“Questo è ‘art-washing’”: attivisti israeliani protestano contro l’Eurovision

Megan Giovannetti da Tel Aviv, Israele

17 maggio 2019 – Middle East Eye

Decisi a denunciare la situazione dell’occupazione e dell’assedio di Gaza da parte di Israele, un gruppo di israeliani ha organizzato manifestazioni quotidiane

Questa settimana centinaia di persone hanno affollato ogni giorno il villaggio Eurovision sulla spiaggia di Tel Aviv, godendosi i festeggiamenti che hanno circondato la competizione musicale che quest’anno è arrivata in Israele.

Ma, mentre l’ambiente potrebbe sembrare benevolo e accogliente, un gruppo di attivisti israeliani ha preso l’impegno di svelare un lato molto diverso della competizione canora Eurovision 2019.

Shahaf Weinstein, 26 anni, ha detto a Middle East Eye: “Siamo qui perché Eurovision, e naturalmente Eurovillage, sono una grande e lucrativa attività che aiuta Israele a promuovere i suoi cosiddetti valori di luogo giovane, alla moda, multiculturale, ospitale con gli LGBTQ, quando di fatto è uno Stato dell’apartheid.”

Questo è pink-washing, art-washing [utilizzo di tematiche omosessuali o artistiche per trasmettere un’immagine positiva, ndtr.], e noi siamo contrari.”

Eurovision 2019: perché Israele ospita la competizione musicale?

Il nome della competizione canora suggerisce che si tratti di una questione europea, quindi perché Israele, un Paese mediorientale, può parteciparvi e perché ospita la gara di quest’anno?

L’ammissione all’Eurovision non è basata sulla geografia ma sul fatto di essere membro della “European Broadcasting Union [Unione Europea di Radiodiffusione] (EBU), che organizza l’evento, e l’“Israeli Public Broadcasting Corporation” [Compagnia Pubblica Israeliana di Radiodiffusione] ne fa parte.

Tecnicamente ciò significa che anche Paesi arabi come Egitto, Giordania, Libano, Siria, Marocco e Tunisia hanno i titoli per parteciparvi.

In effetti il Marocco vi partecipò nel 1980, dopo che Israele si era ritirato perché la data della competizione si sovrapponeva alla festa della Pasqua ebraica.

Israele è entrato per la prima volta nell’Eurovision nel 1973 ed ha vinto la competizione quattro volte, compreso lo scorso anno, quando Netta Barzilai ha vinto in Portogallo. In precedenza ha ospitato l’evento nel 1979 e nel 1999, tutte e due le volte a Gerusalemme.

Weinstein, ebrea israeliana, fa parte di un collettivo di attivisti di vari gruppi che ha organizzato proteste quotidiane contro il fatto che Israele ospiti l’Eurovision e la positiva ribalta internazionale che ne deriva.

Mercoledì, mentre israeliani e turisti stavano festeggiando su una spiaggia del villaggio del festival Eurovision, i palestinesi stavano commemorando il 71° anniversario della Nakba – la “catastrofe” in arabo – quando centinaia di migliaia [di palestinesi] vennero cacciati dalle proprie case nel conflitto che ha accompagnato la creazione di Israele.

Lo stesso giorno Weinstein e altri 12 attivisti hanno messo in scena presso la sede [dell’Eurovision] “die-in” [una protesta in cui i partecipanti simulano la propria morte, ndtr.], manifestando contro la Nakba e la continua uccisione di manifestanti palestinesi nella Striscia di Gaza assediata.

Indossando magliette con la scritta sulla schiena “Gaza libera”, gli attivisti hanno recitato le morti stendendosi per terra. Avevano appeso al collo foto di palestinesi uccisi durante la violenta repressione da parte di Israele contro il movimento di protesta della Grande Marcia del Ritorno di Gaza durata un anno.

Essendo stata rafforzata la sicurezza in previsione di queste proteste, a cinque attivisti è stato negato l’ingresso nel villaggio Eurovision e sono stati tolti i documenti di identità. Altri otto sono riusciti a superare i controlli di sicurezza e a mettere in pratica il piano.

Sono ebreo. Ho il privilegio di essere qui e protestare mentre ai palestinesi di Gaza che protestano viene sparato,” ha detto Omer Shamir, un ventiseienne di Tel Aviv.

Io rischio molto poco, ho la ‘democrazia’ – quella democrazia che stanno cercando di mostrare al mondo,” ha detto Shamir. “Ce l’ho in quanto ebreo, ma i palestinesi non ce l’hanno.”

In quanto israeliani siamo responsabili”

La sera prima, durante un corteo a Tel Aviv, Nimrod Flashenberg ha esposto le proprie ragioni per scendere in piazza.

Penso che noi, in quanto israeliani, lo Stato di Israele, siamo responsabili delle sofferenze (dei palestinesi),” ha detto Flachenberg, 28 anni, a MEE. “Quindi dobbiamo dire ‘basta con l’occupazione e con l’assedio.’”

La manifestazione di martedì notte ha coinciso di proposito con il giorno in cui la cantante israeliana Netta Barzilai ha vinto l’Eurovision 2018, consentendo che Israele ospitasse la gara canora di quest’anno.

È stato anche il primo anniversario dello spostamento ufficiale dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, mentre in contemporanea 68 palestinesi venivano colpiti a morte durante le proteste.

Il corteo ha coinvolto 300 sostenitori, e Flashenberg ha denunciato una mancanza di sentimenti contrari all’occupazione tra gli ebrei israeliani come una ragione della scarsa partecipazione.

In Israele la popolazione ebraica sta andando verso destra,” ha detto. “Si sta chiudendo. Sta chiudendo gli occhi alle sofferenze dei palestinesi attorno a noi.”

Weinstein crede che la conquista della politica israeliana da parte della destra sia “parte del processo internazionale di neo-fascistizzazione che stiamo vedendo avvenire in molti Paesi, compresi gli USA (e) l’Europa.

In molti posti la popolazione sta diventando più rancorosa, più islamofoba e più razzista. La gente sta ascoltando sempre meno.”

Secondo Weinstein “l’occupazione continua a causa della complicità della comunità internazionale,” che secondo lei è la ragione per cui la protesta e le azioni di boicottaggio dell’Eurovision in Israele sono importanti nella lotta per i diritti dei palestinesi.

In effetti Israele sta lavorante senza sosta con la sua hasbara,” ha detto Flashenberg, utilizzando il termine ebraico per intendere la diffusione di informazioni positive [riguardo a Israele], “ed ha avuto molto successo nel suo tentativo di mettere da parte la questione palestinese nell’agenda internazionale.”

Secondo Flashenberg ospitare l’Eurovisione è solo un esempio del tentativo di Israele di normalizzare la sua occupazione delle terre palestinesi.

Shamir, che ha manifestato martedì notte, è d’accordo.

Ospitare la competizione dell’Eurovision vuol dire pretendere che (Israele) sia un normale Paese europeo, progressista e ospitale per i gay,” ha detto.

Per cui l’unico modo per svegliarsi da questo inganno è la pressione internazionale, che avviene nella forma delle sanzioni e del boicottaggio.”

Ma Shamir non pensa che le persone attorno a lui siano sufficientemente “scosse” da far scoppiare la bolla del comfort.

In genere direi che Tel Aviv è considerata piuttosto di sinistra, ma molti dei miei amici, i miei coetanei, non vengonoa protestare,” ha detto.

Il fatto che siano occupanti è ancora molto comodo (per loro), il che penso ci riporti al punto del perché sia importante ora sottolineare che (Israele) non è un posto normale.”

Dovrebbero divertirsi”

Le proteste giornaliere nel periodo che ha preceduto la finale dell’Eurovisione di sabato sono un modo per cercare di ricordare alla gente la realtà della vita dei palestinesi sotto occupazione israeliana, ha affermato Shamir. Anche se si tratta solo di “un pizzicotto”.

Lunedì Shamir e altri attivisti hanno proiettato inquietanti immagini da Gaza su un grande schermo davanti al principale palco del villaggio dell’Eurovision. Lentamente una folla danzante sotto di esso ha iniziato a capire quello che stavano vedendo, e le cose hanno preso una piega violenta.

È stato tutto un po’ ironico per Shamir, che ha detto che l’Eurovision doveva mostrare quanto pacifico e “normale” sia Israele. Invece “alcune persone ci hanno picchiati, hanno rubato il nostro proiettore e sono scappati,” ha detto.

Weinstein ha sperimentato una reazione simile mercoledì.

Subito dopo il “die-in”, circa una decina di israeliani l’ha circondata, gridando insulti volgari e facendo rumore per impedirle di essere intervistata dalla stampa.

Dicevano che i miei genitori dovevano vergognarsi di me – cosa che non fanno,” dice Weinstein. “Dicevano che dovrei vivere ad Ashkelon (una città del sud vicino a Gaza), e che dovrei andare a Gaza. Mi hanno detto un sacco di orribili insulti.”

Nani, una donna di Ashkelon, ha detto a MEE di essersi unita alla folla che gridava contro Weinstein perché la giovane attivista è israeliana e considera questo comportamento come un tradimento.

Sta contro e non con Israele perché vuole liberare la Palestina,” ha detto Nani.

Ruthie, 42 anni, pensa che sia una vergogna che attivisti siano andati al villaggio dell’Eurovision per protestare.

Sono venuti qui, quindi dovrebbero divertirsi,” ha affermato.

Ruthie è arrivata dal lontano confine del deserto meridionale per godersi dei festeggiamenti e crede che ospitare la competizione musicale sia una buona cosa per l’immagine di Israele.

Penso che stiano protestando perché non conoscono davvero la situazione e quello che succede realmente,” ha detto Ruthie a MEE. “Come puoi vedere qui va tutto bene, questa è la situazione qui. Impariamo a conviverci.

Siamo venuti per divertirci e accogliamo chiunque perché venga in Israele e si diverta. È un posto veramente sicuro.”

Flashenberg vive vicino al villaggio Eurovision e sente ogni notte i gioiosi festeggiamenti, che trova fastidiosi.

C’è qualcosa in questa accettazione ed esaltazione internazionale riguardo a Israele che ovviamente è, agli occhi dei palestinesi e di chi vuole la pace, sconvolgente,” ha detto.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Facebook censura un’importante operazione di fake news condotta da Israele

Ali Abunimah

17 maggio 2019, Electronic Intifada

Facebook ha scoperto un’importante campagna israeliana per influenzare politici ed elezioni in tutti i Paesi del mondo.

Giovedì il gigante dei social media ha annunciato di aver rimosso 265 accounts di Facebook e Instagram con un seguito complessivo di 2.8 milioni di utenti, per coinvolgimento in “comportamento fraudolento coordinato.”

“Questa attività ha avuto origine in Israele e si è concentrata su Nigeria, Senegal, Togo, Angola, Niger e Tunisia, oltre ad alcune azioni in America Latina e sudest asiatico”, ha affermato Facebook.

Coloro che agiscono in rete si sono falsamente “presentati come soggetti locali, incluse agenzie di notizie locali, e hanno pubblicato presunte indiscrezioni su politici” e su “elezioni in diversi Paesi, opinioni di candidati e critiche di oppositori politici.”

Facebook ha detto che “i soggetti che stanno dietro a questa rete hanno cercato di nascondere la propria identità”, ma l’indagine della compagnia li ha collegati a “un ente commerciale israeliano” chiamato Gruppo Archimede.

Venezuela connection?

Il Gruppo Archimede è una società di consulenza con sede a Tel Aviv, che si vanta sul suo sito web di “condurre campagne vincenti in tutto il mondo”, ma fornisce poche altre informazioni su di sé.

Interessante notare che uno dei filmati sul suo sito web mostra una manifestazione in Venezuela, suggerendo un segreto ruolo di Israele nel tentativo a guida statunitense di rovesciare il governo del presidente Nicolas Maduro.

Il Times of Israel [quotidiano israeliano on-line in lingua inglese, ndtr.] ha individuato l’amministratore delegato del Gruppo Archimede in Elinadav Heymann, citando la società svizzera di consulenza ‘Negotiations.CH’ che lo annovera tra i suoi consulenti.

“Una biografia pubblicata sul sito web della compagnia lo descrive come ex direttore del gruppo lobbistico ‘Amici europei di Israele’, con sede a Buxelles, ex consulente politico del parlamento israeliano ed ex agente segreto delle forze aeree israeliane.”

Comunque dopo quell’articolo ‘Negotiations.CH’ sembra aver rimosso la biografia di Heymann dal suo sito web.

Sembra che Heymann stia cercando di far perdere le proprie tracce.

Su internet è ancora visibile una copia archiviata della sua biografia.

All’inizio di questo decennio Heymann era uno dei principali lobbisti a favore di Israele a Bruxelles. L’organizzazione che guidava, ‘Amici Europei di Israele’, era un’alleanza interpartitica di politici ostili ai diritti dei palestinesi.

Al momento apparentemente inattiva, ‘Amici europei di Israele’ è stata modellata sull’esempio di gruppi analoghi attivi a Washington. Heymann ha anche lavorato come consulente di politica estera per rappresentanti del partito conservatore britannico nel Parlamento Europeo.

Più grande del Russiagate

Secondo Facebook la campagna di condizionamento israeliana dal 2012 ha speso più di 800.000 dollari per annunci falsi – otto volte di più di quanto si dice abbia speso un’azienda gigante russa per inserzioni sui social media, soprattutto dopo le elezioni USA del 2016, un intervento insignificante che i politici USA e gli opinionisti favorevoli a Hillary Clinton hanno pubblicizzato come paragonabile all’attacco a Pearl Harbour.

Eppure è certo che l’ultima prova dell’inganno ideato da Israele attirerà una minima parte dell’attenzione suscitata dalla sterile ricerca di una presunta interferenza e collusione russa che ha ossessionato i media e le elite politiche americane negli ultimi tre anni.

Ma questa operazione è ben lungi dall’essere solo un tentativo nascosto di Israele di influenzare e sabotare le politiche e l’attivismo in tutto il mondo.

L’annuncio di Facebook di aver fermato l’operazione di ‘Archimede’ giunge solo pochi giorni dopo che WhatsApp, di proprietà di Facebook, ha rivelato che aveva identificato una grave falla nel sistema che l’azienda di spionaggio israeliano NSO Group stava usando per installare programmi spia sugli smartphone delle persone.

Il documentario riservato di Al Jazeera sulla lobby israeliana, reso pubblico l’anno scorso da The Electronic Intifada nonostante gli sforzi per censurarlo, ha rivelato che diversi gruppi lobbistici con sede negli USA stanno lavorando in segreto in coordinamento con il Ministero israeliano per gli Affari Strategici per spiare e monitorare cittadini statunitensi impegnati nel sostegno di cause legittime.

Il documentario ha mostrato che uno di quei gruppi lobbistici, ‘Il Progetto Israele’, ha condotto un’importante campagna segreta di condizionamento su Facebook.

Ma, in contrasto con la sua pronta azione di interruzione dell’operazione Archimede, Facebook ha detto a The Electronic Intifada di non aver riscontrato alcuna violazione nel modo in cui ‘Il Progetto Israele’ stava utilizzando segretamente la sua piattaforma.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La Germania ha votato per definire antisemita il BDS

Middle East Monitor

17 maggio 2019

Oggi la Germania ha votato per definire antisemita il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), diventando il primo importante parlamento europeo a farlo.

Questo pomeriggio il parlamento tedesco – noto come Bundestag – ha votato per accettare una mozione che definisce antisemita il BDS. Questa mozione, “Resistere al movimento BDS – lottare contro l’antisemitismo”, è stata promossa dai due maggiori partiti del Bundestag – l’Unione Cristiano Democratica della cancelliera Angela Merkel e il Partito Socialdemocratico – così come dal Partito Verde e dal Partito Liberal-Democratico.

Il testo della mozione afferma che “il Bundestag tedesco è risoluto nel suo impegno a condannare e combattere l’antisemitismo in tutte le sue forme,” sottolineando che si opporrà “a chiunque diffami le persone per la loro identità ebraica (…) [e] metta in discussione il diritto dello Stato ebraico e democratico di Israele ad esistere o il diritto di Israele a difendersi.”

In particolare, sul movimento BDS la mozione sostiene che “gli argomenti, le caratteristiche e i metodi del movimento BDS sono antisemiti.” Come prova di ciò la mozione sostiene che gli adesivi “non comprare” del BDS – che intendono identificare prodotti di origine israeliana in modo che i consumatori possano evitare di comprarli – “risvegliano reminiscenze dello slogan nazista “non comprare dagli ebrei” e “ricordano il periodo più orribile della storia tedesca.”

Benché la mozione non sia vincolante, la sua importanza sia all’interno della Germania che in tutta Europa sarà probabilmente notevole.

In termini concreti, il giornale tedesco “Algemeiner” [giornale tedesco filoisraeliano on line, ndtr.] spiega che l’odierna approvazione della mozione “impedirà a ‘organizzazioni che si esprimono in termini antisemiti o mettono in dubbio il diritto all’esistenza di Israele’ l’uso di ‘locali e strutture che dipendono dall’amministrazione del Bunderstag’”. Imporrà anche al Bundestag di “non finanziare organizzazioni che non rispettino il diritto di Israele ad esistere.”

A livello europeo la mozione potrebbe rappresentare un precedente perché altri parlamenti definiscano antisemita il BDS. Negli scorsi anni parecchi Paesi europei hanno cercato di reprimere il movimento, in particolare la Spagna che, su richiesta di Israele, ha trascinato in tribunale una serie di consigli comunali perché avevano annunciato che avrebbero appoggiato un boicottaggio.

L’iniziativa potrebbe anche aprire la strada al fatto che altri gruppi vengano etichettati come antisemiti per le loro critiche contro Israele. Sostenendo che “lo Stato di Israele può anche essere inteso come una collettività ebraica,” l’approvazione della mozione restringerà ulteriormente lo spazio di critica al governo israeliano e alle sue politiche confondendolo con la retorica antisemita.

Oggi il Bundestag ha anche votato su altre due risoluzioni contro il BDS: la prima che è stata presentata dal [partito di] estrema destra “Alternativa per la Germania” (AfD), in cui si chiede che il governo tedesco metta fuorilegge il BDS nel suo complesso, mentre la seconda, proposta dal partito di sinistra “Die Linke” [La Sinistra], chiede al governo di condannare “l’antisemitismo all’interno del” movimento BDS.

Quella dell’AfD [Alternative fur Deutchland, ndtr.], chiede che il governo tedesco “proibisca” il BDS e “riconosca l’ingiustizia commessa contro i coloni ebrei in Palestina dall’appello arabo per il boicottaggio, in cooperazione e coordinamento con il regime nazista.”

Denuncia la distinzione tra Israele e le sue colonie illegali, compresa l’etichettatura da parte dell’Unione Europea (UE) dei prodotti israeliani delle colonie in Cisgiordania. Sostiene che, con l’etichettatura dei prodotti come tali, l’UE ha creato un “riconoscimento economico di fatto” di uno Stato palestinese indipendente “senza che questo sia stato in alcun modo legittimato.”

Al momento della stesura di questo articolo il risultato del voto sulla risoluzione proposta dall’AfD non è ancora stato reso noto [non è stata approvata, ndtr.]. La mozione della Linke, comunque, è stata respinta.

La Germania ha condotto a lungo una campagna contro il BDS. “Algemeiner” ha informato che, lo scorso mese, membri del Bundestag hanno chiesto che “la banca tedesca GLS – la banca di investimenti etici più antica del Paese – chiuda i conti di un gruppo a favore del BDS che si chiama ‘Voce Ebraica’”.

In marzo tre attivisti BDS sono stati processati per accuse inventate di violazione di domicilio e aggressione dopo che avevano protestato contro la politica israeliana Aliza Lavie [del partito di centro Yesh Atid, ndtr.], che nel 2017 aveva parlato all’università Humboldt di Berlino. Gli Humboldt3, come sono stati definiti – l’attivista palestinese Majid Abusalama e gli attivisti israeliani Ronnie Barkan e Stavit Sinai – hanno affermato che “lanciare accuse penali contro attivisti è una pratica comune e costante in Germania.”

Hanno aggiunto: “Tuttavia noi siamo determinati a utilizzare il nostro relativo privilegio per capovolgere la situazione e denunciare Israele in tribunale. Non ci preoccupiamo delle conseguenze per noi, ma dell’opportunità di sfidare Israele e la complicità della Germania in crimini contro l’umanità.”

La maggior parte di questa repressione avviene su richiesta di Israele, con cui la Germania ha storicamente mantenuto stretti rapporti. A ottobre il ministro israeliano per Gerusalemme, Ze’ev Elkin, ha partecipato a una conferenza nella capitale belga Bruxelles nel tentativo di convincere i partiti politici europei a definire antisemita il BDS. L’iniziativa è stata vista come un’escalation della guerra di Israele contro il BDS, per cui avrebbe stanziato un fondo di guerra di 72 milioni di dollari e che ha visto numerose campagne di calunnia lanciate contro attivisti affiliati al movimento.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Nakba nella Valle del Giordano: le esercitazioni dell’esercito israeliano gettano il caos tra i palestinesi

Shatha Hammad da Khirbet Humsa al-Fawqa, Cisgiordania occupata

15 maggio 2019 – Middle East Eye

Cacciati dalle loro case perché Israele testa le proprie armi, la commemorazione di quest’anno degli avvenimenti del 1948 vede nuove espulsioni.

A Khirbet Humsa al-Fawqa, sul pavimento di una tenda abitata giacciono giocattoli sparpagliati. Per i bambini del villaggio i giochi sono finiti quando l’esercito israeliano ha dichiarato l’area zona militare proibita e nelle prime ore di domenica ha obbligato la comunità palestinese ad andarsene dalle proprie abitazioni.

In seguito a un ordine di espulsione di quattro giorni prima, ai 98 abitanti è stato vietato l’accesso alle loro abitazioni per tre giorni. L’esercito li ha informati che tra maggio e giugno verranno cacciati 12 volte per tre giorni ciascuna.

Ai palestinesi è stato detto che le abitazioni sarebbero state nel raggio di gittata dei proiettili dei carri armati poiché l’esercito israeliano utilizza l’area per effettuare esercitazioni militari.

La mattina dell’espulsione Mohammed Sulaiman Abu Qabbash, padre di cinque figli, li ha accompagnati in una vicina comunità ed è corso indietro nel tentativo di proteggere le tende e le pecore. Il trentacinquenne è andato avanti e indietro controllando ansiosamente la zona. Ha aspettato che i soldati israeliani arrivassero e lo buttassero fuori.

Nei prossimi tre giorni dormiremo all’aperto. Non abbiamo alternative, non possiamo opporci a una potenza simile,” ha detto Mohammed a Middle East Eye.

Se la comunità rifiuta di andarsene quando gli viene ordinato rischia l’espulsione con la forza, l’esproprio delle greggi e una multa retroattiva.

In base alle leggi internazionali cacciare dalle proprie case gli abitanti di un territorio occupato è considerato trasferimento forzato di persone protette, il che costituisce un crimine di guerra. Ma gli abitanti delle comunità palestinesi nella Valle del Giordano conoscono bene tali devastanti politiche israeliane.

La valle, una striscia di terra fertile che corre a ovest lungo il fiume Giordano, è abitata da circa 65.000 palestinesi.

Dal 1967, quando l’esercito israeliano ha occupato la Cisgiordania, Israele ha trasferito almeno 11.000 suoi cittadini ebrei nella Valle del Giordano. Alcune delle colonie in cui vivono sono state interamente costruite su terre palestinesi di proprietà privata.

Da quando è iniziata l’occupazione, circa il 46% della Valle del Giordano è stata dichiarata dall’esercito israeliano zona militare proibita.

Circa 6.200 palestinesi risiedono in 38 comunità in luoghi destinati a usi militari e devono ottenere un permesso delle autorità israeliane per entrare e vivere nelle loro comunità.

In violazione del diritto internazionale l’esercito israeliano non solo scaccia regolarmente in modo temporaneo le comunità, ma a volte demolisce anche case e infrastrutture.

Oltre a subire espulsioni temporanee, le famiglie palestinesi che vi vivono devono affrontare una miriade di limitazioni nell’accesso a risorse e servizi. Nel contempo la confisca di terre da parte di Israele ha espropriato risorse naturali a favore dei coloni.

Vivere la Nakba

Il digiuno durante l’espulsione e le temperature che hanno raggiunto i 40° hanno raddoppiato le difficoltà di questo Ramadan, dice Khadija Abu Qabbash mentre si prepara ad andarsene. La donna incinta, madre di cinque figli, la mattina ha lavato a mano una pila di vestiti. La sua figlia di 15 anni, Deema, l’ha aiutata a stendere in gran fretta i panni ad asciugare prima che arrivassero i soldati israeliani.

Questa mattina abbiamo accompagnato fuori i bambini ed ora la macchina è tornata a prenderci,” dice a MEE mentre piange. “Non potrò cucinare niente per iftar [pasto serale che interrompe il digiuno del Ramadan, ndtr.]. Ci dovremo accontentare di cibo in scatola.”

Le forze israeliane espellono regolarmente le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa. Tuttavia in genere le espulsioni avvengono durante il giorno, mentre agli abitanti è consentito tornare alla sera.

Non so se stanno effettivamente facendo esercitazioni militari. A volte ci cacciano e non fanno niente. Intendono obbligarci ad andarcene per sempre,” dice Khadija.

Le attività di Israele nella Valle del Giordano sono state ben documentate da gruppi per i diritti umani e da Ong locali, che affermano che l’obiettivo di queste misure è cacciare i palestinesi e soffocare il loro sviluppo nella zona.

Essendo assolutamente strategica, i politici israeliani, anche prima delle recenti affermazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu riguardo ai suoi progetti di annettere zone della Cisgiordania occupata, hanno chiarito in varie occasioni che la Valle del Giordano rimarrà in ogni caso sotto il loro controllo.

Nel 2013 negoziati di pace sono stati rifiutati da Israele quando è stata ipotizzaa la cessione di parte del controllo sulla valle.

Commentando l’evacuazione di Khirbet Humsa al-Fawqa di domenica, Walid Assaf, capo della Commissione Nazionale per la Resistenza al Muro e alle Colonie dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha detto in un comunicato che ci sono stati tentativi con l’intervento di legali per bloccare l’espulsione temporanea, ma non si è potuto mettere in discussione l’ordine militare israeliano.

Proprio come hanno cacciato i palestinesi dale loro case nel 1948, oggi stanno facendo lo stesso. Non cederemo,” ha aggiunto Khadija, riferendosi alla Nakba, la pulizia etnica della Palestina storica da parte delle milizie sioniste 71 anni fa, che si commemora ogni anno il 15 maggio.

Qui non vogliono palestinesi”

Principalmente composte di pastori, le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa si alzano alle 3 del mattino per mungere le proprie pecore e preparare il formaggio prima di andare ai mercati della vicina cittadina di Tubas.

Harb Abu Qabbash, 40 anni, dice a MEE che ogni famiglia possiede circa 300 pecore. Dato che è difficile spostarle fuori dalla zona, quando i palestinesi vengono evacuati molti degli agnelli rimangono indietro e spesso muoiono di fame senza nessuno che si occupi di loro.

Aggiunge che durante le esercitazioni militari migliaia di ettari di orzo e grano rischiano di essere bruciati. Secondo Harb ciò avviene regolarmente. “Il nostro maggior timore è che una bomba cada su una delle nostre tende. Se ciò accadesse sarebbe una catastrofe e perderemmo tutto,” dice Harb.

Gli israeliani vogliono impossessarsi della zona e svuotarla dei suoi abitanti. Non vogliono palestinesi qui,” aggiunge.

Nel 2005 hanno demolito le nostre tende e infrastrutture con il pretesto che erano state costruite senza permesso. Quando facciamo richiesta di un permesso loro non lo concedono.”

Quando non devono affrontare un’evacuazione, le esercitazioni militari e le demolizioni, i palestinesi della comunità lottano per approvvigionarsi dell’acqua sufficiente per le loro necessità sotto l’occupazione israeliana.

Ogni famiglia con le sue pecore utilizza un totale di due o tre serbatoi d’acqua al giorno,” dice Harb.

Per trasportare il camion cisterna alla comunità ci vogliono due ore. C’è un pozzo d’acqua a cinque minuti da qui, ma l’esercito israeliano ci ha vietato di utilizzarlo e lo ha destinato all’uso esclusivo dei coloni israeliani.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Editoriale di un autore esterno: la campagna per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni e il dibattito pubblico

Mark Ayyash

14 maggio 2019 – Middle East Monitor

In Canada buona parte del dibattito pubblico sulla campagna per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) è superficiale, vuoto e assolutamente strategico. Quando, nel febbraio 2016, i parlamentari canadesi hanno dibattuto una mozione sul BDS, la discussione non è stata altro che una ripetizione pappagallesca di argomenti rivolti contro la campagna fin da quando è nata nei Territori Palestinesi Occupati. Questi argomenti sono ben noti a chiunque abbia dato anche solo un rapido sguardo al dibattito pubblico su BDS: per citare le affermazioni principali, sarebbe antisemita, danneggia i palestinesi e prende di mira in modo scorretto Israele. In questo articolo affronterò brevemente alcune di queste questioni, ma è sufficiente dire che sono state tutte prese in considerazione e criticate in modo esaustivo da accademici di fama mondiale e da importanti intellettuali (si veda per esempio “The Case for Sanctions Against Israel” [La questione delle sanzioni contro Israele], raccolta pubblicata da Lim nel 2012). Questi argomenti non hanno molto, se non alcun fondamento sostanziale, invece dovrebbero essere visti per quello che sono: se considerate insieme, queste posizioni costituiscono uno strategico attacco verbale al BDS.

Il famoso filosofo tedesco del XX° secolo Hans-Georg Gadamer ci ha spiegato che ci sono due tipi di dialogo. In primo luogo c’è quello che definisce un dialogo “autentico”, in cui i partecipanti si impegnano in una discussione onesta e aperta su un argomento, lasciando perdere i propri desideri e interessi, nel tentativo collettivo di comprendere l’oggetto in questione approfondendone le varie dimensioni, esplorandolo in profondità e illustrando le implicazioni della nostra comprensione dell’argomento.

Poi c’è quello che chiama dialogo “inautentico”, in cui i partecipanti non sono interessati a seguire l’argomento in sé, ma solo a vincere la discussione in modo da favorire i propri desideri ed interessi.

Sfortunatamente il discorso sul BDS è stato prevalentemente inautentico. Non fraintendetemi. Certamente non condanno quelli che intendono vincere la discussione e affermare i propri interessi nel panorama politico. I difensori e i sostenitori di Israele sicuramente hanno il diritto di farlo. E, per essere chiaro, lo Stato canadese è strategicamente allineato con Israele sul piano politico ed economico, il che spiega perché i parlamentari canadesi stiano sostenendo argomenti che sono in linea con gli interessi strategici di Israele e rafforzino i tentativi di Israele di sconfiggere il BDS. Di nuovo, è un diritto dei canadesi e dei loro rappresentanti, i cui interessi politici ed economici sono schierati con quelli dello Stato di Israele, dichiararsi tali.

Tuttavia quello che io chiedo è onestà. Cerchiamo di non fingere che questa discussione si interessi dei diritti umani, della libertà e della liberazione dei palestinesi. Non è così. Il parlamento canadese ha approvato senza problemi la mozione di condanna del BDS e dei suoi sostenitori con un voto di 229 a 51. La mozione non introduce alcuna sanzione legale per chi partecipa ai gruppi e alle attività BDS, ma non dovremmo qui essere tentati di pensare che si tratti di una reazione “leggera”, tipica della “moderazione” canadese in politica estera. La condanna del BDS manda un chiaro segnale, non solo ai sostenitori canadesi del BDS ma anche alla società civile palestinese: il governo canadese non è interessato a impegnarsi con quello che la società civile palestinese ha da dire sul dramma del popolo palestinese e, soprattutto, sulle sue aspirazioni.

Dal punto di vista del parlamento canadese, i palestinesi hanno diritto solo all’educazione, al lavoro e alla salute. Per la maggioranza dei parlamentari canadesi – per lo più deputati liberali e conservatori – queste necessità di base costituiscono il modo in cui intendono i diritti umani dei palestinesi, e da qui il loro appoggio alla soluzione dei due Stati, che creerebbe non uno Stato palestinese nel pieno senso di uno Stato-Nazione indipendente, ma piuttosto una struttura amministrativa il cui compito sarebbe di provvedere a queste necessità fondamentali, oltre a reprimere la resistenza palestinese contro Israele. Qualunque campagna palestinese che esprima l’aspirazione del popolo palestinese a una vita sociale e politica libera ed emancipata è considerata nel dibattito politico canadese come pericolosa e al di fuori dell’ambito di quella che viene accettata come una “legittima” rivendicazione dei diritti dei palestinesi.

Il BDS non vuol solo dire la richiesta di servizi fondamentali come l’educazione e il lavoro. Opera su una duplice base: diritti per tutti i palestinesi indipendentemente da dove si trovino nel mondo e la necessità di prendere di mira lo Stato israeliano precisamente perché impedisce la realizzazione dei diritti dei palestinesi alla libertà.

Questi principi base sono stati stabiliti dal gruppo dirigente palestinese, il Comitato Nazionale del BDS (BNC), che è stato creato nel 2007. Ogni gruppo BDS è tenuto a seguire quei principi base.

Tuttavia il BDS è anche una campagna transnazionale che incoraggia le proprie propaggini transnazionali ad agire autonomamente una volta che abbiano aderito alle sue basi costitutive. Qui il ragionamento è semplice: ogni gruppo conosce meglio il contesto in cui opera e potrebbe di conseguenza sviluppare meglio le proprie tattiche e strategie per promuovere gli obiettivi fondativi del BDS.

L’insistenza della campagna BDS nell’affrontare la questione palestinese in modo complessivo, prendendo in considerazione i rifugiati palestinesi e la questione del loro ritorno, è ciò che ha attirato la reazione ostile contro di sé, la prevalenza di un dialogo inautentico e la questione dei diritti dei palestinesi.

Ci sono due argomenti interconnessi che sono più comunemente utilizzati per contrastare il BDS in un dialogo inautentico: l’accusa di antisemitismo e il fatto di prendere di mira in modo scorretto Israele.

La tesi è più o meno questa: ci sono molti regimi oppressivi e violenti al mondo, per cui perché il BDS sta prendendo di mira Israele più degli altri? La risposta sostenuta in un dialogo inautentico è che il BDS attacca Israele solo perché è uno Stato ebraico, ed è quindi presentata come una prova dell’“antisemitismo” della campagna BDS. In effetti questa è stata una tecnica discorsiva piuttosto efficace, che molti della destra e del centro, così come alcuni della sinistra, trovano convincente. Ma se dobbiamo impegnarci in un dialogo autentico possiamo averne una comprensione diversa. La campagna BDS è nata nei Territori Palestinesi Occupati, è stata progettata, sviluppata e lanciata dalla società civile palestinese. Quindi, perché i palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana avrebbero dovuto lanciare una campagna contro l’oppressione in altre parti del mondo quando sono a malapena in grado di sopravvivere alle strutture oppressive sotto le quali vivono? Solo quando il BDS viene visto come una questione “occidentale”, in seno al contesto “occidentale”, la domanda “perché Israele’” diventa sconcertante e persino convincente. I palestinesi non hanno scelto Israele semplicemente perché è uno Stato ebraico, ma prendono di mira Israele perché è lo Stato che prende continuamente di mira loro. Non è così complicato.

È certamente possibile che il BDS sia coinvolto in un dialogo inautentico con i sostenitori di Israele quando viene attaccato. Ma penso che sia più fruttuoso collocare invece il BDS in un dialogo autentico. Questa potrebbe benissimo essere una posizione ingenua, ma non riesco a vedere un altro modo per andare oltre un semplice scambio di insulti. Come dovrebbe essere un dialogo autentico? Uno dei principi fondamentali del BDS è l’antirazzismo. Di conseguenza il BDS in Canada (e credo che ciò valga anche per gli USA e per la Gran Bretagna) dovrebbe affrontare la questione dell’antisemitismo come parte integrante dello spazio in cui la campagna dovrebbe agire. L’antisemitismo è ancora reale, concreto, molto pericoloso e persino in crescita e in espansione. È possibile che alcune delle persone che appoggiano il BDS in Canada (e in qualunque altra parte), soprattutto in rete, abbiano opinioni antisemite? Sicuramente è possibile. I militanti e i gruppi BDS dovrebbero quindi essere attenti e cercare di espellere questa gente dai loro gruppi, che siano sostenitori digitali o siano fisicamente presenti agli eventi BDS. Possiamo e dobbiamo avere più discussioni approfondite sull’antisemitismo, così come sulla natura della resistenza palestinese contro Israele, radicata nell’espulsione e nelle sofferenze dei palestinesi per mano dello Stato di Israele.

Non so cosa riservi il futuro alla campagna BDS, ma so che non è che l’ultima manifestazione di un tipo di resistenza palestinese che non cesserà mai. Se il BDS viene sconfitto, allora la storia suggerisce che un’altra campagna o attività prenderà il suo posto. Indipendentemente da quello che Israele, gli USA, la Gran Bretagna, il Canada o il resto del mondo desiderano, una resistenza palestinese che intenda affrontare le sofferenze del popolo palestinese in modo complessivo non finirà nella pattumiera della storia. Continuerà a comparire e riapparire finché non verrà fatta giustizia. Prima ognuno si renderà conto di ciò e lo accetterà, prima potremo intavolare un dialogo autentico sui diritti dei palestinesi ed affrontare in modo corretto le aspirazioni di tutto il popolo in Palestina/Israele.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Decine di feriti nella marcia dei palestinesi alla barriera di Gaza nel Giorno della Nakba.

MEE and agencies

15 maggio 2019 – Middle East Eye

Le forze israeliane hanno ferito decine di palestinesi a Gaza, quando migliaia di manifestanti si sono radunati vicino alla barriera di confine tra Gaza e Israele per commemorare il giorno della Nakba.

Il Ministero della Salute di Gaza ha comunicato che mercoledì sono stati feriti almeno 65 manifestanti, compresi 15 che hanno presentato ferite da armi da fuoco.

La protesta è stata organizzata per commemorare il Giorno della Nakba (catastrofe), l’anniversario dell’espulsione forzata di circa 750.000 palestinesi nel 1947-48, prima e durante la fondazione dello Stato di Israele.

Mercoledì un portavoce dell’esercito israeliano ha detto a Middle East Eye che almeno 10.000 palestinesi hanno preso parte ai “disordini” nei dintorni della barriera.

Il portavoce ha detto che vi sono stati “molti tentativi” di infrangere la barriera e che le forze israeliane hanno reagito con “mezzi antisommossa”.

Quest’anno le manifestazioni per il Giorno della Nakba si svolgono due settimane dopo che un’offensiva aerea israeliana ha ucciso oltre 20 palestinesi a Gaza e ne ha feriti molti di più.

Il 6 maggio Israele e le fazioni palestinesi hanno raggiunto un cessate il fuoco.

Ogni anno, il 15 maggio, i palestinesi di tutto il mondo commemorano la Nakba, organizzando manifestazioni e chiedendo una soluzione alla loro grave situazione in modo che possano tornare alle case da cui sono stati espulsi.

Si stima che 15.000 palestinesi siano stati uccisi durante la fondazione dello Stato di Israele 71 anni fa. Vennero anche distrutti quasi 500 villaggi palestinesi.

L’agenzia di informazioni Reuters ha riferito che Khader Habib, un membro della fazione palestinese Jihad Islamica, parlando in uno dei siti della protesta a Gaza, ha chiamato i palestinesi a “sollevarsi” e “affermare i propri diritti in Palestina.”

“La Palestina è nostra. Il mare è nostro, la terra è nostra e gli stranieri devono essere cacciati”, ha detto.

Lo scorso anno la Nakba ha coinciso con il trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, una contestata decisione dell’amministrazione Trump che è stata accolta con generale rabbia e frustrazione.

In seguito al trasferimento dell’ambasciata, circa 40.000 palestinesi hanno manifestato l’anno scorso a Gaza e le forze israeliane hanno ucciso almeno 60 persone e ne hanno ferite più di 1.000.

Associazioni per i diritti umani e ricercatori delle Nazioni Unite hanno criticato l’esercito israeliano per uso eccessivo della forza nel reagire alle manifestazioni prevalentemente non violente a Gaza.

Nelle frequenti proteste presso la barriera di confine sono stati uccisi quasi 300 palestinesi e alcune migliaia sono rimasti feriti.

Tali proteste, note come la “Marcia del Ritorno”, sono iniziate nel marzo 2018. Chiedono che i palestinesi possano tornare alle loro case in quello che oggi è Israele.

Per decenni Israele ha respinto quella richiesta, nonostante la Risoluzione 194 dell’ONU [del 1948, ndtr.] sancisca il diritto al ritorno dei palestinesi.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Adolescente omicida agli arresti domiciliari

14 maggio 2019 – Middle East Monitor

Oggi l’adolescente che ha ucciso Aisha Al-Rabi, una madre, è stato rilasciato e mandato agli arresti domiciliari.

Ieri il tribunale israeliano del distretto di Lod ha deciso di rilasciare e inviare agli arresti domiciliari il ragazzo, imponendogli di indossare un braccialetto elettronico. È stato rilasciato oggi dopo che lo Stato aveva avuto un giorno di tempo per decidere se ricorrere alla Corte Suprema contro la decisione.

Il sedicenne – di cui non può essere fatto il nome per un ordine di riservatezza imposto dal tribunale – a gennaio è stato accusato di omicidio colposo, lancio di pietre aggravato e danneggiamento intenzionale di un veicolo “nel contesto di un atto terroristico” compiuto per uccidere Al-Rabi in ottobre. In un primo tempo si pensava che il ragazzo avrebbe trascorso “un considerevole periodo di carcerazione” con il massimo di condanna a 20 anni, anche se ha evitato le accuse di omicidio che lo avrebbero condotto a passare la vita in prigione.

Tuttavia all’inizio di questo mese il giudice israeliano Hagai Tarsi ha annunciato che “il Servizio di Libertà Vigilata esaminerà la possibilità di mandare il minore agli arresti domiciliari, con un dispositivo di monitoraggio elettronico, presso la casa dei suoi nonni a Kfar Saba”, a nordest di Tel Aviv. Tarsi ha detto che il sospettato “sarà per 24 ore al giorno sotto la sorveglianza dei genitori, dei nonni e di altri membri della famiglia designati e che gli sarà impedito di contattare altre persone”. Inoltre al momento Haaretz ha riferito che il giudice stabilirà una cauzione per il sospettato di 100.000 shekel (circa 25.000 euro).”

Secondo un rapporto di oggi di Arutz Sheva [rete mediatica israeliana, legata al sionismo religioso, ndtr.], la decisione del tribunale di rilasciare il ragazzo è stata presa in seguito ad un parere inviato dal direttore del Centro Nazionale di Medicina Forense, Dr. Chen Kugel. Egli ha affermato che le ferite riscontrate alla testa di Al-Rabi “non corrispondono ad un colpo procurato da una pietra”, che è il modo in cui sarebbe stata uccisa la 47enne madre di otto figli.

Kugel ha aggiunto: “Due medici mi hanno dato ragione, affermando che le ferite sul cranio della defunta erano compatibili con un danno provocato da una forza molto grande e non da un colpo di pietra. Uno di questi medici ha anche appoggiato la mia tesi secondo cui sembrano esserci almeno due punti di impatto.”

Haaretz ha tuttavia aggiunto che altri professionisti non hanno concordato con l’interpretazione di Kugel, aggiungendo che “hanno ritenuto che una pietra potesse aver provocato questo tipo di ferita.”

Il vedovo di Aisha, Yaqoub Al-Rabi, oggi ha detto a Haaretz di aver appreso degli arresti domiciliari al sospettato dal giornale israeliano e che “nessun funzionario israeliano lo ha aggiornato sugli sviluppi del caso.”

Al-Rabi ha aggiunto: “Tramite voi chiedo agli israeliani: se le cose fossero andate al contrario, pensate che un sospettato palestinese sarebbe stato rilasciato se la vittima fosse stata israeliana? Penso che la risposta per voi sia del tutto chiara, ma per noi palestinesi mi dispiace dire che non c’è nessuna speranza.”

Nell’atto d’accusa presentato contro il ragazzo sono stati rivelati parecchi dettagli sull’uccisione di Al-Rabi. La corte ha potuto apprendere che lui e diversi altri studenti il 12 ottobre sono partiti dalla Pri Haaretz yeshiva (seminario religioso) nella colonia illegale di Rehelim, situata sulla Route 60 a sud di Nablus nella Cisgiordania occupata.

Poi il gruppo è salito sulla collina vicino all’incrocio di Tapuah (Za’atara) della Route 60, dove il ragazzo ha afferrato una grossa pietra del peso di circa due chili e si è preparato a scagliarla contro un veicolo palestinese, ‘per una motivazione ideologica di razzismo e ostilità nei confronti degli arabi ovunque’. Dopo aver identificato la targa palestinese dell’auto di Al-Rabi, ha lanciato la grossa pietra che ha infranto il finestrino del lato del passeggero ed ha colpito alla testa Al-Rabi.

Nel corso dell’indagine che ne è seguita, il DNA del ragazzo è stato trovato sulla pietra che ha ucciso Al-Rabi. Nella sua deposizione il ragazzo ha sostenuto che ciò poteva essere dovuto al fatto che lui “stava passeggiando a lungo in quella zona e potrebbe avere sputato colpendo la pietra.”

Il giovane colono era rappresentato da Adi Keidar, un avvocato appartenente all’associazione di aiuto legale Honenu, che fornisce assistenza legale agli israeliani sospettati di terrorismo. Keidar attualmente rappresenta Amiram Ben-Uliel, uno dei due coloni accusati di aver ucciso la famiglia Dawabsheh nell’ incendio doloso nella loro casa nel villaggio di Duma in Cisgiordania nel luglio 2015. Tre membri della famiglia Dawabsheh – il padre Saad, la madre Riham e il loro figlio Ali di 18 mesi – sono morti nell’incidente, lasciando orfano Ahmed che allora aveva cinque anni.

Mentre Ben-Uliel è ancora sotto indagine, in questo fine settimana il suo giovane complice ha confessato e verrà incriminato per cospirazione nell’appiccare l’incendio avendo commesso un crimine con una motivazione razziale. Ha confessato dopo che è stato raggiunto un patteggiamento, in base al quale “la procura ha acconsentito a non chiedere una condanna a più di cinque anni e mezzo di prigione.”

In aprile si è saputo che attivisti di estrema destra avevano fatto pressione sul ragazzo perché non accettasse il patteggiamento. Shmuel Eliyahu, il rabbino di Safed, nel nord di Israele, sarebbe stato chiamato a mediare tra l’ufficio del Procuratore di Stato, il ragazzo e gli attivisti di destra.

Eliyahu è un personaggio controverso, che ha detto ai ragazzi sospettati dell’uccisione di Al-Rabi che non dovevano temere la prigione perché “è lì che inizia la strada per il potere politico”. Eliyahu sostiene di aver detto ai ragazzi: “Quale è il problema? Di che cosa siete accusati? Avete tirato una pietra. Sapete quante pietre vengono lanciate nella Cisgiordania occupata per le quali l’esercito israeliano non fa niente?”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Eurovision e hasbara

Sole, gay, misoginia e shawarma: la promozione dell’Eurovision ancora un altro fallito tentativo israeliano di legittimazione

Denijal Jegić

13 maggio 2019- Mondoweiss

 

La competizione musicale dell’Eurovision di quest’anno avrà luogo a Tel Aviv. L’evento di musica pop potrebbe essere una grande opportunità propagandistica per l’ultima colonia europea. Gli ultimi tentativi di Israele di promuovere se stesso rivelano tuttavia ancora una volta la sua convulsa lotta per legittimarsi. L’hasbara [propaganda, ndtr.] finanziata dal governo continua a riciclare gli stessi miti colonialisti, cercando di nascondere l’appartenenza al colonialismo d’insediamento e la cancellazione degli indigeni dietro a immagini colorate di sole, mare, bandiere arcobaleno e shawarma [kebab, ndtr.].

L’emittente televisiva pubblica KAN ha diffuso un video sulle reti sociali, con l’intento scontato di pubblicizzare la  competizione canora dell’Eurovision e di promuovere Israele come destinazione turistica.

Il filmato è tristemente emblematico del più generale approccio di Israele verso il pubblico occidentale. Mostra Lucy Ayoub, una degli ospiti dell’Eurovision, ed Elia Grinfeld, un dipendente di KAN, che cantano e ballano, cercando disperatamente di attirare l’attenzione di due turisti europei bianchi che sembrano scettici. Lucy ed Elia guidano i due turisti in un teatro, obbligandoli a “unirsi a questo rapido indottrinamento”, in modo che possano aiutarli “ad avere delle fantastiche vacanze”. Quel momento potrebbe implicare che i creatori del video siano consapevoli di quanto possa essere estenuante per il mondo esterno il carattere ridicolo dell’hasbara.

“So proprio quello che avete sentito, che questa è una terra di guerra e occupazione,” dichiara Elia. “Ma abbiamo molto più di quello,” aggiunge Lucy. Riflettendo le pratiche del governo israeliano di perpetuare fisicamente la guerra e l’occupazione cercando al contempo di nascondere a parole quella politica, il video sostituisce in modo sonoro e visivo la situazione palestinese con il benessere sionista.

Quello che segue è un riciclaggio dei noti argomenti dell’hasbara, di “un piccolo Paese con un grande orgoglio” e della “Nazione delle start-up” altamente tecnologica. L’orrore delle gerarchie in base alla razza è celato, in quanto Israele viene presentato come un mosaico multietnico. Lucy, figlia di madre ebrea israeliana e di padre palestinese cristiano, usa le sue origini “arabe” per mascherare i soprusi di Israele contro i palestinesi, proclamando: “Sono araba, sì, alcuni di noi vivono qui,” senza menzionare che la maggior parte di loro è stata espulsa. Quando Elia aggiunge che è scappato dalla Russia, Israele appare come un rifugio per le minoranze perseguitate. Dopo tutto, come propagandano Lucy ed Elia, Israele è “la terra del miele”, “la terra del latte”, e “sempre soleggiato.”

Nessuna propaganda israeliana sarebbe completa senza utilizzare il pinkwashing [il ricorso alla presunta tolleranza verso gli omosessuali per mascherare l’oppressione dei palestinesi, ndtr.], ovvero l’occultamento retorico da parte di Israele della violenza del colonialismo di insediamento dietro l’auto-glorificazione per il suo presunto progresso riguardo ai diritti LGBT+.

In generale l’hasbara si affretta a mostrare una coppia di uomini gay che si baciano in pubblico, per far pensare al proprio pubblico che include le minoranze e, al contempo, dipingere gli arabi e i musulmani come intrinsecamente omofobi (ciò è in linea con il luogo comune orientalista secondo cui i palestinesi non meritano la libertà perché Hamas ha ucciso omosessuali). Quindi è assolutamente prevedibile che nel video di KAN due uomini dimostrino affetto in pubblico davanti a una bandiera arcobaleno a Tel Aviv. Elia canta che “i gay si abbracciano per strada”, nel caso ciò non fosse ovvio. La prassi israeliana di pinkwashing appare notevolmente omofobica. Poiché la popolazione LGBT+ sta lottando per uguali diritti ed è ancora perseguitata in molte parti del mondo, è a dir poco offensivo esibire gay e utilizzarli come una copertura per la persecuzione dei palestinesi. Anche il fatto che Israele abbia preso di mira in modo strategico palestinesi

non–eterosessuali è stato ben documentato.

Il video include anche stereotipi antisemiti: “Molti di noi sono ebrei, ma solo alcuni sono taccagni.” Fa riferimenti misogeni umilianti per le donne, quando Elia chiede ai turisti di “godersi le nostre care bitches [puttane, ndtr.]” invece delle beaches [spiagge, ndtr.].

Il video promuove il furto coloniale di cucina, cultura, storia e geografia palestinesi. Allo spettatore viene detto che c’è “buon shawarma” in tutto Israele, e il Mar Morto diventa israeliano in un luogo di villeggiatura orientalista, quando  Lucy sta seduta su un cammello coperto da stoffe colorate.

Gerusalemme viene definita “la nostra amata capitale” che, come apprende lo spettatore, è la sede dello “Yad Vashem” [il museo dell’Olocausto, ndtr.] e dei luoghi santi. Lucy ed Elia camminano per la Città Vecchia, che è sottoposta a un’occupazione illegale da oltre mezzo secolo. Infine, mentre Lucy ed Elia stanno ballando e dicendo agli spettatori “Vi stiamo aspettando”, Elia indossa una maglietta che dice “Amo Iron Dome” [il sistema antimissile israeliano, ndtr.], in supporto al complesso militare-industriale di Israele.

È come se i palestinesi e la Palestina non fossero mai esistiti. Non solo non sono nominati neanche una volta, la loro storia e la loro cultura sono sostituiti da una fragile narrazione della comunità dei coloni basata su un esclusivismo genocida.

Questo scopo di indottrinamento degli stranieri con miti colonialisti è centrale anche in un sito web che è stato messo in piedi dal governo israeliano. Intitolata boycotteurovision.net, la pagina è un ovvio tentativo di prendere di mira i sostenitori del movimento BDS [Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele, ndtr.]. Descrivendo Israele come “Bellissimo. Diverso. Sensazionale” (BDS), il sito consiste in testi e video di propaganda, comprese immagini di coppie gay, luoghi sacri di Gerusalemme e turisti bianchi. Come una guida di viaggio poetica, la pagina rende romantico Israele come un “Paese incantevole”, che “offre magnifiche vedute, spiagge dorate, panorami verdeggianti, vasti deserti, cime innevate e città dinamiche immerse nel valore millenario di straordinari siti storici e culturali.”

Il lettore apprende inoltre che “in Israele tutta la gente, ebrei e arabi, musulmani e cristiani, religiosi e laici, così come LGBT, vive insieme in un bastione di coesistenza nel cuore del Medio Oriente.” Tuttavia la realtà è l’apartheid e un’oppressione strutturale dei palestinesi musulmani e cristiani, delle persone di colore ebree e non e dei dissidenti politici indipendentemente dalla loro identificazione etnico-nazionale o religiosa. Ciò non ha niente a che vedere con la coesistenza.

Il “bastione” di pace e coesistenza è un tipico mito orientalista che sfrutta le convinzioni degli occidentali sull’inferiorità culturale delle civiltà islamica e araba. Nel luogo comune di un Medio Oriente presuntamene pericoloso, Israele, in quanto colonia europea, serve come simbolo di una libertà continuamente minacciata che deve essere salvaguardata.

Il sito web fa ricorso anche al mito orientalista di Israele “che fa fiorire il deserto e lo trasforma in un’oasi di tolleranza.” Questo argomento sionista non solo ignora la presenza storica dei palestinesi. Negandone completamente l’esistenza, la fantasia di un deserto vuoto è servita come una fondamentale giustificazione per la colonizzazione della Palestina.

La riscrittura nel sito web della storia palestinese include l’affermazione che “Israele, nella sua breve storia, ha assorbito più immigrati di qualunque altro Paese, con nuovi arrivati da più di cento Paesi.” La Nakba, la distruzione dei villaggi palestinesi e la violenta espulsione della maggioranza della sua popolazione rimangono assenti. Invece al lettore viene detto che “la vita in Israele è innovativa, e allo stesso tempo ancora legata alla sua ricca storia. Israele è una destinazione piena di cordialità, disponibilità e amore che lascerà a chiunque la visiti ricordi (e amici!) per tutta la vita.”

Ovviamente ciò non riguarda i milioni di rifugiati palestinesi della diaspora, i palestinesi profughi interni a Gaza, o i palestinesi della Cisgiordania che non hanno il permesso di tornare nel territorio da cui sono stati espulsi nel 1948, mentre Israele continua a violare numerose risoluzioni ONU.

I tentativi propagandistici di Israele riguardo all’Eurovision sono parte integrante della sua cancellazione discorsiva di ogni cosa palestinese. E mentre la parola “Palestina” non viene pronunciata in nessuno dei colorati video e immagini, il linguaggio iperbolico, la necessità di verbalizzare le cose più semplici e di pregare letteralmente i turisti a visitarlo rivela che c’è qualcosa di inquietante dietro la facciata colorata dell’hasbara.

L’Eurovision è un semplice esempio di come Israele stia disperatamente cercando di guadagnarsi legittimità attraverso un’ostinata insistenza su vecchi miti e il quasi comico esaurimento degli stessi argomenti.  Poiché il sionismo è un moderno movimento colonialista che è incompatibile con i diritti umani universali e con le leggi internazionali e Israele non ha alcuna giustificazione morale o giuridica per la colonizzazione della Palestina e per i soprusi genocidari contro i palestinesi, il regime israeliano continuerà a avere disperatamente bisogno di una propaganda assurda nei suoi sforzi di raccontare al mondo esterno, e probabilmente a se stesso, una versione modificata della storia, cercando di dimostrare di avere una qualche legittimità.

 

Su Denijal Jegić

Denijal Jegić è uno studioso con un post-dottorato. Ha conseguito un dottorato di ricerca presso l’Istituto di Studi Americani Transnazionali all’università Johannes Gutenberg di Magonza.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Accordo del secolo

L’“accordo del secolo”? La benedizione americana al furto di terre e alla ghettizzazione dei palestinesi da parte di Israele

Nel corso degli ultimi 18 mesi la squadra di Trump per il Medio oriente sembra aver iniziato ad applicare il piano anche se non l’ha ancora reso pubblico

 

Jonathan Cook

 

Venerdì 10 maggio 2019 – Middle East Eye

 

Un rapporto pubblicato questa settimana dal giornale Israel Hayom che svelerebbe in apparenza “l’accordo del secolo” di Donald Trump dà l’impressione di un piano di pace che avrebbe potuto essere elaborato da un agente immobiliare o da un venditore di automobili.

Ma se l’autenticità del documento non è dimostrata, e al contrario persino messa in discussione, esistono seri motivi per credere che apra la strada a ogni futura dichiarazione dell’ amministrazione Trump.

 

Grande Israele

Si tratta soprattutto di una sintesi della maggior parte delle pretese della destra israeliana per la creazione del Grande Israele, con qualche concessione destinata ad ammansire i palestinesi – la maggior parte delle quali con l’obiettivo di alleggerire parzialmente lo strangolamento dell’economia palestinese da parte di Israele.

È esattamente ciò a cui assomiglierebbe l’“accordo del secolo” in base alle dichiarazioni del mese scorso di Jared Kushner che davano un primo quadro di questo piano.

L’organo di stampa che ha pubblicato la fuga di notizie è altrettanto significativo: Israel Hayom. Questo giornale israeliano appartiene a Sheldon Adelson, un miliardario americano dei casinò, uno dei principali donatori del partito repubblicano [USA, ndtr.] e uno dei maggiori finanziatori della campagna elettorale di Trump per la campagna presidenziale.

Adelson è anche un fedele alleato del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Nell’ultimo decennio il suo giornale non ha fatto altro che servire da portavoce dei governi ultranazionalisti di Netanyahu.

 

Netanyahu responsabile della fuga di notizie?

Adelson e Israel Hayom  hanno facile accesso alle figure più rappresentative delle amministrazioni americana e israeliana. Ed è stato ampiamente denunciato che nel giornale si scrivono poche cose interessanti senza che non siano state approvate in precedenza da Netanyahu o dal suo proprietario all’estero.

Il giornale ha rimesso in dubbio l’autenticità e la credibilità del documento, che è stato diffuso sulle piattaforme delle reti sociali, suggerendo persino che “è assolutamente possibile che il documento sia un falso” e che il ministero degli Esteri israeliano aveva deciso di occuparsi della questione.

La Casa Bianca aveva già informato che, dopo lunghi rinvii, aveva l’intenzione di svelare finalmente “l’accordo del secolo” il mese prossimo, dopo la fine del mese sacro per i musulmani del Ramadan.

Un responsabile anonimo della Casa Bianca ha dichiarato al giornale che il documento divulgato era “ipotetico” e “inesatto” – il genere di debole smentita che potrebbe ugualmente significare che il rapporto è, in effetti, in gran parte esatto.

Se il documento si rivela autentico, Netanyahu sembra essere il colpevole più probabile della divulgazione. Ha supervisionato il ministero degli Esteri per anni e Israel Hayom è spesso definito come il “Bibiton”, o il giornale di Bibi, dal soprannome del primo ministro.

Tastare il terreno

Il presunto documento, come l’ha pubblicato Israel Hayom, sarebbe un disastro per i palestinesi. Supponendo che Netanyahu ne approvi la divulgazione, le sue motivazioni non sarebbero forse molto difficili da individuare.

Da un certo punto di vista la divulgazione potrebbe costituire un mezzo efficace per Netanyahu e l’amministrazione Trump per tastare il terreno, per lanciare un ballon d’essai e decidere se osare pubblicare il documento così com’è o se devono apportarvi delle modifiche.

Ma è anche possibile che Netanyahu sia forse arrivato alla conclusione che mettere palesemente in pratica l’essenza di quello che già riesce a fare di nascosto potrebbe avere un prezzo non gradito – un prezzo che al momento potrebbe preferire evitare.

La fuga di notizie intende provocare un’opposizione anticipata al piano che arrivi sia da Israele che dai palestinesi e dal mondo arabo, nella speranza di impedire chee venga reso pubblico?

Forse ha sperato che le indiscrezioni, e la reazione che esse suscitano, obblighino la squadra di Trump per il Medio Oriente a rimandare di nuovo la pubblicazione del piano o a impedirne totalmente la diffusione.

Tuttavia, che “l’accordo del secolo” sia o no svelato tra poco, il documento divulgato – se è autentico – dà un’idea plausibile del pensiero dell’amministrazione Trump.

Dato che la squadra di Trump per il Medio oriente sembra aver cominciato ad applicare il piano, anche se quest’ultimo non è stato reso pubblico, durante gli ultimi otto mesi – dallo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme al riconoscimento dell’illegale annessione da parte di Israele delle alture siriane del Golan – questa fuga di notizie permette di far luce su come si articolerebbe la “soluzione” americano-israeliana del conflitto israelo-palestinese.

 

Annessione della Cisgiordania

L’entità palestinese proposta sarebbe denominata “Nuova Palestina”, ciò che costituirebbe probabilmente una pagina del manuale di strategia di Tony Blair, ex-primo ministro britannico diventato ambasciatore della comunità internazionale in Medio oriente dal 2007 al 2015.

Negli anni ’90 Blair ha allontanato il suo stesso partito, il partito Laburista, dalla sua tradizione socialista, poi lo ha ribattezzato il partito favorevole alle imprese, che ha dato come risultato – sbiadita copia di quello che era – il “New Labour”.

Il nome “Nuova Palestina” maschera efficacemente il fatto che questa entità demilitarizzata sarebbe sprovvista dei caratteri e dei poteri normalmente attribuiti a uno Stato. Secondo le rivelazioni, la Nuova Palestina non esisterebbe che su un’infima frazione della Palestina storica.

Tutte le colonie illegali di popolamento in Cisgiordania sarebbero annesse a Israele, ciò che sarebbe in linea con l’impegno preso da Netanyahu poco prima delle elezioni legislative dello scorso mese. Se il territorio annesso comprende la maggior parte della zona C, il 62% della Cisgiordania su cui in base agli accordi di Oslo Israele si è visto accordare un controllo temporaneo e che la destra israeliana intende insistentemente annettere, alla Nuova Palestina resterebbe il controllo del 12% della Palestina storica.

In altre parole l’amministrazione Trump sembra pronta a dare la propria benedizione a un Grande Israele che comprenda l’88% delle terre rubate ai palestinesi nel corso degli ultimi 70 anni.

“Nuova Palestina”

Ma è molto peggio di questo. La Nuova Palestina esisterebbe sotto forma di una serie di cantoni separati, o Bantustan, circondati da un oceano di colonie israeliane – ormai definite parte di Israele. L’entità sarebbe fatta a pezzi e tagliata come nessun altro Paese al mondo.

La Nuova Palestina non avrebbe un esercito, ma solo una forza di polizia con armi leggere. Non potrebbe agire che come una serie di municipalità scollegate tra loro.

In realtà è difficile immaginare come la “Nuova Palestina” cambierebbe in modo sostanziale la triste situazione attuale dei palestinesi. Non si potrebbero spostare tra questi cantoni se non attraverso lunghi giri, delle circonvallazioni e dei tunnel. Più o meno come ora.

 

Municipalità osannate

Il solo vantaggio proposto dal presunto documento è un progetto di bustarelle proveniente dagli Stati Uniti, dall’Europa e da altri Stati sviluppati, anche se finanziato principalmente dai ricchi Stati petroliferi del Golfo, in modo da alleviare la loro coscienza per aver spogliato i palestinesi delle loro terre e della loro sovranità.

Questi Stati forniranno 30 miliardi di dollari (26 miliardi di euro) in cinque anni per aiutare la Nuova Palestina a creare e a gestire i suoi municipi osannati. Se vi sembra una grossa somma di denaro, ricordatevi che ciò rappresenta otto miliardi di dollari in meno rispetto all’aiuto che gli Stati Uniti consegnano da un decennio a Israele per comprare armi e aerei da guerra.

Nel documento non compare chiaramente quello che succederà alla Nuova Palestina dopo questo periodo di 5 anni. Ma, considerato che il 12% della Palestina storica attribuita ai palestinesi costituisce il territorio più povero di risorse della regione – privato da Israele di risorse idriche, di coesione economica e di risorse chiave utilizzabili come le cave della Cisgiordania – è difficile non vedere il naufragio annunciato dell’entità dopo l’affievolirsi del flusso iniziale di denaro.

Anche se la comunità internazionale accettasse di destinare più soldi, la Nuova Palestina sarebbe per sempre totalmente dipendente dagli aiuti.

Gli Stati Uniti e altri Paesi sarebbero in grado di aprire o chiudere i rubinetti in base al “buon comportamento” dei palestinesi – come avviene attualmente. I palestinesi vivrebbero in modo permanente nel timore per le conseguenze delle critiche dei guardiani della loro prigione.

Fedele al suo impegno di far pagare al Messico la costruzione del muro lungo la frontiera sud degli Stati Uniti, a quanto pare Trump vorrebbe che l’entità palestinese pagasse Israele per fornirle una sicurezza militare. In altri termini, gran parte di questo aiuto di 30 miliardi di dollari ai palestinesi si ritroverebbe probabilmente nelle tasche dell’esercito israeliano.

È interessante notare che il presunto articolo sostiene che sono gli Stati produttori di petrolio, e non i palestinesi, che sarebbero i “principali beneficiari” dell’accordo. Ciò indica come l’accordo di Trump sia venduto agli Stati del Golfo: è un’occasione per loro di legarsi totalmente a Israele, alla sua tecnologia e alle sue capacità militari, in modo che il Medio oriente possa seguire le orme delle “tigri economiche” dell’Asia.

 

Pulizia etnica a Gerusalemme

Gerusalemme è descritta come una “capitale condivisa”, ma le clausole scritte in piccolo dicono tutt’altro. Gerusalemme non sarebbe divisa, con da una parte l’est palestinese e dall’altra l’ovest israeliano, come per lo più si era previsto. Invece di ciò, la città sarebbe diretta da una municipalità unificata sotto controllo israeliano. Esattamente come ora.

La sola concessione significativa ai palestinesi sarebbe che gli israeliani non sarebbero autorizzati a comprare case palestinesi, impedendo – almeno in teoria – l’assunzione del controllo di Gerusalemme est in modo più pesante da parte dei coloni ebrei.

Ma, dato che in cambio i palestinesi non sarebbero autorizzati a comprare delle case israeliane e che la popolazione palestinese a Gerusalemme est soffre già di una grave carenza di alloggi e che un’amministrazione comunale israeliana avrebbe il potere di decidere dove le case potrebbero essere costruite e per chi, è facile immaginare che la situazione attuale – Israele che si serve del controllo della gestione del territorio per cacciare i palestinesi da Gerusalemme – semplicemente continuerebbe.

In più, siccome i palestinesi a Gerusalemme sarebbero dei cittadini della Nuova Palestina, e non di Israele, quelli che sarebbero incapaci di installarsi in una Gerusalemme sotto dominazione israeliana non avrebbero altra scelta che emigrare in Cisgiordania. Sarebbe esattamente la stessa forma di pulizia etnica burocratica che i palestinesi stanno sperimentando attualmente.

Gaza aperta verso il Sinai

Riprendendo le recenti affermazioni di Jared Kushner, genero di Trump e consigliere per il Medio oriente, i vantaggi del piano per i palestinesi sono tutti legati ai potenziali utili economici e non politici.

I palestinesi sarebbero autorizzati a lavorare in Israele, come avveniva normalmente prima di Oslo, e verosimilmente, come allora, unicamente nei lavori peggio pagati e più precari, nei cantieri edili e in agricoltura.

Un corridoio terrestre, sicuramente sorvegliato da contractors militari israeliani che i palestinesi dovranno pagare, dovrebbe ricollegare Gaza alla Cisgiordania. Confermando informazioni precedenti relative ai progetti dell’amministrazione Trump, Gaza sarebbe aperta al mondo, e sul vicino territorio del Sinai sarebbero creati una zona industriale e un aeroporto.

Questa terra – la cui estensione sarebbe da definire nei negoziati – sarebbe presa in affitto all’Egitto.

Come sottolineato in precedenza da Middle East Eye, tale decisione rischierebbe di incoraggiare progressivamente i palestinesi a considerare il Sinai, invece di Gaza, come il centro della loro vita, un altro mezzo per procedere alla progressiva pulizia etnica.

Nel contempo la Cisgiordania sarebbe collegata alla Giordania da due passaggi di frontiera – probabilmente attraverso corridoi terrestri che attraverserebbero la valle del Giordano, che dovrebbe essere annessa anch’essa a Israele. Di nuovo, con i palestinesi chiusi in cantoni non collegati e circondati dal territorio israeliano, c’è da supporre che con il tempo molti cercherebbero una nuova vita in Giordania.

Nel corso di tre anni i prigionieri politici palestinesi sarebbero liberati dalle prigioni israeliane sotto l’autorità della Nuova Palestina. Tuttavia il piano non dice niente sul diritto al ritorno per i milioni di rifugiati palestinesi, i discendenti di quelli che sono stati cacciati da casa loro durante le guerre del 1948 e del 1967.

Pistola alla tempia

Alla maniera di don Corleone, l’amministrazione Trump sembra pronta a mettere una pistola alla tempia dei dirigenti palestinesi per obbligarli a firmare l’accordo.

Secondo il rapporto divulgato, gli Stati Uniti vieterebbero qualunque trasferimento di denaro ai palestinesi dissidenti, con lo scopo di obbligarli a sottomettersi.

Questo presunto piano esigerebbe che Hamas e la Jihad islamica si disarmino consegnando le loro armi all’Egitto. Se rifiutassero l’accordo, il rapporto sostiene che gli Stati Uniti autorizzerebbero Israele ad “attentare” contro i dirigenti – per mezzo di assassini extragiudiziari che costituiscono da molto tempo il pilastro della politica israeliana riguardo ai due gruppi.

Ciò che è meno credibile è il fatto che il presunto documento suggerisce che la Casa Bianca sarebbe pronta a dimostrare la propria fermezza anche nei confronti di Israele, tagliando l’aiuto americano se Israele non rispettasse i termini dell’accordo.

Dato che Israele ha regolarmente infranto gli accordi di Oslo – e il diritto internazionale – senza dover affrontare gravi sanzioni, è facile immaginare che in pratica gli Stati Uniti troverebbero delle soluzioni per evitare che Israele debba pagare le conseguenze di ogni violazione dell’accordo.

Imprimatur americano

Il presunto documento presenta tutte le caratteristiche del piano Trump, o almeno di una sua versione recente, perché descrive nero su bianco la situazione che Israele ha creato per i palestinesi nel corso di questi ultimi vent’anni.

Ciò dà semplicemente a Israele l’imprimatur ufficiale degli Stati Uniti per il furto massiccio delle terre e la riduzione in cantoni dei palestinesi.

Dunque, se offre alla destra israeliana la maggior parte di quello che vuole, che interesse ha Israel Hayom – portavoce di Netanyahu – a compromettere il suo successo divulgandolo?

Alcune ragioni potrebbero spiegarlo.

Israele ha già raggiunto tutti i suoi obiettivi – rubare la terra, annettere le colonie di insediamento, consolidare il suo controllo esclusivo su Gerusalemme, fare pressione sui palestinesi perché se ne vadano dalla loro terra e partano per gli Stati vicini – senza annunciare ufficialmente che si tratta del suo piano.

Ha realizzato grandi progressi in tutti i suoi obiettivi senza dover ammettere pubblicamente che la creazione di uno Stato per i palestinesi è un’illusione. Per Netanyahu, la questione deve essere sapere perché dovrebbe rendere pubblica la visione globale di Israele quando può essere realizzata di nascosto.

Timore di un contraccolpo

Ma, peggio ancora per Israele, una volta che i palestinesi e il mondo che sta a guardare capiranno che l’attuale situazione catastrofica per i palestinesi non migliorerà, ci sarà probabilmente un contraccolpo.

L’Autorità Nazionale Palestinese potrebbe crollare, la popolazione palestinese scatenerebbe una nuova ribellione, la cosiddetta “opinione pubblica araba” accetterebbe probabilmente questo piano meno di quanto i suoi dirigenti o di quanto Trump non desideri, e gli attivisti solidali in Occidente, soprattutto il movimento per il boicottaggio, beneficerebbero di un’ enorme spinta per la loro causa.

Inoltre sarebbe impossibile per i difensori di Israele continuare a negare che Israele ha messo in atto quello che l’accademico israeliano Baruch Kimmerling aveva definito “politicidio”: la distruzione dell’avvenire dei palestinesi, del loro diritto all’autodeterminazione e della loro integrità in quanto un solo popolo.

Se questa è la versione della pace in Medio oriente proposta da Trump, egli gioca alla roulette russa – e Netanyahu esiterà forse a lasciargli premere il grilletto.

 

 

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. E’ l’autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del Martha Gellhorn Special Prize for Journalism.

 

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Due narrazioni sulla Palestina

Le due narrazioni sulla Palestina: il popolo è unito, le fazioni no

 

Ramzy Baroud

8 maggio 2019 – Palestine Chronicle

 

Le due narrazioni sulla Palestina: il popolo è unito, le fazioni no

Ramzy Baroud

8 maggio 2019 – Palestine Chronicle

 

La conferenza internazionale sulla Palestina, tenutasi a Istanbul tra il 27 e il 29 aprile, ha riunito molti relatori e centinaia di accademici, giornalisti, attivisti e studenti, provenienti dalla Turchia e da tutto il mondo.

La conferenza è stata una rara occasione per sviluppare una discussione di solidarietà internazionale sia inclusivo che lungimirante.

Vi è stato un consenso quasi totale sul fatto che il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (contro Israele) (BDS) debba essere appoggiato, che il cosiddetto ‘accordo del secolo’ di Donald Trump debba essere respinto e che la normalizzazione debba essere evitata.

Tuttavia quando si è trattato di articolare gli obbiettivi della lotta palestinese, la narrazione si è fatta indecisa e poco chiara. Benché nessuno dei relatori abbia difeso una soluzione con due Stati, il nostro appello per uno Stato unico democratico fatto da Istanbul – o da ogni altro luogo fuori dalla Palestina – è apparso quasi irrilevante. Perché la soluzione di uno Stato unico diventi l’obiettivo principale del movimento mondiale a favore della Palestina, l’appello deve provenire da una leadership palestinese che rifletta le genuine aspirazioni del popolo palestinese.

Un relatore dopo l’altro ha invocato l’unità dei palestinesi, pregandoli di fare da guida e di articolare un discorso nazionale. Molti altri nel pubblico si sono detti d’accordo con quella posizione. Qualcuno ha addirittura lanciato la retorica domanda: “Dov’è il Mandela palestinese?” Fortunatamente il nipote di Nelson Mandela, Zwelivelile “Mandla” Mandela, era tra i relatori. Ha risposto con enfasi che Mandela era solo il volto del movimento, che comprendeva milioni di uomini e donne comuni, le cui lotte e sacrifici hanno infine sconfitto l’apartheid.

Dopo il mio intervento alla conferenza, nell’ambito della mia ricerca per il mio prossimo libro su questo argomento, ho incontrato alcuni prigionieri palestinesi scarcerati.

Alcuni degli ex prigionieri si definivano di Hamas, altri di Fatah. Il loro racconto è apparso per la maggior parte libero dal deprecabile linguaggio fazioso da cui siamo bombardati sui media, ma anche lontano dalle narrazioni aride e distaccate dei politici e degli accademici.

“Quando Israele ha posto Gaza sotto assedio e ci ha negato le visite dei familiari, anche i nostri fratelli di Fatah ci sono venuti in aiuto”, mi ha detto un ex prigioniero di Hamas. E ogni volta che le autorità carcerarie israeliane maltrattavano chiunque dei nostri fratelli, di qualunque fazione, compresa Fatah, tutti noi abbiamo resistito insieme.”

Un ex prigioniero di Fatah mi ha detto che, quando Hamas e Fatah si sono scontrate a Gaza nell’estate del 2007, i prigionieri hanno sofferto moltissimo.

 “Soffrivamo perché sentivamo che il popolo che dovrebbe combattere per la nostra libertà si stava combattendo al proprio interno. Ci siamo sentiti traditi da tutti.”

Per incentivare la divisione le autorità israeliane hanno collocato i prigionieri di Hamas e di Fatah in reparti e carceri diversi. Intendevano impedire ogni comunicazione tra i leader dei prigionieri e bloccare qualunque tentativo di trovare un terreno comune per l’unità nazionale.

La decisione israeliana non era casuale. Un anno prima, nel maggio 2006, i leader dei prigionieri si erano incontrati in una cella per discutere del conflitto tra Hamas, che aveva vinto le elezioni legislative nei Territori Occupati, e il principale partito dell’ANP, Fatah.

Tra questi leader vi erano Marwan Barghouti di Fatah, Abdel Khaleq al-Natshe di Hamas e rappresentanti di altri importanti gruppi palestinesi. Il risultato è stato il Documento di Riconciliazione Nazionale, probabilmente la più importante iniziativa palestinese da decenni.

Quello che è diventato noto come Documento dei Prigionieri era significativo perché non era un qualche compromesso politico autoreferenziale raggiunto in un lussuoso hotel di una capitale araba, ma una effettiva esposizione delle priorità nazionali palestinesi, presentata dal settore più rispettato e stimato della società palestinese.

Israele ha immediatamente denunciato il documento.

Invece di impegnare tutte le fazioni in un dialogo nazionale sul documento, il presidente dell’ANP, Mahmoud Abbas, ha dato un ultimatum alle fazioni rivali: accettare o respingere in toto il documento. Abbas e le fazioni contrapposte hanno tradito lo spirito unitario dell’iniziativa dei prigionieri. Alla fine, l’anno seguente Fatah e Hamas hanno combattuto la loro tragica guerra a Gaza.

Parlando con i prigionieri dopo aver ascoltato il discorso di accademici, politici ed attivisti, sono stato in grado di decifrare una mancanza di connessione tra la narrazione palestinese sul campo e la nostra percezione di tale narrazione dall’esterno.

I prigionieri mostrano unità nella loro narrazione, un chiaro senso progettuale, e la determinazione a proseguire nella resistenza. Se è vero che tutti si identificano in un gruppo politico o nell’altro, devo ancora intervistare anche un solo prigioniero che anteponga gli interessi della sua fazione all’interesse nazionale. Questo non dovrebbe sorprendere. Di certo, questi uomini e queste donne sono stati incarcerati, torturati ed hanno trascorso molti anni in prigione per il fatto di essere resistenti palestinesi, a prescindere dalle loro tendenze ideologiche e di fazione.

Il mito dei palestinesi disuniti e incapaci è soprattutto un’invenzione israeliana, che precede l’avvento di Hamas, e persino di Fatah. Questa nozione sionista, che è stata fatta propria dall’attuale primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, sostiene che ‘Israele non ha partner per la pace’. Nonostante le concessioni senza fine da parte dell’Autorità Palestinese a Ramallah, questa accusa è rimasta un elemento fisso nelle politiche israeliane fino ad oggi.

A parte l’unità politica, il popolo palestinese percepisce l’‘unità’ in un contesto politico totalmente diverso da quello di Israele e, francamente, di molti di noi fuori dalla Palestina.

‘Al-Wihda al-Wataniya’, ovvero unità nazionale, è un’aspirazione generazionale che ruota intorno a una serie di principi, compresi la resistenza come strategia per la liberazione della Palestina, il diritto al ritorno dei rifugiati e l’autodeterminazione per il popolo palestinese come obiettivi finali. È intorno a questa idea di unità che i leader dei prigionieri palestinesi hanno steso il loro documento nel 2006, nella speranza di scongiurare uno scontro tra fazioni e di mantenere al centro della lotta la resistenza contro l’occupazione israeliana.

La Grande Marcia del Ritorno, che è tuttora in atto a Gaza, è un altro esempio quotidiano del tipo di unità che il popolo palestinese persegue. Nonostante gravi perdite, migliaia di manifestanti persistono nella loro unità per chiedere la libertà, il diritto al ritorno e la fine dell’assedio israeliano.

Da parte nostra, sostenere che i palestinesi non sono uniti perché Fatah e Hamas non riescono a trovare un terreno comune è del tutto ingiustificato. L’unità nazionale e l’unità politica tra le fazioni sono due questioni differenti.

È fondamentale che non facciamo l’errore di confondere il popolo palestinese con le fazioni, l’unità nazionale intorno alla resistenza e ai diritti con i compromessi politici tra gruppi politici.

Per quanto riguarda la visione e la strategia, forse è tempo di leggere il ‘Documento di Riconciliazione Nazionale’ dei prigionieri. Lo hanno scritto i Nelson Mandela della Palestina, migliaia dei quali sono tuttora nelle carceri israeliane.

Ramzy Baroud è giornalista, autore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra, 2018). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è studioso non residente presso il Centro Orfalea per gli studi globali e internazionali, Università di California, Santa Barbara.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)