‘Gli israeliani non vogliono ascoltare ciò che ho da dire’

Edo Konrad

14 dicembre 2018, +972

Nei mesi scorsi le autorità israeliane, insieme ai coloni estremisti, hanno trasformato Guy Hirschfeld in una specie di nemico pubblico a causa del suo attivismo nella Valle del Giordano. In un’intervista Hirschfeld parla della costruzione della solidarietà con i palestinesi, del perché il suo atteggiamento sfrontato lo ha trasformato in un obbiettivo e se le cose stanno peggiorando per gli attivisti di sinistra.

Che cosa si prova ad essere un bersaglio? Gli ebrei israeliani dissidenti e gli attivisti contro l’occupazione, in gran parte, sono stati abbastanza fortunati da evitare questa domanda per anni. Mentre le autorità israeliane hanno avuto pochi scrupoli a reprimere i palestinesi che sfidano apertamente la dittatura militare israeliana nei territori occupati, agli ebrei israeliani la loro ira è stata ampiamente risparmiata.

Questo sta cominciando a cambiare. Dagli interrogatori dello Shin Bet [servizi israeliani per la sicurezza interna, ndtr.] alla frontiera, agli attacchi coordinati a danno di importanti attivisti contro l’occupazione, alla delegittimazione delle Ong di sinistra, le autorità stanno rendendo sempre più difficile la vita degli ebrei israeliani che si espongono. Per gli attivisti più conosciuti, gli attacchi personali sono esibiti come medaglie: la prova che mettere a nudo le crudeltà dell’occupazione serve davvero a qualcosa.

Poi ci sono attivisti come Guy Hirschfeld, che hanno poco da guadagnare a diventare un obiettivo. Nei mesi scorsi a volte si è avuta la sensazione che il quarantanovenne Hirschfeld fosse il nemico pubblico n. 1 per le autorità israeliane in Cisgiordania – e in particolare per i coloni. Hirschfeld, a lungo membro di Ta’ayush – un’associazione israelo-palestinese di volontari di base creata durante la seconda Intifada, ed uno dei pochi gruppi di israeliani che mettono sistematicamente a rischio la vita in solidarietà con i palestinesi – passa molte giornate ad accompagnare i pastori palestinesi nella Valle del Giordano, dove vengono regolarmente aggrediti dai coloni o dall’esercito.

Se l’orientamento ideologico di Hirschfeld lo ha reso un bersaglio, il suo atteggiamento sfrontato, spesso scioccante, non gioca a suo favore. Le sue abituali critiche ai soldati, che spesso sfociano in insulti personali, unite ad un’irriverenza provocatoria verso le norme convenzionali (si riferisce normalmente ai coloni ideologici negli avamposti come a “terroristi”) hanno fatto sì che venisse preso di mira. Da quando nel 2009 si è unito a Ta’ayush, Hirschfeld è stato arrestato o detenuto 60 o 70 volte – 25 solo quest’anno.

Hirschfeld è un facile bersaglio, ma il suo caso è esemplare di una più vasta repressione contro attivisti israeliani di base, che lottano accanto ai palestinesi nei territori occupati. Quella repressione si è manifestata due anni fa, quando un gruppo di estrema destra ha tentato di distruggere il veterano di Ta’ayush, e mentore di Hirschfeld, Ezra Nawi. Oggi che Nawi è decisamente meno attivo, Hirschfeld è diventato il principale obbiettivo della destra.

Invece di intimidirlo, le tattiche intimidatorie non hanno fatto che renderlo ancor più senza remore. Negli ultimi due anni i suoi followers su Facebook sono arrivati a 4.000, compresi alcuni dei soldati e dei poliziotti israeliani che lo affrontano sulle aride colline della Valle del Giordano. Lui tiene un’accurata documentazione di ogni sua interazione con le autorità e i coloni e, a parte tre arresti per possesso di marijuana (Hirschfeld è autorizzato a usare cannabis a scopo medico), le sue continue riprese video hanno fatto sì che i suoi persecutori non lo abbiano mai potuto accusare di aver commesso reati. È anche un modo efficace per mostrare al mondo ciò che succede ai palestinesi nel nord della Cisgiordania.

Nei mesi scorsi le autorità hanno incominciato a vessarlo in modi nuovi e con maggiore frequenza. Lo scorso mese i funzionari gli hanno revocato la patente e sequestrato l’automobile per possesso di marijuana (un giudice gli ha restituito la patente e la macchina ed ha redarguito la polizia per averlo preso di mira unicamente a causa delle sue idee politiche). Alcune settimane prima, Hirschfeld ha ricevuto una telefonata minacciosa da un agente perché aveva chiesto alle forze di sicurezza di non partecipare alla demolizione del villaggio di Khan al-Ahmar. All’inizio di dicembre è stato costretto a scusarsi pubblicamente dopo che un video lo aveva ripreso mentre arringava un soldato etiope-israeliano, nei confronti del quale è stato accusato di atteggiamento razzista.

“Voglio chiarire tutto”, ha detto Hirschfeld la settimana scorsa in un’intervista nel suo appartamento, che si trova in un moshav [comunità agricola cooperativa, ndtr.] appena ad ovest di Gerusalemme. “L’esercito mente. Io dico la verità. Se fosse il contrario, sarei stato mandato in prigione molto tempo fa. Ecco perché hanno bisogno di inventarsi le cose e trovare dei modi per fermarmi.”

L’esercito e i coloni la definiscono un criminale e un anarchico.

“Eppure vado ancora in giro liberamente. Com’è possibile? Non avete idea di quante volte sono stato arrestato ingiustamente da soldati o poliziotti. Durante gli interrogatori gli mostro le prove video che contraddicono il motivo del mio arresto – e mi lasciano andare.”

“Questo fa sì che alcuni soldati comincino a fare domande. Quando lo fanno – è l’ultima volta che li vedo. L’esercito si assicura che non ci siano contatti tra di noi da quel momento in poi. Non vogliono che facciano domande.”

Hirschfeld dice di non aver nulla da nascondere. Al contrario: dice che più è trasparente, meno ha di che preoccuparsi. “Credo nella legge e nell’ordine. Per questo faccio sempre in modo di non violare alcuna legge. Questo fa infuriare l’esercito.”

Non ha paura di essere il prossimo Ezra Nawi?

“Questo è il loro scopo. Ai loro occhi, io sono il nuovo Ezra.”

Hirschfeld ritiene che siano le sue relazioni con i palestinesi della Valle del Giordano, come anche il suo atteggiamento sfrontato, a fare infuriare soldati e poliziotti. Se si parla con lui abbastanza a lungo, si ha l’impressione che la solidarietà con i palestinesi sia solo uno dei suoi obiettivi. La quantità di tempo che impiega parlando – o urlando – ai membri delle forze di sicurezza israeliane trasmette un diverso messaggio: lui vuole tentare di educarli. “Io dico in faccia ai soldati la verità, che sono sfruttati e fregati. La verità dà fastidio.”

È stato il confronto con il soldato etiope all’inizio di questo mese che ha portato Hirschfeld a concludere che era il caso di cambiare atteggiamento. Nel video si vede Hirschfeld schernire il soldato che era in servizio in Cisgiordania, chiedendogli in modo retorico se scaricava la sua rabbia sui palestinesi a causa del razzismo che subiva in Israele. “Quell’esperienza mi ha insegnato che devo fare molta attenzione a come mi esprimo, ma la grande maggioranza dei soldati che portano avanti quotidianamente l’occupazione non provengono dai livelli più alti della società”, dice.

A volte lei esagera, forse è questo che fa arrabbiare tanta gente.

“Mi sono scusato per quel che ho detto, ma voglio chiarire una cosa: questa è la realtà in Israele. Qui non sono io quello che applica politiche razziste contro gli etiopi.”

“Voglio continuare a dimostrare a questi soldati che vengono usati da un sistema a cui non importa niente di loro. La realtà è che questi soldati sono burattini dei coloni radicali negli avamposti, che non sono niente altro che terroristi”, aggiunge. “La loro forma di terrorismo non ha bisogno di essere violenta; la loro semplice presenza è sufficiente per terrorizzare i palestinesi. Quando arriviamo noi, è più probabile che i coloni se ne vadano.”

La Valle del Giordano è spesso trascurata nelle discussioni sul destino dei territori occupati. La maggior parte degli israeliani non sa nemmeno che quella zona è sotto il governo militare -probabilmente in conseguenza del fatto che è scarsamente popolata, ha un numero relativamente piccolo di coloni, e dell’affermazione, tra i politici sionisti di entrambi gli schieramenti politici, che Israele non rinuncerà mai al controllo per la sicurezza su di essa.

Hirschfeld è convinto che la presenza di attivisti israeliani per i diritti umani nella Valle del Giordano non sia meno importante che nelle colline a sud di Hebron, dove Ta’ayush è attiva dai primi anni 2000. Nel 2016, dopo avere accompagnato per anni i palestinesi là, ha deciso che l’associazione doveva essere presente nella Valle del Giordano, una zona che lui dice stia subendo una pulizia etnica.

“Durante e dopo la guerra del 1967, Israele espulse decine di migliaia di palestinesi dall’area”, dice. “Oggi Israele sta cercando di rendere la vita insopportabile alla gente che è rimasta – per indurla ad andarsene.”

L’esercito israeliano distrugge sistematicamente le case ed altre strutture delle comunità di pastori palestinesi. Come dovunque nelle zone della Cisgiordania designate come area C, sotto pieno controllo militare israeliano [in base agli accordi di Oslo del 1993, ndtr.], è praticamente impossibile per i palestinesi ottenere permessi di costruzione. L’esercito ha dichiarato enormi appezzamenti di terreno “zone di addestramento”, quindi interdette ai pastori. I palestinesi sono privi di infrastrutture indispensabili come acqua corrente ed elettricità, mentre le vicine colonie sono collegate a tutti i servizi di base. Gli abitanti palestinesi subiscono arresti arbitrari e le loro attrezzature vengono spesso confiscate.

“Fanno di tutto per cacciarli via. Noi stiamo semplicemente cercando di aiutare queste comunità a sopravvivere.”

In che modo lo fate?

“Li accompagniamo ai loro terreni, li mettiamo in contatto con organizzazioni internazionali e per i diritti umani. Ci assicuriamo che l’esercito o i coloni non li disturbino quando portano le greggi al pascolo. Documentiamo tutto. Vogliamo dimostrare loro che esistono altri israeliani.”

“Ci sono anche situazioni più spinose. Per esempio, ci sono casi in cui l’esercito chiede a queste comunità di lasciare la zona in modo che (i soldati) possano fare addestramento. A volte lo fa senza dare il dovuto preavviso. Appena si presentano gli attivisti israeliani, tutto finisce. Dovete ricordare che l’occupazione è un’impresa criminale; nel momento in cui vi si fa luce, le autorità fanno molta più fatica a gestirla.”

Nonostante il suo disprezzo per le forze di sicurezza, Hirschfeld sa che spesso l’unico modo per garantire che le comunità palestinesi possano esercitare senza pericoli la pastorizia sta nel collaborare con l’esercito israeliano. “Non molto tempo fa ho ricevuto una telefonata da un comandante di battaglione che mi ha detto: ‘Stai facendo impazzire i miei soldati. Incontriamoci e parliamo.’ Allora ci siamo incontrati, dopodiché c’è stata una relativa tranquillità per alcuni mesi, almeno fino a quando si è insediato un nuovo comandante di divisione.”

I palestinesi che lavorano con Ta’ayush spesso si trovano a dover affrontare maggiori pressioni da parte delle autorità israeliane. Lei come si rapporta a ciò?

“Noi non ci rechiamo mai nelle comunità. Loro vengono da noi dopo che l’esercito, la polizia o i coloni iniziano ad angariarli. Cominciamo con qualche discorso di introduzione in cui io dico loro che le autorità cercheranno di convincerli a non lavorare con noi, specialmente all’inizio. Dico loro di dire all’esercito: ‘Noi saremmo felici che Ta’ayush non dovesse intervenire, ma abbiamo bisogno di un posto per pascolare.’ Noi diciamo loro che se riescono a superare quelle prime settimane, le molestie finiranno. A volte ci chiedono di smettere di intervenire. A volte insistono e alla fine hanno una possibilità di vincere. Al momento stiamo affrontando una situazione in cui le cose stanno peggiorando.”

Le aggressioni e le pressioni avvengono per lo più da parte dei coloni o delle autorità?

“Da tutti insieme. Recentemente abbiamo notato maggior collaborazione tra coloni, esercito e polizia. L’anno scorso è decisamente peggiorato.”

Le colonie israeliane nella Valle del Giordano risalgono agli anni ’70, ma recentemente vi sono più avamposti illegali popolati da coloni più giovani e più radicali.

“Attualmente vi sono circa 6.000 israeliani che vivono nella Valle del Giordano, per la maggior parte in colonie costruite negli anni ’70. Il governo intende incoraggiare la gente a spostarsi là per arrivare ad averne 10.000.”

“Non sappiamo chi sostiene finanziariamente questi avamposti (illegali persino in base alla legge israeliana), ma è chiaro che servono migliaia e migliaia di shekel [unità monetaria israeliana, corrispondente a un quarto di euro, ndtr.] per mantenerli e parte di quel denaro probabilmente proviene dai contribuenti israeliani. Scelgono la collocazione dell’avamposto in modo molto strategico, perché sanno che, dovunque decidano di stanziarsi, influenzeranno le comunità palestinesi intorno a loro.”

Lei li definisce terroristi. Perché sceglie questo termine?

“Impediscono agli allevatori di pascolare. Usano la violenza, uccidono il bestiame. Sono terroristi e l’esercito li protegge. Noi monitoriamo quegli avamposti fin dal giorno in cui sono stati creati.”

Ta’ayush è rimasta fedele ad un modello classico di organizzazione di base. Che cosa ha permesso al gruppo di rimanere attivo per così tanti anni?

“La dedizione, la fede nella giustezza della nostra strada e il fatto che siamo un po’ matti (ride). Siamo poche decine di persone che hanno fatto attivismo nelle colline del sud di Hebron e adesso nella Valle del Giordano. Lavoriamo entro i confini della legge e siamo decisi a proteggere la gente che ha bisogno del nostro aiuto. Se i palestinesi hanno bisogno di noi, molliamo tutto e andiamo.”

Vi sembra di essere in grado di spiegare la realtà che vedete in Cisgiordania all’israeliano medio?

“Io non ho più nessuna voglia di parlare agli israeliani. Loro non vogliono ascoltare quello che ho da dire. Non vogliono vederlo.”

Perché?

“Non sono capaci di fare i conti con la realtà. Gli israeliani non porranno fine all’occupazione. Probabilmente dovremo assistere a boicottaggi e pressioni internazionali perché essa finisca. In questo Paese c’è una mentalità da gregge e l’unico modo per superarla è attraverso la pressione dall’esterno.”

Le cose stanno andando peggio per gli attivisti di sinistra?

“Assolutamente. Oggi i coloni ideologici hanno preso il controllo dei corpi militari, stanno prendendo il controllo della polizia. Oggi sono loro che comandano, la loro ideologia è la legge del Paese.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La Knesset israeliana respinge la proposta di legge per “mantenere uguali diritti tra tutti i suoi cittadini”

Yossi Gurvitz

12 dicembre 2018 , Mondoweiss

La Knesset [parlamento israeliano, ntr.] ha respinto oggi, con un margine di 71 a 38, la Legge Fondamentale sulla Parità presentata dal parlamentare Mossi Raz (Meretz). Il testo del disegno di legge era chiaro e conciso: “Lo Stato di Israele manterrà diritti politici uguali tra tutti i suoi cittadini, senza alcuna differenza tra religioni, razza e sesso.” Questa è una citazione diretta della Dichiarazione di Indipendenza di Israele.

Dopo le dimissioni del ministro della Difesa Lieberman alcune settimane fa, la coalizione di governo ha un margine sottile come un rasoio, di un solo voto: controlla 61 voti su 120. Tuttavia, la coalizione ha beneficiato dell’appoggio di Yesh Atid, guidato da Yair Lapid, l’aspirante Trump israeliano. È improbabile che i suoi undici voti abbiano consegnato la vittoria all’opposizione, poiché molti membri del campo sionista sono usciti dalla sala prima del voto.

Nonostante una delle più grandi imposture politiche della storia – “Israele è l’unica democrazia in Medio Oriente” – la legge israeliana non ha mai riconosciuto l’uguaglianza tra i cittadini. Un tentativo di inserire una clausola di uguaglianza nella Legge Fondamentale sulla dignità umana e sulla libertà, fallì nel 1992 principalmente a causa dell’opposizione dei partiti religiosi. La Corte suprema israeliana, nella doppia funzione anche come Alta corte di giustizia del Paese, ha trovato – o, piuttosto, inventato – elementi di uguaglianza nelle Leggi fondamentali di Israele; fare questo spesso ha richiesto alla corte di fare ricorso alla clausola di parità della Dichiarazione di Indipendenza, sostenendo che fosse la volontà espressa dei Fondatori.

E così dopo il voto di oggi ci vorranno poteri straordinari di giocoleria giudiziaria. E la corte, che non è mai stata la grande e numinosa luce che i suoi sostenitori ritraggono (come denunzia, con esempi schiaccianti uno dopo l’altro, il bellissimo libro Il Muro e la Porta di Michael Sfard) ha sempre meno coraggio nell’affrontare il governo.

Dopo il rumore intorno alla Legge della Nazione Stato, quando i Drusi hanno riempito le strade per protestare – affermando, correttamente, che la legge li avrebbe resi cittadini di seconda classe – Netanyahu ha promesso loro che avrebbe in qualche modo concesso loro un’esenzione. Forse dichiarandoli ebrei onorari. Oggi, Netanyahu ha chiuso loro la porta dell’uguaglianza.

Lo ha fatto non solo con i voti della sua coalizione ultra-nazionalista, ma anche con quelli di Lapid, il cui partito sostiene di essere un partito di centro, mentre funziona come entratura drogata per l’estrema destra. E grazie ai voti assenti dei membri spaventati del Labour. Questi 71 voti rappresentano il nocciolo duro del sionismo pratico – il sionismo così com’è, non come potrebbe essere – che ha deciso che Israele sarà un paese ebraico e non democratico.

La Knesset ha dichiarato al 20% dei cittadini del paese che avrebbe richiesto loro lealtà, ma non gli avrebbe concesso l’uguaglianza. Godranno di una cittadinanza di seconda classe, dipendente dal capriccio della maggioranza ebraica. La prossima volta che il governo di Israele ti dirà che “condivide i valori” con gli Stati Uniti, ricorda qual è quel valore: i 3/5 delle persone.

Così vanno le cose.

(Traduz. di Luciana Galliano)




Forze israeliane uccidono un adolescente durante scontri in Cisigordania

Maureen Clare Murphy

14 dicembre 2018, Electronic Intifada

Forze israeliane hanno sparato uccidendo un adolescente nel campo di rifugiati di Jalazone mentre l’esercito ha usato il pugno di ferro nella zona di Ramallah nella Cisgiordania occupata dopo 24 ore di violenza in cui due soldati e quattro palestinesi sono rimasti uccisi.

L’adolescente ucciso è stato identificato come Mahmoud Yousif Nakhla. Il ministero della Sanità della Cisgiordania ha detto che aveva 16 anni, ma secondo alcuni mezzi di informazione ne aveva 18.

L’agenzia di notizie palestinese Ma’an News ha affermato che l’adolescente è stato colpito da una distanza inferiore ai 10 metri e che alcuni soldati hanno cercato di nascondere il suo corpo. Secondo Ma’an paramedici palestinesi sono riusciti a recuperare il corpo di Nakhla solo dopo aver discusso con i soldati per più di 30 minuti.

Alcuni filmati della scena montati insieme mostrano soldati che trascinano e poi trasportano Nakhla, dopo di che fanno la guardia intorno a lui. Il video non sembra mostrare soldati che prestino le prime cure all’adolescente.

Nell’ultimo filmato del montaggio delle immagini Nakhla appare ancora vivo quando i medici palestinesi lo mettono su una barella e lo caricano su un’ambulanza. I media informano che Nakhla era in condizioni critiche quando è arrivato all’ospedale, dove è stato infine dichiarato morto.

Il campo profughi di Jalazone

Il campo profughi di Jalazone, nella parte centrale della Cisgiordania, si trova a soli 200 metri dalla colonia di Beit El, costruita da Israele in violazione delle leggi internazionali, che vietano a una potenza occupante di trasferire la propria popolazione civile nei territori che occupa.

I soldati di guardia alla colonia, finanziata da David Friedman, l’ambasciatore USA in Israele, vessano costantemente i minori del campo.

Negli ultimi anni le forze israeliane che sorvegliano Beit El hanno ucciso e ferito gravemente parecchi ragazzini palestinesi del campo di Jalazone.

Lo scorso anno soldati di una torre di guardia nei pressi di Beit El hanno ferito a morte Jassim Nakhla, 15 anni, e Muhammad Khattab, 17 anni, sparando contro una macchina che trasportava quattro minori ed era ferma sulla strada. Al momento della pubblicazione di questo articolo non è chiaro se Jassim Nakhla fosse un parente diretto di Mahmoud Nakhla.

Venerdì ci sarebbero stati altri due feriti da proiettili veri durante scontri tra le forze israeliane e i palestinesi nei pressi di Ramallah.

Secondo alcune notizie, venerdì pomeriggio un ragazzo palestinese di 17 anni sarebbe stato ferito in modo non grave dopo essere stato colpito al volto da un proiettile d’acciaio ricoperto di gomma durante scontri nel nord della Cisgiordania.

Venerdì le forze israeliane hanno anche aperto il fuoco contro un’ambulanza palestinese ad al-Bireh, nei pressi di Ramallah, la sede dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania.

L’agenzia di notizie Ma’an ha informato che il soccorso medico stava portando un paziente all’ospedale quando i soldati israeliani del checkpoint di Beit El hanno aperto il fuoco contro l’ambulanza.

Sempre venerdì un soldato israeliano sarebbe stato gravemente ferito nell’avamposto militare nei pressi di Beit El dopo essere stato attaccato con una pietra e un coltello da un palestinese che poi è fuggito.

Secondo il “Palestine Prisoners Club” [Associazione dei Prigionieri della Palestina] anche gli uomini armati che hanno ucciso due soldati e ne hanno feriti altri due giovedì sono in fuga mentre l’esercito li ha cercati per il secondo giorno, e giovedì e nelle prime ore di venerdì ha arrestato più di 100 palestinesi in Cisgiordania.

La città di Ramallah è stata chiusa dall’esercito il giorno prima e lo è rimasta anche venerdì.

Secondo la Mezzaluna Rossa palestinese venerdì 25 palestinesi sono rimasti feriti durante scontri con le forze israeliane ad al-Bireh, vicino a Ramallah.

Violenza dell’Autorità Nazionale Palestinese

Nel contempo venerdì, che ha segnato il 31mo anniversario della fondazione del partito avversario, Hamas, le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese hanno aggredito dimostranti che protestavano contro i crimini israeliani e ne avrebbero feriti 5 e arrestati 15.

Il “coordinamento per la sicurezza” tra Israele e le forze dell’ANP gioca un ruolo fondamentale nel reprimere la resistenza palestinese contro l’occupazione militare israeliana.

Le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese si sono anche schierate per disperdere con la forza proteste seguite all’uccisione di Mahmoud Nakhla.

Le forze di sicurezza dell’ANP avrebbero anche arrestato il giornalista Abd al-Karim Museitaf mentre stava informando sulle proteste a Ramallah.

I coloni israeliani hanno continuato ad attaccare palestinesi sulle strade della Cisgiordania, compreso un padre che ha reagito con rabbia e frustrazione dopo che il veicolo su cui stava viaggiando con i suoi figli piccoli è stato colpito da una pietra.

L’uomo ha espresso il suo sdegno per il fatto che i suoi figli non hanno un futuro sotto l’occupazione e potrebbero essere uccisi in qualunque momento dagli israeliani.

Una madre palestinese è stata ferita a morte all’inizio di quest’anno in un attacco simile.

Giovedì notte un autista di autobus palestinese ha avuto il bulbo oculare rotto dopo essere stato picchiato da coloni che hanno usato tirapugni mentre stava lavorando nei pressi di Gerusalemme. Il fratello dell’uomo ha detto ai mezzi di comunicazione che l’autista, che lavora per una compagnia israeliana, “è stato aggredito in un incidente simile lo scorso anno, ma ha continuato a lavorare per mantenere la sua famiglia.”

Nel contempo venerdì almeno 60 manifestanti sono rimasti feriti da proiettili veri in quanto Israele ha continuato a utilizzare mezzi letali contro le dimostrazioni della Grande Marcia del Ritorno lungo il confine orientale di Gaza. Sette paramedici e un giornalista sarebbero rimasti feriti durante le proteste.

Finora quest’anno circa 300 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane.

Secondo il gruppo per i diritti umani “Al Mezan”, a Gaza, durante le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno, 175 palestinesi sono stati uccisi dal loro inizio il 30 marzo, “compresi 34 minori, una donna, due giornalisti, tre paramedici e sei disabili, tra cui un minore.”

Circa altri 13.000 sono stati feriti durante le proteste, di cui più di 7.200 da proiettili veri.

Quest’anno sono stati uccisi dai palestinesi quindici israeliani.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Calo senza precedenti del numero di ebrei americani nei viaggi del “Diritto al ritorno” in Israele

12 dicembre 2018, Middle East Monitor

Questo inverno si è registrato un evidente calo del numero di ebrei americani partecipanti ai viaggi del “Diritto al ritorno” in Israele. Lo ha riferito Haaretz, definendo “senza precedenti” “una riduzione di questa ampiezza, non correlata alle condizioni di sicurezza”.

Dalla sua istituzione nel 1999, l’Organizzazione del Diritto al ritorno ha portato 500.000 giovani ebrei da tutto il mondo in viaggi gratuiti in Israele.

Secondo il giornale, che cita alcuni operatori che gestiscono il viaggio-tipo del Diritto al ritorno, la riduzione varia dal 20 al 50% – a seconda dell’operatore- rispetto alla stagione invernale (che va da dicembre a marzo).

Una spiegazione di questo calo suggerita dagli operatori turistici è che i numeri “potrebbero riflettere il fatto ben documentato che i giovani ebrei americani stanno diventando sempre più indifferenti nei confronti di Israele e sempre meno interessati a visitare il Paese, nonostante i viaggi siano gratuiti. Haaretz ha osservato come “recenti studi hanno mostrato che gli ebrei nati negli anni 2000, che sono in massima parte progressisti, si sentano meno legati a Israele dei loro genitori e dei loro nonni perché percepiscono le politiche del Paese come antitetiche ai loro valori”.

In particolare -ha aggiunto il giornale- essi citano il trattamento, da parte di Israele, dei Palestinesi e dei richiedenti asilo.

Proprio la settimana scorsa, una petizione “firmata da 1500 studenti ebrei – che chiede che Diritto al ritorno includa nel suo itinerario relatori palestinesi in grado di affrontare la realtà dell’occupazione- è stata consegnata ai direttori della Hillel [organizzazione internazionale che si rivolge agli studenti universitari ebrei, ndtr.] in più di 30 campus in tutti gli Stati Uniti.”

L’esclusione di voci di Palestinesi e di cittadini palestinesi di Israele dal Diritto al ritorno contrasta con i nostri valori fondamentali.” ha detto la petizione.

In un viaggio in Israele, noi dovremmo sperimentare la storia e la cultura del Paese, ma dovremmo anche sapere dell’occupazione israeliana della Cisgiordania e ascoltare le voci di palestinesi che vivono sotto l’occupazione.”

(traduzione di Laura Forcella )




Da Marc Lamont Hill ai quaccheri, non è permesso criticare Israele

Jonathan Cook

Venerdì 7 dicembre 2018,Middle East Eye

Il licenziamento di Marc Lamont Hill da parte della CNN e l’indignazione nei confronti di Airbnb e dei quaccheri rivela una totale intolleranza verso le critiche

Per trent’anni il 29 novembre le Nazioni Unite hanno celebrato una giornata annuale di solidarietà con il popolo palestinese. Raramente questo avvenimento ha meritato anche solo un timido accenno da parte dei principali mezzi di comunicazione. Fino alla scorsa settimana.

Marc Lamont Hill, un illustre docente universitario statunitense e commentatore politico della CNN, si è ritrovato sommerso da uno tsunami di critiche per un discorso che ha tenuto alla sede ONU di New York. Ha chiesto la fine dello screditato modello di negoziati interminabili e futili di Oslo sul diritto dei palestinesi ad avere uno Stato – una strategia che è già ufficialmente arrivata a scadenza da due decenni.

Ha proposto di sviluppare al suo posto un nuovo modello di pace regionale basato su un solo Stato che offra uguali diritti a israeliani e palestinesi. Sotto una raffica di critiche secondo cui il suo discorso era antisemita, la CNN lo ha licenziato in tronco.

Il suo licenziamento ripropone recenti polemiche, ampiamente create ad arte per fronteggiare i tentativi da parte di alcune organizzazioni di prendere una posizione più concreta ed etica sul conflitto israelo-palestinese. Sia Airbnb, un sito per la prenotazione di alloggi, che il ramo britannico dei quaccheri, un insieme di movimenti religiosi cristiani, sono stati sommersi da grida di indignazione in risposta alle loro modeste iniziative. Lo scorso mese Airbnb ha annunciato che avrebbe tolto dal suo sito tutte le proprietà situate in Cisgiordania in colonie ebraiche illegali su territorio palestinese. Poco dopo, i quaccheri hanno dichiarato che si sarebbero rifiutati di investire in compagnie che traggano profitto dal furto israeliano di risorse palestinesi nei territori occupati.

Entrambe le iniziative sono pienamente in linea con le leggi internazionali, che vedono il trasferimento della popolazione di una potenza occupante in territori occupati – la fondazione di colonie – come un crimine di guerra. Di nuovo, come per Hill, le due organizzazioni sono state duramente colpite da reazioni ostili, comprese accuse di malanimo e antisemitismo, soprattutto da parte di importanti, presunti progressisti, rappresentanti di gruppi dirigenti ebraici negli USA e in Gran Bretagna.

Ciò che questi tre casi dimostrano è come l’antisemitismo si sia rapidamente esteso a comprendere persino forme estremamente limitate di critica contro Israele e di appoggio ai diritti dei palestinesi. Questa ridefinizione avviene nel momento in cui Israele è guidato dal governo più estremista ed ultranazionalista della sua storia.

Queste due tendenze sono collegate tra loro. I casi in questione rivelano anche la crescente aggressività di una politica identitaria emotiva che è stata ribaltata – depoliticizzata per schierarsi con il forte contro il debole.

Esseri umani inferiori

Delle tre “polemiche”, il discorso di Hill ha proposto la maggiore rottura con l’ortodossia occidentale su come risolvere il conflitto israelo-palestinese – o almeno un’ortodossia definita dagli accordi di Oslo a metà degli anni ’90. Quegli accordi disponevano che, se i palestinesi avessero atteso pazientemente, un giorno Israele avrebbe concesso loro uno Stato su meno di un quarto della loro patria. Circa 25 anni dopo, i palestinesi stanno ancora aspettando e nel frattempo la maggior parte del loro previsto Stato è stata divorata da colonie d’insediamento israeliane.

Nel suo discorso Hill ha messo la spoliazione dei palestinesi da parte del movimento sionista nella corretta prospettiva – sempre più riconosciuta da accademici ed esperti – in quanto progetto colonialista di insediamento.

Ha anche correttamente osservato che la possibilità di una soluzione dei due Stati, se mai sia stata realizzabile, è stata usurpata dalla determinazione israeliana a creare un solo Stato, che privilegia gli ebrei, su tutta la Palestina storica. Nella Grande Israele, i palestinesi sono destinati ad essere trattati come esseri umani inferiori. Hill osserva che la storia suggerisce che c’è solo una possibile soluzione etica a tali situazioni: la decolonizzazione, che riconosca la situazione esistente di uno Stato unico, ma insista su uguali diritti per israeliani e palestinesi.

Invece di sfidare Hill sulla logica inattaccabile del suo discorso, le critiche hanno fatto ricorso a dichiarazioni incendiarie. È stato accusato di utilizzare un linguaggio antisemita – quello utilizzato da Hamas – in riferimento ad un’azione internazionale per garantire “una Palestina libera dal fiume al mare.”

Con un doppio salto di falsa logica, Israele e i suoi sostenitori hanno sostenuto che Hamas utilizza la definizione [“dal fiume al mare”] per dichiarare la propria intenzione genocida di sterminare gli ebrei e che Hill ha ripetuto queste opinioni. Dani Dayan, console generale di Israele a New York, ha definito Hill “un razzista, un fanatico, un antisemita”, e ha paragonato le sue considerazioni a una “svastica dipinta di rosso”.

Ben Shapiro, un analista di Fox News, gli ha fatto eco, sostenendo che Hill ha chiesto “l’uccisione di tutti gli ebrei” nella regione. Allo stesso modo Seth Mandel, caporedattore del Washington Examiner [giornale e sito informativo conservatore, ndtr.] ha sostenuto che Hill avrebbe chiesto un “genocidio degli ebrei”.

Anche l’“Anti-Defamation League” [Lega contro la Diffamazione] (ADL), un’importante e teoricamente progressista organizzazione ebraica che sostiene di appoggiare un trattamento uguale per tutti i cittadini USA, ha stigmatizzato Hill sostenendo: “Queste richieste per [il territorio] ‘dal fiume al mare’ sono appelli a favore della fine dello Stato di Israele.”

Lo slogan del Likud “dal fiume al mare”

Di fatto l’espressione “dal fiume al mare” – in riferimento al territorio tra il fiume Giordano e il mare Mediterraneo – ha una lunga genealogia sia nel discorso israeliano che in quello palestinese. È solo un modo diffuso di riferirsi a una regione denominata un tempo Palestina storica.

Lungi dall’essere uno slogan di Hamas, è utilizzato da chiunque rifiuti la partizione della Palestina e sia a favore di uno Stato unico. Ciò include tutti i vari partiti dell’attuale governo israeliano.

In effetti lo statuto di fondazione del partito Likud del primo ministro Benjamin Netanyahu prevede esplicitamente un Grande Israele che neghi ai palestinesi qualunque speranza di uno Stato. Utilizza esattamente lo stesso linguaggio: “Tra il mare e il Giordano ci sarà solo la sovranità israeliana.”

Persino dopo che lo statuto è stato modificato nel 1999, in seguito agli accordi di Oslo, esso ha continuato a invocare un Grande Israele, dichiarando che “il fiume Giordano sarà il confine orientale permanente dello Stato di Israele.”

Il modello israeliano di apartheid

La differenza tra la posizione di Hamas e del governo israeliano da una parte e di Hill dall’altra è che Hill propone uno Stato unico che tratti tutti i suoi abitanti come uguali, e non che fornisca l’assetto per la dominazione di un gruppo religioso o etnico sull’altro.

In breve, a differenza di Netanyahu e dei dirigenti israeliani, Hill rifiuta un modello di occupazione permanente e di apartheid. A quanto pare ciò, secondo la CNN e l’ADL , è un delitto passibile di licenziamento.

Invece la CNN ha a lungo avuto tra i suoi collaboratori l’ex senatore USA Rick Santorum, benché costui abbia sostenuto che il territorio dal fiume al mare è “tutta terra israeliana” e usi un linguaggio che suggerisce il genocidio dei palestinesi.

L’assurdità degli attacchi contro Hill dovrebbe essere evidente quando si consideri che molti dei recenti attori principali del processo di pace – dall’ex-primo ministro israeliano Ehud Barak all’ex-segretario di Stato USA John Kerry – hanno avvertito che Israele sta per diventare un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi.

Fanno questa previsione proprio perché una serie di governi israeliani ha categoricamente rifiutato di ritirarsi dai territori occupati.

Dato che sotto Donald Trump gli USA hanno abbandonato ogni prospettiva di uno Stato palestinese – realizzabile o meno –, Hill ha semplicemente evidenziato che il re è nudo. Ha descritto una verità che nessuno che possa cambiare la terribile situazione attuale sembra pronto a prendere in considerazione.

Diritto a resistere

Hill è stato anche accusato di antisemitismo perché appoggia metodi di pressione su Israele per porre fine alla sua intransigenza, che ha tenuto i palestinesi sotto occupazione per più di mezzo secolo.

Hill ha messo in evidenza il diritto di un popolo occupato a resistere al proprio oppressore, un diritto che tutte le capitali occidentali hanno ignorato e ora invariabilmente definiscono come terrorismo, persino quando gli attacchi dei palestinesi sono contro soldati israeliani armati che attuano un’occupazione militare.

Ma lo stesso Hill ha sostenuto una resistenza diversa, gandhiana, non violenta e una solidarietà con i palestinesi nella forma del movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) – precisamente il tipo di proteste internazionali che contribuì alla decolonizzazione del Sudafrica.

Il boicottaggio trasformato in orco

Negli ultimi anni e sotto la pressione del governo israeliano, i sostenitori dell’occupazione israeliana e gli Stati occidentali hanno trasformato il BDS in orco. La sua fondatezza non viene più dibattuta. Non è presentato come strategia per porre fine all’occupazione e neppure come mezzo per fare pressione su Israele per rendere più liberale un’ideologia che sostiene la supremazia etnica della maggioranza ebraica sul quinto della popolazione israeliana che è palestinese.

Invece si dice che sia una prova di antisemitismo e sempre più, di conseguenza, di volontà genocida. Il fatto che il movimento BDS stia prendendo piede nelle università occidentali e sia stato accettato da un notevole numero di giovani ebrei antisionisti è semplicemente ignorato. Invece la tendenza crescente è di dichiararlo fuorilegge e di trattarlo come preludio al terrorismo.

Quindi il discorso di Hill è stato un attacco diretto ai confini silenziosi del dibattito pubblico, fermamente sorvegliati dai sostenitori di Israele e dagli Stati occidentali per evitare discussioni sensate su come porre fine all’occupazione israeliana e ribadire il diritto dei palestinesi alla dignità e all’autodeterminazione.

La ragione per cui è così importante per i sostenitori di Israele far tacere qualcuno come Hill è che fa riferimento a una palese contraddizione.

Il suo discorso si riferisce precisamente al fatto che il sionismo, l’ideologia dello Stato di Israele, è incompatibile con uguali diritti per i palestinesi nella loro patria storica. Implica che l’occupazione non sia un’aberrazione che ha bisogno di aggiustamenti, ma parte integrante della visione del movimento sionista di “ebraicizzare” la Palestina, della cancellazione della presenza palestinese in accordo con altri progetti di colonialismo di insediamento.

La prova che proteggere le aggressive ambizioni territoriali di Israele da esami più attenti sia il vero obiettivo delle critiche contro Hill – e non le preoccupazioni per una presunta ascesa di un “antisemitismo di sinistra” – è confermata dallo scalpore simile che ha circondato le iniziative veramente modeste prese dei quaccheri del Regno Unito e da Airbnb.

I quaccheri e gli investimenti etici

Alla fine dello scorso mese i quaccheri hanno annunciato che non investiranno più in nessuna impresa che tragga profitto dall’occupazione. L’iniziativa è parte della loro politica di “investimenti etici”, simile al loro rifiuto di investire nelle industrie degli armamenti e dei carburanti fossili.

I quaccheri rappresentano un piccolo gruppo di movimenti cristiani che ha storicamente aperto la strada in ogni epoca all’identificazione delle violazioni dell’etica.

Sono stati importanti nell’opposizione allo schiavismo negli USA e contro l’apartheid in Sudafrica, e hanno vinto il premio Nobel per la pace per il loro lavoro nel salvare ebrei e cristiani dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Ciò ha incluso l’organizzazione del” Kindertransport” [lett.: trasporto di bambini, ndtr.] che portò 10.000 minori, per lo più ebrei, in Gran Bretagna.

Quindi non c’è da stupirsi che prendano l’iniziativa – che altre chiese inglesi sono state troppo timorose ad adottare – di penalizzare le imprese che traggono profitto dalla sottomissione e oppressione dei palestinesi nei territori occupati.

In effetti, invece di criticare i quaccheri inglesi per il boicottaggio di queste industrie, ci si potrebbe giustamente stupire perché ci abbiano messo tanto tempo per agire. Dopotutto l’occupazione militare israeliana esiste – così come cresce la sua progenie maledetta, le colonie, – da più di cinquant’anni. Le sue terribili violazioni sono ben documentate.

Importare divisione

Ma neppure il fatto che i quaccheri abbiano più volte dimostrato di essere dalla parte giusta della storia ha scosso le certezze delle organizzazioni ebraiche britanniche nel denunciare la congregazione. La più importante è stato il Board of Deputies [Consiglio dei Deputati], che rivendica a gran voce per se stesso lo status di rappresentante della comunità ebraica in Gran Bretagna.

Proprio per questa ragione i suoi continui attacchi contro il leader del partito Laburista Jeremy Corbyn, accusato di antisemitismo, sono stati considerati attendibili dai mezzi di comunicazione britannici.

Ma il Board ha dimostrato la sua vera natura con la denuncia contro i quaccheri, insinuando che la loro posizione sia stata motivata non dall’etica ma dall’antisemitismo. Ignorando la lunga storia dei quaccheri nel prendere posizioni etiche, il nuovo presidente eletto Marie van der Zyl ha sostenuto che Israele è stato “preso espressamente di mira” e che la dirigenza dei quaccheri ha un approccio “ossessivo e con i paraocchi.”

Paradossalmente ha accusato i quaccheri di rifiutarsi di “affrontare i pregiudizi e di promuovere la pace nella regione.” Invece i leader dei quaccheri hanno “scelto di importare un conflitto divisivo nel nostro Paese.” Di fatto sono il Board e altre importanti organizzazioni ebraiche che hanno importato questa stessa divisione in Gran Bretagna e negli USA, legando esplicitamente la loro identità ebraica alle azioni del terribile colonialismo di insediamento israeliano. I quaccheri stanno mettendo in evidenza che in un conflitto in cui una parte, Israele, è notevolmente più forte, non ci può essere una soluzione finché la parte più forte non dovrà far fronte a una pressione concreta.

D’altra parte il Board vuole intimidire e mettere a tacere i quaccheri proprio perché Israele possa così continuare ad essere libero di opprimere i palestinesi e rubare la loro terra attraverso l’espansione delle colonie. Non sono i quaccheri che sono antisemiti. Sono le principali organizzazioni ebraiche come il Board of Deputies che sono indifferenti – o addirittura tifose– di fronte a decenni di brutalità israeliana verso i palestinesi.

Il ruolo di Airbnb nell’aiutare i coloni

Allo stesso modo Airbnb è stato bombardato da critiche quando ha promesso il passo ancora più limitato di togliere dal suo sito circa 200 proprietà che si trovano nelle colonie in Cisgiordania che violano le leggi internazionali. Anzi, alcune di queste sono costruite in violazione anche delle leggi israeliane, benché Israele non faccia assolutamente alcun tentativo di applicare tali leggi contro i coloni.

Fino a poco tempo fa era ampiamente ammesso che le colonie sono un ostacolo insuperabile nel risolvere il conflitto israelo-palestinese attraverso una soluzione dei due Stati. Oltretutto le colonie, era sottinteso, per garantirne la protezione ed espansione, richiedevano una violenza ancora maggiore contro la popolazione nativa palestinese.

In fin dei conti questa è proprio la ragione per cui le leggi internazionali vietano di trasferire la popolazione di una potenza occupante nei territori occupati.

Airbnb stava chiaramente aiutando questi coloni illegali, creando una maggiore convenienza economica per gli ebrei a vivere su terra palestinese rubata. Questa motivazione economica è stata fondamento secondario di un’azione legale presentata negli USA la scorsa settimana da famiglie di coloni che sostengono si tratti di “una discriminazione religiosa.”

In realtà la decisione dell’impresa di abbandonare la Cisgiordania è stata il minimo che ci si potesse aspettare da loro. Malgrado ciò, anche così hanno fatto in modo di escludere dalla cancellazione le colonie ebraiche nella Gerusalemme est occupata, benché costituiscano la maggior parte della popolazione di coloni ebrei che utilizzano Airbnb.

Il doppio standard dell’ADL

Nonostante la mossa di Airbnb sia stata debole e molto in ritardo, essa è stata ancora una volta definita antisemita da importanti organizzazioni ebraiche negli USA, non ultima l’ADL.

L’ADL sostiene di “garantire la giustizia e un trattamento equo per tutti i cittadini,” una delle ragioni per cui ha avuto un ruolo attivo nel lottare per i diritti civili dei neri americani nell’epoca delle leggi Jim Crow [regole che imponevano la segregazione razziale negli Stati del Sud, ndtr.]. Ma come molte altre importanti organizzazioni ebraiche, le sue azioni dimostrano che, quando si tratta di Israele, essa è in realtà guidata da un progetto tribale, etnico, piuttosto che universale e basato sui diritti umani.

Invece di accogliere positivamente l’azione di Airbnb, ancora una volta ha sfruttato e degradato il significato di antisemitismo per proteggere Israele dalla pressione affinché ponga fine ai continui soprusi nei confronti dei palestinesi e al furto delle loro risorse.

Ha accusato l’impresa di “doppio standard” per non aver applicato la stessa politica a “Cipro settentrionale, in Tibet, nella regione del Sahara occidentale e in altri territori in cui un popolo è stato espulso.” Come ha evidenziato il commentatore di Forward [storico giornale della comunità ebraica americana, ndtr.] Peter Beinart, questo argomento è quantomeno ipocrita: “Non è stato colpevole l’ADL di ‘doppio standard’ quando i suoi dirigenti hanno marciato per i diritti civili degli afroamericani ma non per gli indiani americani, i cui diritti civili non sono stati garantiti dalle leggi federali fino al 1968?”

Israele costantemente sotto esame

Ciò che questi tre casi evidenziano è che, proprio quando le pessime intenzioni di Israele verso i palestinesi sono diventate ancor più esplicite e trasparenti, lo spazio ufficialmente consentito per criticare Israele ed appoggiare la causa palestinese viene deliberatamente e aggressivamente ridotto.

In un’epoca di telefoni con la telecamera, notizie che scorrono per 24 ore e reti sociali, Israele si trova sottoposto come mai prima a un controllo accurato e quotidiano. La sua dipendenza di lunga data dall’appoggio colonialista, la sua fondazione basata sul peccato della pulizia etnica, il razzismo istituzionalizzato che la minoranza di cittadini palestinesi deve affrontare, la sfrontata brutalità e la violenza strutturale della sua occupazione durata 51 anni sono largamente comprese, più di quanto fosse possibile anche solo un decennio fa.

Ciò è avvenuto nello stesso momento in cui altre gravissime ingiustizie storiche – contro le donne, le persone di colore, i popoli indigeni e la comunità LGBT – sono state messe in evidenza con l’adozione di un nuovo tipo di politiche identitarie popolari.

Negare ciò che è lampante

Israele dovrebbe essere chiaramente messo dalla parte di chi sbaglia in questa storia, eppure i governi occidentali e le principali organizzazioni ebraiche lo stanno risolutamente aiutando a negare ciò che è lampante, ribaltando quindi la realtà.

Pochi anni fa solo i più fanatici sostenitori di Israele sostenevano apertamente che l’antisionismo equivalesse ad antisemitismo. Ora gli antisionisti e i movimenti di solidarietà come il BDS sono acriticamente identificati nel discorso generale non solo come antisemiti, ma anche implicitamente come forma di terrorismo contro gli ebrei.

Il diritto dei palestinesi alla dignità e alla liberazione dal dominio oppressivo di Israele è di nuovo subordinato al diritto di Israele a perseguire incontrastato il suo progetto di colonialismo di insediamento – di espellere e sostituirsi alla popolazione nativa palestinese.

Non solo questo, ma ogni forma di solidarietà con i palestinesi oppressi è identificata come antisemitismo, solo perché i dirigenti ebrei negli USA e in GB hanno un asso nella manica: il diritto superiore a identificarsi con il progetto di colonialismo di insediamento israeliano e a essere al riparo da ogni critica alla loro posizione.

In questa forma profondamente perversa di politica identitaria, i diritti dello Stato di Israele, che possiede armi nucleari, e dei suoi sostenitori all’estero sono diventati armi a danno dei diritti della debole, dispersa, colonizzata e marginalizzata comunità palestinese.

Per decenni i sostenitori di Israele hanno ammesso che Israele avrebbe potuto essere oggetto di quelle che hanno definito “critiche legittime”.

Ma le reazioni a Hill, ai quaccheri e ad Airbnb rivelano che in pratica non ci sono critiche a Israele che siano considerate legittime e che, quando si tratta delle sofferenze dei palestinesi, le uniche posizioni accettabili sono rassegnazione e silenzio.

Jonathan Cook, giornalista inglese che vive a Nazareth dal 2001, è autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. Ha vinto il “Martha Gellhorn Special Prize for Journalism”.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




« The Lobby – USA » : lezioni per il movimento di solidarietà con la Palestina

Ali Abunimah

7 dicembre 2018, Agence Média Palestine

Benché l’inchiesta sotto copertura di Al Jazeera sull’influenza israeliana negli Stati Uniti, «The Lobby – USA», si sia conclusa nell’ottobre 2017, non è mai stata resa pubblica. Anche se il direttore generale della rete ha attribuito il problema a questioni giuridiche non ancora risolte, molti, tra cui dei giornalisti che hanno preso parte all’elaborazione del documentario, hanno ipotizzato che si sia trattato di una censura del film da parte del Qatar – probabilmente in conseguenza di pressioni americane e del desiderio del Qatar di attirarsi le simpatie di Washington. (Un altro film di Al Jazeera sull’influenza israeliana nel Regno Unito – “The Lobby” – è stato diffuso nel gennaio 2017.)

Adesso la versione americana non è più tenuta nascosta: il mese scorso Electronic Intifada [giornale online con sede a Chicago, ndtr.], in collaborazione con la francese Orient XXI [rivista francese online, ndtr.] e il libanese Al-Akhbar [quotidiano in lingua araba con sede a Beirut, ndtr.], che hanno provveduto ai sottotitoli rispettivamente in francese e in arabo, grazie ad una fuga di notizie hanno reso pubblico il film. Il documentario in quattro parti mostra, tramite “Tony”, un giornalista sotto copertura, come il ministero per gli Affari Strategici di Israele lavora con organizzazioni americane come la “Fondazione per la difesa delle democrazie” e la “Coalizione di Israele nei campus universitari”, per promuovere il programma di Israele, soprattutto nella sua lotta contro il movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS).

Il film ha indicato per la prima volta una persona – il milionario israelo-americano Adam Milstein – come il fondatore e finanziatore di Canary Mission, il sito web che calunnia gli studenti e i docenti delle università che sostengono il BDS e i diritti dei palestinesi. “The Lobby – USA” ha anche rivelato che la “Coalizione Israele nei campus” lavora insieme a Canary Mission, utilizzando sistemi di sorveglianza su vasta scala che monitorano le reti sociali per trovare informazioni interessanti, come eventi a favore dei palestinesi, per impegnarsi in seguito a perseguire in modo mirato individui e gruppi.

«Il documentario ha confermato molte delle cose che sospettavamo», ha dichiarato Ali Abunimah, cofondatore di Electronic Intifada e consulente di Al-Shabaka [centro studi e ricerche palestinese indipendente con sede in California, ndtr.] sulle questioni politiche. “Fornisce prove assai convincenti del modo in cui il governo israeliano coordina il tentativo di denigrazione, sabotaggio e repressione delle persone che negli Stati Uniti esercitano i propri diritti costituzionali – e lo fa in collusione con individui ed organizzazioni che agiscono come agenti non dichiarati di una potenza straniera.”

Al-Shabaka ha incontrato di recente Abunimah per discutere delle implicazioni del film e degli insegnamenti che se ne possono trarre per il movimento di solidarietà con la Palestina.

La diffamazione mirata è un’importante strategia delle organizzazioni che lavorano con il governo israeliano. Che cosa ci insegna il film riguardo a questa tattica?

Uno degli episodi più inquietanti riguarda un professore dell’università Purdue, Bill Mullen, che è stato oggetto di false accuse di molestie sessuali da parte di siti anonimi. Anche se non è stato possibile collegare i siti web che accusano Mullen ad un’organizzazione o a un individuo specifici, siamo stati in grado di determinare che sono stati creati dalla stessa persona o gruppo di persone. La tattica era identica a quella che coloro che lavorano per organizzazioni di lobby filoisraeliane hanno descritto nel film, cioè la denigrazione di persone attraverso siti anonimi come strumento di una guerra psicologica che li distolga dalle loro azioni filo-palestinesi. E il carattere della denigrazione è strategico: Mullen è un professore maschio bianco di una certa età, il tipo di persona a cui si potrebbe attribuire questo genere di accuse. Hanno anche preso di mira una ragazza musulmana a Purdue, diffondendo menzogne che sostengono che beva, se la spassi e dorma con degli uomini. La volontà di queste organizzazioni di non fermarsi davanti a niente per mettere a tacere i sostenitori dei diritti dei palestinesi appare molto chiara.

Come hanno risposto i principali media alla fuga di notizie di «The Lobby – USA » ?

I principali media non ne hanno fatto parola. Trovo questo silenzio interessante. Indipendentemente dal contenuto del film, questa dovrebbe essere una notizia. Immaginate che si trattasse dell’influenza e della pressione della Russia, e che questo fosse trapelato. Sarebbe una notizia da prima pagina su tutti i media americani. I gruppi di pressione filoisraeliani sono rimasti decisamente in silenzio ed è la loro strategia migliore, perché non possono volgere il film a proprio vantaggio; la loro tattica migliore è mantenere la calma e sperare che tutto ciò scompaia. Ma la buona notizia è che c’è molta gente che lo vede e nelle prossime settimane, nei prossimi mesi, forse nei prossimi anni, altri milioni lo vedranno.

«Tony» si è infiltrato in parecchi gruppi di ebrei, quindi gli spettatori negli Stati Uniti non hanno altrettante informazioni sul ruolo del sionismo cristiano e del sostegno cristiano ad Israele.

Sarebbe sbagliato dedurre da questo film che alcuni gruppi ebrei hanno un potere sproporzionato; questo potrebbe condurre ad un’interpretazione scarsamente utile, o che dà credibilità alle teorie complottiste. Del resto è il modo in cui i gruppi cercano di farlo apparire; per esempio, hanno affermato che Al Jazeera ha fatto un film sulla “lobby ebraica”, benché il film non utilizzi mai questo linguaggio. Ciò che fanno le organizzazioni come il ‘Progetto Israele’ e la ‘Coalizione Israele nei campus’ è alimentare, favorire e trarre vantaggio da una storia che è attraente per i nazionalisti cristiani bianchi che costituiscono una parte importante della base del presidente Trump – e il sionismo cristiano è una pietra angolare di questa ideologia. Il potere delle organizzazioni che compaiono nel film dipende dal potere del movimento cristiano sionista, ben più importante nel Paese. La più ampia base di sostegno ad Israele negli Stati Uniti, dopo tutto, non sono gli ebrei, sono i cristiani.

Israele ed i suoi sostenitori di destra hanno cavalcato quest’onda bianca, nazionalista, antisemita, perché il loro interesse è rafforzare il sionismo cristiano ed assicurare un sostegno ad Israele a qualunque prezzo, anche la sicurezza degli ebrei. Il massacro compiuto da un suprematista bianco nella sinagoga dell’Albero della vita a Pittsburgh ne ha mostrato la pericolosità. Organizzazioni di destra, filoisraeliane, e lo stesso governo israeliano si sono schierati in difesa di Trump, affermando che è falso dire che lui o i suoi seguaci incitino a questa violenza. Dei gruppi di ebrei progressisti hanno giustamente espresso il proprio orrore rispetto al tipo di retorica che emerge dalla destra e alimenta la narrazione suprematista bianca.

In che modo questo accordo machiavellico tra Israele e i suoi sostenitori da una parte ed il nazionalismo bianco dall’altra influenza l’appoggio americano ad Israele?

Inchieste di opinione, come il recente sondaggio di YouGov per The Economist, mostrano che il sostegno americano ad Israele si consolida tra i maschi bianchi e le persone anziane e perde terreno tra gli altri gruppi di popolazione, come le persone di colore, le donne, i giovani. A questo proposito, la base di sostegno ad Israele si sovrappone alla base di sostegno a Trump e a quella del programma della destra. Quando la gente vede fino a che punto Trump e la sua banda sostengono Israele, si tira indietro. La strategia di Netanyahu di fare di Israele una questione di parte negli Stati Uniti favorisce Israele a breve termine, ma ne erode il sostegno sul lungo termine.

Dato il vostro lavoro in questo ambito e la diffusione dei due film, quali insegnamenti si possono trarre per il movimento di solidarietà con la Palestina?

Una lezione è che dobbiamo rafforzare il nostro movimento e renderlo ancora più incisivo e disciplinato. La gente deve prendere coscienza che esiste questo tentativo organizzato, enorme, di ostacolarla, sabotarla, denigrarla. Non dico questo per addossare delle colpe, ma solo per dire che abbiamo di fronte un avversario agguerrito e che è importante prenderne coscienza e saper prevedere le sue mosse.

Il recente licenziamento di un commentatore politico della CNN, Marc Lamont Hill, a causa del suo aperto sostegno ai diritti dei palestinesi lo dimostra. Questo licenziamento è stato il culmine di un’intensa campagna denigratoria da parte dei gruppi di lobby israeliani. Hill sta anche affrontando delle richieste di un suo licenziamento dal ruolo di insegnante all’università di Temple, anche se finora l’università ha difeso il suo diritto alla libertà di espressione. Questo episodio mette in luce i rischi reali che le persone negli Stati Uniti incontrano ancora, soprattutto nelle istituzioni, quando affrontano l’argomento tabù di Israele e dei suoi crimini contro il popolo palestinese.

Tuttavia al tempo stesso si possono fare dei passi avanti in ambiti che avrei pensato fossero impenetrabili. Un esempio è la campagna “Non è il modo di trattare i bambini”, che pone l’attenzione sulla detenzione militare israeliana dei bambini palestinesi. È un progetto di mobilitazione, pressione e organizzazione che è culminato in una mozione presentata dalla deputata Betty McCollum con lo scopo di vietare gli aiuti americani per la detenzione militare dei minori. Circa 30 membri del Congresso hanno votato a favore. Questa mozione non è comparsa da nessuna parte; era il risultato di una campagna ben meditata e ben sostenuta. Non c’è stato bisogno di milioni di persone per farla, solo di un gruppo di persone determinate. Nessuno dei promotori di questa mozione ha perso il suo seggio nelle recenti elezioni di metà mandato.

Che cosa, nel film, vi rende ottimisti per il futuro del movimento di solidarietà? 

Le organizzazioni lobbystiche filoisraeliane, anche se si percepiscono come potenti e molto « da agenti segreti», sembrano disperate. Ammettono – quando pensano che nessun altro stia ascoltando – che la loro impresa è difficile, che il sostegno bipartisan per Israele si sta sgretolando. C’è Jonathan Schanzer della “Fondazione per la difesa delle democrazie” che dice che l’ingiuria di antisemitismo contro i militanti filo palestinesi “non è più come una volta”, e Eric Gallagher del “Progetto Israele” che sottolinea che le fondamenta su cui si reggeva l’AIPAC si sgretolano. Vedono come andrà a finire. Denigrare gli individui è una tattica disperata e dimostra che queste organizzazioni non sono la risposta.

Inoltre, una simile strategia è potenzialmente forte finché la solidarietà con la Palestina viene percepita come una questione marginale. Le tattiche di intimidazione funzionano solo se gli individui possono essere identificati e presi di mira. Quando la solidarietà con la Palestina diventerà scontata, gli attacchi delle lobby filoisraeliane perderanno il loro potere. La lezione è di parlare con la voce più forte e di sostenersi reciprocamente più di prima. Più noi renderemo normale la critica ad Israele, più la loro tattica si indebolirà.

  Ali Abunimah

Ali Abunimah, consulente di Al-Shabaka per le questioni politiche, è autore di ‘One country: a bold proposal to end the israeli-palestinian impasse’ [Un unico Paese: una proposta audace per porre fine all’impasse israelo-palestinese] (2006), e cofondatore e direttore della pubblicazione molto nota ‘The Electronic Intifada’. Residente negli Stati Uniti, ha scritto centinaia di articoli e da oltre 20 anni è membro attivo del movimento per la giustizia in Palestina. Nel 2013 ha ricevuto una borsa di studio Lannan per la libertà culturale. Il suo libro più recente è ‘The battle for justice in Palestine’ [La battaglia per la giustizia in Palestina].

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

Inizio modulo

 




Spari mortali a Tulkarem: soldati israeliani feriscono mortalmente con un colpo alla testa da 80 metri di distanza Muhammad Habali (22 anni)

B’Tselem

11 dicembre

Martedì 4 dicembre 2018 verso mezzanotte circa 100 soldati israeliani hanno invaso la città di Tulkarem, in Cisgiordania. Alcuni di loro sono entrati in quattro case in zone diverse della città ed hanno fatto una breve perquisizione. Pochi giovani palestinesi si sono recati dove c’erano i soldati e gli hanno lanciato pietre. Le truppe hanno risposto con proiettili ricoperti di gomma e lacrimogeni.

A un certo punto durante la notte circa 30 soldati sono arrivati nella zona di via a-Nuzha, una strada che va da est a ovest nella parte occidentale di Tulkarem. Alcuni di loro si sono distribuiti lungo la strada a gruppi di tre o quattro. Gli altri sono entrati nel vicolo che si trova di fronte alla scuola superiore maschile “al-Fadiliyah” e hanno fatto irruzione in una casa. Più in là lungo la via, a circa 50 metri dai soldati, alcuni abitanti stavano fermi all’ingresso del ristorante a-Sabah e sulla strada adiacente. Uno di loro era Muhammad Habali, un ventiduenne del campo di rifugiati di Tulkarem con problemi mentali. Habali camminava avanti e indietro attraversando da un lato all’altro la strada.

Le riprese di quattro videocamere di sicurezza sistemate su tre diversi edifici lungo la strada mostrano che quella zona era assolutamente tranquilla e che non erano in corso scontri con i soldati.

https://www.btselem.org/video/20181211_killing_of_muhammad_habali_in_tulkarm#full

Presi insieme l’inchiesta di B’Tselem e questi video indicano che alle 2.25 del mattino un ufficiale e due soldati si sono diretti verso il ristorante a-Sabah e si sono fermati a circa 80 metri di distanza. Pochi secondi dopo i soldati hanno sparato quattro o cinque colpi verso i giovani che si trovavano davanti al ristorante e questi sono scappati. Habali, che nel video si vede mentre impugna un lungo bastone di legno – che aveva raccolto pochi minuti prima degli spari –, è stato l’ultimo ad andarsene. Dopo che aveva fatto alcuni passi, è stato colpito alla nuca da una distanza di circa 80 metri. Un altro proiettile ha colpito a una gamba M.H., di Tulkarem. Circa un minuto dopo gli spari, si vedono i tre soldati che si riuniscono agli altri nella zona e se ne vanno, senza fornire ad Habali o a M.H. una qualunque assistenza medica. Poi si sentono altri spari. Habali è stato portato all’ospedale a Tulkarem, dove è arrivato in stato di incoscienza, senza respirare e senza pulsazioni. I tentativi di rianimarlo sono falliti e poco dopo è stato dichiarato morto. M.H. è stato portato in ospedale su un’altra macchina e la radiografia ha mostrato un proiettile nella sua gamba sinistra.

K.A. (25 anni), un abitante di Tulkarem, si trovava nel vicolo di fronte al ristorante a-Sabah e stava guardando la scena. In una testimonianza rilasciata il 9 dicembre 2018 ha raccontato:

Stavo lì in piedi con altri ragazzi, compreso Muhammad Habali. Lo conoscevo. Aveva un bastone di legno in mano. Sapevamo che c’erano soldati nella zona. Poi, verso le 2.20, abbiamo visto tre soldati venire verso di noi. Abbiamo chiesto a Muhammad, che tutti chiamavano Za’atar, di tornare indietro perché avevamo paura per lui, di quello che sarebbe potuto succedere con i soldati lì. Ha fatto quello che gli abbiamo chiesto e ha cominciato ad andarsene. Improvvisamente abbiamo sentito uno sparo. I soldati che stavano venendo verso di noi avevano sparato.

Quando gli spari sono iniziati, ero all’inizio del vicolo di fronte al ristorante a-Sabah. Ci sono stati quattro o cinque spari, e uno di questi ha colpito Muhammad Habali. L’ho visto cadere in avanti e allora sono corso nel vicolo insieme ad altre persone. Poi i colpi sono cessati.

Sono corso fuori sulla strada ed ho gridato agli altri ragazzi di andare a prendere una macchina per poter portare via Habali. Sono stato il primo ad arrivare da lui. La sua testa stava sanguinando molto. L’ho preso per le spalle e l’ho trascinato per tre o quattro metri nel vicolo – facendo in modo che la sua testa non strisciasse per terra – perché avevo paura che i soldati gli sparassero di nuovo.

Dopo i colpi che hanno colpito Habali, ho sentito che sparavano in aria, ma non ho visto i soldati che hanno sparato.”

M.H., colpito a una gamba, ha ricordato in una testimonianza che ha concesso al ricercatore sul campo di B’Tselem Abulkarim Sadi il 4 dicembre:

Circa alle 2.30 ho visto tre soldati dirigersi a est dall’ingresso della scuola ‘al-Fadiliyah’ verso il posto in cui stavo con alcuni ragazzi. Hanno aperto il fuoco ed io ed altri ragazzi che stavano nei pressi dei caffè e del ristorante a-Sabah abbiamo cercato di scappare verso est.

Ho corso per circa 10 o 15 metri e improvvisamente ho sentito che qualcosa aveva colpito la mia gamba sinistra. Ho cominciato a sanguinare e ad avere una sensazione di formicolio. Ho cercato di nascondermi in una traversa per non essere colpito di nuovo. Ho chiamato alcuni ragazzi che erano lì vicino e uno di loro è arrivato e mi ha aiutato ad andare fino a una piazza vicina. Un uomo che stava passando con la sua macchina mi ha preso e portato al pronto soccorso dell’ospedale Thabet Thabet. Mi hanno fatto una radiografia alla gamba ed hanno trovato un foro d’entrata di un proiettile, ma non quello d’uscita, sotto il mio ginocchio sinistro. Ora sto aspettando in ospedale che mi tolgano la pallottola.

H.F., abitante di Tulkarem, è arrivato al ristorante per mangiare un boccone attorno alle 2.15. In una testimonianza rilasciata al ricercatore di B’Tselem Abdulkarim Sadi il 6 dicembre 2018 ha ricordato quello che è avvenuto dopo:

Stavo fuori sulla strada insieme ad altre persone a guardare i soldati. A un certo punto sono entrato al ristorante per ordinare del cibo. L’ho fatto andando fino all’ingresso quando ho sentito colpi di arma da fuoco. Mi sono girato e ho visto Muhammad Habali, noto come Za’atar, steso con la faccia a terra. Doveva essere stato colpito alla testa da un proiettile. L’ho filmato con il mio cellulare ed ho iniziato a chiamare gli altri ragazzi perché mi aiutassero a toglierlo dalla strada e a portarlo nel vicolo di fronte al ristorante, perché avevo paura che gli spari continuassero o che un’auto di passaggio potesse investirlo.

Quando ho osato fare un passo fuori, ho guardato verso i soldati che erano di fronte alla scuola “al-Fadiliyah” e li ho visti retrocedere verso piazza Khaduri. Ho sentito una serie di spari in aria. Dopo che i ragazzi si sono assicurati che i soldati se n’erano andati, hanno messo Muhammad Habali su una macchina. Sono andato in ospedale con lui, e in pochi minuti abbiamo raggiunto il pronto soccorso. I medici hanno cercato di dargli i primi soccorsi e di rianimarlo, ma era morto.

Dal posto in cui mi trovavo non ho visto nessun lancio di pietre prima che iniziassero a sparare. La gente stava solo lì in piedi a guardare i soldati che erano nei pressi della scuola “al-Fadiliyah”. Non so cosa stesse succedendo in altre parti della strada. Per quanto ne so là dei giovani potrebbero aver lanciato pietre o gridato contro i soldati.

Quando l’incidente è stato reso pubblico, l’esercito ha risposto sostenendo che nella zona “si erano determinati violenti disordini”, che “decine di palestinesi stavano lanciando pietre” e che i soldati “hanno risposto con mezzi per il controllo della folla e poi con proiettili veri.” Le riprese e le testimonianze dirette raccolte da B’Tselem da parte di persone che si trovavano nei pressi di Habali non mostrano assolutamente nessun indizio di una qualche manifestazione violenta, del lancio di pietre o dell’uso di mezzi per controllare la folla. Al contrario: si vedono i soldati camminare senza fretta, i palestinesi che parlano tra loro e poi i soldati che colpiscono a morte Habali alla testa da una distanza considerevole. Il colpo mortale non è stato preceduto da avvertimenti, non era giustificato e costituisce una violazione della legge.

I mezzi di comunicazione hanno anche informato che l’esercito ha iniziato un’inchiesta dell’Unità Investigativa della Polizia Militare (MPIU) riguardo a quanto avvenuto. Però, nonostante il suo nome, il “sistema di applicazione delle leggi militari” non fa indagini su avvenimenti in cui i soldati abbiano ucciso palestinesi, con l’obiettivo di nascondere la verità. Non lavora in modo da chiedere conto alla catena di comando responsabile delle uccisioni o per evitare che questi casi si ripetano. Il sistema intende principalmente salvare le apparenze e far tacere le critiche, in modo che i soldati possano continuare ad usare una forza letale senza pagare nessun prezzo per le loro azioni.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Esternalizzare l’occupazione

Rod Such

29 Novembre 2018, The Electronic Intifada

The Privatization of Israeli Security by Shir Hever, Pluto Press (2017)

[“La privatizzazione della sicurezza in Israele”] di Shir Hever, Pluto Press (2017)

“La privatizzazione della sicurezza in Israele” di Shir Hever è uno studio sullo sviluppo di imprese private militari e per la sicurezza iniziato in Israele negli anni ’90 e che continua tuttora. Questa tendenza presenta implicazioni per il futuro sia riguardo all’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza che al movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni.

Ricercatore di economia e autore di The Political Economy of Israel’s Occupation [“L’economia politica dell’occupazione israeliana] (2010), Hever si basa sul lavoro del politologo Neve Gordon, soprattutto sul libro di Gordon Israel’s Occupation (2008) [“L’occupazione israeliana”, Diabasis, Parma, 2016] e sulla più recente analisi del complesso militare industriale di Israele dell’antropologo Jeff Halper nel suo libro War Against the People (2015) [“La guerra contro il popolo”, Ed. Epoké, Novi Ligure, 2017]. Tuttavia, a differenza di questi studi, Hever si concentra in particolare sulla privatizzazione.

Tra il 1994 e il 2006 cinque grandi industrie belliche di proprietà del governo israeliano vennero vendute a imprenditori privati. Durante lo stesso periodo gli strateghi del governo svilupparono il concetto di “centro versus periferia”, in cui immaginavano che il governo conservasse il possesso delle funzioni fondamentali dell’esercito esternalizzando al contempo le responsabilità considerate marginali, come l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza.

Hever ammette che la sua conclusione più discutibile è che, in seguito agli accordi di Oslo del 1993, la dirigenza politica israeliana abbia esternalizzato all’Autorità Nazionale Palestinese l’occupazione, che è stata una funzione centrale dell’esercito israeliano. Riconosce la difficoltà di definire l’ANP come un’impresa privata. Oltretutto nota che l’esercito israeliano inizialmente si oppose all’esternalizzazione dell’occupazione all’ANP ed ha sistematicamente tentato di screditarla come alleato di Israele in materia di sicurezza.

Forze delegate

Hever sostiene che la creazione dell’Esercito del Libano del Sud nel 1979, poco dopo l’invasione israeliana del 1978 e la successiva occupazione del Libano meridionale, ha posto le basi per la successiva decisione di “esternalizzare l’occupazione” in Palestina. L’ELS era una forza delegata da Israele destinata a far apparire che la popolazione libanese appoggiasse l’occupazione israeliana. Israele addestrava, armava e pagava segretamente i soldati e gli ufficiali dell’ELS.

Benché Hever noti che l’ELS non era ufficialmente un’impresa, esso era come una compagnia privata militare e della sicurezza nella misura in cui i soldati al livello più basso dell’ELS “erano motivati dalle opportunità di lavoro piuttosto che dall’ideologia.”

L’ELS ha preparato la strada alla seconda fase dell’esternalizzazione della sicurezza da parte di Israele, rappresentata dalla creazione dell’ANP come parte degli accordi di Oslo e dall’assenso a dare all’ANP il ruolo limitato del mantenimento della sicurezza in alcune delle principali città della Cisgiordania.

Hever ammette che ci sono sostanziali differenze tra l’ELS e l’ANP, soprattutto che l’ELS mancava di legittimazione all’interno del Libano. Israele non ha finanziato l’ANP, né ha addestrato le forze della sicurezza palestinese; pertanto l’ANP ha goduto di un certo grado di legittimazione tra i palestinesi.

Tuttavia, essendo priva di potere sovrano, l’ANP è diventata inevitabilmente uno strumento dell’occupazione israeliana. Hever sostiene che questo era l’obiettivo originario dei dirigenti politici israeliani.

Però l’esercito israeliano non sopportava questa decisione politica ed ha resistito alla cessione della sua autorità su alcune città della Cisgiordania. Peccato che Hever non fornisca nessuna documentazione della sua affermazione, se non citando uno studio di Kobi Michael pubblicato in Militarism and Israeli Society [“Militarismo e società israeliana”] (2010).

Minacciato dall’esternalizzazione, scrive Hever, l’esercito israeliano “ha utilizzato la propria autorità professionale e le proprie capacità di produrre rapporti di intelligence per attaccare la legittimità dell’ANP agli occhi del governo israeliano ed esercitare pressioni sul governo israeliano per autorizzare l’uso di mezzi letali contro le forze dell’ANP.”

Di conseguenza l’ANP non è stata “completamente soggetta agli interessi israeliani e l’ANP ha perseguito politiche che configgevano direttamente con gli interessi israeliani,” scrive Hever, citando gli esempi dell’ANP che persegue il riconoscimento come Stato da parte delle Nazioni Unite e la sua decisione del 2009 di appoggiare il boicottaggio dei prodotti delle colonie israeliane.

Ciononostante Hever afferma che in Cisgiordania l’ANP svolge ancora per Israele funzioni relative alla sicurezza. E poiché l’ANP non ha né sovranità né deve dar conto al popolo palestinese, ha finito per giocare un ruolo di subappaltatore.

Occasionalmente questo ruolo è stato evidente, come quando prigionieri politici rilasciati da Israele sono finiti come prigionieri politici detenuti dall’ANP, portando al fatto che l’organizzazione sia vista da molti palestinesi come fornitrice di “servizi carcerari al governo di occupazione israeliano.”

Occupazione israelo-statunitense

Nel suo capitolo “Esternalizzare l’occupazione” Hever dimostra che l’esempio più ovvio della privatizzazione dell’occupazione è stato quando Israele ha contrattato compagnie private per gestire posti di blocco nella “zona di congiunzione”, le aree adiacenti alle colonie illegali israeliane o ai confini dell’armistizio del 1949 noti come Linea Verde.

Benché i posti di blocco a Gerusalemme continuino ad essere gestiti dalla polizia di frontiera israeliana e quelli provvisori – noti anche come “posti di blocco volanti” – continuino ad essere gestiti dall’esercito, la maggior parte dei checkpoint della zona di congiunzione è stata privatizzata.

La ragione di questa privatizzazione, afferma Hever, è proteggere il governo israeliano dalle critiche per ogni violazione dei diritti umani commessa ai posti di blocco privatizzati. Tuttavia questo argomento non è documentato da esempi.

Se questo è stato il motivo di Israele per evitare di essere considerato responsabile, lo scopo non è stato raggiunto. Molte delle più note uccisioni di palestinesi ai checkpoint continuano ad essere causate dai soldati e dalla polizia di frontiera e sono state rese pubbliche da osservatori di associazioni per i diritti umani.

Gli attivisti del BDS faranno tesoro delle informazioni nel capitolo “Dimensioni Globali della Privatizzazione della Sicurezza in Israele”, che include studi di caso dettagliati sui servizi di sicurezza privatizzati offerti a Israele da G4S e HP, entrambe imprese boicottate dal movimento.

Oltretutto Hever mostra come il crescente aiuto militare USA ad Israele abbia agito come incentivo per la privatizzazione.

La tendenza alla privatizzazione all’interno degli stessi USA, diventata lampante durante le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, ha influenzato anche i dirigenti israeliani.

Come gli USA, dove membri dell’esercito e dello spionaggio lasciano il lavoro nel settore statale e poi si spostano verso incarichi ben remunerati nelle imprese della sicurezza, la creazione di tali compagnie secondo Hever ha contribuito ad arricchire alti ufficiali dell’esercito israeliano che “hanno iniziato a passare in gran numero dagli enti della sicurezza statale a compagnie della sicurezza privata.”

La ricerca di Hever sottolinea la necessità di ulteriori campagne BDS che prendano di mira chi rende più facile l’occupazione e i finanziamenti da parte degli USA che arricchiscono così tante persone in quella che di fatto è l’occupazione congiunta israelo-statunitense della Palestina. Per gli attivisti che monitorano lo sviluppo di società che traggono profitti dall’occupazione il libro di Hever è una risorsa preziosa.

Rod Such è un ex curatore delle enciclopedie “World Book” ed “Encarta” [una cartacea e l’altra digitale, entrambe pubblicate negli USA, ndt.]. Vive a Portland, Oregon, ed è attivo nella campagna di Portland “liberi dall’occupazione”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




I neo-nazisti sostengono all’UE la falsa definizione israeliana di antisemitismo

Asa Winstanley

7 dicembre 2018, Electronic Intifada

Una nuova dichiarazione dell’Unione Europea potrebbe rendere più difficile criticare Israele come Stato razzista senza essere definiti antisemiti.

Giovedì a Bruxelles i politici hanno approvato il documento.

La mozione chiede a tutti i governi dell’UE di “approvare la definizione operativa non legalmente vincolante di antisemitismo utilizzata dall’International Holocaust Remembrance Alliance [organismo intergovernativo europeo che intende promuovere l’educazione sull’Olocausto, ndtr.].

La proposta, approvata dai ministri degli Interni degli Stati membri dell’UE, è già stata condannata da molti accademici israeliani e francesi.

La dichiarazione è stata promossa dall’Austria, il cui governo di coalizione comprende ministri membri di un partito neonazista.

L’assemblea dell’UE che giovedì ha formalmente adottato la dichiarazione includeva molti ministri di diversi partiti di destra, che istigano al fanatismo anti-ebraico.

Il Ministro degli Interni austriaco Herbert Kickl è uno di loro.

È del Partito della libertà, un’organizzazione anti-musulmana guidata dal neo-nazista Heinz-Christian Strache (ora vice-cancelliere dell’Austria).

Kickl è stato accusato per il suo linguaggio nazista a gennaio, quando ha chiesto alle autorità “di concentrare i richiedenti asilo in un unico posto”.

Il suo linguaggio sembrava deliberatamente calcolato per evocare l’Olocausto – sebbene questa volta prendesse di mira principalmente i richiedenti asilo musulmani.

Definizione falsa

Come da tempo riferisce The Electronic Intifada, la “definizione operativa” dell’IHRA è stata concepita come potente mezzo, spalleggiato da Israele, per soffocare le critiche nei confronti dello Stato e dei suoi crimini contro i palestinesi.

Israele e i suoi gruppi lobbysti hanno esercitato un’enorme pressione in tutta Europa negli ultimi due anni affinché fosse adottata.

La “definizione operativa” è stata condannata da numerosi sindacati palestinesi e da altri gruppi della società civile, nonché dalla Palestine Solidarity Campaign nel Regno Unito e dai sindacati di tutta Europa.

Come ha riferito la scorsa settimana il sito web EUobserver, le ambasciate israeliane di solito “fanno riferimento alla definizione dell’IHRA” quando presentano proteste diplomatiche formali contro le critiche dell’UE ai crimini di guerra israeliani in Palestina. Tali critiche sono inefficaci, considerando che l’UE spesso consente i crimini di Israele.

Nel Regno Unito, gruppi lobbysti israeliani hanno fatto pressione con successo sul partito laburista all’opposizione perché la “definizione operativa” fosse adottata.

Ma anche questo non è stato sufficiente, e un grande polverone mediatico è stato sollevato sull’iniziale riluttanza del partito ad adottare tutti gli “esempi” allegati che il documento dell’IHRA afferma essere antisemiti.

Molti di questi 11 “esempi” menzionano Israele.

Si giunge persino a definire il semplice atto di affermare il fatto che Israele è uno Stato istituzionalmente razzista – ” un’impresa razzista” nel linguaggio IHRA – come un esempio di “antisemitismo”.

L’Austria ha già approvato la “definizione operativa” e, come riportato da EUobserver, il governo di coalizione ha spinto per l’appoggio alla dichiarazione.

Neo-nazisti austriaci

L’Austria, che attualmente detiene la presidenza di turno dell’UE, il mese scorso ha invitato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a prendere parte a una conferenza a Vienna.

La dichiarazione approvata dall’UE è stata redatta durante quella conferenza, dedicata all’antisionismo. Netanyahu aveva accettato di partecipare alla conferenza ma poi ha cancellato la propria partecipazione a causa dell’instabilità del suo governo di coalizione.

L’Austria voleva una versione ancora più radicale, e una delle prime bozze invitava gli Stati dell’UE ad adottare la definizione “includendo esempi illustrativi”. Questo è stato recepito nella dichiarazione finale, che descrive la definizione come “non legalmente vincolante”.

Questa frase ipocrita compare nello stesso documento IHRA. In realtà però, la definizione viene costantemente utilizzata per vigilare sui discorsi critici nei confronti di Israele.

Gli eventi di quest’anno all’interno del Partito laburista britannico lo illustrano perfettamente.

Come parte della “crisi” sul presunto antisemitismo, costruita da anni ad arte dai critici del leader laburista Jeremy Corbyn, i gruppi di pressione israeliani hanno chiesto al partito di adottare anche gli 11 “esempi” di antisemitismo dell’IHRA.

A settembre l’esecutivo nazionale del partito laburista si è arreso alle pressioni. Ma ciò ha solo rafforzato i cacciatori di streghe, che continuano a cercare di punire i politici eletti che si mostrino critici nei confronti di Israele.

L’isteria dei media sulla “crisi” ha portato a una caccia alle streghe che ha preso di mira attivisti laburisti di sinistra e filo-palestinesi.

L’isteria si è estesa dal partito laburista alla società nel suo complesso.

La “definizione operativa” viene ora utilizzata per licenziare le persone.

Sospeso per aver definito razzista Israele

Paul Jonson, impiegato del consiglio comunale di Dudley, vicino a Birmingham, è stato sospeso dal suo lavoro in ottobre per aver contribuito ad organizzare una protesta contro Ian Austin, parlamentare eletto in quel comune – esplicito promotore della propaganda israeliana.

Qual è stato il “crimine” di Jonson? Pubblicare su Facebook la frase “Stiamo con la Palestina, Israele è un’impresa razzista” nella sua promozione della protesta.

Attivista nei locali gruppi di solidarietà con i palestinesi, Jonson ha dichiarato a The Electronic Intifada che i capi del consiglio comunale hanno citato la “definizione operativa” dell’IHRA – che l’autorità locale ha adottato – come giustificazione per la sua sospensione.

In ottobre l’amministratore delegato del consiglio comunale ha detto ad un giornale locale che Jonson era sotto inchiesta.

Jonson ha dichiarato a The Electronic Intifada di aver saputo della sua “sospensione” solo dal titolo del giornale.

Fino ad allora i dirigenti gli avevano assicurato che non era sospeso, che stavano solo facendo dei colloqui preliminari in merito ad un reclamo ricevuto da Campagna Contro l’Antisemitismo – un gruppo di propaganda antipalestinese dal nome ingannevole.

Riferisce che fino ad allora gli era stato detto solo di “astenersi dal lavoro fino a nuovo avviso”.

Ma lo stesso giorno in cui la notizia è trapelata alla stampa, i manager lo hanno invitato a un altro incontro e lo hanno sospeso.

Jonson sospetta che ci sia Ian Austin dietro la protesta. Il parlamentare è patrono del gruppo che ha presentato il reclamo.

I sindacalisti locali hanno chiesto il reintegro di Jonson, come ha fatto il gruppo di sinistra Jewish Voice for Labour [Voce Ebraica del partito laburista, gruppo di membri ebrei del partito che si oppongono alla campagna di diffamazione orchestrata dai laburisti filo-israeliani, ndtr.].

Una petizione che chiede il suo reintegro ha già raccolto oltre 600 firme.

(traduzione di Luciana Galliano)




I palestinesi lottano contro lo sfratto dalle case di Silwan, Gerusalemme est

Mersiha Gadzo

7 dicembre 2018 Al Jazeera

L’occupazione di Batan al-Hawa a Gerusalemme Est da parte dei coloni è “il più esteso processo di espulsione” degli ultimi anni

Batan al-Hawa, Gerusalemme est occupata – Nel corso degli anni, i coloni israeliani hanno continuato ad offrire milioni di dollari a Zuheir Rajabi e ai suoi vicini per le loro modeste case accatastate sul pendio di Silwan a Batan al-Hawa, un quartiere nella Gerusalemme Est occupata.

Le case si trovano in quello che è noto come il Bacino Storico della Città Vecchia, in prossimità della sacra Moschea di Al-Aqsa, ciò che le rende possedimenti preziosi.

Un colono ebreo una volta offrì a Rajabi un assegno in bianco per la sua casa, chiedendogli di scrivere qualsiasi cifra volesse, da 3 a 30 milioni di shekel (da 800.000 a 8 milioni di dollari).

Ma per Rajabi e gli 700 altri residenti del quartiere – ora minacciati di sfratto – nessuna somma di denaro basterebbe a farli lasciare le loro case.

“Pensavano che in 30 giorni le persone avrebbero abbandonato le loro case”, ha detto Rajabi, dal terrazzo sul tetto del Centro di Comunità del quartiere, che domina la valle.

“La gente qui è molto semplice; hanno una cosa sola, l’onore. Non ci importa di vivere in povertà o in un ambiente malsano, non possiamo sopportare di perdere il nostro onore”, ha detto Rajabi, che è anche il portavoce del comitato Batan al-Hawa.

Gran parte dei residenti di Batan al-Hawa vi abita da oltre 70 anni, molti dopo essere stati espulsi dalle loro ataviche case quando si stava costituendo Israele.

I residenti ora affrontano un’altra espulsione, da parte dell’associazione di coloni ebrei Ateret Cohanim, che sta cercando di lanciare quella che Ir Amim, una ONG israeliana, definisce come la più grande occupazione di quartieri palestinesi a Gerusalemme Est da quando Israele l’ha occupata nella guerra arabo-israeliana del 1967.

La giudaizzazione di Gerusalemme Est

Ateret Cohanim, che ha come obiettivo la giudaizzazione di Gerusalemme est, sostiene che le case di Batan al-Hawa furono costruite su un terreno di proprietà del ‘Jewish Benvenisti Trust’ [cartello religioso ebraico, ndtr.] nel XIX secolo, che lo adibiva all’insediamento in zona degli ebrei yemeniti.

Nel 2002, il Ministero della Giustizia israeliano ha emesso un atto di proprietà del terreno, circa 5,5 dunams (1,4 acri), a favore del Benvenisti Trust, senza informarne i residenti. A quel punto, Ateret Cohanim ha assunto il controllo del Trust.

L’atto è stato utilizzato come fondamento per gli avvisi di sfratto ai residenti, come quello ricevuto dalla famiglia Rajabi nel 2015, che disponeva che le sette famiglie che abitano in quella casa se ne andassero.

Nel giugno di quest’anno, oltre un centinaio di residenti palestinesi in lotta contro gli sfratti ha presentato una petizione, sostenendo che il Trust Benvenisti possedeva solo gli edifici e non il terreno su cui si trovavano.

Dal momento che da allora gli edifici originali erano stati distrutti e ricostruiti, il Trust non poteva rivendicare la terra, sostenevano i residenti.

Lo stesso mese, il governo israeliano ha ammesso che il Ministero della Giustizia non aveva indagato sul Trust prima di emettere l’atto di proprietà.

Tuttavia, il mese scorso l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha respinto l’appello dei residenti di annullare la decisione del 2002, consentendo in effetti ad Ateret Cohanim di proseguire con l’occupazione di Batan al-Hawa.

L’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha detto che la sentenza della Corte ha spianato la via alla pulizia etnica dei palestinesi di Silwan.

“La sentenza dimostra, ancora una volta, che l’Alta Corte israeliana dà il suo beneplacito a quasi tutte le violazioni dei diritti dei palestinesi da parte delle autorità israeliane”.

La “piovra” di Gerusalemme est

Ad oggi, Ateret Cohanim ha sfrattato 17 famiglie e possiede sei edifici nell’area.

Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari, il 45% di tutte le famiglie palestinesi minacciate di sfratto a Gerusalemme Est vive a Batan al-Hawa.

B’Tselem lo ha definito “il più esteso processo di espulsione” in città degli ultimi anni.

Rajabi ha detto che suo padre ha comprato il loro appezzamento di terra nel 1966 dopo che erano stati espulsi dai quartieri ebraici della Città Vecchia, senza alcun risarcimento.

“Sono nato qui, sono cresciuto qui, mi sono sposato qui, ho vissuto qui tutta la mia vita”, ha detto.

Amareggiato dalla sentenza della Corte, ha detto che la società israeliana si sta spostando verso la “estrema destra”.

Rajabi paragona Ateret Cohanim a una piovra i cui tentacoli stanno attanagliando la Città Vecchia e Silwan.

“Ateret Cohanim è un’organizzazione potente, non solo politicamente. Ha anche soldi”, ha detto Rajabi.

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, l’organizzazione usa diverse tattiche per costringere i palestinesi a vendere le loro proprietà, tra cui minacce a carattere sessuale e ricatti di vario tipo – come minacciare di rendere pubblica una vendita concordata in segreto così che il venditore, temendo per la propria vita, sarebbe costretto ad abbassare significativamente il prezzo per evitare l’ira della propria comunità.

[L’ONG israeliana] Ir Amim dice che il governo israeliano è stato direttamente coinvolto nell’agevolare gli insediamenti privati illegali nella città vecchia e nei quartieri palestinesi circostanti.

“Il governo ha agito tramite il Custode Generale e il Registro dei Trust (entrambi sotto il Ministero della Giustizia) per agevolare il sequestro di Batan al-Hawa, aumentando il budget per la sicurezza del 119 % per il periodo 2009-2016 in modo da garantire la protezione degli estremisti ebrei che si insediano nel cuore dei quartieri palestinesi a Gerusalemme Est”, ha affermato la ONG.

Consolidare il controllo ebraico

Secondo un rapporto di Ir Amim, l’obiettivo politico di gruppi come Ateret Cohanim è consolidare il controllo ebraico a Gerusalemme Est e contrastare la soluzione dei due stati.

Yacoub al-Rajabi, membro del comitato di Batan al-Hawa, ha affermato che i coloni stanno cercando di acquistare la sua casa dal 2003.

Un anno e mezzo fa, Ateret Cohanim gli ha offerto 2 milioni di dollari per vendere la sua casa e abbandonare la causa in tribunale, ma senza risultato.

“Se ci sfrattano dalle nostre case, costruiremo tende vicino alle case, non andremo da nessuna parte, ci rifiutiamo di andare altrove, rifiutiamo di essere trasferiti [per la terza volta]”, ha detto Yacoub.

Ha descritto il quartiere come una prigione dove i residenti si sentono intrappolati e sono regolarmente attaccati da coloni, polizia, esercito e istituzioni governative israeliane per spingerli ad andarsene.

Dice che, ad ogni festa ebraica, i residenti non possono lasciare le loro case e per ordine militare i bambini non possono andare a scuola.

“Non abbiamo altro che la nostra risolutezza. Cercheremo di difendere noi stessi e i nostri diritti … Abbiamo la proprietà di questa terra ed è nostra per legge”, ha detto.

L’ufficio di Rajabi si trova nel Centro della comunità costruito per i bambini – l’unico posto nel quartiere dove i bambini possano giocare in sicurezza. In un angolo del suo ufficio, uno schermo mostra i filmati dalle telecamere a circuito chiuso installate all’esterno.

Dall’altra parte della strada, una decina di telecamere controllano la sua casa. Le ha fatte installare per documentare gli attacchi dei coloni o delle autorità israeliane, dopo che suo padre è morto per l’inalazione di gas lacrimogeni sparati dalla polizia.

Rajabi afferma che le telecamere sono state estremamente utili a smentire le false affermazioni dei coloni e delle autorità israeliane.

Il destino delle loro case è ora presso la Pretura di Gerusalemme, che deve decidere se il Trust Benvenisti possiede solo gli edifici o anche la terra.

Ma Yacoub ha detto che c’è poca speranza che la giustizia possa essere difesa dai tribunali israeliani.

“Persino durante l’udienza la stessa giudice ha detto che ci sono alcuni problemi legali nel verdetto del tribunale”, ha detto Yacoub, aggiungendo che i residenti cercheranno con tutti i mezzi di rimanere nelle loro case, anche portando il caso alla Corte Penale Internazionale.

“Questa [sentenza del tribunale] non ci spezzerà, continueremo a lottare per i nostri diritti, continueremo a lottare per la nostra proprietà sulla terra e sulle nostre case”, ha affermato.

(traduzione di Luciana Galliano)