli deviare.

Haaretz ha riferito che i droni che intercettano gli aquiloni non sono pilotati da professionisti e possono raggiungere una velocità di 110 metri al secondo.

Secondo il quotidiano, si sospettava che uno degli aquiloni che ha raggiunto il lato israeliano della linea di separazione trasportasse una bomba telecomandata.

Benché il congegno non sia esploso – i pompieri dei servizi di polizia hanno affermato che forse si trattava di una bomba difettosa o finta – il quotidiano ha ipotizzato che questo episodio possa essere l’annuncio di una nuova fase di ciò che ha descritto come un “terrorismo degli aquiloni” lungo il confine.

Molti di questi aquiloni sono comunque inoffensivi, frequentemente utilizzati dai manifestanti per far sventolare la bandiera palestinese.

Se non vengono intercettati dai droni, sono spesso abbattuti da spari di proiettili veri.

Tecnologie in vendita

Israele è uno dei leader mondiali della tecnologia dei droni.

Il suo uso di aerei senza pilota risale alla fine degli anni ’70; all’epoca, erano utilizzati dall’esercito per operazioni di controllo nel sud del Libano, prima di essere impiegati ampiamente nel 1982 durante l’invasione di Israele del suo vicino settentrionale.

Secondo Itay Mack, l’avvocato dei diritti umani, Israele si è servito dei precedenti conflitti per mettere in mostra le sue armi al fine di venderle.

Israele vende i suoi armamenti e tecnologie a molti Paesi. Il mese scorso il ministero della Difesa tedesco ha annunciato l’intenzione di firmare un contratto di un miliardo di dollari con ‘Israel Aerospace Industries’ [“Industrie aerospaziali Israeliane”, impresa pubblica e principale produttrice di armi del Paese, ndtr.] per affittare degli aerei senza pilota.

Israele è stato oggetto di critiche per aver venduto armi a governi che hanno pessimi precedenti in tema di diritti umani, tra cui ultimamente la Birmania, che avrebbe acquistato apparecchiature militari israeliane nell’ambito della sua operazione contro la minoranza rohingya. L’attacco del governo birmano contro le comunità rohingya è stato ampiamente descritto come una pulizia etnica.

A dicembre anche la società israeliana “Global Group” ha venduto per parecchi milioni di dollari droni di sorveglianza al governo del Sud Sudan, sotto assedio e a corto di denaro.

Dopo lo scoppio della guerra civile nel Paese nel 2013 le forze governative del Sud Sudan sono state accusate dall’ONU di gravi violazioni dei diritti umani.

L’utilizzo di droni da parte dell’esercito israeliano per sganciare gas a Gaza e in Cisgiordania lascia intendere che i modelli venduti al Sud Sudan potrebbero anche essere adattati per lanciare gas lacrimogeni o altri ordigni.

«I droni commerciali di maggiore dimensione (…) sono ideati per trasportare un’intera gamma di carichi (grandi telecamere per gli eventi sportivi, dispositivi per irrorare le coltivazioni). Sono quindi concepiti per essere guidati a distanza a seconda delle funzioni dei diversi carichi. Sarebbe molto facile da impostare», ha detto James Bevan, di ‘Conflict Armament Research’.

Hanno contribuito a questo reportage Kaamil Ahmed, Tessa Fox e Hind Khoudary. 

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)

 




‘Noi moriamo comunque, quindi che sia davanti alle telecamere’: conversazioni con abitanti di Gaza

Amira Hass

20 maggio 2018, Haaretz

I miei amici di Gaza sono indignati dall’accusa di Israele che sia Hamas a guidare tutto. ‘Il vostro popolo ci ha sempre guardati dall’alto in basso, perciò è difficile per voi capire che nessuno manifesta nel nome di qualcun altro’.

“La capacità di noi palestinesi di essere uccisi è più grande della capacità di voi israeliani di uccidere”, mi ha detto un abitante del campo profughi di Deheisheh vicino a Betlemme all’inizio della Seconda Intifada. Ottimista da sempre, intendeva dire che a causa di questa differenza alla fine le due parti raggiungeranno un giusto accordo.

Martedì di questa settimana, lungo la barriera di confine e di fronte a Beit Hanun, nel nord della Striscia di Gaza, il fatto che si sia sbagliato è diventato nuovamente evidente. C’è un limite alla capacità dei palestinesi di essere uccisi. Il mattino seguente al lunedì di sangue i manifestanti hanno fatto una pausa. Sessanta nuovi morti e centinaia di nuovi feriti hanno giustificato il momento di calma che chiedevano. Il giorno seguente, il giorno della Nakba, che ci si aspettava fosse il peggiore, in realtà è stato il giorno in cui hanno rinunciato alla simbolica ‘Marcia del Ritorno’ di massa alla barriera di confine.

In mezzo ai campi di girasole e di patate dei kibbutz, invidiavo i miei colleghi che trasmettevano con così grande autoconvinzione le dichiarazioni dell’esercito e dei politici israeliani. Secondo i portavoce israeliani, sia militari che civili, la tregua lungo la barriera di confine è la prova inequivocabile che i leader di Hamas controllano tutto, e tutti sono sottoposti alla loro autorità, sono loro che hanno mandato la gente a morire il giorno prima, sono loro che hanno cambiato il copione il giorno dopo. Molto semplice.

Secondo questi rapporti, l’Egitto ha dato istruzioni di fermare il processo – dietro richiesta israeliana – e Hamas ha obbedito. Il leader di Hamas Ismail Haniyeh è stato umiliato, e questo ha funzionato. Tutto ciò viene recepito in Israele come dato di fatto, giornalismo investigativo e ulteriore vittoria israeliana. Non c’è bisogno di essere a Gaza per sapere e non conta che l’esercito impedisca ai giornalisti israeliani di entrare nella Striscia.

Tutta la nostra strumentazione bionica è al lavoro: aerostati per scattare foto, droni, intercettazioni, collaboratori e una dichiarazione fuori-onda di un importante dirigente di Fatah a Ramallah. Tutto sembra fornire ciò che noi interpretiamo come verità divina. In confronto, la quantità di dettagli, spiegazioni, ipotesi, negazioni, esitazioni e contraddizioni che riceviamo da parte palestinese è considerata giornalismo scorretto, che non fornisce una spiegazione definitiva.

Accanto agli irrigatori che spruzzano gioiosamente acqua nei campi israeliani, mi sono chiesta: se voi sapevate che Hamas ha pianificato di mandare cinicamente la gente a morire in modo da guadagnarsi nuovamente l’attenzione e dipingere Israele come il demonio, perché state facendo quello che loro volevano? Perché anche voi, che non avete usato mezzi non letali, ubbidite ad Hamas?

C’è una barriera interna, una barriera di sicurezza e un terrapieno che è stato costruito con terra riportata dagli scavi della nuova barriera sotterranea di Israele. E c’è una strada di sicurezza e un’altra ancora. E poi i campi. Intorno a tutto questo ci sono postazioni di vigilanza e al disopra ci sono palloni aerostatici e droni. E tutto ciò che avete potuto fare è stato dimostrare la capacità di Israele di uccidere e mutilare?

Vicinanza silenziosa

Da una collina nei campi del kibbutz Nir Am si possono vedere chiaramente Beit Hanun, Izbet Abed Rabo e i contorni di Shujaiyeh nel nord di Gaza. Ed anche gli alti blocchi residenziali, che svettano alti. L’ ininterrotta area costruita da Beit Lahia all’estremità sud di Gaza sembra molto vicina. Un solo furgone pickup bianco è passato lungo la linea di confine tra i campi coltivati palestinesi e l’ampia striscia di terra in cui Israele vieta di coltivare, e un carro trainato da cavalli andava verso nord.

La silenziosa vicinanza, senza alcun contatto, ha dimostrato la situazione di imprigionamento dal lato opposto. Dopotutto, io una volta ho abitato là, sono andata in tutti quei luoghi che ora vedo col binocolo e ricordo i fatti che ho raccontato e la gente di cui ho scritto, tra una guerra e l’altra, durante le guerre, durante le rivolte e per così dire le tregue.

Ora questi luoghi sono un film, da vedere e non toccare. A uno o due chilometri di distanza ci sono i miei amici, a cui voglio bene, e non ci è più permesso di vederci. Uno di loro ha detto scherzando che sarebbe venuto al campo della ‘Marcia del Ritorno’ sventolando una grande bandiera palestinese per salutarmi. Ma è meglio WhatsApp.

Al telefono i miei amici si indignano e ognuno lo dice a suo modo: dire che Hamas controlla tutto questo significa togliere ad ogni palestinese non solo il suo diritto alla libertà di movimento e ad un livello di vita dignitoso, ma anche il diritto ad una profonda frustrazione e disperazione – ed il suo diritto di esprimerla.

“Gli israeliani ci guardano dall’alto in basso e lo hanno sempre fatto. Ai vostri occhi, un arabo buono è un collaborazionista o un [arabo] morto”, ha detto uno di loro ed ha aggiunto: “Perciò per voi è difficile capire che nessuno manifesta in nome di qualcun altro. Ognuno va là per sé stesso. Noi siamo un popolo senza risorse ed ora senza una strategia e un programma, ed al punto più basso in termini di appoggio internazionale e di organizzazione interna. Ma siamo andati a manifestare per disturbare i festeggiamenti per il trasferimento dell’ambasciata. Gerusalemme ci sta molto a cuore. Andiamo per non morire in silenzio. Perché siamo stufi e stanchi di morire in silenzio, nelle nostre case.”

“Se muori, che sia di fronte alle telecamere. Facendo rumore. Io sto andando alla moschea. Non vi è stato nessun ordine dall’alto di andare alla manifestazione. Sento dei giovani dire che domani andranno a morire alla barriera, come se parlassero di un picnic o di caramelle. Sono andato al campo della ‘Marcia del Ritorno’ due o tre volte, e non mi è piaciuto. Troppa confusione. Se Hamas avesse avuto il controllo dell’intera iniziativa non ci sarebbe stato quel caos. Dopotutto, lo sapete quanto gli eventi di Hamas siano sempre ordinati, organizzati, disciplinati.”

È vero, c’era personale della sicurezza di Hamas in abiti civili; non erano là come Hamas, ma per mantenere l’ordine pubblico a nome del governo in carica, come in ogni evento di massa – per impedire a persone armate di avvicinarsi alla barriera, per evitare provocazioni di collaborazionisti, per intervenire in caso di risse o molestie sessuali.

Hamas ha perso popolarità a Gaza a causa dei fallimenti e dei disastri degli ultimi dieci anni, mi ha giurato un amico dopo avermi ricordato che a lui “non piacciono per niente.” Dice che all’inizio, [i dirigenti di Hamas] non erano entusiasti dell’idea della ‘Marcia del Ritorno’, dopo che dei giovani militanti avevano proposto l’idea a tutti i leader delle fazioni politiche.

In seguito anche Hamas ha aderito all’iniziativa. In quanto organizzazione, Hamas è in grado di offrire ciò che altri gruppi non possono: trasferimenti ai campi della ‘Marcia del Ritorno’, magari un panino e una bottiglia di coca cola e tende. “Ma non possono obbligarci a venire e mettere a rischio noi stessi. Dopotutto, è pericoloso stare ad una distanza anche solo di 300 o 400 metri, perché i soldati ci sparano.”

Uno straniero a Gaza ha avuto questa impressione: “Hamas non può ordinare alla gente di andare alle manifestazioni e mettere a rischio la propria vita, ma può impedire che si avvicini alla barriera.” Uno dei modi è fare dichiarazioni ai media.

I molti morti non di Hamas

Mercoledì è arrivata a molti organi di informazione israeliani la stessa notizia secondo cui un leader di Hamas, Salah al-Bardawil, “ha ammesso in un’intervista alla televisione palestinese che 50 dei 60 uccisi negli scorsi due giorni erano membri di Hamas.” In Israele si è tirato un gran sospiro di sollievo. Hamas? In altri termini, terroristi per definizione, in altri termini, c’è il permesso di ucciderli. C’è persino un ordine in tal senso.

La fonte di informazione era un tweet in lingua araba di Avichay Adraee dell’ufficio del portavoce dell’esercito israeliano. Ha incollato sul tweet un pezzettino di un’intervista di oltre un’ora con Bardawil sul canale di notizie Baladna trasmesso su Facebook.

L’intervistatore, Ahmed Sa’id, ha posto spinose domande che aveva ascoltato per strada, per la maggior parte poste da sostenitori di Fatah: che dite dell’umiliazione che avete subito in Egitto e perché Hamas manda la gente a morire alla barriera – mentre voi ne cogliete i frutti (politici)?

Bardawil ha dovuto difendere la sua organizzazione e dire che non era vero, che non vi è stata nessuna umiliazione e che i membri di Hamas stavano manifestando come chiunque altro, insieme a tutti gli altri.

“Purtroppo questa è l’organizzazione che oggi alimenta le motivazioni e la consapevolezza, soprattutto tra i giovani”, mi aveva precedentemente spiegato uno dei miei amici.

Torniamo a Bardawil. Ha detto che 50 dei 60 uccisi erano membri di Hamas. Ho controllato e mi è stato detto che le cifre ufficiali in possesso di Hamas sono che, dall’inizio della ‘Marcia del Ritorno’ del 30 marzo, c’erano 42 persone legate ad Hamas tra le 120 uccise: membri del movimento, noti militanti, membri di famiglie di Hamas.

Sembra che circa 20 membri dell’ala militare di Hamas siano stati uccisi, e non vicino alla zona delle proteste, ma in circostanze ancora da chiarire. Ma gli altri erano semplici manifestanti disarmati. E manifestavano perché erano di Gaza. Ma una volta che Bardawil ha detto quel che ha detto, è difficile contestare le sue parole in pubblico. “Questa (la cifra di 50) è un’altra delle nostre tipiche esagerazioni”, ha detto il mio amico che non è venuto a sventolare la sua bandiera per salutarmi.

Quanto alle esagerazioni, “l’idea che la ‘Marcia del Ritorno’ interrompa lo stallo e fermi la lenta rovina di Gaza – tutti lo vorremmo, anch’io”, ha detto un altro. “Ma sono i dettagli che non mi piacciono. Che cosa è questa follia della ‘Marcia del Ritorno’ e di togliere il blocco? Non hanno nemmeno riflettuto in modo adeguato sugli slogan. Poiché, se lo scopo è ritornare ai villaggi, il blocco è una questione irrilevante.”

Tra i girasole e i pochi incendi [di copertoni] scoppiati martedì, i soldati erano in allerta nelle loro postazioni. Ondeggiavano continuamente tra un iperattivismo borioso e l’indolenza di un picnic. Erano posizionati entro i perimetri dei kibbutz, a brevissima distanza dalle case. Anche i blindati erano alla distanza di una passeggiata mattutina.

È ciò che viene chiamata una presenza militare nel cuore di una popolazione civile. Ricordo la situazione opposta, di postazioni di Hamas nella Striscia di Gaza che servivano da scusa ad Israele per diffamare l’organizzazione che si sarebbe fatta scudo dei civili, e all’esercito israeliano per bombardare chiunque si trovasse vicino a loro [alle postazioni].

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 

 

 




I settant’anni di Israele: perché ora la democrazia è in declino

Eyal Chowers

mercoledì 18 aprile 2018, Middle East Eye

L’uso del potere in Israele è ora separato dalla responsabilità. I semi sono stati piantati nel 1948?

In un discorso alla “Globes”, Israel Business Conference [“Conferenza sull’economia di Israele”, il più importante incontro annuale sull’economia del Paese, ndt.] a gennaio, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha esposto la sua visione del mondo riguardo alle fonti di potere in Israele.

Innanzitutto, ha detto, gli israeliani hanno imparato a difendersi, sviluppando competenze militari che sono sempre più basate su nuove tecnologie innovative e sull’esperienza in anni di lotta contro il terrorismo.

In secondo luogo, ha sostenuto, Israele ha una florida economia in crescita, con tasse ridotte, un fiorente settore privato e sta avviando un’intensa liberalizzazione. Netanyhau ha citato con orgoglio specifiche imprese come quelle per la sicurezza informatica, per la produzione di parti computerizzate di automobili, per i programmi di salute digitale e per le tecnologie idriche.

Ha previsto che in termini di PIL pro capite Israele presto supererà il Giappone. (Il PIL pro capite di Israele è di 38.000 dollari, la disoccupazione è scesa a circa il 4% e le disuguaglianze economiche, benché ancora significative, si stanno riducendo).

Ha detto che, sulla base dei suoi successi economici e in termini di sicurezza, la terza risorsa di potere di Israele è rappresentata dalla sua reputazione e dai suoi rapporti nella comunità internazionale, che derivano principalmente dall’interesse per la sua economia basata sulla conoscenza e dalle competenze e tecnologie militari innovative.

Infine Netanyahu ha fatto riferimento alla creatività culturale di Israele: l’affascinante dialogo che ha luogo tra un antico passato e un presente che accoglie la contemporaneità. È un dialogo che in effetti contribuisce a un contesto di sviluppo della letteratura, dell’industria cinematografica e televisiva, della musica, della danza, dell’insegnamento e di molti altri settori. E Netanyahu ha ragione: a settant’anni Israele è più forte che mai.

Tuttavia Netanyahu non ha citato la democrazia come una delle quattro risorse di potere di Israele. Probabilmente non si tratta di una dimenticanza: Netanyahu non è Pericle, il padre della democrazia. Gli piace gloriarsi del fatto che Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente, ma quando si guarda a tutta la sua carriera, sembra che per lui la democrazia sia più un mezzo per incrementare il potere della Nazione che un nobile ideale valido in assoluto.

Netanyahu è stato la figura chiave nella politica israeliana fin dal 1996, ma in quel periodo non ha mai pronunciato un discorso rilevante sul valore del libero autogoverno, dei diritti individuali, del pluralismo e della tolleranza. Mentre Israele ha effettivamente prosperato in molti aspetti durante gli ultimi decenni – soprattutto grazie al suo popolo dotato e dinamico – la sua democrazia è seriamente in pericolo.

Ma forse i semi della sua attuale tormentata vita politica sono stati presenti fin dall’inizio.

Scrivere il futuro di Israele

Al giurista Zvi Berenzon, un giuslavorista che in seguito diventò giudice della Corte Suprema, venne chiesto di scrivere una delle prime bozze della Dichiarazione di Indipendenza di Israele. All’inizio del maggio del 1948 [quando venne fondato lo Stato di Israele, ndt.] le giornate erano caotiche e la guerra imminente. Era difficile capire il peso che le parole avrebbero avuto poche generazioni dopo.

Eppure Berenzon, con un insieme di preveggenza e ingenuità, suggerì che la dichiarazione includesse quanto segue:

“Noi, il congresso del popolo…con il presente atto annunciamo la fondazione dello Stato ebraico, libero, indipendente e democratico in Eretz Israel (la Palestina), all’interno dei confini definiti dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.”

Benché alcune delle proposte di Berenzon siano state inserite nella bozza finale della dichiarazione, i suoi suggerimenti di introdurre la parola chiave “democratico” e di specificare i confini del futuro Stato vennero respinti dai suoi superiori e dai dirigenti politici, in particolare da Moshe Sharet e da Ben Gurion.

Mentre questa settimana lo Stato di Israele celebra i settant’anni di indipendenza, pare che il principale conflitto con se stesso sia sintetizzato dalla frase eliminata e da tempo dimenticata di Berenzon.

Dal 1948, e soprattutto dopo la guerra del 1967, la domanda è diventata: può Israele occupare tutto il territorio tra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano, sottomettere i palestinesi al governo militare e rimanere ancora democratico in modo significativo?

Dato che né la natura del governo né i confini internazionali furono chiaramente definiti dalla dichiarazione, emerse una pericolosa elasticità per mezzo della quale le istituzioni politiche, le leggi costituzionali e le norme democratiche poterono essere gradualmente adeguate per soddisfare l’interesse dell’espansione territoriale.

La direzione è chiara: ci sono circa 400.000 coloni ebrei in Cisgiordania (senza contare Gerusalemme). Politicamente ed ideologicamente, il loro potere sembra decuplicato. Ci si chiede se il grande slancio sionista verso l’antico passato ebraico e la scoperta di un lontano immaginario religioso non abbiano aperto il vaso di Pandora: dopotutto nella Bibbia Dio promette al suo popolo una terra santa, ma non cita, ahimé, la democrazia.

L’ironia sta nel fatto che ai giorni nostri l’ascesa del nazionalismo illiberale è diventata così pronunciata che la versione finale della dichiarazione – per quanto possa essere insoddisfacente – è diventata il principale punto di appoggio per quanti si impegnano a favore di una democrazia che rispetti l’universalità e l’uguaglianza dei diritti individuali e il ruolo di una minoranza nel plasmare le caratteristiche dello Stato.

La cultura politica israeliana non è basata sul linguaggio. Difficilmente ogni discorso, testo e proclama si radica nella memoria collettiva; piuttosto, il mondo israeliano è plasmato per lo più attraverso l’azione e la costruzione, non attraverso le parole, che sono spesso poco affidabili.

Ma forse la dichiarazione è un’eccezione a questa regola – o almeno ci sono quelli che, in mancanza di qualunque altro baluardo, la vedono come la migliore possibilità di difendere la propria visione relativamente liberale.

Dopo che Aharon Barak, l’ex-presidente della Corte Suprema – e forse la persona più rispettata tra i sionisti liberali – ha sostenuto che la dichiarazione rappresenta i fondamentali valori e fini dello Stato ebraico, in Israele si è sviluppato un dibattito molto acceso. La dichiarazione include un impegno a sostenere la libertà, la giustizia e la pace, così come diritti individuali, politici e sociali eguali per tutti. Esorta anche i cittadini palestinesi di Israele a partecipare alla costruzione dello Stato.

Barak ha affermato che, secondo le leggi e la tradizione giuridica israeliane, la dichiarazione, benché non considerata in sé un documento costituzionale, definisce il criterio più elevato in base al quale ogni legge deve essere valutata. Ciò include le “leggi fondamentali”, che sostituiscono una costituzione nazionale.

Tutti concordano,” ha detto Barak in un’intervista a Yediot Ahronot [il giornale israeliano più venduto, di tendenza centrista, ndt.] a febbraio, “che essa (la dichiarazione) definisce i criteri di base con cui dovrebbero essere interpretate le leggi e le leggi fondamentali.” Ha aggiunto che le leggi, comprese quelle fondamentali, devono essere studiate preventivamente in modo che siano coerenti con la dichiarazione.

La Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] è libera di determinare in una nuova legge fondamentale tutto quello che vuole o ci sono limitazioni costituzionali nel suo ragionare e nelle sue deliberazioni?” ha chiesto retoricamente Barak.

Sono in questione specificamente la proposta di una nuova legge sullo “Stato-Nazione ebraico” e la domanda se supererà la revisione giuridica della Corte Suprema.

Come la dichiarazione, che in parte potrebbe sostituire da un punto di vista costituzionale, la legge non menziona la democrazia come costitutiva dello Stato e dichiara il monopolio della nazione ebraica sulla sua natura e identità. Peggio ancora, non promette neppure pari diritti individuali a tutti i cittadini e consente di segregare comunità in base alla religione e/o alla nazionalità.

La Corte e la dichiarazione sotto attacco

Negli ultimi anni i cittadini palestinesi di Israele sono più sparsi sul territorio, e in alcune città vivono fianco a fianco con gli ebrei. Più cittadini palestinesi del Paese sono stati coinvolti nella vita generale di Israele, soprattutto nelle università e nei luoghi di lavoro.

Di fatto gli ultimi due governi di Netanyahu hanno aumentato i finanziamenti per il settore arabo, per esempio alle scuole. Eppure, come il governo incoraggia i cittadini palestinesi ad integrarsi completamente – soprattutto come produttori, lavoratori e consumatori in un’economia neoliberista in espansione – così cerca, allo stesso tempo, di indebolire i loro diritti di cittadinanza dal punto di vista politico e giuridico, per “metterli al loro posto” e ricordargli chi “possiede” lo Stato e le sue risorse.

Con la nuova legge i cittadini palestinesi e altre minoranze potrebbero avere minor accesso alla terra e alla casa, o a finanziamenti per promuovere la loro cultura.

Barak avverte che la legge sullo Stato-Nazione ebraico (se accolta) potrebbe avere profonde conseguenze per la situazione dei palestinesi cittadini di Israele e altrove, e limiterà in generale le sentenze “liberali” della Corte Suprema – un’istituzione spesso dipinta dai partiti di Destra come pericolosamente “antipatriottica”.

Molti anni fa mi è capitato di sedere vicino a Barak durante una cena: a un certo punto, durante la nostra conversazione, ha aperto il suo portafoglio, ha preso una copia della dichiarazione, l’ha aperta con cautela e mi ha spiegato il senso dei diritti promessi dal documento.

Sono rimasto colpito dalla sua sincerità. Era evidente che per lui, un sopravvissuto all’Olocausto che ricorda cosa significhi far parte di una minoranza indifesa, le parole della dichiarazione erano molto attuali e una promessa che Israele dovrebbe concretizzare.

Tuttavia oggi un genere molto diverso di persone governa il sistema giuridico israeliano. La ministra della Giustizia, Ayelet Shaked, per esempio, ha risposto a Barak dicendo che le sue affermazioni relative alla preminenza della dichiarazione sulla legge fondamentale proposta e il ruolo della Corte Suprema di garantire questa preminenza attraverso il controllo giurisdizionale, “demoliscono la democrazia, in quanto è la Knesset che deve definire cosa ha valore costituzionale e cosa non ce l’ha.”

Quindi per Shaked e per i partiti di destra la dichiarazione è diventata un documento “di sinistra”, nonostante la sua notevole enfasi sul legame tra la Nazione e la sua antica terra senza frontiere. Dato che la Corte Suprema fa (con molta cautela) uso della dichiarazione per criticare decisioni discutibili del governo e abolisce alcune delle leggi della Knesset (solo 18 dal 1995), un deputato del partito “Casa Ebraica” ha suggerito che la Corte dovrebbe essere demolita con un bulldozer D-9.

Shaked è di “Casa Ebraica”, un partito di destra dominato dai coloni, benché lei sia laica e viva a Tel Aviv. Ora, all’inizio dei 40 anni, Shaked è un’importante voce della nuova destra israeliana: assolutamente nazionalista, astuta nel far appello al centro laico israeliano e particolarmente desiderosa di utilizzare tutti i mezzi e le risorse del governo per promuovere la sua ideologia.

È un importante esponente di quanti a destra hanno come passatempo preferito attaccare la Corte Suprema perché difende il diritto di proprietà dei palestinesi in Cisgiordania, perché interviene in questioni relative alla sicurezza e ogni tanto critica le forze di sicurezza, e perché protegge, in qualche misura, i richiedenti asilo. Recentemente ha evidenziato che, per la Corte, “il sionismo è diventato lettera morta.”

Shaked cerca di rimodellare la Corte Suprema e i tribunali inferiori con nuove nomine di giudici che non sono “attivisti” e creativi nel loro approccio giuridico, più in consonanza con la legge ebraica e, soprattutto, meno liberali nella loro ideologia. Finora ha avuto una serie di successi.

Il leader del suo partito è Naftali Bennett, il ministro dell’Educazione, che sta introducendo contenuti religiosi ebraici nel curriculum delle scuole e che vorrebbe anche imporre ai professori dell’università un codice etico che garantisca che non possano portare nelle classi la loro “politica” potenzialmente critica. Shaked e Bennett insieme influenzano l’identità del futuro Israele più di qualunque altro ministro.

L’avvilimento degli altri

Fin dal suo inizio il sionismo ha sempre avuto un’ardente relazione con la “volontà” umana, un fondamentale concetto presente nei primi testi del sionismo fin dai tempi di Theodor Herzl, il fondatore del moderno sionismo politico. Era necessaria una grande quantità di tale volontà collettiva per creare un nuovo mondo per gli ebrei in Palestina, ma esso ha anche dovuto essere limitato e circoscritto per fondare istituzioni politiche stabili e democratiche in un dato territorio.

Tuttavia oggi per la maggior parte della destra la democrazia è diventata sinonimo di imporre la volontà della maggioranza, slegata da documenti fondativi, norme che rispettino gli individui in quanto tali e i diritti collettivi delle minoranze o persino dei tribunali. Chiedono l’abolizione del controllo giurisdizionale che Barak e altri giudici hanno introdotto nel 1995, o almeno una sua limitazione.

Proprio questa settimana per la prima volta Netanyahu si è unito a loro. Nei loro discorsi la Knesset è l’unica titolare della sovranità e solo essa rappresenterebbe la reale volontà del popolo. La volontà della maggioranza può quindi non essere controllata, dato che Israele ha una sola camera dei rappresentanti e un presidente senza potere di veto sulle leggi.

In qualunque circostanza questa sarebbe una visione pericolosa, ma lo è particolarmente quando si unisce ad un nazionalismo centrato sulla terra in cui i non-ebrei non giocano alcun ruolo, e in cui le istituzioni dello Stato sono sempre più orientate verso la legittimazione del completamento dell’espansione territoriale di Israele.

Di sicuro ci sono quelli per i quali c’è poca differenza tra individui come Aharon Barak e Ayelet Shaked e le diverse visioni di Israele che ognuno di loro rappresenta. Questi critici vedono Israele come uno Stato occupante, coloniale, nazionalista, militarista, persino illegittimo, alla radice; dopotutto, dicono correttamente, la Corte Suprema ha fatto ben poco per bloccare l’occupazione e l’oppressione di Israele sui palestinesi (anche se è intervenuta su questioni e casi singoli).

Ma per quanti vedono lo Stato ebraico come non meno legittimo di qualunque altro, e che ricordano le molte correnti nel, e la complessità del, movimento ebraico di rinascita nazionale e i suoi risultati senza precedenti (nonostante i suoi gravi difetti), la distanza tra i due Israele fa un’enorme differenza.

Sono tempi duri per la democrazia in tutto il mondo. Viktor Orban in Ungheria, Nicolas Maduro in Venezuela, Vladimir Putin in Russia e Recep Tayyip Erdogan in Turchia sono tra i leader e i Paesi che testimoniano che l’autoritarismo è in ascesa.

Nel contesto più vicino ad Israele, le Primavere Arabe sono fallite, come i processi di democratizzazione nell’Autorità Nazionale Palestinese. Molti libri sono stati dedicati a questo argomento, soprattutto dopo l’ascesa di Donald Trump (vedi per esempio “How Democracies Die” [“Come muoiono le democrazie”, ndt.] di Daniel Ziblatt e Steven Levitsky, come anche “Fascism: A Warning” [“Fascismo: un avvertimento”, ndt.] di Madeleine Albright). 

È inquietante, di fatto deprimente, vedere come in molti diversi contesti, la democrazia possa essere allontanata utilizzando le stesse tecniche poco originali eppure efficaci. Queste includono:

  • identificare nemici della Nazione reali o immaginari – interni o esterni

  • coltivare la paura e un senso di allarme

  • introdurre politiche polarizzanti e dipingere l’opposizione come illegittima

  • personalizzare i partiti e idolatrare un leader “forte”

  • creare un legame diretto tra il leader e le masse attraverso messaggi populisti

  • criticare le élite culturali e intellettuali come non patriottiche esaltando quella militare

  • manipolare e falsificare la legge a piacere

  • cercare di ottenere il controllo diretto o indiretto sui tribunali e sui media

  • tollerare intimidazioni o persino violenze contro cittadini “sleali” e organizzazioni dei diritti umani

Tutto ciò con l’obiettivo di aumentare e centralizzare il potere.

Come in Israele la democrazia è in declino

Israele non è uno Stato autoritario: per certi aspetti, data la sua scena politica caotica, è molto lontano dall’esserlo. Lo Stato di diritto esiste ancora. L’ex-primo ministro Ehud Olmert è appena uscito di prigione, come l’ex-presidente Moshe Katzav, e in febbraio la polizia ha raccomandato che Netanyahu venga sottoposto a processo per varie accuse di corruzione.

Partiti di tutto lo spettro ideologico competono in libere elezioni e il diritto di parola è – per lo più – rispettato. Il procuratore generale e altri garanti della democrazia non sono stati destituiti né si sentono minacciati, e l’apparato amministrativo non viene epurato per ragioni politiche. La democrazia non è in pericolo immediato.

Eppure, purtroppo, negli ultimi anni Israele “ha fatto progressi” in ognuno dei parametri delle democrazie in declino elencati in precedenza. Il capo della polizia Roni Alsheikh, lui stesso un colono, è stato ferocemente attaccato per aver consentito che l’inchiesta su Netanyahu andasse avanti. Al contempo gli scagnozzi del primo ministro stanno pescando nei codici di altri Paesi occidentali alla ricerca di sistemi “legittimi” per proteggere il primo ministro in carica.

Ascoltate un talk show radiofonico locale israeliano e potreste rimanere scioccati dal fanatismo come normale conversazione quotidiana. Se siete un artista, o una personalità dei media, è meglio che non diciate cose considerate antipatriottiche perché potreste perdere la vostra fonte di reddito. Spesso membri palestinesi della Knesset vengono aggrediti. La violenza dei coloni contro i palestinesi in Cisgiordania non è, per lo più, neppure raccontata. Potrei continuare all’infinito.

Le cose sono diventate così gravi che oggi è soprattutto Benny Begin, figlio di Menachem Begin [ex-capo del gruppo terrorista sionista “Irgun”, primo ministro di Destra e premio Nobel, ndt.] e membro della vecchia scuola del Likud, noto per la sua totale sfiducia nell’Autorità Nazionale Palestinese e negli accordi di pace di Oslo, che coerentemente e coraggiosamente lotta per conservare nel suo partito almeno qualche impegno per la cittadinanza universale e uguale, per i diritti di proprietà dei palestinesi in Cisgiordania, per la trasparenza delle inchieste della polizia e delle raccomandazioni giudiziarie – e per un generale senso di correttezza e umanità.

In ogni Paese in cui la democrazia è in declino ciò avviene per diverse ragioni: la difficoltà di affrontare un grande numero di migranti e rifugiati, la grave crisi economica e la disoccupazione, la sfiducia nelle istituzioni politiche, una situazione di emergenza e un crollo della sicurezza.

Tuttavia, come rilevato sopra, nessuno di questi fattori conta nel caso di Israele. Di fatto gli israeliani riferiscono costantemente di essere molto soddisfatti della propria vita privata. Israele è collocato all’11^ posto nel “Rapporto sulla Felicità nel Mondo” del 2017.

No, se la democrazia liberale è in declino in Israele è a causa di altre ragioni. L’occupazione della Cisgiordania – che sia attuata per ragioni religiose, di sicurezza o economiche – richiede l’indebolimento delle istituzioni israeliane e delle forze politiche che possono metterla in questione, che si tratti dei tribunali o di intellettuali delle università. Pone una nazione contro l’altra in un continuo conflitto, e quindi richiede di mettere a tacere ogni voce che sfidi il primato della nazione o dubiti dell’esercito israeliano e delle forze di sicurezza, persino quando il loro comportamento diventa molto discutibile, come attualmente sul confine con Gaza.

Cosa più preoccupante, l’occupazione porta troppi israeliani a svalutare gli altri come esseri umani inferiori per giustificare la loro sottomissione e l’usurpazione della loro terra. Dipinge come traditori quei cittadini che rifiutano questa degradazione come inumana e non-ebraica.

Infatti all’inizio di questo mese il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha detto che il partito progressista “Meretz”, il cui principale appoggio viene da elettori ebrei, “rappresenta gli interessi palestinesi nella Knesset israeliana.”

Di fatto l’occupazione israeliana della Cisgiordania – che a 51 anni è la più lunga della storia contemporanea – sta modellando la concezione che gli israeliani hanno del governo. Poiché le due popolazioni, di coloni israeliani e di palestinesi, vivono sempre più fianco a fianco in Cisgiordania nell’area C [in base agli accordi di Oslo, sotto totale controllo israeliano, ndt.], i due modelli di leggi e di sovranità esercitata sullo stesso territorio si influenzano sempre più a vicenda.

Le leggi penali israeliane, per esempio, sono gradualmente applicate nei tribunali militari, dato che la maggior parte dei giudici sono avvocati israeliani, civili che stanno facendo il servizio militare. In certa misura essi hanno esteso i diritti dei palestinesi nei tribunali.

Ma l’effetto di gran lunga maggiore dell’occupazione è stato in senso inverso: la penetrazione della logica militare di sovranità nella concezione del governo e del potere nello Stato israeliano. Sotto il potere militare non ci sono tre poteri di governo separati e indipendenti.

Al contrario, i tribunali sono sotto il controllo del comandante militare di zona, e questo comandante è anche il supremo legislatore e arbitro. Con questo modello molto efficace in mente, ben noto alla maggioranza degli israeliani attraverso il servizio militare, gli ultimi sviluppi hanno più senso.

Come il destino del Likud è legato ad un uomo

Ho già sottolineato in precedenza il tentativo di ridurre il potere della Corte Suprema e di indebolire l’idea di una democrazia costituzionale. Tuttavia la Knesset israeliana non se la passa molto meglio. A differenza dell’asserzione di Shaked secondo cui è sovrano, questo parlamento sta soccombendo al potere dell’esecutivo, perdendo la sua capacità di verificare e controllare quest’ultimo, così come di produrre leggi che siano in qualche modo indipendenti dal governo e non segnate da esigenze politiche pressanti.

In Israele le elezioni sono per i partiti, non per singoli candidati, e il governo è formato attraverso un’alleanza tra partiti. Dato che molti dei parlamentari sono o ministri o sottosegretari, la sovrapposizione tra potere esecutivo e legislativo è sempre stata un problema del sistema israeliano.

Ma negli ultimi anni è avvenuto uno sviluppo particolarmente inquietante: gli stessi partiti sono diventati meno democratici. Attualmente cinque partiti della Knesset (religiosi e laici, di destra e di centro) non svolgono elezioni interne. In tre di essi (compreso “Yesh Atid” [partito di centro, ndt.] di Yair Lapid, che è il principale candidato a sostituire il Likud come partito principale), è praticamente il capo del partito che designa da solo i candidati per la Knesset, e la loro carriera dipende totalmente da lui. In totale, 40 parlamentari sono stati eletti in questo modo – un terzo della Knesset.

Poiché questi specifici partiti fanno di solito parte di qualunque coalizione di governo, la loro influenza è particolarmente pronunciata.

Piuttosto che di parlamentari indipendenti, ognuno dei quali si forma la propria opinione sull’argomento in questione, rappresenti diversi interessi e visioni, eserciti il proprio pari diritto e responsabilità ad esprimere le proprie opinioni e agisca in base ad esse nello stesso parlamento che si suppone incarni questi valori, il numero reale di persone che prendono le decisioni è molto ridotto (anche in materia di leggi), garantendo che prevalga uno spirito servile. Partiti che al proprio interno eludono i principi democratici non possono difendere realmente questi principi nella vita pubblica in generale.

È in questo contesto politico che l’attuale capo dell’esecutivo, il primo ministro Benjamin Netanyahu, ha consolidato il proprio potere personale: è diventato l’incontestato leader del maggior partito nella coalizione di governo, il Likud.

Benché il partito sia democratico, vede il proprio destino inesorabilmente legato a quello del suo leader, a tal punto che, mentre si accumulano le prove che Netanyahu ha ricevuto regali in champagne e sigari pari a circa 330.000 dollari da “amici” e che potrebbe aver tentato di influenzare i media attraverso varie forme di corruzione indiretta, il suo sostegno popolare è aumentato.

Invece di dare le dimissioni, Netanyahu insiste di essere vittima di una caccia alle streghe, minando progressivamente gli standard etici dei suoi stessi sostenitori e la loro fiducia nelle istituzioni pubbliche. E una tale cecità etica, coltivata attraverso molti anni di occupazione, diventa funzionale per molti israeliani quando si tratta di avere a che fare con comportamenti eticamente scorretti dei loro dirigenti nella politica interna.

Qualcosa è già cambiato negli ultimi due anni, e Netanyahu è stato adulato in forme inimmaginabili nel passato. Recentemente, per esempio, in una riunione di governo convocata dopo che il primo ministro è tornato da una fortunata visita in India, la ministra della Cultura e dello Sport Miri Regev ha detto davanti alle telecamere:

Tu sei un grande leader, anche se qualcuno in questo Paese non ama dirlo o diffonderlo. Ma bisogna dire la verità…Ci hai reso un grande servizio, con molto orgoglio e dignità…sei stato trattato come il re dell’India. È commovente fino alle lacrime, molte grazie a te per quello che stai facendo per lo Stato di Israele.” (traduzione di Haaretz).

In Israele non ci sono limiti. Netanyahu è stato primo ministro per 12 degli ultimi 20 anni, anche se non consecutivi. Quando ha iniziato la sua carriera politica, Netanyahu aveva acerrimi rivali nel partito, che non solo lo hanno affrontato nelle elezioni interne, ma che hanno esercitato un’influenza politica con cui ha dovuto fare i conti.

Ma ormai da parecchi anni Netanyahu non ha dovuto affrontare sfidanti di rilievo all’interno del partito. Per qualche ragione i membri del partito Likud, condividendo una sorta di amnesia collettiva, sono arrivati a credere che “è nel loro DNA” essere leali al leader del proprio partito praticamente in qualunque circostanza.

Singoli che tentino di sfidare la posizione di comando di Netanyahu sanno che starebbero rischiando tutta la propria carriera politica. Netanyahu, da parte sua, fa tutto il possibile per indebolire i suoi potenziali rivali nel partito, rifiutando, per esempio, di nominare un ministro degli Esteri [attualmente Netanyahu ricopre anche la carica di ministro degli Esteri, ndt.], di cui c’è estremo bisogno, a quanto pare per il timore del potere e del prestigio che un simile ministro potrebbe guadagnare all’interno del partito.

Il partito di governo Likud non si è preoccupato di rendere pubblico un programma elettorale durante le ultime elezioni del 2015. Il suo leader, il primo ministro, ha concesso solo un discorso in tutta la campagna elettorale: al Congresso USA sul programma nucleare iraniano.

L’esercizio del potere si è quindi separato dalle parole e dalla responsabilità. Allora non è solo la Knesset che ora desidera non essere controllata, e Netanyahu ha già fatto ciò a un livello significativo: nessuna parola lo vincola, neppure la sua. E questo, forse, è il segno più inquietante per la democrazia israeliana.

– Eyal Chowers insegna teoria politica all’università di Tel Aviv. Il suo libro “The Political Philosophy of Zionism: Trading Jewish Words for a Hebraic Land” [La filosofia politica del sionismo: scambiare parole ebraiche per una terra ebraica”] è stato pubblicato da Cambridge UP nel 2012.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)