Gaza. Grande marcia. Sarà l’ultimo venerdì?

Patrizia Cecconi

17 agosto 2018, L’Antidiplomatico

Oggi Gaza sembra pronta per la prova generale che stabilirà se la mediazione dell’Egitto (e le promesse del Qatar) siano state in grado di portare alla tregua tra la forza politica che governa la Striscia e il governo israeliano.

Un tentativo anticipato da due concessioni israeliane che in realtà sono già diritto dei palestinesi, ma che fanno parte di quei diritti che Israele prima conculca e poi “concede” a patto che i gazawi stiano buoni a cuccia come dichiarato, con termini diversi ma altrettanto espliciti, da Lieberman.

La Grande marcia oggi andrà avanti lo stesso e i dati forniti dal Ministero della Salute (v. video) sono tali da far supporre che la determinazione della “Gaza resistente” difficilmente si arrenderà a una tregua che ha come contropartita l’entrata di un po’ di merci (peraltro israeliane) e la restituzione ai pescatori di una fetta di mare ora illegalmente bloccata. Queste le generose “concessioni”.

Certo, dopo aver affamato la popolazione ed averla spinta verso l’abisso depressivo, è facile lavorare in modo tale da dare scacco matto ad Hamas: se non accetta avrà contro gran parte dei gazawi che vivono di sussidi, se accetta verrà accusato di tradimento dalla parte resistente.

Inoltre c’è il problema principale, quello che richiede lungimiranza e intelligenza politica in misura tale da accantonare, almeno temporaneamente, le differenze ideologiche tra i laici di Fatah e i religiosi di Hamas. Senza questo sforzo non ci sarà riconciliazione e senza riconciliazione non ci sarà nessuna vittoria da parte del popolo palestinese. Questo Israele lo ha ben chiaro, e infatti tenta gli accordi separati con Hamas che, comprensibilmente, fanno infuriare Mahmoud Abbas.

Ferme restando tutte le critiche che piovono su una parte e sull’altra, una cosa è chiara agli occhi di qualunque osservatore: senza riconciliazione tra le due maggiori fazioni politiche non c’è futuro per la Palestina. Questo sembra averlo chiaro anche il portavoce del Movimento di Resistenza Popolare Khaled al-Azbout,, attualmente nella delegazione che sta discutendo della tregua con Israele al Cairo.

In proposito, come pubblicato dall’agenzia araba on line Alwatanvoice, Al-Azbout ha rilasciato un comunicato stampa in cui, dopo aver dichiarato che ” …una serie di richieste sono diritti naturali del nostro popolo e non un favore, e attraverso l’ottenimento di quei diritti vogliamo l’accesso a una vita dignitosa ma non siamo disposti a pagare qualsiasi prezzo politico… e la battaglia continuerà fino a quando continua l’occupazione della Palestina…. Vogliamo raggiungere l’accordo entro l’Aid al Adha  (l’aid al adha o festa del sacrificio di Abramo è una delle due maggiori festività musulmane e cade il 21 agostoNdr)” ha aggiunto che “la riconciliazione è una priorità assoluta …e

tutte le parti sulla scena sono chiamate a superare la divisione discutendo in dettaglio le soluzioni per ogni questione … tuttavia – aggiunge Al Azbout – in questo contesto la revoca delle procedure per la Striscia di Gaza è il vertice della piramide e l’inizio del round…ma puntiamo alla riunificazione storica della patria per cui dobbiamo far cadere tutte le cospirazioni contro la nostra causa”.

Discutendo i dettagli dell’accordo, finalizzati a far rivivere Gaza rapidamente, sembra si sia anche concordato un canale marittimo per collegare la Striscia al mondo, sotto la supervisione internazionale.
La delegazione al Cairo ha anche richiesto garanzie reali per obbligare Israele a rispettare i termini dell’accordo se questo verrà raggiunto, pena il suo fallimento in caso contrario, visto che già in passato Israele ha mostrato di non rispettare gli accordi presi senza pagarne prezzo.

Ma non sembra così facile concludere questo percorso in modo onorevole. Da una parte perché sembra che possa concludersi solo cedendo, nei fatti, al “deal of the century” proposto da Trump, dall’altra perché, seppure si tratta di un compromesso che umilierebbe Hamas, i falchi israeliani, tra cui la Zipni Livni di triste e sanguinaria memoria benché appartenga ad un partito non di estrema destra, non sono d’accordo.

Inoltre, mentre i gazawi stanno cominciando a recarsi nei campi “al awda” lungo il border, qualcuno si chiede cosa ci sia dietro il “mistero” degli incontri tra il presidente Al Sisi e Netanyahu avvenuti nell’ultima settimana di maggio, incontri che secondo indiscrezioni ormai pubbliche avrebbero portato a concludere che la crisi di Gaza si sarebbe risolta con l ritorno dell’Anp nella Striscia nonostante l’opposizione di Abu Mazen.

Intanto oggi, nonostante i 168 uccisi e i circa 18.000 feriti, numeri davvero impressionanti, la marcia sta partendo. Il tema odierno è “Venerdi di rivoluzione per Al Quds e per Al Aqsa”.
Tra qualche ora sapremo se i dati di cui sopra dovranno essere ancora una volta ritoccati o se le armi israeliane saranno state fermate in attesa della eventuale conclusione degli accordi.

Non crediamo che Hamas riuscirà a bloccare i manifestanti, se questo è il desiderio di Israele, ma intanto di sicuro li tiene sul piatto della bilancia per realizzare al meglio gli accordi.
Se ci riuscirà in modo onorevole e nel rispetto delle istanze poste dal Comitato di Resistenza Popolare che ha pagato con martiri di tutte le fazioni politiche questa fantastica “Grande marcia per il ritorno” i palestinesi avranno vinto. In caso contrario la tregua si chiamerà capitolazione.




I drusi e la legge sullo Stato Nazione

Yara Hawari

16 agosto 2018, Al Jazeera

Questa legge dimostra che non importa quanto cooperi – se non sei ebreo, questo Stato non è per te

L’approvazione lo scorso mese della legge sullo Stato-Nazione, che afferma il carattere ebraico dello Stato israeliano e riduce l’importanza della lingua araba, ha riacceso un dibattito tra i cittadini palestinesi di Israele, soprattutto in merito alla loro situazione precaria all’interno dello Stato. In particolare ha suscitato un’intensa discussione nella comunità dei drusi palestinesi in Israele, oltre a provocare una serie di dimissioni da parte di ufficiali drusi che prestano servizio nell’esercito israeliano. Il 4 agosto 50.000 drusi si sono riuniti contro la legge in piazza Rabin a Tel Aviv sventolando sia bandiere israeliane che druse. L’immagine della piazza invasa dalla bandiera drusa multicolore e da quella israeliana una vicino all’altra evidenzia la diversa relazione che la comunità drusa ha con Israele rispetto a quella degli altri cittadini palestinesi.

In seguito alla fondazione dello Stato di Israele nel 1948, la dirigenza sionista cercò di dividere la comunità palestinese sopravvissuta [alla pulizia etnica, ndtr.] attraverso la nozione di particolarismo – in altre parole, mettendo in evidenza differenze religiose e tradizionali al suo interno. I sionisti concentrarono la loro attenzione sulla comunità drusa di lingua araba (la religione drusa si è sviluppata dall’Islam ismailita [corrente dell’Islam sciita, ndtr.] e i suoi membri sono concentrati in Libano, Siria e Palestina).

Già nel 1948 alcuni drusi vennero reclutati dall’Haganà [principale milizia sionista, ndtr.], – una cosa all’epoca negata agli altri palestinesi – con la promessa di consentirgli di fare il raccolto agricolo nelle loro terre. Nel 1956 i dirigenti drusi accettarono un accordo di coscrizione obbligatoria nell’esercito israeliano in cambio della protezione della comunità in quanto minoranza.

Tutt’altro che d’accordo, molti villaggi drusi protestarono contro la coscrizione e contro la collaborazione dei loro dirigenti con il regime sionista. Tuttavia, nel corso del tempo, la maggioranza della comunità venne cooptata e inserita a forza all’interno del regime sionista, contribuendo a conservare il mosaico culturale israeliano di facciata. Eppure ironicamente continuarono ad essere privati delle loro terre e gli vennero negate le stesse infrastrutture e servizi a disposizione delle loro controparti ebraiche. Infatti, dalla nascita di Israele, i drusi hanno perso oltre tre quarti della loro terra a favore dello Stato e allo stesso tempo gli è stato vietato il permesso di costruire, provocando una situazione di sovraffollamento e strangolamento simile a quella degli altri palestinesi in Israele.

Questa vicenda di continue discriminazioni e la storia dei drusi che si rifiutano e resistono è spesso stata marginalizzata dalla narrazione egemonica. Più di recente, nel 2013 è stato formato un gruppo di giovani drusi chiamato “Urfod” (“rifiuto” in arabo) che ha promosso il rifiuto di fare il servizio militare nell’esercito israeliano e una campagna per abolire la coscrizione obbligatoria. Formatosi nel villaggio druso di Rameh, in Galilea, “Urfod” sta iniziando a sfidare la narrazione egemonica della collaborazione dei drusi con il regime sionista mettendo in evidenza la resistenza attuale e passata dei drusi. Il villaggio di Rameh è anche il luogo d’origine di uno dei più famosi e prolifici poeti palestinesi, Samih al-Qassim, un palestinese druso. La sua poetica si concentra sulla resistenza e sull’amore per la Palestina. Sia gli attivisti di Urfod che Samih al-Qassim rappresentano un monito che non c’è niente di naturale o intrinseco nella collaborazione dei drusi con Israele – al contrario, è stata e continua ad essere una dei molti metodi utilizzati per disintegrare la società palestinese.

Tuttavia questa rinnovata e diffusa indignazione nel corso delle ultime settimane all’interno della comunità drusa nei confronti di questa legge non riflette necessariamente un incremento del rifiuto dei drusi. La legge è stata vista come uno schiaffo morale per una comunità “leale” piuttosto che la consacrazione di una supremazia ebraica già in atto. I timori per una “nuova” situazione in un’era di cittadinanza di serie B ha portato i dirigenti drusi, compreso il capo spirituale, lo sceicco Muwafaq Tarif, a incontrarsi con Netanyahu per discutere la prosecuzione della protezione dei drusi come minoranza. Nell’incontro Netanyahu ha anche espresso la speranza che la manifestazione dei drusi, organizzata in risposta alla legge, venisse annullata. Benché Tarif e Netanyahu abbiano raggiunto un accordo, il comizio ha avuto ugualmente luogo. Lungi dall’essere critico nei confronti di Israele o mettere in discussione la collaborazione dei drusi con lo Stato, ha ospitato oratori dell’esercito che hanno insistito sulla fedeltà dei drusi e hanno descritto la legge come un insulto piuttosto che come parte di una legislazione intesa a sostenere le reali caratteristiche razziste dello Stato.

Questo tentativo di cooptare le minoranze è stato a lungo una strategia per distruggere e frammentare la società palestinese. Le promesse di integrazione e di opportunità economiche e sociali non sono state mantenute, come dimostrato dal fatto che i drusi palestinesi continuano a essere vittime di discriminazione, marginalizzazione ed esclusione. Infatti una delle maggiori tragedie è come Israele sia riuscito a dividere il popolo palestinese ed abbia creato gruppi minoritari che lottano per le briciole della tavola del padrone. Se non altro questa legge dimostra che non importa quanto cooperi o collabori – se non sei ebreo, questo Stato non è per te.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Yara Hawari è l’esperta di politica palestinese di Al-Shabaka, la rete di politica palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Metodi fascisti: come i detrattori di Jeremy Corbyn stanno tramando per toglierlo di mezzo

David Hearst

Martedì 14 agosto 2018,Middle East Eye

Agli oppositori del leader del partito Laburista non importa niente dell’antisemitismo. Faranno solo di tutto per eliminare Corbyn

Ogni volta che ti connetti, ti chiedi quanto sarà ancora più sporca la campagna per spodestare Jeremy Corbyn come leader del partito Laburista, quanto più in basso i suoi nemici stanno per sprofondare. E ogni giorno essi si superano nella corsa verso la fogna della politica britannica.

La scorsa settimana tre giornali ebrei britannici, che di solito si scontrano tra loro, hanno unito le forze per postare un editoriale unitario in cui si dichiara che un governo diretto da Corbyn rappresenterebbe una “minaccia esiziale” per gli ebrei britannici.

Il vero scopo della campagna

Sabato il “Daily Mail” [secondo quotidiano più venduto in GB, di tendenza conservatrice, ndtr.] ha affermato che Corbyn ha lasciato una corona di fiori sulla tomba di due palestinesi che avrebbero organizzato il massacro alle Olimpiadi di Monaco. Oggi il giornale popolare “The Sun” [giornale più venduto in GB, di tendenza molto conservatrice, ndtr.] ha pubblicato due articoli nella stessa edizione. Uno era una lettera di un lettore in cui si dichiarava che Boris Johnson [importante politico conservatore, ndtr.] ha “colto nel segno” quando ha detto che le donne che portano il burqa sembrano cassette delle lettere o rapinatori di banche: “A Boris dovrebbe essere consentito di parlare sinceramente, non ha niente di cui scusarsi.”

Immaginate solo quello che sarebbe successo se Corbyn avesse preso in giro la kippah [copricapo degli ebrei osservanti, ndtr.], apertamente e spudoratamente, su un giornale nazionale.

L’altro era un editoriale in cui si affermava che Corbyn non è adeguato ad essere il leader del partito Laburista e “non gli si può consentire di avvicinarsi al governo.” Almeno –finalmente – siamo arrivati allo scopo di questa campagna. È chiaro ora che non ha niente a che vedere con la reale e verificabile situazione dell’antisemitismo nel partito Laburista, o al fatto che Corbyn si sia ritrovato nei cimiteri di Tunisi nel 2014 per i rifugiati palestinesi.

È evidente che l’obiettivo è togliere di mezzo il capo dell’opposizione utilizzando metodi fascisti – diffamazione, calunnia, intimidazione.

Incapaci di presentare un candidato in grado di sconfiggerlo con metodi democratici, nelle urne, incapaci di attaccarlo per le sue politiche, che riscuotono un sostegno maggioritario nel Paese, i detrattori di Corbyn si sono metodicamente e costantemente concentrati sul compito di diffamarlo.

E, ovviamente, funziona.

Dare da mangiare ai coccodrilli

Corbyn sta affrontando la più grande minaccia alla sua leadership dal “golpe” organizzato dai parlamentari del suo partito. È anche sempre più isolato tra i suoi stessi sostenitori. John McDonnell, l’alleato più vicino a Corbyn, che evita la politica estera,[in quanto] pensa che non sia un argomento di lotta del partito Laburista. Emily Thornberry, il suo ministro ombra degli Esteri [il partito laburista, all’opposizione, ha un governo ombra, ndtr.], non ha detto una parola.

Ed Milliband, l’ex leader del partito Laburista sotto la cui direzione l’antisemitismo è stato storicamente maggiore che durante la segreteria di Corbyn, gli ha fornito uno scarso appoggio. I dirigenti del sindacato si sono tenuti lontano. I gruppi musulmani non ne vogliono sapere. Corbyn è solo.

E il risultato è che Corbyn sente di essere lasciato senza alternative se non cedere, chiedere scusa, accettare uno dopo l’altro i controversi “esempi pratici” della definizione di antisemitismo dell’”International Holocaust Remembrance Alliance” [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto] (IHRA) in una lenta e penosa ritirata.

È un disastroso errore di valutazione. Le “scuse” di Corbyn per misfatti di cui è innocente, non fanno che alimentare il coccodrillo. Come dicono i georgiani: “Una volta che hai esaurito le galline da gettare al coccodrillo, si prenderà il tuo braccio.” Che Corbyn sopravviva a questo attacco o no, chiunque partecipi, consapevolmente o meno, a questa campagna deve essere conscio di quello che vuole.

Qualunque cosa accada a Corbyn, ci sono tre vittime di questa sporca faccenda.

Le vittime

La prima è la verità. Praticamente ogni volta che prendi in considerazione una specifica accusa e la esamini, la prova si sgretola come sabbia nelle mani. Prendiamo l’ultima: che Corbyn ha lasciato una corona di fiori sulle tombe di due terroristi palestinesi. Risulta che non ha lasciato una corona di fiori su quella tomba, che era a 13 metri di distanza, ma era presente quando ne è stata lasciata una. La corona era per tutti quelli che si trovavano nel cimitero: palestinesi morti sotto un bombardamento, quelli assassinati e quelli che sono semplicemente morti in esilio. Quindi Corbyn ha onorato i morti palestinesi 22 anni dopo Oslo.

E comunque, chi erano questi due terroristi? Entrambi erano uomini dell’OLP, la fazione palestinese che ha negoziato ad Oslo ed ha riconosciuto Israele. Uno era Salah Khalaf, che si è incontrato con l’ambasciatore USA a Tunisi come parte del dialogo con l’OLP autorizzato dal segretario di Stato USA James Baker. Ciò rende Baker colpevole dello stesso crimine appena commesso da Corbyn?

Khalaf era stato individuato dagli americani come una persona pragmatica che stava spostando la politica dell’OLP. Il secondo era Atef Bseiso, il funzionario di collegamento dell’OLP con la CIA. Israele lo ha accusato di coinvolgimento nel massacro di Monaco, benché quanti degli assassinati [dai servizi segreti israeliani, ndtr.] fossero direttamente legati a Monaco sia un argomento di discussione storica. I servizi segreti francesi ricondussero il suo [di Bseiso, ndtr.] assassinio a Parigi ad Abu Nidal [gruppo palestinese dissidente rispetto alla politica dell’OLP, ndtr.], e l’OLP accusò il Mossad [il servizio segreto israeliano, ndtr.]. Stiamo dicendo che due uomini dell’OLP che hanno creato dei canali paralleli che avrebbero portato alla conferenza di Madrid, e quindi a Oslo, non dovrebbero essere onorati?

Khalaf, noto anche come Abu Iyad, era il capo dell’intelligence dell’OLP e braccio destro di Arafat. Jack Straw [ex-parlamentare ed ex-ministro laburista, ndtr.] ha lasciato una corona di fiori sulla tomba di Arafat. Ora Straw dovrebbe essere denunciato per averlo fatto? Bseiso e Khalaf furono acclamati dai giorni del Settembre Nero all’inizio degli anni ’70.

E quanto indietro vogliamo andare nella storia? Israele ha avuto due primi ministri che erano ex terroristi per gli attentati che contribuirono a organizzare nel 1944.

Menachim Begin era il capo dell’Irgun, un gruppo paramilitare clandestino sionista il cui scopo era di obbligare gli inglesi a lasciare la Palestina. L’Irgun mise in atto una serie di attentati nel 1944 contro obiettivi britannici, l’ufficio immigrazione, gli uffici delle imposte, una serie di commissariati di polizia. Il suo volto compare su un manifesto con la scritta “ricercato” emanato dalla forza di polizia palestinese [del Mandato britannico, ndtr.].

Yitzak Shamir era un membro del Lehi, o della famosa Banda Stern, che assassinò lord Moyne, il governatore inglese in Medio Oriente. In Israele sia Begin che Shamir sono celebrati come combattenti della libertà.

Maccartismo al lavoro

La seconda vittima di questa campagna sono i palestinesi. Lo scopo è quello di intimorire tutti i politici, che siano conservatori, laburisti, liberal democratici o dell’SNP [il partito nazionalista scozzese, ndtr.] dall’avere qualunque contatto con organizzazioni palestinesi, che potrebbe essere usato per screditarli in futuro. Ognuno ora è messo in guardia per qualunque testimonianza esista di contatti e conferenze che abbiano avuto luogo molto tempo fa. La definizione di antisemitismo dell’IHRA, che non è giuridicamente vincolante, sarà usata come arma retroattiva.

Se ciò assomiglia ai metodi che il senatore USA Joseph McCarthy utilizzava all’inizio degli anni ’50 contro i sospetti comunisti – “rossi sotto il letto” – al culmine della guerra fredda, è perché è così. D’ora innanzi ogni passato contatto, ogni evento, ogni palco condiviso con gruppi, sostenitori, attivisti a favore dei palestinesi e ogni foto che salti fuori dai meandri dei server psicologici di Israele potrebbe essere usato per distruggere la reputazione di politici britannici con altrettanta efficacia che con Corbyn. Che egli sopravviva o meno, la reputazione internazionale di Corbyn è stata intaccata. Se tu fossi un candidato democratico negli USA, ora ti incontreresti con lui?

È la politica di tutti i partiti britannici sostenere –l’ormai moribonda – soluzione dei due Stati. Ogni partito politico appoggia la formazione di uno Stato palestinese indipendente e sostenibile. Proprio per questa ragione questa campagna paralizza nei fatti ogni comunicazione tra attivisti palestinesi, di qualunque tendenza, e politici britannici.

Sto dedicando questo punto in particolare ai nemici di Corbyn alla destra del partito e ai parlamentari del partito. Volete seriamente che gli stessi metodi che avete utilizzato, o di cui siete stati complici, contro Corbyn, vengano utilizzati contro di voi? Pensate davvero che il risultato finale sia la vittoria della democrazia britannica?

Se qualcuno pensa che, tolto di mezzo Corbyn, questa campagna finirà lì, si sbaglia.

La lotta di tutti

La terza vittima di questa campagna è chiunque, palestinese o israeliano, musulmano, cristiano o ebreo, sia identificato e preso di mira da Israele in quanto oppositore.

Si ricordi quello che è successo al giornalista ebreo americano Peter Beinart all’aeroporto Ben Gurion. Beinart, che ha pubblicamente manifestato il proprio appoggio al boicottaggio di prodotti delle colonie nella Cisgiordania occupata, è stato interrogato per un’ora sui suoi articoli di politica e sulle sue attività.

L’incontro è finito quando chi mi interrogava mi ha chiesto, chiaro e tondo, se stavo pensando di partecipare ad un’altra protesta,” ha scritto Beinart. “Ho risposto sinceramente: No. Con ciò sono stato rimandato alla sala d’attesa.” Il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ha fatto immediatamente marcia indietro ed ha sostenuto che l’interrogatorio di Beinart è stato un “errore amministrativo”.

Per gli ebrei americani e quelli britannici, questo è un vero campanello d’allarme. Questo è il cammino lungo cui Israele è guidato, e lungo cui Israele sta trascinando anche la diaspora ebraica. Schieratevi ora e resistete prima che sia troppo tardi. La lotta di Corbyn per la sua stessa integrità, reputazione e onestà è la lotta di tutti.

Se non lo fate, se ve ne tenete fuori, se state zitti, se sogghignate scientemente e non fate niente, potreste essere i prossimi.

– David Hearst è caporedattore di Middle East Eye. È stato caporedattore degli esteri di “The Guardian” [giornale inglese di centro sinistra, ndtr.], ex editorialista associato degli esteri, per l’Europa, capo della redazione a Mosca, corrispondente dall’Europa e dall’Irlanda. È arrivato a “The Guardian” dallo “Scotsman”, dov’era corrispondente per l’educazione.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Rapporto OCHA del periodo 31 luglio – 13 agosto 2018 (due settimane)

Nella Striscia di Gaza e nel sud di Israele una nuova ondata di ostilità ha provocato l’uccisione di cinque palestinesi, tra cui una donna incinta e sua figlia di 18 mesi; altri 50 palestinesi e 28 israeliani sono rimasti feriti.

L’8 agosto, due membri dell’ala armata di Hamas sono stati uccisi dal fuoco dei carri armati israeliani. A partire da quella sera e fino al 9 agosto, gruppi armati palestinesi hanno lanciato circa 180 razzi ed hanno sparato con mortai contro le comunità israeliane che circondano Gaza; alcuni razzi hanno colpito aree abitate, causando il ferimento di israeliani e danni a diversi edifici, tra cui un asilo nella città di Sderot. L’aviazione israeliana ha effettuato numerosi attacchi aerei su Gaza, lanciando oltre 110 missili, uno dei quali, a Deir al Balah, ha ucciso la donna palestinese e sua figlia [vedere ad inizio paragrafo]; inoltre sono state danneggiate sei strutture idriche che rifornivano oltre 30.000 persone, dozzine di case e diversi veicoli. Successivamente, il 9 agosto, una fazione palestinese ha lanciato un razzo a medio raggio verso la città israeliana di Beersheba, senza provocare feriti o danni. In risposta, Israele ha completamente distrutto, nel centro della città di Gaza, un edificio di cinque piani che ospitava un centro culturale; secondo l’esercito israeliano, la struttura era utilizzata anche dalla sicurezza interna di Hamas. Questi due ultimi attacchi sono stati i primi del loro genere dalle ostilità del 2014. La sera del 9 agosto è stato raggiunto un cessate il fuoco informale.

A Gaza, nell’ambito della “Grande Marcia del Ritorno”, sono continuate le dimostrazioni e gli scontri del venerdì: quattro palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane; tra essi un operatore di primo soccorso e un minore. Oltre 580 i feriti. Altri tre palestinesi sono morti per le ferite riportate nelle precedenti proteste. L’operatore [di cui sopra] è stato ucciso durante una dimostrazione del 10 agosto: è il terzo operatore sanitario ucciso in servizio in simili circostanze. Circa il 60% dei feriti (338 di 580) sono stati ricoverati in ospedale; tra loro, 165 colpiti con armi da fuoco. Non sono state segnalate vittime israeliane. L’11 agosto, nel contesto delle proteste, un raduno di 40 battelli ha tentato di rompere il blocco navale: sono stati fermati dalla marina israeliana che ha aperto il fuoco verso le barche ferendo un palestinese.

Il 2 agosto, le autorità israeliane hanno ripristinato il divieto di ingresso di carburante nella Striscia di Gaza, portando i servizi essenziali sull’orlo del collasso; il 12 agosto è ripresa l’importazione di carburante d’emergenza. Secondo quanto riferito, il divieto era stato adottato in risposta alla prosecuzione del lancio di aquiloni e palloncini incendiari verso Israele. In una dichiarazione rilasciata l’8 agosto, il Coordinatore Umanitario ha invitato le autorità israeliane a consentire immediatamente l’ingresso del combustibile di emergenza acquistato dall’ONU per assicurare il funzionamento dei principali ospedali e dei servizi essenziali: acqua potabile, trattamento reflui e servizi igienici. Già dal 9 luglio, Israele aveva rafforzato il blocco su Gaza, vietando l’ingresso di una gamma di materiali, inclusi materiali da costruzione, mobili, legno, elettronica e tessuti, oltre a proibire l’uscita di ogni tipo di merce.

Dopo il cessate il fuoco del 9 agosto, è stata segnalata una significativa riduzione di lanci di aquiloni e palloncini incendiari da Gaza verso Israele. Secondo le autorità israeliane, dalla fine di aprile sono stati registrati 1.364 incendi che, pur non provocando vittime israeliane, hanno bruciato coltivazioni e riserve naturali.

Dal 5 agosto, un nuovo accordo ha permesso l’importazione di gas da cucina dall’Egitto verso Gaza, attraverso la Porta di Salah ad Din [in Rafah]. Questo accordo compensa la possibile penuria di tale gas, determinata dalle restrizioni israeliane. Durante il periodo di riferimento [31 luglio – 13 agosto], sono entrate in Gaza circa 830 tonnellate di gas.

Nella Striscia di Gaza, in Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 17 casi non riferibili alle manifestazioni di massa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco, causando il ferimento di tre palestinesi e costringendo agricoltori e pescatori a lasciare l’area. In un caso, le forze navali israeliane hanno intercettato un peschereccio e detenuto per un breve periodo cinque pescatori, tra cui un minore. Dal 16 luglio, Israele ha ridotto la zona di pesca accessibile ai palestinesi da 6 a 3 miglia nautiche dalla costa, riducendo ulteriormente i proventi della pesca.

In Cisgiordania, in più scontri con le forze israeliane, sono stati feriti 55 palestinesi, tra cui nove minori. Diciassette palestinesi sono rimasti feriti negli scontri con le forze israeliane che, nella città di Nablus, stavano scortando un gruppo di coloni israeliani in visita ad un sito religioso. Altri tre feriti sono stati registrati presso il villaggio di Bardala, nella parte settentrionale della Valle del Giordano, nel corso di una protesta palestinese contro la scarsità d’acqua per uso agricolo nella zona. Complessivamente, le forze israeliane hanno condotto 100 operazioni di ricerca-arresto, tre delle quali hanno provocato scontri: feriti nove palestinesi e tre soldati.

Il 9 agosto, nella città di Al Eizariya (Governatorato di Gerusalemme), durante scontri seguiti ad un’operazione di polizia, un palestinese è stato ucciso dalle forze dell’Autorità Palestinese (PA). Ulteriori scontri tra palestinesi e Forze di polizia (senza feriti) sono stati registrati l’11 agosto, nel Campo profughi di Balata (Nablus), durante le proteste seguite alla morte, avvenuta in un carcere dell’Autorità Palestinese, di un residente del Campo.

In Area C e in Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, sono state demolite o sequestrate 13 strutture palestinesi, provocando lo sfollamento di 12 palestinesi. Otto di queste strutture, incluse sei abitazioni, si trovavano in Gerusalemme Est, nei quartieri di Sur Bahir, Jabal al Mukkaber, Shu’fat e Beit Hanina. Nel Campo di Al Aroub (Hebron), in un’area compresa in zona C, le autorità israeliane hanno demolito diverse tombe costruite senza permesso (qui contate come un’unica struttura).

Nel Complesso colonico di Beit al Barakeh, vicino al Campo di Al Aroub (Hebron), coloni israeliani hanno demolito due strutture residenziali sfollando una famiglia di quattro rifugiati palestinesi che vivevano nel complesso da 45 anni. La demolizione è avvenuta nonostante l’ingiunzione di un Tribunale israeliano che impediva lo sfratto della famiglia. Nel 2012 un’organizzazione di coloni aveva acquisito segretamente da una organizzazione cristiana svedese la terra e gli edifici di questo complesso e nel 2015 l’area fu annessa al Consiglio Regionale dell’insediamento [colonico] di Gush Etzion.

Il 6 agosto, nella Valle del Giordano settentrionale, per consentire esercitazioni militari, le forze israeliane hanno sfollato, per sette giorni, quattro famiglie palestinesi della Comunità di pastori di Khirbet Yarza. La comunità si trova in un’area designata come “zona per esercitazioni a fuoco”. Insieme alle demolizioni ed alle restrizioni di accesso, questa pratica accresce la pressione sulla Comunità, ponendola ad elevato rischio di trasferimento forzato.

Per effetto dei procedimenti in corso presso l’Alta Corte di Giustizia israeliana, la demolizione della comunità palestinese beduina di Khan al Ahmar-Abu al Helu è ancora sospesa. In una presentazione alla Corte, le autorità israeliane hanno confermato il loro proposito di demolire le strutture della Comunità e spostare i residenti. Si impegnano comunque a [individuare e] proporre un sito di trasferimento alternativo vicino a Gerico a condizione che i residenti accettino di trasferirsi, pacificamente, nel sito temporaneo attualmente indicato dalle autorità israeliane (Jabal Ovest). Poiché tale sito si trova vicino a un impianto di depurazione, l’avvocato della Comunità ha chiesto alla Corte di accogliere, prima di emettere la sentenza, una valutazione dei rischi ambientali e sanitari del sito in questione.

Il 2 agosto, nel villaggio di Ein Yabrud (Ramallah), coloni israeliani hanno vandalizzato dieci veicoli di proprietà palestinese, spruzzando su uno dei veicoli la scritta: “Questo è il prezzo”. I residenti della Comunità di Ein al Hilwe, nella Valle del Giordano settentrionale, hanno riferito che sono stati rubati due pannelli solari che fornivano elettricità alla Comunità, attribuendone la responsabilità ai residenti del vicino insediamento colonico di Maskyiot. Inoltre, sono stati segnalati ulteriori episodi di intimidazioni e molestie da parte di coloni israeliani, senza danni alle proprietà.

In Cisgiordania, secondo fonti israeliane, vicino a Hebron, Betlemme e Ramallah, in almeno sei occasioni, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani causando danni a tre veicoli privati; a Ramallah, in uno di questi episodi, è stato ferito un colono israeliano.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah (tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano) è stato aperto per sette giorni in entrambe le direzioni e per altri cinque giorni in una sola direzione; ciò ha consentito l’uscita dei pellegrini per svolgere l’Hajj [il quinto dei pilastri dell’Islam: il pellegrinaggio alla Mecca, da compiere nell’ultimo mese dell’anno islamico]. 1.934 persone sono state autorizzate ad entrare in Gaza e 5.492 ne sono uscite (compresi 3.216 pellegrini). Dal 12 maggio 2018, il valico è stato aperto quasi continuativamente.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 15 agosto, Israele ha revocato le restrizioni imposte il 9 luglio al valico di Kerem Shalom, al confine con Gaza; ha inoltre portato da 3 a 6-9 miglia nautiche dalla costa (variabile a seconda dell’area) la zona di pesca consentita.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




In migliaia scandiscono “No alla legge dello stato-nazione, sì all’uguaglianza”

Ma’an news 12 agosto 2018

TEL AVIV (Ma’an) – Sabato, durante una manifestazione in cui decine di migliaia di arabi ed ebrei hanno marciato a Tel Aviv per protestare contro la controversa legge sulla nazionalità, si sono viste sventolare in alto bandiere palestinesi.

Circa 30.000 manifestanti si sono riuniti in piazza Rabin a Tel Aviv e hanno marciato verso il Museo d’Arte, dove si è svolto il raduno principale. Durante tutta la manifestazione, arabi ed ebrei hanno protestato insieme contro la legge sulla nazionalità e hanno chiesto che venga annullata con lo slogan “No alla legge dello stato-nazione, sì all’uguaglianza”.

Nonostante la decisione degli organizzatori della protesta di vietare lo sventolio di bandiere, durante l’evento si sono visti diversi manifestanti sventolare bandiere israeliane e palestinesi.

In risposta alle bandiere palestinesi, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha pubblicato sul suo account Twitter un video della manifestazione con alcuni dimostranti che sventolavano la bandiera palestinese cantando “Con lo spirito, con il sangue ti redimeremo, Palestina” e ha commentato: “Non c’è prova migliore della necessità della legge sulla nazionalità.”

Il messaggio degli organizzatori della protesta rispetto alla manifestazione recitava: “La nostra dichiarazione è chiara: tutti i cittadini, tutti, sono uguali”.

Tra coloro che hanno parlato alla manifestazione c’erano l’ex deputato del Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] Muhammad Barakeh, il presidente dell’Alta Commissione di Monitoraggio degli Affari Arabi, Mazen Ganaim, sindaco di Sakhnin e presidente del Consiglio Nazionale dei Leader delle Comunità Arabe, la prof.ssa Eva Illouz [famosa sociologa israeliana, ndtr.] e molti altri.

L’ex deputato Muhammad Barakeh ha espresso il proprio sostegno a coloro che hanno sventolato la bandiera palestinese e ha detto: “È la bandiera che la legge sulla nazionalità cerca di cancellare dalla storia, ma è la bandiera di una nazione fiera”.

Barakeh ha sottolineato: “Ebrei e arabi stanno scendendo in piazza a migliaia, per abrogare questa legge abominevole e cancellare la macchia lasciata dal governo Netanyahu. Israele e il sionismo hanno due opzioni tra cui scegliere: genocidio o apartheid. Siamo qui insieme – arabi ed ebrei – per dire che non lo permetteremo”.

Barakeh ha fermamente concluso: “Primo Ministro Netanyahu, non ce ne andremo via, te ne andrai tu”.

Il sindaco di Taybeh, Shuaa Mansour Masaru, ha parlato alla manifestazione definendo la legge sulla nazionalità come “molto pericolosa” e ha detto: “Ci siamo riuniti qui per protestare contro questa legge razzista che afferma che in questo paese ci sono due tipi di esseri umani “.

Masaru ha messo in guardia che, in base alla legge, le istituzioni governative israeliane potrebbero far cessare completamente l’uso della lingua araba.

E ha spiegato: “È possibile che venga presa la decisione di impedire del tutto l’uso della lingua araba in tutte le istituzioni pubbliche. Un’altra cosa che potrebbe accadere in seguito alla legge è che, nel giorno dell’Indipendenza, sarà impedito ai membri delle minoranze di sventolare qualsiasi altra bandiera che non sia quella israeliana. Questa legge è razzista e non in linea con il diritto internazionale “.

L’ex deputato Issam Makhoul ha sottolineato l’importanza della manifestazione: “Questa è una manifestazione importantissima, che esige un’alternativa all’attuale modo di pensare di Israele, pericoloso per entrambe le nazioni, che cerca di delegittimare la parte araba [della popolazione]. Facciamo parte del contesto di questo paese “.

Anche il deputato Michal Rozin, membro di Meretz, partito politico di sinistra [sionista, ndtr.], socialdemocratico e verde, ha criticato il governo Netanyahu.

Rozin ha sottolineato: “Noi non ci stiamo a questa politica di divide et impera del governo Netanyahu: chiunque ritenga che il governo che oggi discrimina una comunità non ne discrimini un’altra domani, si sbaglia: non si può opporsi alla legge sulla nazionalità e difendere l’uguaglianza per tutti “. 

Le organizzazioni e i partiti politici che hanno partecipato alla protesta comprendevano l’Associazione Israeliana degli Ebrei Etiopi, Peace Now, il Centro di Azione Religiosa di Israele, Standing Together, Sikkuy, la Coalizione contro il Razzismo in Israele, il Centro Mossawa, i giovani del partito laburista, Hadash, Meretz, Ta’al, l’Associazione per i Diritti Civili in Israele, Zazim – Azione Comune, il Forum del Negev di Coesistenza per l’Uguaglianza Civile, Kulan, il Movimento di Lotta Socialista, il Nuovo Fondo Israeliano e Shatil.

(trad. di Luciana Galliano)

 




La crisi dell’UNRWA ha sia conseguenze che soluzioni

Essam Yousef

10 agosto 2018, Middle East Monitor

Dalla sua nascita nel 1949 la United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East [Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente] (UNRWA) è stata sul punto di andare in pezzi ad ogni momento a causa del suo legame con fattori politici, giuridici e umanitari relativi alla causa palestinese. La situazione politica ha spianato la strada affinché giocasse il ruolo di “carta di pressione politica”, non da ultimo perché riguarda direttamente le vite dei rifugiati del problema più complicato nella storia contemporanea.

L’agenzia è stata fondata in base alla risoluzione 302 dell’Assemblea Generale dell’ONU, connessa alla risoluzione 194 approvata un anno prima, relativa al diritto al ritorno dei profughi palestinesi alla loro terra. Quest’ultima risoluzione ha aggiunto una dimensione politica alla decisione di fondare l’UNRWA, soprattutto nei termini di un contributo positivo al ritorno dei rifugiati alle loro case, da cui erano stati espulsi con la forza – qualcuno l’ha chiamata una “pulizia etnica” – dalla creazione dello Stato di Israele.

Tra le raccomandazioni dell’Assemblea Generale dell’ONU c’era l’incarico all’UNRWA di dare assistenza ai rifugiati finché si fosse trovata una soluzione permanente alla loro causa. Questo appoggio includeva programmi di aiuto per educazione e salute, opportunità di lavoro, programmi di assistenza e servizi sociali.

Riguardo alle questioni politiche e giuridiche, l’Assemblea Generale ha affrontato periodicamente il problema dei rifugiati palestinesi come punto all’ordine del giorno. Inoltre ha frequentemente ripetuto e riconosciuto “l’inalienabile diritto dei rifugiati a tornare alle proprie case e al risarcimento per le proprietà perse a causa dell’occupazione e dell’espulsione.” Tuttavia la mancanza di ogni volontà internazionale di obbligare lo Stato israeliano occupante a mettere in pratica le condizioni delle risoluzioni dell’ONU ha fatto sì che sia tuttora un problema in sospeso in attesa di essere risolto, nonostante il fatto che la stessa adesione di Israele all’ONU fosse e rimanga condizionata al fatto di consentire ai rifugiati il ritorno alle proprie case.

Le condizioni in base alle quali l’agenzia è stata creata e i suoi limiti – dovuti al fatto che il suo finanziamento è quasi totalmente dipendente dalle donazioni volontarie da parte degli Stati membri dell’ONU, per la maggior parte dagli USA e dall’Europa, seguiti dai Paesi del Golfo come l’Arabia saudita – rendono più facile capire l’attuale riduzione dei servizi dell’UNRWA per i rifugiati. Le donazioni possono essere – e pare siano – negate per ragioni politiche, il che rende la vita ancora più difficile a milioni di rifugiati palestinesi che dipendono dall’UNRWA in Cisgiordania e nella Striscia Gaza occupate, in Giordania, in Siria e in Libano.

L’ONU non solo delibera e poi emana risoluzioni, ma controlla anche i meccanismi necessari per la loro messa in pratica tranne, a quanto pare, quando queste decisioni sono a favore del popolo palestinese e dei suoi legittimi diritti, compreso quello al ritorno. Ciò non a causa dell’egemonia militare di Israele in Medio Oriente. È molto più importante il fatto che il suo principale benefattore e protettore, gli USA, sia anche il principale Stato che muove i fili all’ONU, dove esercita un grado di influenza sproporzionato. L’America e i suoi alleati sono i veri garanti nel mantenere l’esistenza, l’espansione coloniale e la sicurezza di Israele.

Perché, allora, l’ONU ha creato l’UNRWA e continua così da decenni, se non ha mai avuto nessuna concreta intenzione o capacità di far tornare i rifugiati palestinesi alla loro terra, e quindi di porre fine alla necessità fondamentale dell’esistenza dell’agenzia? Credo che i Paesi occidentali, il cui senso di colpa dopo l’Olocausto porta a far finta di niente riguardo al disprezzo di Israele per leggi e convenzioni internazionali, temano anche lo scandalo che li sommergerebbe se i rifugiati palestinesi fossero lasciati a cavarsela da soli nei Paesi che li ospitano, per i quali rappresentano già un grave peso. Questo peso si accrescerebbe in modo notevolissimo se non ci fosse l’UNRWA a fornire una rete di protezione economica, medica ed educativa. In parte questo spiega anche perché l’Occidente ha creato e finanzia l’Autorità Nazionale Palestinese – che non ha assolutamente nessuna reale autorità – come entità pseudo-nazionale che agisce a favore delle autorità occupanti e non degli stessi palestinesi.

A ciò vanno aggiunti i tentativi degli Stati che controllano l’ONU di rinviare ogni serio tentativo di risolvere il problema dei rifugiati, concedendo a Israele altro tempo per creare “fatti sul terreno” – colonie illegali su terra palestinese rubata – e quindi predeterminare l’eventuale risultato del farsesco “processo di pace”. Come diretta conseguenza di ciò, le priorità sono passate dal consentire ai rifugiati di tornare alle loro case, come loro diritto, alla ricerca di modi per integrarli nei rispettivi Paesi che li ospitano. Sono anche state ventilate delle compensazioni per la perdita del diritto al ritorno. La mancanza di potere degli arabi nella regione ha consentito alle superpotenze di controllare l’UNRWA e la sua impostazione, perché queste ultime sono importanti Paesi donatori dell’agenzia e nessun programma di aiuto umanitario per i rifugiati può essere attuato senza il loro sostegno economico. L’aiuto degli arabi e dei musulmani all’UNRWA è estremamente ridotto rispetto a quello di USA ed Europa.

Ovviamente l’UNRWA è stata creata dopo la “dichiarazione d’indipendenza” dello Stato di Israele. La risoluzione che l’ha istituita era stata ideata per rafforzare la nuova situazione e include articoli che si riferiscono a “prendere misure efficaci il prima possibile per porre fine all’aiuto internazionale”. Ciò è risultato evidente dalle politiche che ha adottato, compreso il fatto di destinare la maggior parte del bilancio all’integrazione dei rifugiati in comunità diasporiche piuttosto che a fornire loro assistenza.

Tuttavia il tracollo dei servizi dell’UNRWA, iniziato anni fa, si è di recente accentuato, dato che il principale Stato donatore, gli USA, ha tagliato i propri finanziamenti all’agenzia. Nel 2017 gli USA donavano 157 milioni di dollari al bilancio del principale programma dell’UNRWA, ma quest’anno li hanno ridotti a soli 60 milioni. Ciò ha avuto un effetto disastroso sulla crisi umanitaria che i rifugiati devono affrontare nei territori palestinesi e nei campi della diaspora.

Il disastro umanitario ha iniziato a manifestarsi già quando l’UNRWA ha annunciato di non essere in grado di accettare studenti nelle sue scuole per l’anno scolastico 2018/19 a causa della mancanza di fondi sufficienti. Ciò è stato preceduto dalla sospensione del Programma Alimentare Mondiale di aiuto alimentare a 92.000 palestinesi in condizione di povertà estrema nella Striscia di Gaza; di nuovo, questo è dovuto alla mancanza di finanziamenti sufficienti da parte della comunità internazionale.

Una delle conseguenze della difficile situazione finanziaria dell’UNRWA è stato il licenziamento all’inizio di quest’anno di decine di dipendenti che lavoravano per l’agenzia in Giordania. Gran parte del bilancio dell’UNRWA è destinato ai salari, e molti dei suoi dipendenti sono loro stessi rifugiati, per cui le loro entrate sono una parte fondamentale dell’economia dei rifugiati. La riduzione del personale in Giordania ha colpito gli addetti alle pulizie ed i custodi di scuole e centri di salute gestiti dall’UNRWA in ogni campo di rifugiati palestinesi – sono 10 – nel Regno hascemita, che è la patria “temporanea” di 2 milioni di rifugiati palestinesi registrati.

Recentemente l’agenzia ha licenziato anche 1.000 dipendenti nella Striscia di Gaza. Secondo gli stessi dati dell’UNRWA, essa si appresterebbe a licenziare altro personale se la crisi finanziaria dovesse continuare, oltre al taglio di programmi regolari come i campi estivi ed altre attività per i bambini.

Fin dall’elezione di Donald Trump a presidente, Washington ha adottato un atteggiamento estremamente ostile verso l’UNRWA. La natura dei cambiamenti riguardanti l’agenzia riflette le politiche dell’amministrazione Trump in merito ai rifugiati palestinesi e al complessivo conflitto arabo-israeliano in Medio Oriente. In generale, la nuova posizione degli USA è persino più allineata con la posizione e gli interessi di Israele di prima, mentre quest’ultimo vorrebbe che l’UNRWA venisse chiusa per cancellare del tutto i rifugiati palestinesi dall’agenda politica internazionale.

Recentemente la posizione dell’America è stata espressa esplicitamente nell’entusiasmo dell’amministrazione Trump verso Israele e il suo espansionismo colonialista a spese del popolo della Palestina e della sua causa. La questione dei rifugiati è stata tenuta ben lontana da quelli che sono stati presentati come “negoziati”, ma che in realtà sono semplicemente il fatto che ai palestinesi viene detto cosa fare, o altrimenti… In ogni caso, “o altrimenti” è in genere il risultato finale. Siamo ora nella fase in cui gli USA dicono che l’UNRWA è “dannosa per i rifugiati palestinesi e che il suo mandato è controproducente.” Davvero sorprendente.

È ingenuo fraintendere la natura della situazione che devono affrontare 5.3 milioni di rifugiati palestinesi sparsi tra Cisgiordania, Striscia di Gaza, Giordania, Siria e Libano. Hanno crescenti necessità relative alla salute, all’educazione e ad altri servizi mentre sappiamo tutti benissimo il livello dei problemi economici e di sicurezza dei Paesi ospitanti.

È difficile immaginare come centinaia di migliaia di famiglie private della rete di protezione dell’UNRWA potranno sopravvivere. Quale destino attende le decine di migliaia di dipendenti dell’UNRWA che si troveranno senza lavoro e senza fonti di reddito?

Non ho dubbi che le conseguenze politiche e di instabilità di una simile impennata di miseria e disillusione nel processo di pace siano state prese in considerazione nelle capitali regionali e in Occidente. Il Medio Oriente è già nel caos, ma può andare ancora peggio, a meno che non si faccia qualcosa per arginare i tagli ai finanziamenti dell’UNRWA. Lo spettro di un incremento dell’estremismo e del terrorismo è molto concreto, e la causa non saranno la religione o la radicalizzazione, ma la scarsa disponibilità dell’Occidente – guidato dall’America – a finanziare in modo adeguato l’UNRWA e a fare sforzi sinceri per risolvere il problema palestinese in base alla volontà espressa dalla comunità internazionale attraverso le risoluzioni dell’ONU.

I funzionari dell’UNRWA sono ben consapevoli del cupo panorama che gli si sta profilando ed hanno lanciato appelli e campagne per ridurre il deficit di bilancio dell’agenzia. Sanno più di chiunque altro – con la possibile eccezione degli stessi rifugiati – quanto sia importante che l’UNRWA sia in grado di rispettare i suoi obblighi umanitari, morali e giuridici per milioni di palestinesi. I Paesi arabi e islamici devono dimostrarsi all’altezza della situazione e prendere le misure necessarie per evitare un disastro, destinando all’UNRWA donazioni che siano al livello delle dimensioni, della complessità e della natura della crisi dei rifugiati.

Le organizzazioni umanitarie e di beneficienza nel mondo arabo e islamico possono anche giocare un ruolo chiave intervenendo nei settori in cui l’UNRWA non è in grado di portare aiuto. Possono contribuire a rafforzare la rete di sicurezza sociale nei campi profughi, soprattutto in più di 700 scuole dell’UNRWA responsabili di mezzo milione di alunni palestinesi. Anche i circa 150 importanti centri di salute possono essere sostenuti dal volontariato, così come progetti di aiuto, sistemi di micro-credito per promuovere l’economia e aiuto umanitario. Tuttavia per fare concretamente ciò i governi devono smettere di politicizzare l’aiuto umanitario ed alleggerire la pressione sugli enti di beneficienza, soprattutto quelli che operano in aree ad alto rischio, come i territori palestinesi occupati.

In pratica è necessario preparare alternative a lungo termine per la situazione di crisi economica e politica dell’UNRWA. Il progetto di una “Organizzazione Araba e Islamica”, per esempio, potrebbe essere responsabile delle questioni politiche ed amministrative dei rifugiati palestinesi, compresa l’erogazione di aiuto finanziario in ogni settore, come educazioni e salute, così come di supporto umanitario, evitando quindi che Paesi donatori controllino e politicizzino l’aiuto che forniscono ai palestinesi e ai Paesi che ospitano rifugiati.

Peraltro non dobbiamo ignorare il sostegno politico necessario a proteggere i punti fermi palestinesi, soprattutto il diritto al ritorno dei rifugiati. Dobbiamo essere in grado di sfidare gli schemi che intendono annientare la causa palestinese. Sarà una priorità di una simile “Organizzazione Araba e Islamica” essere basata sulla religione, con una fede ferma e duratura nei diritti del popolo palestinese, come il diritto al ritorno dei rifugiati ed al risarcimento, oltre ad appoggiare il loro diritto a costruire uno Stato indipendente con Gerusalemme come capitale.

Se c’è la volontà politica ciò non è irragionevole, perché il sostegno popolare sta solo aspettando che si prenda una simile iniziativa. L’UNRWA e il popolo della Palestina hanno dovuto dipendere per troppo tempo da Stati che hanno trasformato la crisi umanitaria in un rimpallo di responsabilità politica; è tempo che ciò finisca. Gli USA e i loro alleati devono smettere di giocare con la vita della gente in questo modo pernicioso; anche le vite dei palestinesi sono importanti [riferimento al movimento per i diritti degli afroamericani “Black lives matter”, ndtr.].

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Tre morti per il bombardamento israeliano in seguito al lancio di razzi da parte di Hamas

MEE ed agenzie

giovedì 9 agosto, Middle East Eye

Le forze israeliane hanno effettuato una serie di attacchi aerei, uccidendo tre palestinesi, mentre miliziani palestinesi hanno lanciato decine di razzi contro Israele e nella notte sino a giovedì mattina gli scontri nei pressi del confine tra Gaza ed Israele si sono intensificati.

Secondo fonti di Hamas, gli aerei israeliani avrebbero colpito 140 obiettivi. Nel contempo a sud di Israele le sirene antiaeree hanno suonato praticamente senza interruzione dal tramonto di mercoledì, avvertendo gli abitanti di rimanere nei rifugi, mentre più di 80 razzi venivano lanciati contro di loro.

L’impennata [degli scontri] è avvenuta dopo che funzionari di entrambe le parti hanno parlato di possibili progressi nei tentativi dell’ONU e dell’Egitto di negoziare una tregua dopo mesi di violenza latente.

Secondo fonti ufficiali palestinesi, durante gli attacchi aerei a Gaza un membro di Hamas è stato ucciso, insieme a una donna palestinese e sua figlia di 18 mesi. Anche altri civili, almeno cinque, sono rimasti feriti.

Il ministero della Salute di Gaza ha identificato i palestinesi uccisi come Alaa Youssef Ghandour, 30 anni, Einas Mohammed Khamash, 23 anni, e la figlioletta Bayan.

I media israeliani affermano che le autorità stanno prendendo in considerazione l’evacuazione degli abitanti dalle zone nei pressi del confine di Gaza.

Haaretz ha citato un importante responsabile israeliano, il quale avrebbe affermato che Israele si sta preparando ad una campagna militare contro la Striscia di Gaza: “Abbiamo avuto un ulteriore inasprimento nella notte e non ne vediamo la fine,” ha detto. “A questo punto stiamo prendendo in considerazione l’evacuazione degli insediamenti vicini a Gaza.”

Nel contempo un importante ufficiale dell’esercito israeliano avrebbe sostenuto sull’account Twitter dell’esercito: “Il modo in cui le cose si stanno svolgendo è significativo. Nelle prossime ore, come negli ultimi mesi, Hamas capirà che questa non è la direzione da prendere.”

I media israeliani hanno riferito che parecchi abitanti di Sderot e di altre città di frontiera sono rimasti feriti dal lancio di razzi.

Durante la notte Nickolay Mladenov, l’inviato dell’ONU per il Medio oriente, ha affermato in un comunicato: “Sono profondamente preoccupato dal recente inasprimento della violenza tra Gaza ed Israele, e in particolare dai molti razzi lanciati oggi verso comunità nel sud di Israele.”

L’ONU, ha detto, è impegnata insieme all’Egitto in un “tentativo senza precedenti” di evitare un conflitto grave, ma ha avvertito che “la situazione può rapidamente peggiorare con conseguenze devastanti per tutti.”

Hamas è stato il partito che ha governato di fatto a Gaza da quando ha vinto le discusse elezioni parlamentari palestinesi del 2006. Come risposta Israele ha imposto un durissimo blocco di 11 anni sulla Striscia di Gaza, durante i quali ha scatenato tre guerre contro Gaza, la più recente nel 2014.

Questa settimana il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annullato un viaggio in Colombia per occuparsi dei colloqui per una tregua e ha dovuto convocare per giovedì il consiglio di sicurezza operativo per discutere della situazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Mahmoud Abbas, smetti di servirti di Ahed Tamimi per il tuo tornaconto personale

Ramzy Baroud

8 agosto 2018, Palestine Chronicle

Il padre dell’undicenne Abdul Rahman Nofal mi ha contattato chiedendomi di aiutarlo. Suo figlio è stato colpito a una gamba durante le proteste della “Grande Marcia del Ritorno”. Il sistema sanitario in sfacelo della Striscia non è stato in grado di salvare la gamba del ragazzino, che è poi stata amputata.

Yamen, suo padre, un giovane uomo del campo di rifugiati di Buraij, nella zona centrale di Gaza, vuole solo che suo figlio ottenga una gamba artificiale in modo che possa andare a scuola a piedi. Gli israeliani hanno rifiutato al ragazzino il permesso di andare a Ramallah per ricevere cure. Disperato, Yamen ha girato un video in cui chiede al presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas, di aiutare suo figlio. Finora le sue suppliche sono rimaste inascoltate.

Cos’ha fatto questo bambino innocente per meritare un simile trattamento?” chiede nel video. La stessa domanda può essere posta riguardo ai maltrattamenti di tutti i minori di Gaza, di tutti i minori palestinesi.

Abbas, insieme ad Israele, ha sottoposto i palestinesi di Gaza a una prolungata campagna di punizioni collettive. Per quanto crudeli siano state le ripetute guerre di Israele contro l’impoverita ed assediata Striscia, esse sono coerenti con la storia di crimini di guerra ed apartheid di Tel Aviv. Ma quello che Abbas sta facendo a Gaza non è solo scorretto, è anche sconcertante.

Perché un leader di 83 anni è così incline a collaborare con Israele attraverso il cosiddetto coordinamento per la sicurezza e, di più, così assillante nell’isolare e punire il suo popolo nella Striscia di Gaza?

Invece di aiutare i gazawi che subiscono i distruttivi effetti delle guerre di Israele e di oltre un decennio di assedio durissimo, egli ha stretto il cappio.

Il governo di Abbas finora ha tagliato i salari che in precedenza pagava ai dipendenti pubblici di Gaza, anche a quelli fedeli alla sua fazione, Fatah; ha tagliato i sussidi alle famiglie dei prigionieri di Gaza detenuti da Israele; ha persino sospeso i pagamenti alla compagnia elettrica israeliana che fornisce a Gaza parte delle forniture di energia elettrica, gettando la Striscia ancor più nell’oscurità.

Come Israele, anche Abbas vuole vedere Gaza in ginocchio. Ma, a differenza di Israele, sta umiliando i suoi fratelli.

A partire dal 14 maggio, quando migliaia di palestinesi di Gaza sono andati verso la barriera che separa Israele dall’enclave incarcerata, i sostenitori di Abbas in Cisgiordania hanno interpretato le proteste della “Marcia del Ritorno” come una legittimazione del rivale di Fatah, Hamas. Così anche loro sono scesi in piazza per “celebrare” i presunti successi di Abbas.

Centinaia di palestinesi di Gaza sono stati uccisi e migliaia feriti, molti dei quali minori, nella attuale “Marcia del Ritorno”, ma Abbas e i suoi alleati di Fatah sono stati molto più interessati a garantire la propria importanza che ad unirsi alle proteste per chiedere la fine del blocco di Gaza.

Quando a Ramallah e altrove in Cisgiordania si sono tenute manifestazioni molto più numerose per chiedere ad Abbas di porre fine alla punizione della Striscia di Gaza, i cortei sono stati attaccati dagli sgherri della sicurezza di Abbas. Uomini e donne sono stati picchiati e molti sono stati arrestati per aver solidarizzato con Gaza, un atto ora imperdonabile.

La verità è che i palestinesi della Cisgiordania, non solo quelli di Gaza, detestano Mahmoud Abbas. Vogliono che lui e il suo apparato violento e corrotto se ne vadano. Tuttavia egli si rifiuta, mettendo in atto ogni sorta di metodi per garantire il proprio dominio sui suoi oppositori, arrivando al punto di collaborare con Israele per raggiungere un obiettivo così infame.

Tuttavia Abbas vuole ancora convincere i palestinesi che continua a opporsi, non con l’”inutile resistenza” messa in pratica dai gazawi, ma con il suo stile di “resistenza civile pacifica” dei villaggi palestinesi in Cisgiordania.

La cosa è stata ribadita con enfasi di nuovo negli ultimi giorni.

Appena la giovanissima contestatrice palestinese, Ahed Tamimi, è stata rilasciata da una prigione israeliana dopo aver passato otto mesi in carcere per aver preso a schiaffi un soldato israeliano, Abbas si è affrettato ad ospitare lei e la sua famiglia.

Fotografie di lui che abbraccia e bacia la famiglia Tamimi sono state diffuse in tutta la Palestina e in giro per il mondo. Il suo sistema informativo ufficiale è stato veloce nel metterlo al centro dell’attenzione nei giorni successivi al rilascio di Ahed.

Poi, ancora una volta, Abbas ha impartito lezioni sulla “resistenza civile pacifica”, tralasciando, ovviamente, di sottolineare che anche migliaia di minori di Gaza, rimasti feriti nei pressi della barriera di Gaza negli scorsi mesi, stavano “resistendo pacificamente”.

È vero, Ahed è un simbolo per la nuova generazione di giovani palestinesi ribelli che è stufa di non avere diritti né libertà, ma il tentativo vergognoso di Abbas di sfruttare questo simbolo per ripulire la propria immagine è pura strumentalizzazione.

Se davvero ad Abbas importa dei ragazzi palestinesi ed è tormentato dalle sofferenze dei prigionieri palestinesi – come sostiene di essere – perché, allora, peggiorare le terribili condizioni dei minori di Gaza e punire le famiglie dei prigionieri palestinesi?

Ovviamente Ahed, una ragazzina forte con un legittimo discorso politico da proporre, non può essere incolpata per il modo in cui altri, come Abbas, stanno sfruttando la sua immagine per promuovere la propria.

Lo stesso si può dire dell’attivista pakistana Malala Yousafzai, a cui i miliziani talebani hanno sparato in testa quando aveva 14 anni. Lo sfruttamento da parte dell’Occidente della sua battaglia per guarire dalle ferite e aprire una breccia verso la pace e la giustizia per il suo popolo è deplorevole. Nella psicologia dell’Occidente, la lotta di Malala è spesso, se non sempre, utilizzata per mettere in luce i pericoli del cosiddetto Islam radicale e per legittimare ulteriormente l’intervento militare di Usa e Occidente in Afghanistan e Pakistan.

La questione è stata affrontata con determinazione dalla madre di Ahed, Nariman, anche lei incarcerata e rilasciata dopo otto mesi. Coraggiosamente Nariman ha parlato della concezione razzista che rende famosa Ahed sui mezzi di comunicazione occidentali.

Sinceramente è probabile che sia l’aspetto di Ahed a suscitare questa solidarietà a livello mondiale, e ciò ad ogni modo è razzista, perché molti minorenni palestinesi sono nelle stesse condizioni di Ahed ma non vengono trattati allo stesso modo,” ha affermato.

In quest’ottica, è essenziale che Ahed Tamimi non venga trasformata in un’altra Malala, la cui “resistenza pacifica” sia utilizzata per condannare la continua resistenza di Gaza, e il fascino dei sui capelli biondi e senza velo soffochi le grida di migliaia di Ahed Tamimi nella Gaza assediata, di fatto in tutta la Palestina.

Ramzy Baroud è giornalista, autore e curatore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story (Pluto Press, Londra 2018). Baroud ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è ricercatore non residente presso il Centro Orfalea di Studi Mondiali e Internazionali all’Università della California a Santa Barbara.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La lobby israeliana attacca un sopravvissuto di Auschwitz per diffamare Corbyn

Adri Nieuwhof

7 agosto 2018, Electronic Intfada

 

Nella loro campagna per diffamare in quanto antisemita il leader del partito Laburista Jeremy Corbyn, i media britannici hanno utilizzato in modo scorretto il mio defunto amico Hajo Meyer, sopravvissuto ad Auschwitz,.

Nel 2010 Corbyn ha ospitato a Londra un incontro del “Holocaust Memorial Day” [“Giorno di Commemorazione dell’Olocausto”], in cui Meyer era il principale oratore.

Negli scorsi giorni The Times ha suscitato scalpore con un articolo in cui si dichiarava che Meyer “aveva paragonato la politica israeliana al regime nazista.”

Deputati della destra laburista avversari di Corbyn sono partiti all’attacco.

Il parlamentare John Mann ha dichiarato che l’evento ha violato “qualunque forma di normale decenza”, mentre la sua collega Louise Ellman ha affermato che l’incontro l’ha portata a “chiedersi se questa è la ragione per cui il partito Laburista ha voluto attenuare tanto la definizione di antisemitismo.”

Ellman – da molto tempo apologeta delle violazioni israeliane dei diritti umani – è una funzionaria di “Labour Friends of Israel” [“Amici laburisti di Israele”], un gruppo lobbystico in stretti rapporti con l’ambasciata israeliana.

Ellman si riferiva alla definizione profondamente fallace di antisemitismo della “International Holocaust Remembrance Alliance [“Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto”] (IHRA), che cita come esempio di fanatismo antiebraico “paragoni tra l’attuale politica israeliana e quella dei nazisti”.

Sotto pressione da parte di gruppi della lobby filoisraeliana, il Comitato Esecutivo Nazionale del partito Laburista [NEC] ha adottato la definizione dell’IHRA come parte del regolamento del partito.

Ma il NEC non ha accolto uno degli esempi inclusi nella definizione dell’IHRA, secondo cui “sostenere che lo Stato di Israele è un’iniziativa razzista” è una forma di antisemitismo.

Alcuni attivisti hanno sottolineato che, se adottata dal partito, questa clausola avrebbe potuto essere usata per vietare un gran numero di critiche contro le politiche razziste di Israele e contro le violazioni dei diritti fondamentali dei palestinesi.

In un post su Twitter, Henry Zeffman, l’autore dell’articolo del Times, ha ringraziato “quanti hanno passato gli ultimi tre anni a impegnarsi per verificare cosa il possibile prossimo primo ministro ha fatto quando era un oscuro parlamentare di secondo piano” – una conferma che si tratta di una campagna di lungo corso contro Corbyn.

Zeffman segnala in particolare James Vaughan, che si autodefinisce “storico della propaganda e dei rapporti tra il Regno Unito e Israele.”

Corbyn cede

Gli ultimi attacchi contro Corbyn sottintendono che lo stesso Meyer fosse un antisemita – un’affermazione scandalosa ed assurda.

La calunnia di antisemitismo contro Meyer è disgustosa e dovrebbe essere trattata col massimo disprezzo.

Invece Corbyn ha fatto quello che continua a fare sistematicamente da quando è diventato capo del partito, cioè essere accomodante e battere in ritirata di fronte alle pressioni della lobby israeliana.

Il leader del partito Laburista ha chiesto scusa per il suo ruolo nell’evento e ha preso le distanze dalle opinioni esposte da Meyer nell’incontro, lasciando l’onere della difesa sulle spalle di Meyer.

Ma Hajo Meyer non può più difendersi perché è morto nel 2014.

Zittire un sopravvissuto

L’evento dell’” Holocaust Memorial Day” del 2010 ha avuto luogo un anno dopo l’attacco israeliano contro Gaza, che ha ucciso più di 1.400 palestinesi e ne ha ferite altre migliaia.

Meyer era molto turbato dall’attacco perché i palestinesi erano intrappolati a Gaza a causa del blocco imposto da Israele sul territorio dal 2007.

Non poteva fare a meno di fare un confronto tra gli ebrei rinchiusi dai nazisti in ghetti come quello di Varsavia e la situazione dei palestinesi intrappolati sotto l’occupazione e i bombardamenti israeliani.

L’incontro del 2010 era co-organizzato dalla IJAN, l’“International Jewish Anti-Zionist Network” [“Rete Internazionale degli Ebrei Antisionisti”].

In una dichiarazione della scorsa settimana, la IJAN ha evidenziato che un certo numero di dirigenti della lobby britannico-israeliana era presente all’incontro, ma che “la maggior parte di loro evidentemente non era andata per ascoltare.”

La maggior parte dei sionisti era chiaramente venuta per far tacere il dottor Meyer, sopravvissuto all’Olocausto,” ha scritto dopo l’evento una dei partecipanti, Yael Khan. “Appena ha iniziato a parlare si sono messi a gridare contro di lui.”

Il fanatico filoisraeliano Jonathan Hoffmanex-vicepresidente della Federazione Sionista, noto per la sua violenza, è stato uno dei molti disturbatori accompagnati fuori dalla polizia.

Secondo l’IJAN, un altro disturbatore, Martin Sugarman, è stato fatto uscire per aver gridato contro Meyer.

Mentre usciva [Sugarman] ha sbalordito tutti facendo il saluto nazista e gridando: ‘Sieg Heil’ [“Saluto alla vittoria”, slogan nazista, ndtr.],” ha affermato l’IJAN.

Non avevo mai visto un simile disprezzo e mancanza di rispetto nei confronti di un sopravvissuto all’Olocausto,” ha osservato Kahn. “Gli aggressori avrebbero etichettato un simile comportamento come antisemita, se Hajo non fosse stato un antisionista.”

Amanda Sebestyen, che aveva partecipato all’incontro del 2010, ha confermato a The Electronic Intifada che la deputata Louise Ellman era stata lì “per tutto il tempo.”

Infatti nel 2010 Sebestyen ha scritto una lettera al giornale del partito Laburista Tribune, mettendo in evidenza come Ellman e gli altri “siano rimasti seduti impassibili senza fare in minimo tentativo di calmare i loro colleghi sostenitori di Israele e per creare uno spazio di dibattito.”

Le annotazioni, registrate nel 2010, sulla presenza di Ellman sono significative, dato che otto anni dopo la deputata sostiene di aver appreso solo ora dell’evento.

Sono estremamente turbata nel sentire ora che ci sono le prove che Jeremy (Corbyn) era effettivamente presente all’incontro in cui sono state espresse simili opinioni,” ha detto Ellman a The Times la scorsa settimana.

Dato che anche Ellman era presente, perché ha aspettato fino ad ora per esprimere la propria indignazione? Potrebbe essere che tutta la vicenda sia un’altra crisi costruita ad arte per fare pressione su Corbyn per il suo tradizionale appoggio ai diritti dei palestinesi?

Ellman non ha risposto ad una richiesta di commenti inviatale via mail da The Electronic Intifada.

Lezioni dall’Olocausto

Le esperienze di Hajo Meyer con il nazismo tedesco lo hanno formato e reso sensibile alle sofferenze degli altri, soprattutto dei palestinesi.

Incontrai per la prima volta Meyer ad una riunione di “Una voce ebraica differente”, un gruppo di attivisti olandesi.

Mi presentai come figlia di genitori che avevano subito l’occupazione tedesca. Mio padre era stato obbligato a lavorare per i tedeschi e mia madre non poté terminare i suoi studi perché la sua scuola venne chiusa.

Durante la carestia olandese alla fine della Seconda Guerra Mondiale, doveva rimanere ore in coda ad una mensa per i poveri.

La lezione che ho imparato è di protestare quando viene commessa un’ingiustizia, dissi alla riunione.

Questa è la ragione per cui ho partecipato al sostegno della lotta contro l’apartheid sudafricano e di quella dei palestinesi per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza.

Meyer ed io facemmo subito amicizia. Rimanemmo in contatto e l’intervistai varie volte per The Electronic Intifada.

Auschwitz

Dopo il pogrom della Notte dei Cristalli contro gli ebrei nel novembre 1938, Meyer dovette lasciare la scuola a Beilefeld, la sua città natale nella Germania occidentale.

Fu un’esperienza terribile per un ragazzo desideroso d’imparare e per i suoi genitori,” mi ha raccontato.

All’età di 14 anni dovette scappare da solo in Olanda.

Dopo che i tedeschi occuparono l’Olanda, Meyer si nascose con una carta d’identità falsa malfatta.

Venne catturato dalla Gestapo nel marzo 1944 e deportato nel campo di concentramento di Auschwitz. Lì i nazisti gli tatuarono sul braccio il numero “179679”.

L’istruzione era molto importante per la famiglia Meyer ed il suo desiderio di imparare si tradusse in un dottorato in fisica teorica dopo che venne liberato da Auschwitz.

Sua madre e suo padre tentarono di lasciare la Germania, ma non ci riuscirono.

Morirono dopo essere stati spediti al campo di concentramento nazista di Terezin.

L’identificazione con la gioventù palestinese

Riflettendo sulla sua vita, Meyer mi ha detto nel 2011: “Ho molto in comune con i giovani palestinesi.”

La mia sorte è molto simile a quella che stanno vivendo i giovani palestinesi in Palestina. Non hanno libero accesso all’istruzione. Impedire l’accesso all’istruzione è un omicidio al rallentatore,” ha detto Meyer.

Sono stato un rifugiato; loro sono rifugiati,” ha aggiunto. “Ho provato ogni sorta di campi che hanno limitato la mia possibilità di muovermi, proprio come i palestinesi.”

Ma riconoscere l’ingiustizia non era abbastanza.

Meyer non temeva di protestare per le responsabilità di Israele: “Non posso assolutamente identificarmi con i criminali che rendono impossibile ai giovani palestinesi ricevere un’istruzione.”

Era anche sgomento dal fatto che l’Unione Europea non imputasse a Israele i suoi crimini, soprattutto contro i palestinesi di Gaza.

Nel suo libro del 2005 “Das Ende de Judentums, Der Verfall der israelischen Gesellschaft” – “La fine dell’Ebraismo, la decadenza della società israeliana” – Meyer avvertì il pubblico tedesco che le politiche di Israele verso i palestinesi avrebbero potuto essere paragonate alle prime fasi della persecuzione nazista contro gli ebrei.

Questa osservazione venne fatta nel 2007 anche da Tommy Lapid, il defunto ex-capo del comitato consultivo del memoriale dell’Olocausto di Israele, lo “Yad Vashem”.

Meyer ha messo in chiaro che non intendeva tracciare un parallelo con l’Olocausto nazista.

Ma lui e il suo editore hanno comunque dovuto affrontare accuse di antisemitismo.

Simili accuse – soprattutto in Germania – possono far sì che le persone siano riluttanti a criticare il comportamento di Israele.

Tuttavia ciò non gli ha impedito di criticare le violazioni israeliane dei diritti dei palestinesi.

In risposta, Meyer ha pubblicato un opuscolo per controbattere all’abuso deliberato dei termini antisionismo e antisemitismo da parte dello Stato di Israele e dei suoi gruppi di pressione.

Ha chiesto la massima cautela nel sollevare accuse di antisemitismo – un termine che avrebbe dovuto essere riservato all’ostilità contro gli ebrei in quanto tali.

Eppure quelli che attaccano Corbyn oggi non hanno né ritegno né vergogna.

Chiamano antisemita persino un uomo sopravvissuto ad Auschwitz e che ha perso i propri genitori nell’Olocausto, se pensano che sia ciò che serve per difendere Israele dalle conseguenze dei suoi crimini.

Adri Nieuwhof è una sostenitrice olandese dei diritti umani ed ex-attivista contro l’apartheid del “Comitato Olandese sul Sud Africa”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




1918,1948, 2018: la Prima Guerra Mondiale, la Nakba e la nascita del nazionalismo etnico

Shmuel Sermoneta-Gertel

15 maggio 2018,Mondoweiss

Quest’anno segna non solo il 70esimo anniversario della Nakba [espulsione dei palestinesi dai territori su cui è stato dichiarato lo Stato di Israele, ndtr.], ma anche il centenario della fine della Prima Guerra Mondiale. I due eventi sono strettamente correlati in molti modi, che intenderei esplorare attraverso lo sguardo di un eminente ebreo antisionista dell’inizio del XX secolo, Aharon Shmuel Tamares (1869-1931), rabbino della città di Milejczyce (Russia, e in seguito Polonia).

Nel suo ultimo lavoro, “Sheloshah Zivugim Bilti Hagunim” (“Tre unioni inopportune”), scritto in risposta alla rivolta in Palestina del 1929 [rivolta palestinese contro la dominazione inglese e la presenza sionista, ndtr.] e pubblicato circa un anno prima della sua morte, Tamares spiegò la propria contrarietà al movimento sionista, soprattutto riguardo all’atteggiamento sionista verso la Grande Guerra ed il suo esito.

Tamares inizia la sezione del suo testo a questo riguardo (“Parte 3: L’unione tra ‘la rinascita della lingua e della cultura ebraica’ e il sionismo”) con un’inequivocabile denuncia della guerra e della divisione del bottino tra le potenze vittoriose:

Le grandi potenze mondiali hanno deciso di discutere su chi fosse più potente – una discussione infuocata. Nel frattempo, hanno dato alle fiamme migliaia di città e villaggi e ricoperto la terra intera di vittime. Dopo aver concluso il loro “elegante” dibattito, i membri della parte i cui fucili avevano avuto l’ultima parola e di cui il mondo è caduto preda, hanno convenuto di spartirsi il pianeta tra loro, per smembrarlo in piccoli Stati che obbedissero al loro volere.

Definisce la Prima Guerra Mondiale “il più grande scandalo della storia del mondo” e paragona la conferenza di Parigi (Versailles) ad un gruppo di macellai che stanno intorno a un tavolo per sezionare la vittima. Creando numerosi nuovi Stati nazionali, argomenta Tamares, le potenze hanno dato supporto all’idea di nazionalismo etnico – che inevitabilmente sfocia, secondo Eric Hobsbawm, nell’“espulsione di massa o nello sterminio delle minoranze.”

È questo nazionalismo etnico che Tamares identifica come la causa prima della violenza anti-semita e della discriminazione contro gli ebrei in Europa nel periodo post bellico, soprattutto nei nuovi Stati etnico-nazionali creati nel centro e nell’est dell’Europa. Tamares inoltre cita la normalizzazione della brutalità come fattore esacerbante, prevedendo che d’ora in avanti chi ha il potere farà il ragionamento che “se è stato accettabile, durante la guerra, trattare milioni di persone come carne da macello, viene di conseguenza che si possano anche imprigionare in gran numero, che possano semplicemente morire di fame.”

Queste ragioni stanno alla base dell’accusa di Tamares al sionismo ed alla leadership sionista: la loro glorificazione ideologica del concetto stesso di guerra e la loro attiva partecipazione a quell’abominio che fu la Prima Guerra Mondiale (nella “Legione ebraica” ed in azioni di spionaggio contro l’impero ottomano in Palestina); la loro adozione del principio di nazionalismo etnico, incoraggiando in tal modo altri e gettando sé stessi nell’abisso morale dell’espropriazione colonialista degli abitanti nativi della Palestina.

Tamares non afferma che il movimento sionista non avesse queste aspirazioni prima della guerra, ma che la guerra ed il “Balfourismo” [riferimento al ministro inglese Balfour, che diede il nome alla famosa dichiarazione che impegnò la Gran Bretagna a favorire un focolare ebraico in Palestina, ndtr.], al quale ha dato impulso, le hanno rese possibili.

Incoraggiati dalla Dichiarazione Balfour e dalle decisioni della Conferenza di Parigi e della Società delle Nazioni, i leader sionisti non fecero segreto del fatto che la loro intenzione era di portare gli ebrei in Palestina non come normali immigrati, ma come “occupanti…per imporre il proprio comando sui suoi originari abitanti….per essere padroni della terra…per diventare maggioranza…e trasformare i suoi precedenti abitanti, gli arabi, in una minoranza.” Con il potere di Balfour dietro di loro (non solo come ideatore della Dichiarazione Balfour, ma anche come uno degli architetti di Versailles), pensarono di poter ignorare il fatto che “la terra in questione non era una sorta di nuova isola disabitata che avevano trovato alla fine del mondo e nei mari lontani, ma la patria di un popolo che senza dubbio avrebbe vissuto le loro aspirazioni alla “sovranità” e allo “Stato” come una spina nel fianco”. Prosegue citando un racconto del Talmud che parla di un gruppo di marinai che si era fermato a riposare in quella che credevano un’isola. Dopo un po’ cominciarono a sentirsi i suoi padroni e quando accesero un fuoco il gigantesco pesce sul cui dorso avevano deciso di stabilirsi si girò, gettandoli tutti in acqua. “L’analogia, scrive, è ovvia.”

L’affermazione sionista che gli arabi fossero, nella versione sarcastica di Tamares, “un popolo incolto che aveva rubato la terra, installandovisi per soli quindici secoli, che non sono che un giorno e mezzo secondo gli standard delle antiche tribù “storiche”, ai cui occhi mille anni sono come ieri”, coincideva perfettamente con il profondo razzismo che ha portato gli inglesi e la Società delle Nazioni ad appoggiare la creazione di un “focolare nazionale” ebraico in Palestina.

Alla base del nazionalismo etnico, secondo Tamares, vi è l’idea che gli abitanti del mondo si dividano tra coloro che sono “padroni” nei propri Paesi e coloro che sono “stranieri”, a volte tollerati in vario grado, ma sempre alla mercé dei primi.

Egli identifica questa divisione delle persone tra ‘chi è dentro e chi è fuori’, promossa e perpetuata dalle potenze alla Conferenza di Parigi e dalla Società delle Nazioni, con il peccato del popolo di Sodoma, per cui la città venne distrutta da Dio (Genesi 19; vedere anche il Talmud babilonese: Sanhedrin 109b). È proprio questo approccio che egli attribuisce al movimento sionista, che accusa sia di fornire aiuto e sostegno ai nazionalisti europei, responsabili della brutale persecuzione degli ebrei in Europa, che di cercare di creare un regime in Palestina in cui anche gli originari abitanti della terra sarebbero trattati come “stranieri”, costretti a dipendere da un qualunque tipo di “tolleranza” potesse essere manifestata dai loro “padroni” ebrei.

Questa giustapposizione tra antisemitismo e sionismo, attraverso la lente del nazionalismo etnico, è particolarmente interessante, non solo come una sorta di regola fondamentale (Non fare agli altri…), ma anche in quanto analisi del sionismo come reazione all’antisemitismo e soluzione della “questione ebraica”. Tamares sostiene infatti che il sionismo non solo non ha combattuto l’antisemitismo in Europa, ma lo ha attivamente incoraggiato accettandone la causa profonda e, a volte, sostenendo i suoi effettivi esponenti (come “fratelli” ideologici ed anche come strumenti per i propri fini).

Questo potrebbe sembrare uno scritto storico e commemorativo, ma non è questa la mia intenzione. Un secolo dopo l’armistizio del 1918 e 70 anni dopo la Nakba, il nazionalismo etnico è vivo e vegeto. È per questo che i dimostranti palestinesi, a Gaza o a Gerusalemme o a Umm al-Fahm, possono essere colpiti impunemente; che i gazawi possono essere imprigionati in massa per 11 anni, senza che se ne veda la fine; che i palestinesi in Cisgiordania possono essere privati dei fondamentali diritti umani; che ai cittadini palestinesi di Israele si può negare l’eguaglianza; che i diritti dei rifugiati palestinesi possono ancora essere ignorati.

Come ai tempi di Tamares, questa ideologia non è feudo esclusivo dei sionisti, né esiste nel vuoto. E come ai tempi di Tamares, è il ‘balfourismo’ stesso che deve essere contrastato, dovunque cerchi di dividere il popolo tra “padroni” e “stranieri”.

Shmuel Sermoneta-Gertel è un insegnante, traduttore e ricercatore indipendente che vive a Roma. È membro della Rete ECO – Ebrei contro l’occupazione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)