L’ONU: “Il settore sanitario di Gaza sta collassando” tra l’indifferenza internazionale

Medical aid for Palestinians

14 settembre 2018

A fronte di una situazione umanitaria aggravata a Gaza e a massicci tagli agli aiuti annunciati dall’amministrazione USA, l’ONU ha evidenziato una significativa riduzione dei finanziamenti mentre tenta di affrontare le necessità umanitarie immediate a Gaza e in tutti i territori palestinesi occupati (TPO).

L’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) ha chiesto il sostegno internazionale per rispondere all’aumento di vittime derivante dall’uso della forza da parte di Israele nel contesto delle continue proteste per la “Grande Marcia del Ritorno”. Dal 30 marzo sono stati uccisi 179 palestinesi (compresi 29 minori), in maggioranza durante le manifestazioni. Sono stati feriti più di 19.000 palestinesi, metà dei quali portati in ospedale:

“Il gran numero di vittime tra dimostranti disarmati che non rappresentavano alcuna minaccia imminente mortale o di ferite letali per i soldati israeliani, compresa un’alta percentuale di manifestanti colpiti da proiettili veri, ha suscitato preoccupazioni riguardo all’uso eccessivo della forza.”

L’OCHA mette in guardia per la crescente disperazione a Gaza, e queste vittime vengono prese in carico da un sistema sanitario che deve affrontare difficoltà croniche:

“Il settore sanitario di Gaza sta collassando in seguito al blocco [israeliano] ormai arrivato agli 11 anni, alla crescente divisione politica tra palestinesi, alla crisi energetica, all’inconsistente e ridotto pagamento degli stipendi ai dipendenti pubblici e alla crescente riduzione di medicinali e sussidi medici monouso.”

Con gli ospedali che devono affrontare un gran numero di vittime e la riduzione di risorse, circa 8.000 interventi chirurgici, in alcuni casi anche gravissimi, sono stati rinviati. Questi ritardi possono avere conseguenze negative sulla salute fisica e psicologica dei pazienti e portare ad ulteriori complicanze.

L’OCHA ha chiesto 21 milioni di dollari per finanziare la cura di traumi e interventi di emergenza sanitaria, anche per l’assistenza negli ospedali pubblici a un gran numero di pazienti che necessitano di complesse cure ospedaliere e di riabilitazione postoperatoria.

Il reperimento di combustibile d’emergenza è una grave preoccupazione del sistema sanitario di Gaza. La carenza cronica di elettricità ha portato ospedali e cliniche a utilizzare l’energia di generatori di riserva per più di 20 ore al giorno, con combustibile fornito dall’ONU. Tuttavia i finanziamenti per questo si sono esauriti, con scorte che si prevede finiranno entro qualche giorno. L’OCHA informa:

  • 14 ospedali pubblici stanno lavorando con capacità ridotta per servizi fondamentali, compresi interventi chirurgici, sterilizzazione e diagnosi;

  • 4.800 pazienti quotidianamente chiedono il ricovero per cure salvavita o per malattie croniche con una continua carenza di elettricità;

  • 300 di questi pazienti devono essere costantemente collegati ad apparecchiature mediche salvavita come respiratori, dialisi, incubatori e apparecchiature anestetiche.

Inoltre l’OCHA informa che ogni interruzione o taglio della fornitura elettrica mette i pazienti a rischio immediato di danni cerebrali o di morte. L’ONU ha bisogno solo di 4,5 milioni di dollari per fornire carburante per mantenere attivi i servizi fino alla fine dell’anno.

L’economia “svuotata” di Gaza

Nel contempo l’UNCTAD, l’agenzia ONU responsabile dei problemi di commercio, investimenti e sviluppo, ha pubblicato il suo rapporto annuale sull’economia nei TPO. L’agenzia mette in guardia sull’accelerato de-sviluppo [termine coniato per Gaza dall’economista americana Sara Roy, ndtr.] di Gaza, affermando che il blocco israeliano di 11 anni ha “svuotato l’economia di Gaza e la sua base produttiva e ridotto la Striscia a un caso umanitario profondamente dipendente dagli aiuti.” Il reddito pro-capite di Gaza è ora inferiore del 30% rispetto all’inizio del secolo, e la povertà e l’insicurezza alimentare sono diffuse, con l’80% delle persone che si basa in qualche modo sull’aiuto internazionale.

Queste condizioni hanno un grave effetto sulla salute della popolazione di Gaza, e l’UNCTAD informa che “resistere alla pressione e alla deprivazione di fondamentali diritti umani, sociali ed economici infligge un pesante costo al tessuto psicologico, sociale e culturale di Gaza, come dimostrato dalla diffusione di traumi psicologici, disordini da stress post-traumatico, disperazione, alte percentuali di suicidi e tossicodipendenza.” Secondo i dati dell’ONU, nel 2017 225.000 bambini, più del 10% della popolazione di Gaza, hanno richiesto un sostegno psicologico.

Il rapporto evidenzia che gli sforzi internazionali per affrontare la situazione non sono riusciti ad invertire la tendenza, affermando: “Tentativi di ripresa sono stati deboli e ogni intervento è stato necessariamente mirato alla ricostruzione e al sostegno umanitario, lasciando poche risorse allo sviluppo o al recupero della base produttiva.”

Inoltre l’UNCTAD sottolinea le azioni necessarie per fornire una ripresa economica sostenibile per Gaza, compresi una completa eliminazione del blocco, la riunificazione politica, fiscale ed economica con la Cisgiordania, l’urgente superamento della crisi elettrica e consentire ai palestinesi di sviluppare i giacimenti di gas naturale in mare.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Tre palestinesi uccisi dalle forze israeliane a Gaza

Mee e agenzie

Venerdì 14 settembre 2018, Middle East Eye

Le truppe israeliane colpiscono a morte un ragazzino di 12 anni a est di Jabalia nel nord della Striscia di Gaza

Fonti mediche palestinesi dell’enclave assediata hanno informato che venerdì tre palestinesi, compreso un dodicenne, sono stati colpiti a morte e più di 248 sono rimasti feriti dalle forze israeliane a Gaza.

Ashraf al-Qedra, portavoce del ministero della Salute di Gaza, ha affermato che venerdì il ragazzino è stato colpito alla testa ed ucciso a est di Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza.

L’agenzia di notizie AFP ha informato che una fonte medica lo ha identificato come Shadi Abdel-Al.

Era solito andare ogni venerdì alle marce come migliaia di altre persone. Questo venerdì il suo destino era di morire come un martire,” ha detto il padre del ragazzino, Abdel-Aziz Abdel-Al, all’agenzia di notizie Reuter.

Un altro palestinese, il ventottenne Hashem Hassan, ha detto di aver visto Abdel-Al colpito a 70 metri dalla barriera [tra la Striscia di Gaza e Israele, ndtr.]: “Ha tirato qualche pietra, che è volata solo a qualche metro di distanza. Non rappresentava nessun pericolo.”

Il ministero ha detto che anche due ventunenni, Hani Afana e Mohammed Shaqqura, sono stati uccisi in due diversi incidenti nei pressi di Khan Yunis e di Al-Bureij.

Una fonte della sicurezza di Gaza ha affermato che un carro armato israeliano ha colpito anche un posto di vedetta di Hamas a est di Gaza City.

Da quando il 30 marzo sono iniziate le proteste settimanali della “Grande Marcia del Ritorno”, 177 palestinesi sono stati uccisi dai soldati israeliani.

L’esercito israeliano ha detto che circa 12.000 manifestanti si sono riuniti nelle proteste del venerdì. Più di 248 persone sarebbero state ferite. Sei dei feriti sarebbero in condizioni critiche.

Un giornalista presente sul posto ha affermato che le truppe israeliane hanno pesantemente sparato contro i manifestanti e che c’era molto fumo nero dei lacrimogeni.

La campagna di protesta chiede la fine del blocco israeliano contro Gaza durato 11 anni e il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi alle terre da cui le loro famiglie fuggirono durante la fondazione dello Stato di Israele.

Israele mantiene un durissimo blocco della Striscia di Gaza, che secondo chi lo critica rappresenta una punizione collettiva contro i due milioni di abitanti dell’impoverita Striscia.

La strategia di Israele contro i manifestanti ha suscitato la condanna internazionale.

Ma Washington ha appoggiato il suo alleato accusando Hamas di organizzare la mobilitazione di massa, un’affermazione smentita dal gruppo e dagli organizzatori delle proteste.

L’ONU e i mediatori egiziani hanno cercato di raggiungere un accordo per rendere tranquilla [la situazione a] Gaza, in cui nell’ultimo decennio Israele ha condotto tre guerre. I tentativi di mediazione sono stati complicati dalla rivalità di Hamas con il presidente palestinese Mahmoud Abbas, che ha ridotto i finanziamenti a Gaza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Khan al-Ahmar: decine di arresti e di feriti nelle proteste contro la demolizione

Redazione di MEE

venerdì 14 settembre 2018,  Middle East Eye

Manifestanti palestinesi ed internazionali hanno cercato di evitare che i bulldozer israeliani ammassassero mucchi di terra per bloccare la strada verso il villaggio.

Venerdì l’esercito israeliano ha arrestato decine di manifestanti palestinesi e un attivista franco-statunitense durante una protesta a Khan al-Ahmar, un villaggio nella Cisgiordania occupata che, nonostante l’indignazione internazionale, si prevede che nei prossimi giorni venga demolito.

Frank Romano, con doppia cittadinanza francese e statunitense, sarebbe rimasto ferito prima del suo arresto insieme a molti altri, dopo che i soldati israeliani hanno usato la forza per reprimere la protesta contro la demolizione del villaggio.

Ex-avvocato, Romano è autore di “Love and Terror in the Middle East” [“Amore e terrore in Medio Oriente”, che racconta delle sue attività di pacifista in Israele/Palestina] e, secondo un profilo in rete, attualmente lavora come docente all’università Paris Ouest [Parigi Ovest] Nanterre La Défense.

La protesta è scoppiata dopo le preghiere del venerdì, quando l’esercito israeliano ha tentato di bloccare le vie di accesso a Khan al-Ahmar con mucchi di terra, lasciando libera solo una strada nel villaggio e impedendo agli attivisti di raggiungerlo.

Video e foto circolate sulle reti sociali mostrano dimostranti in piedi davanti a un bulldozer, controllati dall’esercito israeliano, mentre altre ritraggono soldati che picchiano e trascinano manifestanti e abitanti di Khan al-Ahmar e allontanano giornalisti.

Demolire Khan al-Ahmar

Khan al-Ahmar si trova nella parte centrale della Cisgiordania occupata nei pressi della Route 1, che collega Gerusalemme est occupata alla valle del Giordano.

Il villaggio sorge nei pressi della colonia israeliana illegale di Kfar Adumim, e da molto tempo è stato sottoposto a pressioni israeliane che chiedono che la comunità venga espulsa dalla zona.

La scorsa settimana l’Alta Corte di Giustizia [israeliana] ha respinto un ricorso presentato dagli abitanti di Khan al-Ahmar per bloccare la demolizione, creando le premesse per la deportazione della comunità e la distruzione dell’intero villaggio in qualunque momento dopo il 12 settembre.

Questa settimana Saeb Erekat, segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), ha affermato che è stata presentata una denuncia alla Corte Penale Internazionale (CPI) riguardo alla demolizione prevista, invitando il procuratore generale della CPI a incontrare gli abitanti prima dell’espulsione decisa dalla Corte [israeliana].

Ci auguriamo che un’inchiesta giudiziaria ufficiale possa essere aperta al più presto possibile,” ha detto Erekat.

Gli abitanti di Khan al-Ahmar fanno parte della tribù Jahalin, una famiglia allargata beduina espulsa dal deserto del Naqab – noto anche come Negev – durante la guerra arabo-israeliana del 1948. All’epoca i Jahalin si insediarono sul versante orientale di Gerusalemme.

La comunità di Khan al-Ahmar comprende circa 35 famiglie le cui baracche e scuole, per lo più fatte di lamiera ondulata e legno, negli ultimi anni sono state demolite varie volte dall’esercito israeliano.

Israele intende distruggere il villaggio come parte del cosiddetto piano E1, che prevede la costruzione di centinaia di insediamenti abitativi per unire a Gerusalemme est le colonie Kfar Adumim e Maale Adumim nell’area C della Cisgiordania, controllata da Israele.

Se attuato integralmente, secondo chi lo critica il piano E1 dividerebbe di fatto la Cisgiordania in due parti, isolando Gerusalemme est dalle comunità palestinesi in Cisgiordania e obbligando i palestinesi a fare deviazioni ancora più lunghe per viaggiare da un posto all’altro, mentre le colonie illegali sarebbero in grado di espandersi.

In luglio fonti ufficiali israeliane hanno detto che prevedono di ricollocare i 180 residenti di Khan al-Ahmar in una zona a circa 12 km di distanza, nei pressi del villaggio palestinese di Abu Dis.

Ma il nuovo luogo è vicino a una discarica, e i difensori dei diritti umani affermano che una deportazione forzata degli abitanti violerebbe le leggi internazionali riguardanti i territori occupati.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Decodificare l’“accordo del secolo” di Pipes/Trump/Kushner

Richard Falk

11 settembre 2018

Non occorreva essere dei fedeli alla linea “mai Trump” per nutrire dubbi riguardo alla proposta di portare la pace tra i palestinesi e gli ebrei creando le condizioni che avrebbero prodotto l’“accordo del secolo”. E, siamo onesti, se la gara tra le Nazioni viene giocata oggi secondo le regole di Madison Avenue [famosa strada dello shopping e pubblicità a Manhattan, ndtr.], la frase sarebbe vincente invece che perdente, se considerata da un punto di vista della risoluzione dei problemi. Persino nell’attuale clima politico degradato, scommettere su uno slogan pubblicitario come sostitutivo di idee risolutive può essere una formula efficace per garantirsi un ampio pubblico per un episodio di un reality televisivo, ma è una crudele scappatoia quando si tratta di affrontare il quotidiano calvario del popolo palestinese destinato ad essere vittima e a vivere sotto lo Stato israeliano di apartheid.

Ciò che forse è ancor peggio delle pompose spacconerie di Trump, è che qui sembra esserci una logica perversa che sorregge questo folle proposito nato dall’immaginazione ultra-sionista di Daniel Pipes [giornalista e storico statunitense ultraconservatore, ndtr.]. È stato Pipes, mesi fa, usando il Forum sul Medio Oriente pensato come suo tramite, a lanciare un appello per ciò che lui definiva “Victory Caucus” [“un comitato elettorale della vittoria”]. Pipes, uno studioso intelligente ed esperto, argomentava che il percorso diplomatico di Oslo era fallito miseramente come strumento per porre fine al conflitto attraverso negoziati. Accompagnava questa conclusione con la storica affermazione che conflitti di lunga durata tra avversari etnici raramente si concludono attraverso compromessi o accordi. Terminano con la vittoria di una delle parti e il riconoscimento della sconfitta da parte dell’altra.

Quindi il trucco, così credeva Pipes, sta nel convincere i palestinesi ad accettare il dato di fatto ed ammettere a sé stessi e al mondo di aver perso la battaglia per impedire la creazione di uno Stato ebraico in Palestina o per dare vita ad un proprio Stato sovrano. Pipes sostiene che uno sguardo obiettivo ai rapporti di forza diplomatici e militari in Palestina e Medio Oriente conferma questo giudizio sull’esito politico anche senza contare sul solido appoggio geopolitico degli Stati Uniti, che garantiscono un sostegno incondizionato alle priorità israeliane rispetto a quelle palestinesi.

Con questa consapevolezza, il puzzle politico da risolvere allora per Pipes diventa duplice: come convincere il governo USA a passare dal fallimentare tentativo di negoziare una soluzione a quello di aiutare l’Israele di Netanyahu ad imporne una con successo e, oltre a ciò, come esercitare un’ulteriore sufficiente pressione sulla situazione dei palestinesi, sul campo e a livello internazionale, in modo che i loro dirigenti affrontino la realtà e rinuncino una volta per tutte alle loro rivendicazioni politiche e si accontentino di ciò che quindi gli si offrirebbe – una promessa di miglioramento economico nella loro situazione.

A pensarci bene, non sembra così strano che dei sostenitori così estremisti di Israele come il trio Kushner [genero e consigliere di Trump per il Medio Oriente, ndtr.], Friedman [ambasciatore Usa in Israele e colono, ndtr,] e Greenblatt [consigliere di Trump per Israele, ndtr.] siano disponibili ad un simile approccio, e potrebbero essersi mossi in una analoga direzione anche senza l’apporto di Pipes, che fornisce un quadro logico coerente. Consideriamo le iniziative prese dal governo USA negli ultimi otto mesi e ne risulterà un disegno che sembra essere comprensibile solo come tentativo di mettere in pratica il suggerimento del “Victory Caucus”: spostare l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, attaccare l’ONU – inclusa l’uscita dal Consiglio per i Diritti Umani, a causa dei suoi pregiudizi anti israeliani, congelare e poi eliminare l’indispensabile aiuto finanziario alle operazioni dell’UNRWA a Gaza e in Cisgiordania, chiudere l’ufficio di rappresentanza dell’OLP a Washington, chiudere gli occhi sui crimini israeliani contro l’umanità commessi in risposta alla ‘Grande Marcia del Ritorno’ alla barriera di Gaza, minacciare la Corte Penale Internazionale e dare tacito assenso all’accelerata espansione delle colonie illegali israeliane (che contano ormai più di 600.000 coloni). Non c’è altro modo di leggere questo elenco di manovre provocatorie se non come una serie di segnali al popolo palestinese, e soprattutto ai suoi leader, perché capiscano l’inutilità della loro sofferenza, che peggiorerà sempre più se loro non agiranno assennatamente e si piegheranno a qualunque cosa Israele proponga per portare a termine il progetto sionista di dominio dell’intera Palestina storica, la restituzione biblica della ‘terra promessa’ che spetta agli ebrei.

Chiamare questo genere di diplomazia coercitiva su un popolo già oppresso col termine di “accordo” è una mistificazione linguistica. È più un arrogante trucco che non un accordo, che implica la parvenza di una convergenza di idee. È ciò che io ho definito in questo ed altri contesti un “crimine geopolitico” che merita sanzioni e condanne internazionali, non l’attenta considerazione riservata ad un serio tentativo di portare pace tra i due popoli. In futuro una simile iniziativa sarà conosciuta probabilmente come ‘il tentato omicidio più grave del secolo’.

Prescindendo dal disgusto per l’immoralità e l’illegalità di questo approccio di Pipes/Trump/Kushner, è importante porsi l’imbarazzante domanda: ‘funzionerà?’. Date le lotte e le sofferenze subite dal popolo palestinese per più di un secolo, sembra che il ‘Victory Caucus’ di Pipes, come l’‘accordo’ di Trump, incontrerà uno sprezzante rifiuto, probabilmente accompagnato da una drastica ripresa della resistenza palestinese, che affiancherà ulteriori espressioni militanti di attività di solidarietà a livello mondiale. Se teniamo conto della continuazione eroica della ‘Grande Marcia’ al confine di Gaza, nonostante le ripetute atrocità compiute dall’esercito israeliano, e del crescente sostegno mondiale alla campagna BDS, sembra ragionevole concludere che l’accordo del secolo è stato respinto ancor prima che fosse esplicitato con tutta la sua squallida messa in scena, compresa l’idea di ridisegnare i confini con i Paesi vicini, frammentando in modo permanente il popolo palestinese, al di là delle più fosche aspettative. Se, un grande se, il trio dei consiglieri di Trump di ‘prima Israele” agisce con molta astuzia, questo è un accordo la cui natura dettagliata non verrà mai rivelata al giudizio del pubblico, e il cui anticipato rigetto verrà nascosto dietro una valanga di denunce dell’atteggiamento di rifiuto palestinese come responsabile di aver affossato il piano di pace di Trump.

Sotto questo tentativo di costringere i palestinesi a bere una simile miscela tossica vi è un’errata lettura del corso della storia nei nostri tempi. Il sole è tramontato sul colonialismo e, al di là di quanto si possano mostrare i muscoli geopolitici, questa realtà non può essere trascurata. Questo tipo di crimine geopolitico senza dubbio aumenterà le sofferenze dei palestinesi, mentre contemporaneamente rafforzerà la loro determinazione. In questo genere di lotte contro la colonizzazione vi sono spostamenti negli equilibri del ‘potere persuasivo’, che il più delle volte producono cambiamento e non il rovesciamento dell’equilibrio geopolitico o della superiorità sul terreno di scontro. I popoli, non gli Stati e le loro forze armate, sono i protagonisti e gli attori della nostra epoca, con i governi lasciati in secondo piano a lamentarsi dei risultati. Le potenze coloniali europee lo hanno imparato nel modo più duro in una serie di guerre sanguinose, che hanno perso nonostante la loro superiorità militare. Gli Stati Uniti, nonostante le loro esperienze in Vietnam, Iraq e Afghanistan, devono ancora rendersi conto dei limiti della potenza militare nel mondo post-coloniale e quindi continuano a inventare armamenti, tattiche e dottrine senza imparare questa imprescindibile lezione sul mutamento di natura del potere.

È vero, la diplomazia di Oslo è stata un fallimento che ha giocato a favore di Israele ed è stata giustamente abbandonata. Ma la risposta di Trump a questo fallimento si configura come la criminalizzazione della diplomazia, che viola i più basilari precetti del diritto internazionale sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite. Arriva al punto di condurre una guerra aggressiva contro un popolo vulnerabile e disperato. Se l’ONU e i governi dominanti assistono a questo terribile spettacolo in assordante silenzio, si può solo sperare ardentemente che i popoli del mondo riconoscano la necessità di una riforma radicale per evitare una futura catastrofe, non solo per i palestinesi, ma per l’intera umanità.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




‘Punizione collettiva’ e ‘ricatto’: i palestinesi condannano la decisione di Trump di chiudere l’ufficio dell’OLP a Washington

Allison Deger eYumna Patel

10 settembre 2018 Mondoweiss

Oggi l’amministrazione Trump ha ordinato all’ufficio di rappresentanza palestinese di chiudere, ponendo fine a quasi 25 anni di presenza diplomatica della missione dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) a Washington.

La portavoce del Dipartimento di Stato Heather Nauert stamattina ha detto ai giornalisti che la decisione è stata presa dopo che i dirigenti palestinesi hanno rifiutato di “promuovere l’avvio di negoziati diretti e significativi con Israele”, promossi dal primo consigliere della Casa Bianca e genero del presidente, Jared Kushner, e dall’inviato speciale Jason Greenblatt.

Nauert ha detto che i dirigenti palestinesi hanno respinto il piano di Kushner e Greenblatt, un ampio accordo di pace che era circolato nelle scorse settimane ma non era mai stato reso pubblico dopo il rigetto da parte dei dirigenti arabi.

La dirigenza dell’OLP ha condannato un piano di pace USA che non ha ancora visto ed ha rifiutato di impegnarsi con il governo USA relativamente agli sforzi di pace e in altro modo. Stando così le cose, e recependo le preoccupazioni del Congresso, l’Amministrazione ha deciso che l’ufficio dell’OLP a Washington a questo punto dovrà chiudere”, ha proseguito Nauert.

Il Washington Post ha riferito, citando una copia preliminare del suo discorso, che il consigliere di Trump per la sicurezza nazionale John Bolton dovrebbe annunciare la chiusura in un discorso lunedì prossimo, insieme alle intenzioni del governo USA di imporre sanzioni alla Corte Penale Internazionale (CPI) se procederà con le indagini contro gli USA o Israele.

Non collaboreremo con la CPI. Non forniremo assistenza alla CPI. Lasceremo che la CPI muoia per conto suo. Del resto, all’atto pratico, per noi la CPI è già morta”, reciterebbe il testo della bozza.

L’anno scorso gli USA hanno detto che avrebbero chiuso l’ufficio dell’OLP a Washington come misura punitiva dopo che il presidente palestinese Mahmoud Abbas aveva chiesto alla CPI di indagare e perseguire Israele per presunti crimini di guerra.

Trump alla fine ha fatto marcia indietro, limitando le attività dell’ufficio agli “sforzi per raggiungere la pace con Israele.”

Lista dei desideri” di Israele

Dato che la missione dell’OLP a Washington era stata aperta nel 1994 durante i negoziati con Israele in base agli accordi di pace di Oslo per promuovere una soluzione di due Stati, Nauert ha detto che la chiusura di oggi non pregiudica quel percorso.

Gli Stati Uniti continuano a credere che negoziati diretti tra le due parti siano l’unica strada percorribile. Questa azione non deve essere strumentalizzata da coloro che cercano di agire come guastatori per sviare l’attenzione dall’imperativo di raggiungere un accordo di pace”, ha detto.

La reazione di Ramallah è stata dura. L’ambasciatore dell’OLP negli USA, Husam Zomlot, che lo scorso maggio è stato richiamato in Cisgiordania dopo che è stata aperta l’ambasciata USA a Gerusalemme, oggi ha detto in una dichiarazione che l’iniziativa è “ sconsiderata” e si inchina alla “lista dei desideri” di Israele.

Zomlot ha aggiunto che l’amministrazione Trump ha inteso punire i dirigenti palestinesi per aver perseguito un’ inchiesta per crimini di guerra contro Israele presso la Corte Penale Internazionale, dove sono stati inoltrati documenti su presunti crimini di Israele contro l’umanità.

Restiamo fermi nella nostra decisione di non collaborare con questa continua campagna per eliminare i nostri diritti e la nostra causa. I nostri diritti non sono in vendita e fermeremo ogni tentativo di intimidazione e ricatto affinché rinunciamo ai nostri diritti legittimi e condivisi a livello internazionale”, ha detto Zomlot.

Zomlot ha aggiunto che la chiusura dell’ufficio è un affronto al processo di pace ed ha accusato gli Stati Uniti di “minare il sistema internazionale di legittimità e legalità.” Ha promesso di “intensificare” gli sforzi nella comunità internazionale. “Questo ci conferma che siamo sulla strada giusta”, ha detto.

Il governo palestinese ha sospeso ufficialmente i contatti con i dirigenti USA dopo che Trump a dicembre ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, scatenando vaste proteste tra i palestinesi, che considerano Gerusalemme est occupata come la capitale di un futuro Stato palestinese.

L’Autorità Nazionale Palestinese da allora ha boicottato il piano di pace di Trump – il cosiddetto “accordo del secolo” – stilato principalmente da suo genero Jared Kushner, la cui famiglia è collegata al finanziamento delle colonie israeliane illegali.

In una dichiarazione il portavoce dell’ANP Yousef al-Mahmoud ha detto che la chiusura dell’ufficio dell’OLP “è una dichiarazione di guerra agli sforzi di portare pace nel nostro Paese e nella regione”, e incoraggia ulteriormente le violazioni da parte dell’occupazione israeliana contro i diritti umani dei palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate e nella Striscia di Gaza.

Il ministero degli Esteri palestinese ha definito l’iniziativa “parte della guerra aperta condotta dall’amministrazione USA e dalla sua squadra sionista contro il nostro popolo palestinese, la sua causa e i suoi giusti e legittimi diritti.”

È la continuazione della politica USA di dictat e ricatti contro il nostro popolo per costringerlo ad arrendersi”, continua la dichiarazione.

Punizione collettiva”

L’iniziativa giunge al culmine di una serie di colpi inferti dall’amministrazione ai palestinesi. Nel mese scorso gli USA hanno bloccato tutti gli aiuti all’UNRWA, hanno tagliato 200 milioni di dollari di finanziamenti all’Autorità Nazionale Palestinese e aiuti per 25 milioni di dollari agli ospedali palestinesi a Gerusalemme est.

Recentemente, dirigenti dell’amministrazione Trump hanno anche messo pubblicamente in questione il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi, che è sancito dal diritto internazionale.

I palestinesi hanno già cominciato a sentire gli effetti dei massicci tagli del budget USA, soprattutto a Gaza, dove una crescente crisi umanitaria si è aggravata nei mesi scorsi.

A luglio centinaia di dipendenti dell’UNRWA sono stati licenziati come diretta conseguenza dei tagli dei finanziamenti USA. Il mese scorso migliaia di malati di tumore a Gaza sono stati lasciati in un limbo, quando gli ospedali hanno chiuso i propri dipartimenti di oncologia, a causa di pesanti carenze di farmaci chemioterapici in seguito all’assedio israeliano contro Gaza, in continuo peggioramento.

Questa è un’altra dimostrazione della politica dell’amministrazione Trump di punizione collettiva del popolo palestinese, anche attraverso il taglio agli aiuti finanziari per i servizi umanitari, comprese salute e educazione”, ha dichiarato l’alto dirigente dell’OLP Saeb Erekat.

Questa pericolosa escalation dimostra che gli Stati Uniti intendono smantellare l’ordine internazionale per proteggere i crimini israeliani e gli attacchi contro la terra ed il popolo della Palestina, come anche contro la pace e la sicurezza nel resto della regione”, ha detto Erekat.

Inoltre ha detto: “Ammainare la bandiera della Palestina a Washington significa molto più che un nuovo schiaffo da parte dell’Amministrazione Trump alla pace e alla giustizia; rappresenta l’attacco degli USA al sistema internazionale nel suo complesso, compresi tra gli altri la convenzione di Parigi [che ha istituito l’UNESCO, agenzia dell’ONU, ndtr.], l’UNESCO e il Consiglio [ONU] per i Diritti Umani.”

Allison Deger è vice caporedattore di Mondoweiss.net

Yumna Patel è giornalista multimediale con sede a Betlemme, Palestina.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Barche palestinesi tentano di rompere l’assedio di Gaza, la Marina israeliana apre il fuoco

Ma’an News, Palestine Chronicle, Reti Sociali

12 settembre, 2018Palestine Chronicle

Lunedì le forze navali israeliane hanno aperto il fuoco contro decine di barche palestinesi che protestavano presso il porto settentrionale della Striscia di Gaza assediata, nel tentativo di rompere il blocco israeliano durato 12 anni.

I manifestanti hanno fatto salpare 55 barche al largo della costa della Striscia di Gaza; il ministero palestinese della Salute a Gaza ha detto che 49 palestinesi sono rimasti feriti, 10 dei quali sono stati portati in ospedale.

Poi le barche sono state obbligate a tornare sulla spiaggia.

Un giornalista di Ma’an [sito palestinese di notizie, ndtr.] ha affermato che sulla spiaggia nei pressi della barriera settentrionale di sicurezza con Israele i manifestanti hanno dato fuoco a dei copertoni.

Le forze israeliane hanno anche sparato contro i dimostranti gas lacrimogeni.

Come parte del blocco israeliano della fascia costiera [in atto] dal 2007, l’esercito israeliano, adducendo ragioni di sicurezza, impone ai pescatori palestinesi della Striscia di Gaza di lavorare all’interno di una ridotta “zona di pesca stabilita”, i cui limiti esatti sono decisi dalle autorità israeliane e storicamente sono stati modificati varie volte.

Nel corso degli anni sono stati fatti molti tentativi di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sul continuo assedio della Striscia di Gaza e di romperlo sia con navigli che cercano di entrare a Gaza, che con altri che hanno tentato di uscire da Gaza.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 28 agosto – 10 settembre 2018( due settimane)

Lungo la recinzione israeliana che circonda Gaza, le manifestazioni e gli scontri del venerdì sono continuati, provocando, ad opera delle forze israeliane, la morte di tre palestinesi, tra cui due minori, e il ferimento di altri 666.

Durante le manifestazioni che si sono svolte il 7 settembre, ad est di Rafah, in due occasioni, le forze israeliane hanno colpito con armi da fuoco due ragazzi di 16 anni che si trovavano in prossimità della recinzione, uccidendo uno di loro e ferendo gravemente l’altro; per le ferite riportate, anche quest’ultimo è deceduto il giorno successivo. Dalle prime indagini e riprese video pare che nessuno dei ragazzi fosse armato o minacciasse la vita delle forze israeliane. Dal 30 marzo 2018, sono stati uccisi dalle forze israeliane 31 minori, in prevalenza nel corso di manifestazioni. Tra le persone ferite durante il periodo di riferimento, 260 sono state ricoverate in ospedale, 172 di esse erano state colpite con armi da fuoco; le rimanenti persone ferite sono state assistite sul campo. Non sono state segnalate vittime israeliane.

Altri 50 palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane durante due tentativi attuati da decine di imbarcazioni salpate da Gaza con l’intento di forzare il blocco navale israeliano. Le partenze, che si sono svolte il 2 e il 10 settembre, facevano parte delle dimostrazioni della Grande Marcia del Ritorno. Le barche sono state fermate dalla marina israeliana che ha aperto il fuoco verso di esse ed ha lanciato lacrimogeni.

Sempre il 7 settembre, alle stessa ora delle dimostrazioni del venerdì, a nord di Gaza, l’aviazione israeliana ha sparato contro un gruppo di palestinesi e contro una postazione di osservazione militare, senza provocare vittime. Il primo attacco era diretto contro persone che cercavano di lanciare palloncini incendiari verso Israele; il secondo, secondo fonti israeliane, era in risposta all’incendio di una torretta militare israeliana mediante un aquilone incendiario.

Per costringere [i palestinesi] al rispetto delle restrizioni di accesso alle Aree Riservate, sia di terra [la fascia interna alla recinzione] che di mare [lungo la costa di Gaza] imposte da Israele, sono stati registrati almeno 15 episodi in cui le forze israeliane hanno aperto il fuoco, costringendo agricoltori e pescatori a lasciare le aree. Inoltre, secondo fonti palestinesi, cinque pescatori sono stati costretti a togliersi i vestiti e a nuotare verso le imbarcazioni militari israeliane, dove sono stati arrestati, mentre la loro imbarcazione veniva sequestrata. Inoltre, in un caso, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino al recinto perimetrale, a est della città di Gaza. In tre diversi episodi, le forze israeliane hanno arrestato nove persone, tra cui due minori, che erano vicine alla recinzione perimetrale; quattro di loro sono poi state rilasciate.

Il 3 settembre, nell’area H2 di Hebron, controllata dagli israeliani, le forze israeliane hanno sparato e ucciso un palestinese di 36 anni: a quanto riferito, avrebbe tentato di pugnalare un soldato israeliano; non sono stati segnalati israeliani feriti. L’episodio è avvenuto all’ingresso del complesso colonico di Giv’at Ha’Avot. Il corpo del presunto aggressore è stato trattenuto dalle Autorità israeliane, insieme ai corpi di almeno altri quindici palestinesi uccisi in circostanze simili nei mesi precedenti.

In Cisgiordania, in diversi episodi, 130 palestinesi (tra cui 37 minori) sono stati feriti dalle forze israeliane. Dei 130 ferimenti, 32 (di cui 8 di minori) sono avvenuti durante scontri con forze israeliane conseguenti all’ingresso di israeliani in luoghi religiosi che si trovano all’interno di città palestinesi. Altri 27 feriti sono stati registrati durante due manifestazioni nel governatorato di Ramallah: a Bil’in, durante la consueta protesta settimanale contro la Barriera e l’espansione degli insediamenti; a Ras Karkar, contro la costruzione, su proprietà privata palestinese, di una nuova strada destinata ai coloni. Inoltre, nella zona H2 della città di Hebron, le forze israeliane hanno aggredito fisicamente e ferito quattro insegnanti ed hanno sparato lacrimogeni nel cortile di un complesso scolastico, ferendo 20 minori; per più di 300 studenti le lezioni sono state sospese per il resto della giornata. Secondo fonti israeliane, l’accaduto ha fatto seguito al lancio di pietre, provenienti dal complesso scolastico, contro forze israeliane di pattuglia vicino alla scuola. Altri 19 palestinesi sono stati feriti durante scontri seguiti a sette operazioni di ricerca; complessivamente, le forze israeliane hanno condotto 140 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 205 palestinesi, tra cui dodici minori.

In Zona C e Gerusalemme Est, citando la mancanza dei permessi edilizi israeliani, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 25 strutture di proprietà palestinese, provocando lo sfollamento di 47 persone, tra cui 23 minori, e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 108 persone. Diciassette delle strutture prese di mira erano nell’Area C: i due episodi più rilevanti sono stati registrati nella Comunità beduina di Deir al Qilt (Gerico), situata in un’area designata [da Israele] come “zona per esercitazioni a fuoco”, e nel villaggio di Barta’a ash Sharqiya (Jenin), una città separata dal resto della Cisgiordania dalla Barriera. Le altre otto strutture erano a Gerusalemme Est, cinque delle quali in un’area del villaggio di Al Walaja situata all’interno del comune di Gerusalemme, ma separate dal resto della Città dalla Barriera. Due dei casi di demolizione segnalati, tra cui quello di Al Walaja, hanno provocato scontri con forze israeliane: venti palestinesi sono stati feriti.

Il 5 settembre, l’Alta Corte di Giustizia Israeliana ha respinto tutte le petizioni relative alla sua sentenza del 24 maggio [vedere bollettino 223], che autorizzava la demolizione dell’intera Comunità beduina palestinese di Khan al Ahmar-Abu al-Helu, situata nell’Area C del governatorato di Gerusalemme. Una precedente ordinanza, contraria alle demolizioni, è scaduta il 12 settembre, lasciando la Comunità, che ospita 35 famiglie comprendenti 188 persone, più della metà delle quali minori, a rischio demolizione di massa e trasferimento forzato. Le Nazioni Unite avevano in precedenza chiesto alle Autorità israeliane di rinunciare ai piani di demolizione e di trasferimento della Comunità, in quanto tali provvedimenti sarebbero stati in contrasto con le norme del Diritto internazionale.

Il 4 agosto, nella parte settentrionale della Valle del Giordano, per consentire addestramenti militari israeliani, in due distinti episodi, le forze israeliane hanno spostato, per 17 ore, cinque famiglie palestinesi di due Comunità di pastori. Entrambe le Comunità si trovano in aree designate come “zone per esercitazioni a fuoco”. Insieme alle demolizioni ed alle restrizioni di accesso, questa pratica contribuisce ad accrescere la pressione su queste Comunità, esponendone i residenti ad un elevato rischio di trasferimento forzato.

Undici attacchi da parte di coloni ed altri israeliani hanno provocato sei feriti e danni a proprietà palestinesi. Il 1° settembre, vicino all’incrocio di Yitzhar (Nablus), coloni israeliani hanno lanciato pietre contro veicoli palestinesi, ferendo quattro palestinesi, tra cui un bambino di cinque anni. In due distinti episodi accaduti nella zona H2 della città di Hebron, coloni israeliani hanno aggredito con spray al peperoncino e ferito un ragazzo palestinese 15enne che tornava a casa da scuola ed hanno anche danneggiato, con lancio di pietre, un’ambulanza in servizio. A Gerusalemme Est un palestinese autista di autobus è stato aggredito fisicamente e ferito da un gruppo di israeliani. Secondo quanto riportato, circa 90 ulivi, di proprietà palestinese, sono stati vandalizzati da parte di coloni israeliani in quattro diversi episodi avvenuti in At Tuwani (Hebron), Al Lubban ash Sharqiya e Burin (entrambi a Nablus). In altri quattro diversi episodi verificatisi ad Asira al Qibliya, Al Lubban ash Sharqiya, Madama e Beita (tutti a Nablus), coloni israeliani hanno vandalizzato veicoli e case palestinesi, anche con scritte “Questo è il prezzo”. La violenza dei coloni è in aumento dall’inizio del 2018, con una media settimanale di cinque attacchi risultanti in ferimenti o danni a proprietà, rispetto ad una media di tre nel 2017 e di due nel 2016.

In Cisgiordania, secondo fonti israeliane, in almeno quattordici occasioni, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani vicino a Hebron, Betlemme e Ramallah, danneggiando almeno quattordici veicoli privati; in tre di questi episodi, vicino a Ramallah e Betlemme, tre coloni israeliani sono rimasti feriti.

In Cisgiordania, durante il periodo di riferimento, in occasione delle festività ebraiche di Capodanno, le Autorità israeliane hanno imposto una chiusura generale di quattro giorni. A tutti i detentori di documenti di identificazione della Cisgiordania, inclusi lavoratori e commercianti con permessi validi, è stato impedito di entrare a Gerusalemme Est e Israele attraverso tutti i checkpoint; hanno fatto eccezione i casi di emergenza medica, gli studenti e gli impiegati palestinesi di ONG internazionali e di Agenzie delle Nazioni Unite.

Il 5 settembre, e fino al termine del periodo di riferimento di questo Rapporto, le Autorità israeliane hanno chiuso il valico di Erez con la Striscia di Gaza, facendo transitare solo casi di emergenza per due giorni. Secondo quanto riferito, la chiusura è stata imposta per riparare i danni alle infrastrutture causati dai palestinesi durante le manifestazioni del venerdì e, a seguire, per le festività ebraiche.

Il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, ha aperto in entrambe le direzioni per sette giorni e per altri cinque giorni in una sola direzione (verso Gaza). Hanno potuto entrare in Gaza 6.307 persone (inclusi 3.229 pellegrini di ritorno dalla Mecca) e ne sono uscite 2.695.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Attore israeliano appoggia il BDS

Finalmente libero, l’attore israeliano Itay Tiran appoggia il BDS e afferma che il sionismo è razzismo

Jonathan Ofir

8 settembre 2018,Mondoweiss

 

Sono rimasto molto colpito dalla recitazione di Itay Tiran nell’avvincente mini-serie britannica “La promessa”, diretta da Peter Kosminsky. La serie riguarda Israele-Palestina, e va avanti e indietro tra gli anni precedenti la fondazione dello Stato [di Israele] e gli avvenimenti attuali. Tiran recitava la parte di un ebreo israeliano di sinistra che si unisce a “Combattenti per la pace” [gruppo di israeliani e palestinesi per la pace e la convivenza, inizialmente formato solo da ex-combattenti, ndtr.], e sua sorella lo considera un antisionista. È molto credibile nel suo ruolo, mentre sfida i suoi genitori “sionisti progressisti” e mette in evidenza la loro ipocrisia.

Ora l’attore trentottenne sta per lasciare Israele per andare in Germania, ed ha rilasciato ad “Haaretz” [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] un’intervista in cui si esprime liberamente. Parla a favore del BDS [movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni contro Israele, ndtr.], in modo ragionato. Definisce il sionismo razzista – non come iperbole –, si esprime a questo proposito in modo razionale e logico.

È davvero liberatorio leggerlo. Ci sono espressioni che i sionisti stanno cercando di vietare in tutto il mondo – ed egli è totalmente libero di parlarne! Immagino che se lo sia tenuto in serbo per il momento in cui sarebbe andato via, perché le conseguenze che ne possono derivare in Israele possono essere disastrose.

Negli estratti di intervista pubblicati finora da “Haaretz” (pensano di pubblicare l’intervista completa nel supplemento culturale in ebraico di “Haaretz”), Tiran dice che il BDS è assolutamente legittimo:

Il BDS è una forma di resistenza assolutamente legittima. E se noi vogliamo invocare un certo tipo di discussione politica che non è violenta, dobbiamo rafforzare queste voci, anche se è difficile. Del resto non importa quello che faranno i palestinesi. Quando commettono un atto di terrorismo vengono definiti terroristi violenti, sanguinari. E quando appoggiano il BDS sono terroristi politici. Se ciò che alla fine porterà a una soluzione qui saranno pressioni non violente, portate avanti come discorso politico, allora perché non appoggiarlo?

È un atteggiamento umanitario, ed è anche concreto, e penso che eviterà le prossime guerre.

Non è certo un’opinione condivisa in Israele, che ha interi ministeri e notevoli fondi destinati a lottare contro il BDS. Tiran va anche oltre.

Parla del fascismo di Israele, e della sua negazione:

Ti alzi la mattina, bevi il tuo caffè e leggi i giornali. Vedi un articolo e dici: ‘Dunque questo è il momento in cui siamo diventati fascisti o no?’ Stai lì seduto e giochi una specie di gioco e gradualmente capisci che tutto quello che fai è continuare a farti quella domanda e a stare al gioco, senza deciderti.

Parla di come la legge fondamentale recentemente approvata, che dichiara Israele lo Stato-Nazione del popolo ebraico, non sia per niente nuova, e che in questo senso non è del tutto negativa, se serve come segnale d’allarme:

Se la legge sullo Stato –Nazione è un punto di riferimento, in base al quale stabilire dove è arrivata la società israeliana, allora è chiaramente una legge razzista e non egualitaria, un altro passo nella deriva nazionalista che avviene qui. D’altra parte dico che non è solo negativa. Perché? Perché fa emergere una sorta di subcosciente collettivo che qui c’è sempre stato. La “Dichiarazione di Indipendenza” e discorsi su uguaglianza e valori, tutto ciò fu l’autoesaltazione di un colonialismo che si vantava di essere un liberalismo illuminato. C’è gente che si definisce ancora di centrosinistra, e pensa ancora che se inseriscono la parola “uguaglianza” nella legge tutto sarà a posto. Non lo credo. E realmente, l’obiezione giustificata della Destra è stato: ‘Aspettate un attimo, ma c’è la legge del [diritto al] ritorno. Come mai solo la legge sullo Stato – Nazione vi fa diventare matti?’

Ottima osservazione. Quindi l’intervistatore, Ravit Hecht, gli pone un’importante domanda:

 “Pertanto stai dicendo che il sionismo, non importa quale, è uguale al razzismo?”

“Sì”, risponde Tiran.

Semplicemente così. L’ex ambasciatore di Israele all’ONU Chaim Herzog si infuriò su tale questione, e com’è noto fece a pezzi la risoluzione del 1975 che equiparava il sionismo al razzismo. L’ambasciatore USA all’ONU, Daniel Patrick Moynihan, pronunciò un famoso discorso denunciando la risoluzione come opera dei nazisti.

L’aberrazione dell’antisemitismo ha assunto l’aspetto di una sanzione internazionale. L’Assemblea Generale oggi concede un indulto simbolico – e qualcosa in più – agli assassini di sei milioni di ebrei europei.

E c’è Tiran, che accetta l’equazione, razionalmente, pacificamente e inequivocabilmente.

Di conseguenza la discussione prosegue.

“Che il sionismo equivalga al colonialismo?” chiede Hecht.

“Sì, esatto. Tutti noi dobbiamo quindi vedere la verità, e poi prendere posizione.”

Non potrebbe essere più chiaro di così. Non è complicato. L’intervista integrale sicuramente sarà qualcosa a cui guardare con impazienza. Come ho già detto, una liberazione.

 

Su Jonathan Ofir

Musicista israeliano, conduttore e blogger / writer che vive in Danimarca.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Vittoria BDS al festival israeliano Meteor

Vince il BDS: 15 artisti annullano la loro esibizione al festival israeliano “Meteor”

Ma’an News

7 settembre 2018

 

Betlemme (Ma’an) – Un’ondata di cancellazioni ha fatto seguito all’annuncio da parte di Lana del Rey dell’annullamento della sua esibizione al festival musicale “Meteor”, nel nord di Israele questo fine settimana.

Secondo la “Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel” [Campagna Palestinese per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele] (PACBI), in seguito all’impegno del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) e alle critiche internazionali, più di 15 musicisti hanno annullato la propria esibizione al festival “Meteor” in Israele.

La prima rinuncia, che doveva essere il principale avvenimento del festival, è stata quella della cantautrice americana Lana Del Rey, che ha twittato: “Per me è importante esibirmi sia in Palestina che in Israele e trattare tutti i miei fan allo stesso modo.”

Il musicista americano Henry Laufer, noto anche come Shlohmo, ha annunciato la cancellazione del suo concerto solo poche ore dopo Del Rey.

Shlohmo ha postato sul suo twitter: “Mi spiace per il breve preavviso, ma non suonerò in Israele la prossima settimana. Per me è più importante appoggiare gli oppressi con la mia assenza, soprattutto dopo le recenti atrocità del governo [israeliano] contro i diritti umani.”

Un gruppo pop americano indipendente di Montreal ha annullato l’esibizione con un post sulla propria pagina Facebook: “Abbiamo deciso di annullare la nostra presenza al festival “Meteor”. Dopo aver escluso ogni diverso modo possibile per giustificare il fatto di suonare in un festival israeliano, mentre i dirigenti politici e militari del Paese continuano a mettere in atto le loro politiche assassine e brutali contro il popolo palestinese, siamo arrivati alla conclusione che non ci sia altra iniziativa concreta che non sia annullare lo spettacolo.”

L’annullamento più recente è stato annunciato dalla cantante e attrice inglese Little Simz, che ha scritto: “I rapporti tra palestinesi ed israeliani sono molto più complicati di quanto sapessi. Non comparirò al festival ‘Meteor’.”

Tra gli altri nomi famosi, che non parteciperanno al programma del festival ci sono il DJ britannico Shanti Celeste, il famoso DJ e produttore britannico Leon Vynehall, così come il DJ svedese Seinfeld e il DJ australiano Mall Grab. Anche la cantante turca Selda, DJ Volvox, DJ Python, Black Motion e gruppi come Khalas e Zenobia hanno rinunciato all’evento.

Il BDS e i suoi sostenitori, compreso Roger Waters [leader dei Pink Floyd, ndtr.], avevano chiesto a molti degli artisti, compresa Lana Del Rey, di annullare la loro esibizione al festival come gesto di solidarietà con il popolo palestinese.

Durante un’intervista a “The Real News Network” [sito di notizie nordamericano, ndtr.] Roger Waters ha parlato della vicenda, sottolineando che “se rimani neutrale dove avvengono ingiustizie, stai dalla parte dell’oppressore.”

Waters ha aggiunto che “rimanere neutrale è stare dalla parte dell’occupazione e dello Stato dell’apartheid. È così e basta. La cosa giusta da fare è annullare [il concerto].”

Nonostante tutte queste cancellazioni ci saranno più di 130 esibizioni al festival “Meteor”. Esibirsi in Israele rimane ancora una questione molto politicizzata, con molte critiche riguardo al fatto che le azioni militari di Israele contro i palestinesi sono più che sufficienti per giustificare il boicottaggio culturale.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Netanyahu: una biografia, un destino

Il mare è sempre il solito mare

The London Review of Books

Adam Shatz

Bibi: The Turbulent Life and Times of Benjamin Netanyahu [Bibi: La vita e i tempi turbolenti di Benjamin Netanyahu]di Anshel Pfeffer, Hurst, 423 pp, £20.00, Maggio.

“Il problema di Israele,” ha scritto Tony Judt sulla New York Review of Books nel 2003,

“non è –come qualcuno ha sostenuto – che sia un’‘enclave’ europea nel mondo arabo, ma piuttosto che è arrivato troppo tardi. Ha importato un progetto di separatismo tipico della fine del XIX° secolo in un mondo che è andato avanti, un mondo di diritti individuali, frontiere aperte e leggi internazionali. La stessa idea di uno ‘Stato ebraico’ – uno Stato in cui gli ebrei e la religione ebraica hanno privilegi esclusivi da cui i cittadini non ebrei siano per sempre esclusi – è radicata in un altro tempo e luogo. In breve, Israele è un anacronismo.”

Oggi è la certezza internazionalista liberale di Judt che sembra un anacronismo, mentre Israele – una “società ibrida di antiche fobie e speranze di tecnologia avanzata, una combinazione di tribalismo e globalizzazione”, nelle parole del giornalista Anshel Pfeffer – assomiglia sempre più all’embrione di un nuovo mondo governato da timori atavici, il cui sintomo più malefico è la presidenza di Donald Trump.

Pfeffer, corrispondente di “Haaretz”, ha scritto una biografia di Benjamin Netanyahu per spiegare l’odierno Israele – un compito per niente invidiabile. Dite quello che volete dei predecessori di Netanyahu, ma essi avevano un loro fascino, dall’autodisciplina monacale di David Ben-Gurion all’avidità di Ariel Sharon. Netanyahu sembra un personaggio vuoto: un “responsabile del marketing”, con le parole di Max Hastings, che lo ha incontrato mentre scriveva una biografia di suo fratello Jonathan. Eppure Netanyahu può difficilmente essere ignorato, o la sua capacità di sopravvivenza negata. Se non verrà obbligato a lasciare il suo incarico per accuse di corruzione prima del luglio 2019, sarà il primo ministro più a lungo in carica, superando Ben-Gurion. La democrazia israeliana, il marchio del responsabile del marketing, è caduta in un discredito totale tra i progressisti dell’Occidente, ma lui non si è mai preoccupato di quello che pensano i progressisti, ed essi hanno un’influenza molto minore in un’era di demagogia populista. Trump, Putin, Modi, Orbán: Netanyahu non potrebbe essere più a suo agio in un mondo di uomini forti nazionalisti. Senza restituire neppure un centimetro di terra occupata, ha sconfitto gli Stati arabi sunniti, paralizzati dal timore per l’Iran sciita, che ne hanno abbastanza dei palestinesi e incapaci di esercitare pressioni su Israele. La resistenza palestinese in Cisgiordania ha in pratica subito una battuta d’arresto. Gli ebrei israeliani –  più di 600.000 dei quali vivono nelle colonie – non hanno alcuna ragione per preoccuparsi dei palestinesi, salvo che si stiano appassionando agli episodi di “Fauda”, la serie televisiva israeliana sull’occupazione. La maggioranza degli ebrei israeliani considera l’assedio di Gaza, che ha reso il territorio quasi inabitabile, un prezzo accettabile da pagare per la ‘sicurezza’, anche se è proprio la miseria provocata dall’assedio che accresce la loro insicurezza. Questa opinione non è condivisa dai cittadini palestinesi di Israele, circa il 20% della popolazione, ma essi sono degli emarginati interni.

L’Israele di Netanyahu incarna quello che Ze’ev Jabotinsky, l’idolo di suo padre, chiamava “un muro di ferro di baionette ebraiche”. Jabotinsky, il fondatore del sionismo revisionista [corrente di destra del sionismo, ndtr.], sognava un Israele su entrambe le rive del Giordano. Netanyahu ha fatto la pace con il dominio degli Hascemiti [la dinastia regnante, ndtr.] sulla Giordania, ma nel suo impegno per un Israele più grande e nella sua implacabile opposizione all’autodeterminazione dei palestinesi rimane figlio di suo padre. Nato nel 1910 in una famiglia sionista a Varsavia, Benzion Mileikowsky si stabilì a Gerusalemme nel 1924 e si unì a “Hatzohar”, l’Unione Mondiale dei Sionisti Revisionisti, sionisti di destra ma laici, profondamente influenzati dal nazionalismo sangue e terra, ed adottò lo pseudonimo di suo padre, ‘Netanyahu’, ‘donato da dio’. Diventò uno studioso dell’inquisizione spagnola, proponendo la tesi spietata secondo cui, invece di morire per la loro fede, i conversos accettarono la Chiesa [cattolica] per ambizione.

Il maggior risultato raggiunto da Benzion in “Hatzohar” fu di esserne il rappresentante ad una conferenza del 1940 a New York: era un militante di destra di poco conto, “al massimo, una figura marginale nel circolo del leader”. Ma era uno che ci credeva davvero, sconvolto dalla sconfitta del movimento nella sua rivalità con il sionismo socialista di Ben-Gurion, che per questioni di tattica accettò l’idea della partizione della Palestina. Con la fondazione dello Stato di Israele sotto la direzione di Ben-Gurion, uomini come Benzion Netanyahu vennero lasciati a leccarsi le ferite. Uomo rigido e cupo, continuò a leccarsele per tutta la vita, per lo più passata in un orgoglioso e autoimposto esilio da Sion. Convinto che “il cuore della nostra Nazione sia stato distrutto” dopo l’Olocausto, vedeva i nuovi dirigenti dello Stato come uomini deboli, che preparavano la strada per la “liquidazione dei sionisti”. Dopo l’indipendenza trovò lavoro come uno dei redattori della nuova Encyclopedia Hebraica, ma si rodeva dall’amarezza per la sua incapacità di garantirsi un incarico accademico degno di quelle che sentiva essere le sue capacità.

Bejamin Netanyahu, ‘Bibi’ per la sua famiglia, è nato nel 1949 a Tel Aviv, tre anni dopo il suo fratello maggiore, Jonathan (‘Yoni’), ed è cresciuto a Katamon, un sobborgo abitato prevalentemente da arabi cristiani prima della guerra del 1948. (Un terzo figlio, Iddo, è nato nel 1952). Nel 1963 i ragazzi vennero sradicati quando il padre, convinto di essere stato messo nella lista nera dal mondo accademico, spostò la sua famiglia a Elkins Park, un verdeggiante quartiere periferico di Filadelfia. Per una famiglia revisionista lasciare Israele non era un’umiliazione da poco: gli ebrei che emigrano [da Israele] sono noti come yordim, quelli che scendono (gli immigrati fanno aliyah e “salgono”). Scendendo, i ragazzi Netanyahu dovettero rimandare il loro ingresso nell’esercito, la loro più profonda aspirazione: sia Yoni che Bibi erano decisi a lavare l’onta del loro colto padre, un profeta reietto nello Stato ebraico. Le lettere di Yoni ai suoi amici in patria fanno pensare ad  un Sayyid Qutb [leader islamico egiziano, dirigente della Fratellanza musulmana, ndtr.] sionista, disgustato dall’edonismo americano: “Qui la gente parla di macchine e ragazze. La loro vita gira attorno ad un argomento – il sesso – e penso che Freud qui avrebbe avuto un fertile campo per seminare e raccogliere i suoi frutti. Mi sto convincendo di vivere in mezzo a scimmie, non a esseri umani.” Yoni inizialmente si accontentò di predicare il sionismo con i suoi compagni di classe, ma nel 1964 tornò in Israele per diventare paracadutista, realizzando la fantasia di suo padre del guerriero ebreo che difende la sua terra dagli arabi, che vedeva come “una marmaglia di cavernicoli”.

Senza il fratello maggiore, che adorava, Netanyahu sembra si sia perso nella selva degli anni ’60 americani. A “Cheltenham High” [prestigioso college nei pressi di Filadelfia, ndtr.] era noto come Ben, non Bibi. Giocava nella squadra di calcio ed era membro della società di scacchi, ma per lo più se ne stava per conto suo. Aveva poco in comune con i suoi compagni di classe ebrei progressisti infervorati dal movimento per i diritti civili [degli afroamericani, ndtr.]. Lettore di Ayn Rand [scrittrice e filosofa liberale di destra, ndtr.], era preoccupato dei mali del comunismo, non di quelli del razzismo. Una settimana prima dello scoppio della guerra del 1967 [tra Israele e gli Stati arabi, nota come la Guerra dei Sei Giorni, ndtr.] volò in Israele. Netanyahu sostiene di essere tornato per lottare per il suo Paese, ma Pfeffer afferma che la ragione principale era che gli mancava Yoni.

Tornato in Israele, Bibi si addestrò come soldato combattente, e si unì a “Sayeret Matkal”, un’unità speciale d’élite la cui esistenza rimase un segreto ufficiale fino al 1992. Benché più corpulento del suo slanciato e spartano fratello maggiore, era estremamente in forma, e rimase nell’esercito per cinque anni, partecipando a molti attacchi al di là dei confini, compresa la battaglia di Karameh, in Giordania, del 1968 [nota come prima vittoria dei palestinesi contro l’esercito israeliano, ndtr.], in cui combatté contro i guerriglieri palestinesi sotto il comando di Arafat. Nel maggio 1972 venne ferito a una spalla da fuoco amico durante la liberazione del Boeing 707 della Sabena dirottato [dal gruppo palestinese “Settembre nero”, per chiedere uno scambio di prigionieri, ndtr.].

Bibi avrebbe potuto continuare la carriera militare come Yoni, ma aveva ambizioni più mondane. Due mesi dopo la liberazione del volo Sabena ritornò negli Stati Uniti con la sua ragazza, Miki Weizmann, con cui si sposò poco dopo. Si iscrisse ad un corso di architettura e urbanistica al MIT [Massachusetts Institute of Technology, ndtr.] (in seguito prese una seconda laurea alla scuola di management), mentre Weizmann studiò chimica a Brandeis [prestigiosa università nei pressi di Boston, ndtr.]. Ritornò a chiamarsi Ben invece di Bibi; cambiò persino il suo cognome in ‘Nitay’ perché gli americani facevano fatica a pronunciare ‘Netanyahu’. Era un tipico insieme di zelo assimilazionista e di disprezzo per l’unico Paese in cui aveva conosciuto qualcosa di simile a una vita civile: in Israele da adulto è stato solo un soldato o un politico. Pochi mesi prima dello scoppio della guerra del 1973 indusse Yoni, diventato ora vice di Ehud Barak nell’unità “Sayeret Matkal”, a passare il semestre estivo ad Harvard. Benché Yoni condividesse l’ammirazione di Bibi per l’intraprendenza americana, gli attivisti contro la guerra nel campus lo disgustarono, soprattutto quelli ebrei: “Sembra che abbiano smesso da molto tempo di essere obiettivi. Un peccato per l’America, perché questi pazzi la distruggeranno.” (Tutti e due i fratelli parteciparono alla guerra: Bibi ha raccontato con orgoglio di essere stato vicino ad Ariel Sharon e a Ehud Barak sulle sponde del Canale di Suez, ma Barak dice di non ricordarsi di un simile incontro).

Il dramma che ha segnato la vita di Netanyahu da giovane ha avuto luogo nel luglio 1976, quando Yoni venne ucciso all’aeroporto di Entebbe durante una missione per la liberazione di ostaggi israeliani ed ebrei del volo Air France 139, dirottato da quattro membri di una cellula tedesca del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina [gruppo armato marxista, ndtr.]. La storia della sua morte e di chi l’abbia ucciso rimane controversa. Secondo il racconto più ampiamente accettato, contravvenne agli ordini aprendo il fuoco contro i soldati ugandesi, attirando quindi l’attenzione della torre di controllo, da cui molto probabilmente vennero sparati i colpi che lo uccisero. La famiglia Netanyahu, tuttavia, rifiutò di credere che il loro figlio fosse stato ucciso da un soldato semplice ugandese, e insistettero che fosse stato ucciso dal comandante tedesco dei dirottatori. Benché Yoni fosse stato depresso per mesi e poco comunicativo nelle riunioni, venne esaltato nella mitologia familiare come “l’impareggiabile comandante”, trasformato in un’icona anche prima del suo funerale. “Mi aspettavo che il padre dicesse quanto amasse suo figlio e gli mancasse,” ricordò dopo il funerale Moshe Arens, politico del Likud. “Invece Benzion disse: ‘Gli arabi non sanno ancora quale perdita hanno inflitto agli ebrei.’”

Incaricato dalla famiglia di scrivere la biografia di Yoni, Max Hastings lo ritrasse come un tipo scontroso, testardo e solitario, molto simile al padre, solo senza la sua intelligenza – “un giovane problematico di media intelligenza, che si sforzava di fare i conti con concetti intellettuali al di là della sua comprensione.” Lungi dall’essere un comandante senza pari, Yoni era stato “attivamente detestato da non pochi dei suoi uomini.” Furiosi contro Hastings, i Netanyahu pubblicarono il libro in forma depurata. Hastings, che nelle sue memorie scrisse dei suoi incontri con la famiglia (“uno dei più spiacevoli episodi della mia carriera”), prese in particolare antipatia Bibi, che si vantò: “Nella prossima guerra, se facciamo le cose come si deve, avremo la possibilità di buttar fuori tutti gli arabi…Possiamo ripulire la Cisgiordania, mettere a posto Gerusalemme.” Il razzismo di Bibi, ricordò Hastings, non si limitava agli arabi: “Scherzava sulla brigata Golani, il corpo di fanteria [dell’esercito israeliano, ndtr.] in cui molti uomini erano ebrei nordafricani o yemeniti. ‘Vanno bene finché sono guidati da ufficiali bianchi,’ ghignava.”

Con tutta la sua spacconeria, ‘Ben Nitay’ era ancora confuso in pieni anni ’70. Tenne occasionali discorsi nella zona di Boston a favore del governo israeliano, che riconobbe in lui un elemento prezioso per la sua esperienza nelle forze speciali, per il suo accento americano, per il bell’aspetto e, non da ultimo, per la sua predisposizione per l’hasbara – una parola ebraica che significa difendere Israele attraverso una presentazione notevolmente selettiva dei fatti. Ma a 25 dollari a discorso, l’hasbara non lo ripagava delle spese, o non ancora, per cui Netanyahu si mantenne con il suo lavoro di consulente e, per un breve periodo, come direttore commerciale per un produttore di mobili in Israele. La sua vita privata  era un disastro. Il suo matrimonio finì poco dopo la nascita della figlia Noa nel 1978, quando Weizmann venne a sapere della sua storia con Fleur Cates, una donna anglo-tedesca che aveva incontrato nella biblioteca della facoltà di economia di Harvard e che in seguito sposò.

Netanyahu rimase nell’ombra di Yoni, il figlio favorito: si impegnò nella supervisione della pubblicazione delle lettere di suo fratello e nella costituzione di un gruppo di ricerca intitolato a lui. L’elezione di Menachem Begin nel 1977, che portò al potere il Likud e preannunciò un grande riassetto nella politica israeliana a favore della Destra, avrebbe dovuto migliorare le sue prospettive. Ma Begin, l’ex-comandante della milizia “Irgun” e seguace di Jabotinsky, considerava il padre di Bibi “un borioso parolaio che aveva preferito una comoda vita negli Stati Uniti”, e guardava con sospetto al suo figlio yordim [espatriato]. Quando Begin acconsentì a ritirarsi dal Sinai, Netanyahu vide la decisione come un tradimento, ma fu abbastanza calcolatore da non firmare nessuna petizione di protesta: la famiglia aveva bisogno del beneplacito di Begin per la prima conferenza internazionale dell’istituto “Jonathan”, tenutasi a Gerusalemme nel 1979.

Due anni più tardi il discorso di Netanyahu a quella conferenza gli diede la prima occasione in politica come vicecapo della missione diretta da Moshe Arens, il nuovo ambasciatore di Israele negli USA, un falco. Tanto edotto del pensiero di Ayn Rand quanto fluente in inglese, Netanyahu prosperò nella Washington di Reagan, dove l’economia ultraliberista e il sionismo revisionista erano i due pilastri di centri di ricerca di destra come l’”American Enterprise Institute” e la “Heritage Foundation”. Egli si abituò alle interviste davanti alle telecamere e imparò a “tenere l’occhio fisso sugli obiettivi mentre presentava la parte sinistra del suo viso, quella senza la cicatrice sul labbro”. (Netanyahu si tagliò il labbro superiore da bambino quando scivolò dalle braccia di Yoni mentre scavalcavano un cancello, un’altra ‘eresia’ eliminata dalla mitologia di Yoni.) “Giovane, di bell’aspetto e ostentando fiducia in se stesso” come lo presenta Pfeffer, si ingraziò i campioni di Israele nei media americani, da William Safire, un editorialista neoconservatore del “New York Times”, al più affabile sionista Ted Koppel dell’ABC, nel cui spettacolo, “Nightline”, fece frequenti apparizioni come ‘esperto di terrorismo’. Safire chiese ad Israele di nominare Netanyahu suo nuovo ambasciatore quando Arens sostituì Sharon come ministro della Difesa, dopo che Sharon fu obbligato a dimettersi in seguito al massacro di Sabra e Shatila [campi profughi palestinesi a Beirut in cui nel settembre 1982, durante la prima guerra di Israele contro il Libano, i miliziani cristiani massacrarono centinaia di civili con la complicità delle truppe israeliane, ndtr.]. Ma Yitzhak Shamir, il nuovo primo ministro, considerava Netanyahu “superficiale, vanitoso, autodistruttivo e prono alle pressioni.” Come diceva lui: “Il mare è il solito mare e Netanyahu è il solito Netanyahu.”

I ‘principi’ del Likud forse avevano poco tempo da dedicare a Netanyahu, ma egli ebbe successo nel corteggiare Shimon Peres, il dirigente laburista, che lo nominò ambasciatore alle Nazioni Unite nel 1984, dopo aver formato un governo di unità nazionale con Shamir. Appena Netanyahu si trasferì a New York fece richiesta di ristrutturazioni nella residenza dell’ambasciatore di fronte al Met [Metropolitan Museum of Art, ndtr.]. Egli visse nel lusso con Fleur all’hotel Regency finché l’appartamento fu pronto, e corteggiò ricchi ebrei newyorkesi come Ronald Lauder, che lo presentò ad altri miliardari, tra cui Donald Trump. Benché non praticante, strinse alleanza con il leader dei Lubavitcher [setta chassidica originaria della Bielorussia, ndtr.] Menachem Mendel Schneerson, che lo accolse nella sua residenza di Brooklyn e gli ordinò di “accendere una candela per la verità e per il popolo ebraico” in quella “casa di menzogne”, l’ONU.

Nel suo ruolo di ambasciatore, Netanyahu era poco più che un corretto professionista dell’hasbara – un “modesto demagogo”, nelle parole di Reuven Rivlin, segretario della sezione di Gerusalemme del Likud ed ora presidente di Israele. Ma trovò un alleato più utile in Moshe Arens, che nel 1988 convinse Shamir a nominarlo rappresentante al ministero degli Esteri. Netanyahu ingaggiò un collaboratore non ufficiale: Avigdor Lieberman [attuale ministro e capo di un partito di estrema destra, ndtr.], un colono estremista moldavo, di nove anni più giovane, un ex buttafuori di nightclub. Benché Arens fosse il suo capo, Netanyahu aveva difficoltà a controllarsi, al punto da denunciare la politica americana come “fondata su menzogne e distorsioni”.  James Baker, il segretario di Stato di George Bush, gli vietò di entrare nel dipartimento di Stato. “Ero offeso dalla sua disinvoltura e dalle sue critiche alla politica USA – per non parlare dell’arroganza e della sua bizzarra ambizione,” ricorda nelle sue memorie Robert Gates, allora vice consigliere per la sicurezza nazionale.

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Ma Netanyahu aveva come obiettivo impossessarsi del Likud, non la pace in Medio Oriente; si stava esibendo per il pubblico di casa. Il suo insieme di magniloquenza e calcolo funzionò. Durante la prima guerra del Golfo mise in relazione la minaccia degli attacchi iracheni con gas letale con le camere a gas naziste, e si mise una maschera antigas durante un’intervista con la CNN. Dovette trovarne una speciale, con il filtro di fianco, dato che quelle normali hanno un grande filtro sul davanti che non permette di ascoltare le parole di chi se le mette. “Devo dire che questo è il modo più stupido per fare un’intervista,” disse. “Tuttavia quello che mette in evidenza è la minaccia che Israele deve affrontare.” Di fatto, la minaccia che cercava di neutralizzare non era Saddam Hussein, ma il suo principale rivale nel Likud, David Levy, un ebreo marocchino che non parlava inglese e non aveva talento per l’hasbara.

Netanyahu quasi perse la sua lotta con Levy quando la sua nuova moglie, Sara Ben Artzi, una giovane hostess che aveva incontrato ad Amsterdam poco dopo la fine del suo matrimonio con Fleur, ricevette una telefonata da una fonte anonima che sosteneva di avere un video di lui che faceva sesso con un’altra donna. Cacciato dalla dimora del suo ultimo matrimonio e finito a casa dei suoi genitori, Netanyahu si dichiarò vittima di “un delitto senza precedenti nella storia della democrazia” e praticamente accusò Levy. Il matrimonio sopravvisse, grazie ad un accordo architettato da avvocati che concedeva a Sara pieno accesso alla sua agenda e il diritto di bloccare la nomina di ogni membro dello staff. E Netanyahu venne regolarmente eletto leader del Likud, con il 52% dei voti degli iscritti al partito. Si circondò di israeliani di destra che erano nati negli USA o vi avevano passato lunghi periodi: David Bar-Ilan, un pianista da concerto che era editorialista del Jerusalem Post [giornale israeliano in inglese e francese, all’epoca di destra, ndtr.], Dore Gold, un docente universitario del Connecticut che aveva scritto la sua tesi di laurea sull’appoggio dei sauditi al terrorismo (ora un argomento delicato, suppongo [si riferisce al recente avvicinamento tra Arabia Saudita ed Israele, ndtr.]), e l’intellettuale revisionista Yoram Hazony.

“Pochi politici hanno avuto una così lunga ed intensa carriera senza che le loro opinioni cambiassero,” scrive Pfeffer. Queste opinioni sono state espresse chiaramente con impressionante ampiezza nel libro del 1993 di Netanyahu “Un posto tra le Nazioni”, in cui (nell’utile riassunto di Pfeffer) egli sostenne che il conflitto arabo-israeliano non ha niente a che vedere con “palestinesi, confini o rifugiati. Non riguarda neanche Israele. Deriva da un odio implacabile di arabi e musulmani nei riguardi dell’Occidente, e di Israele come avamposto dell’Occidente in Medio Oriente”. Solo la “pace della deterrenza” farà rigare dritti gli arabi; un compromesso territoriale era impensabile, persino un tradimento. “Sei peggio di Chamberlain [primo ministro inglese che consegnò la Cecoslovacchia a Hitler pensando di salvare la pace, ndtr.],” disse Netanyahu a Rabin [primo ministro israeliano che firmò gli accordi di Oslo, ndtr.] nella Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.], quando nell’agosto 1993 i colloqui di Oslo vennero rivelati per la prima volta. “Egli mise in pericolo un’altra Nazione, ma tu lo stai facendo con la tua stessa Nazione.” Pfeffer insiste che i discorsi di Netanyahu contro Rabin erano “misurati”, e lo difende dall’accusa di essere responsabile per la campagna di istigazione all’odio che portò all’uccisione di Rabin il 4 novembre 1995. “Pur cavalcando la tigre dell’estrema destra,” scrive, “in nessun momento Netanyahu utilizzò il vocabolario dell’estrema destra contro Rabin ed i suoi ministri.” Ma non ne aveva bisogno. Doveva semplicemente andare ai comizi in cui Rabin veniva chiamato assassino e traditore, e non dire niente. La vedova di Rabin, Leah, rifiutò di stringergli la mano durante i funerali di Stato: “Non lo perdonerò finché vivrò.”

Nelle elezioni del 1996, Netanyahu sconfisse di poco Peres, che aveva fallito la campagna contro Hezbollah, e la cui operazione “Furore” culminò con il bombardamento di una struttura dell’ONU nel sud del Libano [la cosiddetta strage di Canaa, ndtr.] e l’uccisione di più di cento civili che vi si erano rifugiati. “Per gli ebrei ci vuole Netanyahu” fu lo slogan della sua campagna. “Gli ebrei hanno sconfitto gli israeliani,” commentò Peres, un’amara allusione all’oscura mentalità da shtetl  [villaggi ebraici dell’Europa orientale, ndtr.]  che, secondo lui, isolava il revisionismo di Netanyahu dal fiducioso ethos sabra [gli ebrei nati in Palestina prima della nascita dello Stato di Israele, ndtr.] promosso da Ben-Gurion. Nel suo primo discorso, Netanyahu promise di incoraggiare “colonie d’avanguardia” e non tracciò distinzioni tra i due lati della Linea Verde che separava i confini di Israele prima del 1967 e i territori occupati: “I coloni sono i veri pionieri dei nostri giorni e meritano il nostro aiuto e la nostra stima.” I coloni del complesso di Gush Etzion [prima colonia costruita nei territori palestinesi occupati, ndtr.] presto avrebbero goduto dei benefici di una nuova strada e di un tunnel –creazione del ministro alle Infrastrutture di Netanyahu, Ariel Sharon – che permise loro un accesso diretto a Gerusalemme, evitando le città palestinesi.

Diventando primo ministro, Netanyahu aveva superato Yoni, ma suo padre non rimase impressionato: “Sarebbe stato un eccellente ministro dell’hasbara,” o “un ottimo ministro degli Esteri,” disse Benzion a un giornalista poco dopo le elezioni. Cosa ne pensa come primo ministro, chiese il giornalista: “Il tempo lo dirà.” Il primo mandato di Netanyahu fu burrascoso ed effimero come una prova di matrimonio. Si circondò di persone leali con poca o nessuna esperienza, tutte approvate da Sara, che egli “non cercò mai di contrastare.” (Lei si fece anche la fama di terrorizzare le bambinaie del loro figlioletto, Yair). Dopo il suo primo incontro con Arafat annunciò immediatamente la costruzione di 1.500 abitazioni per i coloni, e minacciò di chiudere il dipartimento dell’OLP a Gerusalemme est. Con un puro e semplice tentativo di affermare la sovranità ebraica su Gerusalemme, aprì l’uscita del tunnel di Asmodeo che unisce la via Dolorosa al Muro del pianto. Dato che l’uscita era nel quartiere musulmano della Città Vecchia, ciò era destinato a far infuriare i palestinesi, ma Netanyahu insistette che l’uscita “riguarda i fondamenti della nostra esistenza.” Il risultato fu una breve guerra, che lasciò un centinaio di palestinesi e 17 soldati israeliani uccisi. Pfeffer atrribuisce a Bibi il fatto di essere stato il primo dirigente del Likud ad aver ordinato il ritiro di truppe israeliane da una parte della “terra di Israele” quando accettò il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese su una parte di Hebron. Ma il ‘compromesso di Hebron’ lasciò lì 450 coloni ebrei con il controllo sul 20% della città, e migliaia di palestinesi ed il centro della città sotto occupazione militare.

Pfeffer sostiene che Netanyahu era detestato dalla sinistra in parte perché proveniva dallo stesso contesto askenazita [lett. “tedeschi”, ebrei originari dell’Europa centro-orientale, ndtr.] cosmopolita e secolarizzato, eppure condivideva le convinzioni dell’“altro Israele”, di cui facevano parte la classe operaia, i mizrahi [ebrei originari dei Paesi arabi o musulmani, ndtr.] e gli ebrei russi. Può darsi, ma la sua determinazione ad uccidere Rabin per la seconda volta, seppellendo ogni possibilità di accordo con i palestinesi, era più importante. Era irresponsabile quanto provocatore. Nel 1997 cercò di far avvelenare Khaled Meshal, il capo dell’ufficio politico di Hamas, ad Amman, violando l’ordine di Rabin di porre fine alle operazioni clandestine in Giordania, e danneggiando gravemente le relazioni di Israele con il suo unico reale alleato arabo.

Non solo Netanyahu venne obbligato a fornire l’antidoto che salvò la vita di Meshal, ma dovette anche rilasciare lo sceicco Ahmed Yassin, il leader di Hamas a Gaza, un grave colpo per Arafat, il presunto partner per la pace con Israele. “The Economist” [settimanale liberal-democratico inglese, ndtr.] definì Netanyahu il “pasticcione seriale di Israele”. Alla fine del suo primo mandato, aveva perso persino il rispetto della destra religiosa, il suo più prezioso alleato. Il rabbino Ovadya Yosef, il fanatico clericale nato in Iraq che guidava il partito Shas, lo definì “una capra cieca”.

Nelle elezioni del 1999 Netanyahu venne sconfitto da Barak, che corse con l’appoggio del rivale di Netanyahu nel Likud, David Levy. Solo pochi mesi dopo venne aperta un’inchiesta sul suo esorbitante appannaggio mensile per i sigari cubani e la stravagante ristrutturazione della residenza di Netanyahu che Sara, “la sua perfetta co-reggente”, aveva ordinato. Ma nel suo ultimo anno di governo Netanyahu fece una serie di mosse che lo avrebbero profumatamente ripagato. Mentre tranquillizzava Bill Clinton che il “Monicagate” [scandalo sessuale tra il presidente USA e Monica Levinsky, ndtr.] “si sgonfierà”, iniziò a comparire nei comizi degli evangelici tenuti da detrattori di Clinton come Pat Robertson e Jerry Falwell [pastori evangelici di estrema destra, ndtr.], forgiando l’alleanza tra Israele e gli evangelici che ora è un pilastro del mondo di Trump. E il seguace di Ayn Rand si reinventò come uomo del popolo, candidato, come lo raccontava lui, contro “i ricchi, gli artisti…quelle élite. Odiano chiunque…Odiano il popolo. Odiano i mizrahi, i russi, chiunque non sia come loro.”

Quel messaggio non funzionò nelle elezioni del 1999. Né Netanyahu si fece amici tra “il popolo” quando, come ministro delle Finanze di Barak [in un governo di unità nazionale, ndtr.], umiliò una madre single, elettrice del Likud, che aveva marciato dal Negev fino a Gerusalemme per protestare contro i tagli all’assistenza. (“Probabilmente fa jogging tutte le sere”). Ma, come sottolinea Pfeffer, l’uomo del marketing aveva una particolare intuizione su come la politica stesse passando dalle strade a internet, e dell’importanza fondamentale della comunicazione. Contrattò un nuovo consigliere, Ron Dermer, un consulente nato in America che sarebbe diventato famoso come “il cervello di Bibi”, e decise che aveva bisogno di un “suo personale media”. Il magnate americano dei casinò   Sheldon Adelson accettò, e nel 2007 creò  “Yisrael Hayom” (Israele oggi), un quotidiano gratuito di destra, al costo di circa 25 milioni di dollari all’anno. Per conservare la sua immagine di uomo del popolo, Netanyahu annullò la pubblicazione del suo manifesto per il libero mercato “La tigre israeliana”, per non inimicarsi i votanti colpiti dalla crisi finanziaria del 2008. (Non è mai stato pubblicato). E nel 2009 ritornò al potere, con Barak come suo ministro della Difesa. Il ministro degli Esteri – promosso a ministro della Difesa quando Barak diede le dimissioni – fu il suo vecchio amico, l’irriducibile colono moldavo Avigdor Lieberman, che sosteneva che i cittadini palestinesi di Israele dovrebbero essere obbligati a prestare un giuramento di fedeltà o perdere la cittadinanza.

Pfeffer afferma che Netanyahu “non è un guerrafondaio”, e che “nonostante le sue chiacchiere sullo scontro con la minaccia iraniana, è stato talmente prudente da non scatenare nessuna guerra – il che depone a suo favore.” È vero in parte. Netanyahu è un pragmatico di destra la cui principale preoccupazione è sempre stata di rimanere al potere; ha il senso del limite. Ma, come dimostra Pfeffer, ha il gusto del rischio calcolato, soprattutto quando si tratta dell’Iran, il cui programma nucleare è stato la sua ossessione negli ultimi due decenni. Nel 2010 Netanyahu e Barak ordinarono a Gabi Ashkenazi, il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, di mettere l’esercito in massima allerta, utilizzando il termine che in ebraico significa “alzare il cane della pistola”. Cedettero quando Ashkenazi ricordò loro che fare ciò sarebbe stato un atto di guerra, che in base alla legge richiede l’autorizzazione di tutto il governo. Nell’estate del 2012 progettò di avviare un attacco preventivo contro le strutture nucleari dell’Iran poco dopo un’esercitazione congiunta con l’esercito americano, e due settimane prima delle elezioni presidenziali USA. Un gruppo di ex-ufficiali dell’intelligence, che comprendeva comandanti di “Sayeret Matkal”, gli inviarono una lettera riservata avvertendolo del “terribile caos che ne sarebbe derivato in vari modi dopo l’euforia iniziale.” Barak sostiene che non aveva bisogno di essere convinto: attaccando poco prima di un’elezione, “avremmo piazzato una trappola politica per il presidente degli Stati Uniti.”

That president was, of course, Barack Obama, whom Netanyahu famously loathed (the feeling was mutual). Netanyahu lobbied furiously against Obama’s efforts to reach a peaceful agreement over Iran’s nuclear programme, most notably in his bellicose speech to a joint session of Congress in 2014. For this shameless defiance of Israel’s major patron, he received 26 standing ovations – in Jon Stewart’s words, ‘by far the longest blowjob a Jewish man has ever received’. There were side benefits to Obama’s Iran diplomacy, which, as Pfeffer notes, ‘saved Netanyahu from making progress with the Palestinians’. Even so, Netanyahu cast Obama ‘in the consciousness of the Israeli public as the nation’s enemy’. They didn’t require much persuading: the son of a Kenyan father with a Muslim middle name and a surname that rhymed with Osama, Obama cut a suspiciously Third World figure in a country where race prejudice runs deep, as not only Palestinian Arabs but African asylum-seekers and Ethiopian and Moroccan Jews can attest. Never mind that Obama had declared the American bond with Israel ‘unbreakable’: he had also described the occupation’s ‘daily humiliations’ as ‘intolerable’. Worst of all, in the minds of Netanyahu and his supporters, he had suggested that Israel was created because of the Holocaust, rather than because of the Jews’ ancestral claim to the land, tapping into Zionist anxieties about ultimate ownership rights.

Quel presidente era ovviamente Barack Obama, che notoriamente Netanyahu detestava (ricambiato). Netanyahu fece pesanti pressioni contro i tentativi di Obama per raggiungere un accordo pacifico sul programma nucleare iraniano, in particolare nel suo bellicoso discorso durante una sessione congiunta del Congresso nel 2014. Per la sua sfida senza pudore al maggiore protettore di Israele, ricevette 26 ovazioni – secondo Jon Stewart “in assoluto il più lungo pompino che un ebreo abbia mai ricevuto.”  C’erano vantaggi secondari per la diplomazia di Obama con l’Iran, che, come nota Pfeffer, “evitarono a Netanyahu di fare progressi [nei colloqui di pace] con i palestinesi.” Nonostante ciò, Netanyahu assegnò ad Obama la parte di “nemico della Nazione nella coscienza dell’opinione pubblica israeliana.” Non ci voleva molto per convincerla: figlio di un padre  keniota con un secondo nome musulmano e un cognome che fa rima con Osama, Obama era un personaggio sospettosamente terzomondista in un Paese in cui i pregiudizi razziali sono molto profondi, come possono testimoniare non solo arabi palestinesi, ma anche richiedenti asilo africani ed ebrei etiopi e marocchini. Non importa che Obama abbia dichiarato “indistruttibile” il legame dell’America con Israele: egli ha anche descritto le “quotidiane umiliazioni” dell’occupazione come “intollerabili”. Peggio ancora, nelle menti di Netanyahu e dei suoi sostenitori, ha insinuato che Israele è stato creato a causa dell’Olocausto, piuttosto che a causa dell’ancestrale rivendicazione degli ebrei sulla terra, andando a toccare le preoccupazioni sioniste sui definitivi diritti di proprietà.

Nella sua risposta al discorso di Obama, Netanyahu fece finta di riconoscere la necessità di uno Stato palestinese, ma la sua versione di un simile Stato corrispondeva a cantoni demilitarizzati e aggiunse una nuova precondizione: che prima che venisse raggiunto un qualsiasi accordo i palestinesi riconoscessero Israele come “Stato del popolo ebraico”. Israele non chiese mai all’Egitto o alla Giordania di concedere un tale riconoscimento, né Netanyahu fece lo stesso con la Siria quando cercò di aprire negoziati con Damasco durante il suo primo mandato come primo ministro. “Che bisogno abbiamo che i palestinesi, o chiunque altro, ci legittimino come Stato ebraico?” scrive (Ehud) Barak nelle sue memorie. “La tua retorica suggerisce che tu abbia una spina dorsale d’acciaio,” dice di aver detto a Netanyahu, “ma il tuo comportamento è una prova vivente del vecchio detto che sia più facile portare gli ebrei fuori dal galut” – la diaspora – “che portar fuori il galut dagli ebrei.” Secondo Barak, Netanyahu non sembrava tanto un primo ministro israeliano quanto un timoroso “rabbino di uno shtetl, o un oratore che cerca di raccogliere fondi per Israele all’estero.” Ma qui sta il punto: la nuova precondizione di Netanyahu era semplice hasbara. Sapeva che nessun dirigente palestinese – ancora meno un uomo vecchio, debole e screditato come Mahmoud Abbas –  avrebbe potuto riconoscere Israele come Stato del popolo ebraico, dato che ciò sarebbe stato come approvare il sionismo, il progetto che aveva lasciato i palestinesi senza uno Stato. Ma questo rifiuto poteva essere bollato come ‘rifiuto di trattare’ e invocato come pretesto per continuare a prendere tempo, e lui sapeva che Obama non aveva intenzione di imporre nessuna reale sanzione. Nella sua ultima intervista prima di morire, all’età di 102 anni, Benzion Netanyahu chiarì che suo figlio non appoggiava la creazione di uno Stato palestinese. “Non c’è posto qui per gli arabi, e non ce ne sarà. Non ne accetteranno mai le condizioni.” Quando nel 2014 fu candidato alle elezioni per un secondo mandato, Netanyahu promise che non ci sarebbe mai stato uno Stato palestinese, dato che sarebbe diventato solo un trampolino di lancio per l’’Islam radicale’. L’argomento giocò un ruolo importante tra gli ebrei israeliani già spaventati dalle turbolenze nel mondo arabo. La guerra in Siria non fece altro che confermare che, in un futuro prevedibile, le Alture del Golan rimarranno in mani israeliane.

I palestinesi pagano un caro prezzo per resistere all’occupazione, sia con la violenza che con la non-violenza. L’esercito israeliano lo chiama ‘falciare il prato’. Pfeffer descrive Netanyahu come “il primo ministro con la più bassa percentuale di vittime nella storia di Israele,” ma sta contando solo i morti israeliani. Nel 2014 nella sola guerra di Gaza più di duemila palestinesi vennero uccisi, due terzi dei quali civili, mentre il numero di morti israeliani si limitò a 64 soldati e 6 civili. La risposta di Netanyahu fu accusare Hamas di usare “i morti palestinesi in modo telegenico per la propria causa”. La maggioranza degli israeliani condivide questa opinione. Nel 2016 a Hebron, durante l’’Intifada dei coltelli’ di breve durata, il sergente Elor Azaria venne filmato mentre giustiziava un ferito sospetto [di aver accoltellato un soldato, ndtr.] di nome Abdel Fattah al-Sharif. Era steso a terra da 10 minuti quando Azaria gli sparò. Azaria venne condannato dal ministro della Difesa di Netanyahu, Moshe Yaalon, ma quando la maggioranza degli israeliani sembrò sollevarsi in sua difesa, Netanyahu cambiò atteggiamento, facendo una telefonata di solidarietà alla famiglia dell’assassino. Dopo nove mesi in prigione, Azaria è stato liberato.

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II progressisti israeliani sono soliti consolarsi con l’idea che all’interno della Linea Verde [cioè in territorio israeliano, ndtr.] le cose fossero diverse: passare dalla Cisgiordania a Israele era come entrare nelle ricche praterie di una vivace democrazia. Ciò è sempre stata una favola: la democrazia israeliana non è mai rimasta immune dall’occupazione, o dal governo militare autoritario imposto ai palestinesi dal 1948 al 1966, un anno prima che l’occupazione iniziasse. Eppure i progressisti israeliani potrebbero ragionevolmente invocare le libere elezioni e una stampa vivace come prova della vitalità democratica nel Paese, almeno per gli ebrei. Sotto Netanyahu non solo l’occupazione è diventata ancora più dura, ma il confine tra Israele ed i territori occupati ha continuato a sfumare. Ahmed Tibi, un deputato palestinese della Knesset, ha spesso evidenziato che Israele è una democrazia per gli ebrei ma uno Stato ebraico per gli arabi. Con l’approvazione della nuova ‘legge fondamentale’, che dichiara Israele ‘lo Stato-Nazione del popolo ebraico’, ciò ora è iscritto nella costituzione dello Stato. Israele è ufficialmente diventato quello che è sempre stato nella pratica: una democrazia herrenvolk [del popolo superiore], in cui solo gli ebrei hanno pieno diritto di cittadinanza e i non-ebrei sono al massimo una minoranza tollerata, in cui un immigrato da Miami o da Mosca può spadroneggiare su un cittadino palestinese nativo la cui famiglia ha vissuto ad Haifa o a Nazareth per secoli. L’arabo, in precedenza lingua ufficiale, è stato declassato a idioma con ‘status speciale’.

Quelli che all’interno di Israele si oppongono all’occupazione o alle discriminazioni contro gli arabi non sono più critici, sono nemici. Giornalisti progressisti, artisti e professori di sinistra, ricercatori per i diritti umani, elettori arabi ‘che vanno in massa a votare’: a sentire Netanyahu c’è da immaginare un complotto interno contro Israele. “Abbiamo due nemici principali, il ‘New York Times’ e ‘Haaretz’,” ha detto Netanyahu durante un incontro privato. “Essi definiscono l’agenda della campagna contro Israele in tutto il mondo.” Quando Sara Netanyahu venne accusata di truffa e di abuso d’ufficio nel settembre 2017, dopo essere stata incriminata per aver speso illegalmente fondi pubblici per cene preparate da chef famosi, il figlio della coppia, Yair, postò su Facebook un cartone neonazista su cui aveva sovrimpresso i volti di chi criticava i suoi genitori.

Con tutta la sua ossessione nei confronti dell’antisemitismo dei palestinesi, Netanyahu ha assunto un atteggiamento più indulgente verso l’antisemitismo dei suoi amici. Quando Victor Orbàn lanciò una campagna antisemita contro George Soros, provocando le ire dell’ambasciatore israeliano a Budapest, Netanyahu difese il suo alleato ungherese contro Soros, critico dell’occupazione [dei territori palestinesi].  Né l’antisemitismo dei sauditi né l’appoggio saudita agli jihadisti in Siria ha impedito il crescente amore-che-non-osa-dire-il-suo-nome tra Tel Aviv e Ryad. E poi c’è Donald Trump, la cui campagna per le presidenziali è stata appoggiata dal patrono di Netanyahu, Sheldon Adelson, e che si è circondato di un inquietante entourage di ebrei di destra e nazionalisti bianchi. Puntando su Trump nelle elezioni del 2016, Netanyahu ha sfidato quello che a lungo è stato il più importante sostegno di Israele all’estero: gli ebrei americani, molti dei quali detestano Trump e erano turbati dalle notizie sull’antisemitismo di Bannon. Ma Ron Dermer gli garantì che Bannon era un convinto sostenitore di Israele, e ciò per lui era sufficiente. (Come Netanyahu, Bannon è stato cresciuto dal padre nella convinzione che la Reconquista, la vittoria dei cristiani sui mori in Spagna, avesse salvato la civiltà, e prefigurato il ritorno a Sion). Trump ha onorato Netanyahu lodando il muro di Israele come un modello del muro che spera di costruire sul confine degli USA con il Messico, e Netanyahu ha risposto a tono su Twitter. Ora l’America è a tutti gli effetti schierata con i coloni. L’apertura dell’ambasciata USA a Gerusalemme è stata festeggiata mentre decine di palestinesi disarmati venivano uccisi a Gaza. E la strada verso una guerra ancora più sanguinosa è stata aperta dal ritiro di Trump dall’accordo con l’Iran.

“Siamo proprio come te,” ha detto Sara Netanyahu a Trump. “I media ci odiano ma il popolo ci ama.” Ha ragione per metà: suo marito rimane popolare tra gli ebrei israeliani. Ma il ‘popolo’ di Trump include pochissimi ebrei americani, e l’alleanza di Israele con lui ha accentuato la divisione tra gli ebrei americani e lo Stato ebraico. Molti ebrei americani, persino alcuni liberal, erano disposti a ignorare, o a giustificare, le violazioni dei diritti umani contro i palestinesi da parte di Israele. Ma non sono disposti ad approvare la guerra contro gli immigrati, il divieto di ingresso ai musulmani o l’erosione della democrazia americana. La convergenza tra il populismo autoritario di Trump e il sionismo colonialista di Netanyahu ha ulteriormente evidenziato le contraddizioni tra le loro convinzioni progressiste e l’Israele attuale. Il risultato è stato una sinistra ebrea americana con nuova linfa e sempre più radicale. Bernie Sanders si è espresso eloquentemente contro le uccisioni da parte di Israele a Gaza, risparmiando ai suoi ascoltatori i luoghi comuni sulla sicurezza di Israele, e il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni è guidato, in parte, da “Jewish Voices for Peace” [“Voci ebraiche per la pace”, organizzazione americana contro l’occupazione, ndtr.]. Alcuni democratici ebrei rimangono fedeli sostenitori di Israele, ma sono sempre più in difficoltà, e il sostegno ad Israele tra i giovani ebrei americani è in declino.

Netanyahu non se ne preoccupa. Come ha spiegato recentemente Dermer al “New York Times”, i cristiani evangelici, che sommano “un buon quarto della popolazione, e sono forse 10, 15, 20 volte la popolazione ebraica,” ora costituiscono il ‘nocciolo duro’ del sostegno USA ad Israele. Le loro idee nei confronti degli ebrei non sono affatto tenere. Il reverendo Robert Jeffress, che ha pronunciato la preghiera iniziale per l’apertura dell’ambasciata a Gerusalemme, dice che “non puoi essere salvato se sei un ebreo.” Il reverendo John C. Hagee, il tele-evangelico che ha dato la benedizione conclusiva, ha descritto l’Olocausto come il modo in cui dio ha fatto in modo che gli ebrei “tornassero alla terra di Israele.” Netanyahu si deve ancora pronunciare su questa teoria dell’Olocausto, ma ha espresso l’opinione che gli ebrei americani sono destinati ad essere assimilati e a scomparire come i conversos spagnoli che suo padre disprezzava. Appoggiato da Trump e dagli evangelici sionisti, l’Israele di Netanyahu non ha bisogno degli ebrei, per lo meno non di quelli politicamente inaffidabili della diaspora.

Dove tutto questo porterà rimane incerto. Netanyahu, per il momento, sembra molto attivo, incoraggiato dai suoi legami con Trump, dall’espansione del commercio con l’Asia e dalla complicità dei regimi arabo-sunniti. La posizione strategica di Israele non è mai stata così forte, o i suoi vicini così deboli. Ma le scene dei manifestanti disarmati uccisi dai cecchini israeliani a Gaza sono un richiamo allo scontento che giace sotto la superficie. Con Netanyahu, Israele ha accumulato un consistente conto di sangue e lacrime. Come la carta di credito di sua moglie, prima o poi dovrà pagarlo.

(traduzione di Amedeo Rossi)