Confermato il ruolo del Mossad nella guerra di Israele contro il BDS

Asa Winstanley

14 giugno 2019 – Electronic Intifada

Questa settimana il giornale israeliano “Haaretz” ha confermano una cosa su cui “The Electronic Intifada” ha informato da anni.

Il Mossad, secondo l’opinione generale la più spietata e violenta agenzia di spionaggio israeliana, è coinvolto nella guerra contro il BDS, il movimento non violento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni per i diritti dei palestinesi.

Il rapporto ufficiale per il 2018 di Erdan [ministro israeliano per la Sicurezza Pubblica del governo uscente, ndtr.], ottenuto attraverso una richiesta per la libertà di informazione, secondo quanto rivelato dal giornale mostra che si è incontrato con il capo del Mossad Yossi Cohen per discutere della “lotta contro il boicottaggio”.

Come ha informato lo scorso anno “The Electronic Intifada”, un incontro tra Erdan e il capo del Mossad era già stato confermato in almeno un’altra occasione – nel 2016 – insieme ad incontri con i capi di altre agenzie di spionaggio.

Dal 2015 il ministero degli Affari Strategici è stato in realtà il ministero israeliano contro il BDS. È in gran parte formato da veterani delle agenzie di spionaggio, soprattutto dell’intelligence militare.

Sima Vaknin-Gil, la funzionaria responsabile di condurre le attività quotidiane del ministero, ha lavorato per 20 anni nell’intelligence dell’aviazioni militare israeliana e conserva ancora il suo grado come riservista.

Questo ministero è coinvolto in una campagna globale di quelle che un giornalista israeliano ha chiamato “operazioni segrete” contro militanti palestinesi, difensori dei diritti umani e attivisti solidali [con i palestinesi].

Pur avendo investito decine di milioni di dollari in questa guerra contro gli attivisti della società civile che lavorano per la giustizia e l’uguaglianza, in privato le forze israeliane contro il BDS ammettono che la loro campagna non sta funzionando.

Un rapporto segreto del 2017 di una commissione legata al ministero ammette candidamente l’incapacità da parte di Israele di arginare l’“impressionante crescita” e i “significativi successi” del BDS. Ottenuto da “The Electronic Intifada”, il rapporto afferma che, nonostante la crescente spesa contro il BDS, incrementata di 20 volte, “i risultati rimangono fantomatici.”

La lotta contro il boicottaggio”

L’articolo di Haaretz conferma in modo autonomo le precedenti informazioni di “The Electronic Intifada” e aggiorna il quadro generale.

Il giornale ha ottenuto il rapporto ufficiale grazie ad una richiesta sulla libertà di informazione da parte di “Hatzlaha”, la stessa organizzazione israeliana per la trasparenza che ha ottenuto il rapporto di Erdan del 2016.

Il nuovo articolo di “Haaretz” conferma anche che l’incontro di Erdan con il Mossad riguardava esplicitamente la lotta contro il BDS.

Il rapporto del 2016 non elencava l’argomento di discussione tra Erdan e il capo del Mossad – benchè, data la sintesi di Erdan, difficilmente si è trattato di qualcosa di diverso dal BDS.

Il ministero di Erdan mette in atto quella che chiama la “battaglia” contro il BDS attraverso gruppi d’assalto e di sostegno in tutto il mondo, soprattutto negli USA, in Gran Bretagna e altri Paesi occidentali.

Il ministro, stretto alleato del primo ministro Benjamin Netanyahu, ha ammesso di lavorare attraverso “enti in tutto il mondo che non vogliono evidenziare il proprio rapporto con lo Stato.”

Menzogne e assassinii

Nel 2017 “The Electronic Intifada” ha rivelato che il rapporto di Erdan del 2016 ha anche enumerato una serie di incontri con parlamentari britannici e importanti personalità della lobby filo-israeliana, compresi Eric Pickles e Stuart Polak – entrambi membri non eletti della camera alta britannica, la Camera dei Lord, e leader di “Amici Conservatori di Israele”.

A causa del coinvolgimento del Mossad in molti brutali assassinii e rapimenti nel corso degli anni, gli attivisti del BDS devono essere molto preoccupati di questi sviluppi.

I bersagli del Mossad hanno incluso combattenti della resistenza palestinese, poeti, scrittori e attivisti disarmati.

Il leggendario scrittore comunista palestinese Ghassan Kanafani è stato ucciso insieme alla sua nipote Lamis da un’auto bomba del Mossad in Libano nel 1972.

Pare anche che un agente infiltrato del Mossad fosse dietro la morte non chiarita del famoso vignettista palestinese Naji al-Ali a Londra nel 1987.

Questo specifico assassinio e il rifiuto da parte di Israele di collaborare con l’inchiesta della polizia portò il governo conservatore di Margaret Thatcher ad espellere tre diplomatici israeliani e a chiudere per breve tempo la sede del Mossad a Londra.

La lista dei crimini del Mossad è lunga, ma in ultima analisi non sono riusciti a spegnere la fiamma della resistenza palestinese.Le sue prospettive di estirpare il movimento BDS non sono molto più promettenti.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Alcuni rapporti svelano che negli attacchi contro Gaza sono stati deliberatamente presi di mira civili

Oren Ziv

14 giugno 2019 – +972

Due diverse inchieste di B’Tselem e Human Rights Watch hanno stabilito che l’esercito israeliano e gruppi armati palestinesi hanno illegalmente colpito la popolazione civile durante la più recente escalation a Gaza.

Secondo un nuovo rapporto di B’Tselem [organizzazione israeliana per i diritti umani, ndtr.] reso noto mercoledì, nella sua ultima campagna a Gaza Israele ha ucciso 13 civili palestinesi che non erano coinvolti nelle ostilità né affiliati a gruppi di miliziani. Due delle vittime erano bambini e tre erano donne, una delle quali a fine gravidanza. “Queste morti sono il prevedibile risultato dell’illegale e immorale politica israeliana di bombardare case a Gaza,” ha stabilito B’Tselem.

In base all’inchiesta di B’Tselem, dal 3 al 6 maggio Israele ha lanciato attacchi aerei ed ha bombardato più di 350 obiettivi a Gaza, ferendo 153 persone. L’associazione per i diritti umani ha anche scoperto che nessuno degli attacchi “è stato preceduto dal alcun adeguato avvertimento che potesse dare agli abitanti l’opportunità di cercare rifugio o di salvare i propri beni.”

Durante questo periodo i gruppi di miliziani legati ad Hamas e alla Jihad Islamica hanno lanciato circa 700 razzi contro Israele, uccidendo tre persone e ferendone 123. Un razzo lanciato da uomini della Jihad Islamica ha colpito una casa a Gaza ed ha ucciso una donna incinta e la sua nipotina di un anno, e un missile anticarro sparato da quei gruppi ha ucciso un civile israeliano. Secondo il rapporto “il fatto di prendere di mira la popolazione civile in Israele è illegale e immorale,”.

Come negli attacchi precedenti, il rapporto ha rilevato che Israele ha di nuovo preso di mira edifici residenziali e uffici. Secondo le Nazioni Unite, è stato distrutto un totale di 33 unità abitative e altre 19 sono state gravemente danneggiate, lasciando senza casa 52 famiglie – 327 palestinesi, tra cui 65 bambini. Altre centinaia di abitazioni sono state parzialmente danneggiate.

B’Tselem ha sottolineato che sparare contro strutture residenziali in aree densamente popolate come la Striscia di Gaza “comporta inevitabilmente il rischio di danneggiare civili. Il pericolo non è ipotetico: negli scorsi anni Israele ha già ucciso migliaia di civili, comprese centinaia di minori, in attacchi aerei contro le loro case.” Nella sola operazione ‘Margine protettivo’ del 2014 Israele ha ucciso almeno 1.055 palestinesi – tra cui 405 minori e 229 donne – che non avevano preso parte alle ostilità.

Il rapporto evidenzia anche come questi attacchi non siano stati provocati da combattenti criminali che hanno trasgredito gli ordini militari, ma di fatto “parte di una politica formulata da personalità del governo e da importanti comandi militari.” Gli attacchi “hanno avuto l’appoggio dei corpi MAG [Military Advocate General, ufficio legale che fornisce la consulenza legale per giustificare le prassi dell’esercito israeliano, ndtr.], che emanano pareri giuridici che sostengono questa politica.”

Israele, continua il rapporto, ha giustificato questi attacchi affermando che sono conformi alla legge umanitaria internazionale, ma “quest’interpretazione è irragionevole, legalmente errata e basata su una visione del mondo moralmente distorta. Dovrebbe essere categoricamente rifiutata.”

In un altro rapporto reso pubblico anch’esso mercoledì, una ricerca di Human Rights Watch sull’escalation di maggio ha confermato i risultati di B’Tselem: “Quattro attacchi israeliani hanno colpito bersagli che non sembravano contenere alcun obiettivo militare o potrebbero aver provocato sproporzionate perdite civili in violazione delle leggi di guerra.” HRW ha anche affermato che, dato che i razzi sparati dai gruppi armati palestinesi non potevano prendere di mira un particolare obiettivo militare, il loro uso in zone civili è “intrinsecamente indiscriminato in violazione delle leggi di guerra.”

Entrambi i rapporti includono testimonianze di sopravvissuti agli o testimoni degli attacchi. Un missile sparato contro la casa della famiglia al-Madhun nel quartiere di al-‘Atatrah della città occidentale di Gaza Beit Lahiya ha ucciso quattro persone: ‘Abd a-Rahim al-Madhun, 60 anni, suo figlio ‘Abdallah al-Madhun, 21 anni, membro del braccio militare della Jihad islamica; sua nuora, Amani al-Madhun, 36 anni, madre di quattro figli che era incinta di nove mesi, e il loro vicino, Fadi Badran, di 33 anni. L’attacco ha anche ferito sei bambini.

Muhammad al-Madhun, figlio di ‘Abd a-Rahim, che era in casa al momento del bombardamento, ha detto a B’Tselem: “Sono arrivato a casa alle 14,30. Mia moglie e i bambini erano andati a dormire, perché pensavamo che non avremmo potuto chiudere occhio di notte, data l’escalation e i bombardamenti. Sono andato a dormire accanto a loro.”

“Mi sono alzato alle 17 e mi sono seduto in soggiorno a prendere un caffè con mio cugino e un vicino. Sono andato in cucina per fare il caffè per il mio vicino e quando sono tornato improvvisamente ho sentito una pesante esplosione in casa. Era fortissima, ma in un primo momento ho pensato che provenisse da qualcosa che era successo fuori. Mi ci è voluto un momento prima di capire che era avvenuta in casa. L’ho compreso quando ho visto schegge di vetro, di metallo, pietre, sabbia, polvere e fumo intorno a me. Sono rimasto lì scioccato e non mi potevo muovere. Sono semplicemente rimasto lì ed ho sentito i detriti e le macerie che cadevano giù attorno a me.

Ho chiamato i vicini e ho chiesto loro di tirare fuori da sotto i detriti i feriti – mia moglie e due dei miei bambini. Il mio vicino Muhammad al-Far è uscito dalle macerie e si è messo a camminare verso la strada portando mia figlia Fatimah di due anni e mezzo. L’ho sentita gridare e lamentarsi per il dolore.

Sono stato portato in ambulanza all’ospedale Indonesiano. Sono stato visitato ed hanno constatato che stavo bene. Sono andato ad identificare i corpi. Ho identificato quello di mia moglie Amani ed ho anche visto il corpo del feto. Poi ho identificato i corpi di Fadi Badran e di mio fratello Abdallah.”

Il padre di Mohammad è morto alla fine della giornata all’ospedale al-Shifa per le ferite riportate.

In un altro attacco due missili hanno colpito il tetto di un edificio di cinque piani, sempre a Beit Lahiya. L’esplosione ha ucciso sei persone di due famiglie, compreso un bambino di 3 mesi.

In quell’attacco Mohammad Abu al-Jidyan, 26 anni, ha perso entrambi i genitori. Stava tornando a casa quando suo padre l’ha chiamato per dirgli di affrettarsi a causa degli attacchi lanciati contro Gaza. “Circa 5 minuti dopo che mio padre aveva chiamato, sono arrivato al portone e sono entrato nell’edificio. In quello stesso momento l’appartamento in cui vivo con i miei genitori è stato bombardato,” ha detto al-Jidyan a B’Tselem.

“Sono corso su per le scale per vedere cosa fosse successo. Ho visto tutti i vicini correre giù e ho temuto che la mia famiglia fosse stata uccisa. Nessuno mi ha sentito. C’è un appartamento vuoto al quarto piano. Quando sono arrivato lì ho visto che il quinto piano, dove vivevamo i miei genitori, mio fratello ‘Abd a-Rahman ed io, era crollato e caduto sul quarto. Date le condizioni in cui era tutto quanto, ero sicuro che i miei genitori e mio fratello fossero caduti come martiri.

Le mie due sorelle ed io abbiamo perso tutta la famiglia – nostro padre, nostra madre e nostro fratello – senza un avvertimento e senza la possibilità di dirci addio. L’attacco è stato così brutale che non abbiamo neppure trovato i loro corpi tutti interi. Quando abbiamo sepolto i miei genitori, il corpo del mio fratellino era disteso nella stessa tomba con mia madre. Era nato dopo dieci anni di tentativi di rimanere incinta…Mi sento solo al mondo, senza i miei genitori e senza la nostra casa, che è rimasta completamente distrutta. Spero di riuscire a trovare la forza per superare quello che ci è successo.”

L’alleggerimento del blocco contro Gaza che Israele aveva accettato di mettere in atto nell’ultima serie di negoziati deve ancora essere realizzato pienamente e, dato che è previsto che le proteste presso la barriera di confine ricomincino venerdì, probabilmente è solo questione di tempo prima che ci sia un’altra ‘escalation’ nelle ostilità. Di conseguenza sarebbe saggio per Israele riconoscere il pesante prezzo che i palestinesi della Striscia di Gaza pagano persino durante periodi di ‘calma’ mentre resistono a condizioni di vita insopportabili a causa del blocco.

Una versione in ebraico di questo articolo è già stata pubblicata su Local Call.

(traduzione di Amedeo Rossi)




I palestinesi che vivono in Israele sono dimenticati dall’“accordo del secolo” di Trump

Awad Abdelfattah

11 giugno 2019 – Middle East Eye

I palestinesi all’interno dei confini israeliani devono unirsi ai rifugiati fuori da Israele per contrastare questo piano di liquidazione dei loro diritti nazionali

I palestinesi all’interno di Israele non sono mai stati considerati dalla comunità internazionale come parte del conflitto arabo-sionista, ma piuttosto come un gruppo etnico non ebraico nello Stato di Israele e che subisce discriminazioni.

L’“accordo del secolo”, che va avanti da quando il presidente USA Donald Trump ha assunto il potere, è stato preceduto da un duro colpo contro milioni di rifugiati palestinesi come il taglio agli aiuti finanziari all’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite che fornisce loro servizi fondamentali.

Lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme è stato un ulteriore passo inteso a eliminare il più elementare principio della causa palestinese: il diritto dei rifugiati palestinesi alle proprie case nella Palestina storica.  

Pochi hanno dedicato attenzione al fatto che i rifugiati palestinesi, sparsi nei campi di Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria e altri luoghi, sono parenti di primo grado dei palestinesi all’interno di Israele. Io ho parenti in campi profughi di Libano, Giordania e Siria. Nel 1992 incontrai per la prima volta un’allora settantanovenne zia che, insieme a una serie di altri familiari, era stata obbligata a scappare dal nostro villaggio nel 1948. Arrivò dal Libano dopo aver ottenuto un permesso israeliano per visitare i parenti. La sua visita ci provocò grande tristezza e pena, dopo che ci sorprese chiedendoci di cercare di sapere dalle autorità israeliane il luogo in cui si trovava il corpo di uno dei suoi tre figli, ucciso durante la brutale invasione israeliana del Libano nel 1982.

Quello che ci angosciò ulteriormente fu il suo desiderio di passare il resto della sua vita con noi, nel luogo in cui era nata e cresciuta – ma l’apartheid israeliana non l’avrebbe mai permesso, perché non era ebrea. Questa storia straziante non è che un simbolo delle sofferenze di milioni di rifugiati che stanno languendo in condizioni spaventose – comprese guerre – in attesa di tornare a casa da più di settant’anni.

La “Legge del Ritorno” israeliana concede il diritto solo agli ebrei, di qualunque parte del mondo, di immigrare, e in molti casi di vivere in case da cui questi rifugiati sono stati espulsi. Ogni conferenza o iniziativa internazionale di pace intesa a trovare una soluzione al problema palestinese ha ignorato questi diritti nazionali dei rifugiati, e persino la loro stessa esistenza.

La più deludente e frustrante tra queste furono gli accordi di Oslo del 1993, che li presero di sorpresa, insieme al resto del popolo palestinese – soprattutto i rifugiati.

Questa frustrazione derivava dall’approvazione da parte della dirigenza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) di escludere dall’accordo la comunità di 1.5 milioni di palestinesi sopravvissuti alla pulizia etnica del 1948 condotta dalle bande sioniste, e che da allora hanno vissuto sotto un sistema di discriminazioni, furto di terre, de-nazionalizzazione e altre forme di oppressione.

Aggiungere la beffa al danno

L’imminente “accordo del secolo” USA ha solo aggiunto la beffa al danno. Ma, contrariamente ad Oslo – che all’epoca sembrò a molti come una svolta fondamentale e un promettente percorso verso una vera pace – l’accordo di Trump è visto da molti palestinesi come un piano israelo-americano per liquidare definitivamente i diritti nazionali e politici di tutti i palestinesi, anche di quelli che vivono all’interno dei confini israeliani del 1948.

La cosa più umiliante riguardo a questo accordo è il modo in cui affronta come una questione economica la tragedia pluridecennale dei diritti umani dei palestinesi.

L’Arabia Saudita ha annunciato che agli uomini d’affari palestinesi con passaporto israeliano potrebbe essere concesso un permesso di residenza permanente nel regno: “Come parte di una tendenza al disgelo dei rapporti tra Israele e l’Arabia Saudita, il nuovo piano consentirà anche agli arabo-israeliani di lavorare in Arabia Saudita,” ha sottolineato un articolo sulla rivista economica israeliana “Globes”.

Questo annuncio ha sollevato tra i dirigenti politici e intellettuali palestinesi seri sospetti che si tratti di un passo nel costante processo di normalizzazione con il nemico e un mezzo per la promozione dell’“accordo del secolo” – un accordo già rifiutato ovunque dai palestinesi.

Questo approccio è in consonanza con la politica ufficiale israeliana, perseguita dal 1948, di domare e cooptare i palestinesi all’interno di Israele. Il recente cambiamento di atteggiamento dei media sauditi, degli Emirati e del Bahrain nei confronti di Israele mostra chiaramente una spinta per preparare l’opinione pubblica saudita alla normalizzazione con Israele.

Lotta contro l’apartheid        

Negli ultimi anni, dato che Israele ha virato ulteriormente verso l’estrema destra, il panorama geografico e politico della Palestina è diventato un’entità unica sottoposto a un unico sistema di separazione e colonialismo d’insediamento. Questa deriva di fatto del progetto colonialista contrasta con la soluzione dei due Stati sostenuta a livello internazionale.

Ora l’amministrazione Trump, attraverso l’imminente “accordo del secolo”, ha inflitto un colpo definitivo all’illusione dei due Stati. Sta legittimando la continua colonizzazione sionista di tutta la Palestina, aprendo la porta a ulteriori guerre e spargimenti di sangue.

Poiché una delle cause più serie al mondo dal punto di vista politico e umanitario viene ridotta dalla più grande potenza imperialista al mondo a un piano economico, ovunque i palestinesi – compresi quelli con la cittadinanza israeliana – si troveranno a dover affrontare una sfida enorme.

Devono cercare l’unità per ingaggiare una prolungata lotta per smantellare non solo l’assedio di Gaza, ma tutto il sistema dell’apartheid israeliana e sostituirlo con un’entità democratica ed egualitaria per tutti.

Voci che invocano l’unificazione della politica palestinese e movimenti di base su questa opzione stanno crescendo. Li ispira la lotta contro l’apartheid del Sud Africa.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Awad Abdelfattah

Awad Abdelfattah è un giornalista politico ed ex-segretario generale del partito Balad [partito arabo-israeliano antisionista e di sinistra, ndtr.]. È coordinatore della “Campagna per lo Stato unico democratico”, con sede ad Haifa, fondata alla fine del 2017.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’ “accordo del secolo” di Jared Kushner è stato ideato per fallire fin dall’inizio

Bill Law

6 giugno 2019 – Middle East Eye

Al di là delle critiche, Kushner sta giocando un’importante partita sulla questione israelo-palestinese

Il genero del presidente USA Donald Trump e negoziatore per il Medio Oriente, Jared Kushner, non rilascia molte interviste – perciò quando lo fa, gli organi di informazione non sono solo attenti, ma ci si buttano a capofitto. E alcuni settori dei media statunitensi lo hanno fatto, dopo l’intervista a Kushner di Axios della [emittente televisiva americana via cavo, ndr.] HBO del 2 giugno.

Slate’ [rivista americana in rete, ndtr.] ha pubblicato un articolo dal titolo: “Le più imbarazzanti risposte dell’intervista di Jared Kushner ad Axios”. ‘Vanity Fair’ ha commentato: “In un’intervista comicamente disastrosa, il ‘primo genero’ ha imbastito risposte su nazionalismo, rifugiati, Arabia Saudita e sul suo piano di pace per il Medio Oriente.” La CNN è stata più gentile, optando per una disamina selettiva punto per punto delle “29 righe più assurde” dell’intervista.

L’ipotesi di queste ed altre apprezzate pubblicazioni nell’establishment dei media progressisti, che a Trump piace odiare, è che Kushner è al massimo un perfetto idiota, che si aggira beatamente in un paesaggio complicato senza avere idea dei pericoli in agguato – che è un ragazzino ricco e privilegiato con una storia fatta di automobili e di affari immobiliari ed una moglie che è la figlia preferita del presidente, e che è troppo complicato per lui.

Vincere perdendo

Queste convinzioni sono errate. Fin dal momento in cui a Kushner è stato assegnato l’incarico sul Medio Oriente, ha giocato una partita subdola, e quindi molto efficace, a favore sia del movimento dei coloni in Cisgiordania che dell’amico di famiglia Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano.

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Kushner, la cui fondazione di famiglia ha finanziato generosamente i progetti dei coloni, ha costruito un’attenta strategia atta a vincere perdendo.

L’ “accordo” non è mai stato pensato perché funzionasse.

Piuttosto, il suo modus operandi consiste nel costringere i palestinesi in un angolo da cui non c’è via di fuga e in cui l’unica risposta all’accordo di pace è “no”.

Kushner ha imparato questo trucco nel periodo in cui pare abbia acquistato proprietà con affitto bloccato, scacciando gli inquilini, ristrutturando gli appartamenti e poi rimettendoli sul mercato come proprietà di lusso.

É un gioco al massacro: una combinazione di cancellazione di servizi e di offerta di qualche compensazione finanziaria, ben impacchettata all’interno di minacce velate e non tanto velate, sulla linea di “accettate questo o le cose andranno solo peggio”. Kushner ha accuratamente applicato all’ “accordo del secolo” in Medio Oriente le lezioni apprese a Manhattan.

Ha colto la sua opportunità quando Trump ha sorpreso il mondo vincendo le presidenziali del novembre 2016. Nel dicembre di quell’anno Trump ha annunciato che l’avvocato fallimentarista David Friedman veniva nominato ambasciatore USA in Israele.

Nel marzo 2017 Friedman, che ha alle spalle una lunga storia di sostegno all’illegale movimento dei coloni in Cisgiordania, è stato debitamente confermato dal Senato. A Kushner è stato affidato il portafoglio del Medio Oriente, mentre un altro avvocato di Trump e strenuo difensore dei coloni, Jason Greenblatt, lo ha affiancato in qualità di inviato.

Uccidere la soluzione di due Stati

Kushner ha convinto il presidente che il suo primo viaggio oltreoceano avrebbe dovuto essere in Arabia Saudita nel maggio 2017. In quel momento Kushner aveva già instaurato uno stretto rapporto di lavoro con il vice principe ereditario Mohammed Bin Salman, che in seguito è diventato il principe ereditario. Un elemento centrale della strategia di Kushner è stato allontanare i sauditi dall’iniziativa araba di pace proposta nel 2002 dall’ex re saudita Abdullah, che all’epoca era principe ereditario.

Il piano di Abdullah includeva il riconoscimento di un credibile Stato palestinese a fianco di Israele. Quando l’ Arabia Saudita ed altri Stati del Golfo, in particolare gli Emirati Arabi Uniti, si sono avvicinati ad Israele, Kushner sembrava, almeno in privato, essere riuscito a distruggere la soluzione di due Stati di Abdullah.

Nel dicembre 2017 il presidente ha annunciato che l’ambasciata USA sarebbe stata spostata a Gerusalemme. Gli esperti erano sconcertati e Trump è stato attaccato perché concedeva qualcosa senza ottenere niente in cambio. Ma Kushner non mirava a nulla: voleva semplicemente fare una dichiarazione forte di fronte ai palestinesi. Lo ha fatto e gli USA l’hanno spuntata: il 14 maggio 2018, nel settantesimo anniversario della fondazione di Israele, l’ambasciata è stata aperta a Gerusalemme, mentre a circa 90 chilometri di distanza i palestinesi venivano abbattuti a fucilate sul confine di Gaza.

In quel momento il presidente ha annunciato che gli USA stavano abbandonando la soluzione dei due Stati. Mettendo sale sulla ferita, Washington ha tagliato più della metà del previsto finanziamento (65 milioni di dollari dei 125 milioni di aiuti complessivi) all’UNRWA, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi che assiste oltre cinque milioni di rifugiati registrati. Lentamente ed inesorabilmente stava avvenendo un giro di vite.

Cadono colpi di maglio

Ad agosto 2018 gli USA hanno tagliato più di 200 milioni di dollari di aiuti economici, e poi hanno proseguito cancellando il resto dei finanziamenti all’UNRWA. A settembre è stato chiuso uno dei pochi programmi di aiuti rimasti, 25 milioni di dollari per i palestinesi negli ospedali di Gerusalemme est. Poi è stato chiuso l’ufficio di Washington dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, il contatto diplomatico formale con i palestinesi.

Mentre i colpi di maglio continuavano a cadere, i governi occidentali non hanno detto niente. Kushner ha capito, al di là di ogni dubbio, che stava vincendo.

La mossa successiva sono state le Alture del Golan, annesse da Israele con il pieno appoggio ed approvazione dell’amministrazione Trump a marzo. La vittoria di Netanyahu nelle elezioni israeliane di aprile doveva essere la ciliegina sulla torta per poi procedere con l’annessione delle colonie della Cisgiordania nel grande Israele.

Purtroppo per Netanyahu e Kushner, è intervenuto il destino, sotto forma di Avigdor Lieberman. L’ex Ministro della Difesa e acerrimo rivale di Netanyahu ha rifiutato di entrare nella coalizione, mandando tutto all’aria e costringendo a nuove elezioni a settembre.

Trump non è stato contento. Il suo piano, che guardava al 2020 e alla speranza della rielezione, era di lasciare la sua impronta avvantaggiando Israele e mettendo i palestinesi al loro posto. “Israele è proprio messo male con le elezioni”, ha detto. “Bibi (Netanyahu) è stato eletto, adesso all’improvviso dovranno passare di nuovo per un processo elettorale, fino a settembre? É ridicolo. Perciò noi non siamo contenti di questo.”

Incrollabile fiducia

Intanto gli Stati arabi del Golfo hanno frenato l’entusiasmo per l’accordo di Kushner. Il padre di Bin Salman, il re Salman, ha criticato il sostegno di suo figlio a Israele, riabilitando pubblicamente la soluzione di due Stati. L’accordo che non doveva essere un accordo si sta allontanando e Kushner sta per vedere il suo lavoro completamente cancellato.

Kushner non ha una buona faccia da poker. La sua arroganza e la certezza di essere vincente trapelano in ogni cosa dica e faccia. Ma i suoi critici sbagliano a sottovalutarlo.

Kushner finora ha giocato una significativa partita. La sua fiducia di vincere a favore del movimento dei coloni e di un Israele più grande, di Netanyahu o di chiunque gli succederà, e di suo suocero il presidente, resta assolutamente incrollabile.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Bill Law

Bill Law è un giornalista vincitore del premio Sony. É entrato alla BBC nel 1995 e dal 2002 è stato corrispondente dal Medio Oriente. Si è recato molte volte in Arabia Saudita. Nel 2003 è stato uno dei primi giornalisti a informare sull’inizio della rivolta che ha travolto l’Iraq. Il suo documentario ‘Il Golfo: armato e pericoloso’, che è stato trasmesso alla fine del 2010, ha anticipato le rivoluzioni che sono diventate la Primavera Araba. In seguito ha lavorato sulle rivolte in Egitto, Libia e Bahrein. É stato anche corrispondente dall’Afghanistan e dal Pakistan. Prima di lasciare la BBC nel 2014, Law è stato il suo analista esperto del Golfo. Adesso lavora come giornalista indipendente che si occupa del Golfo.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’inviato USA dice che Israele ha ‘il diritto’ di annettersi parte del territorio della Cisgiordania: intervista al NYT

MEE e Agenzie

8 giugno 2019 – Middle East Eye

L’Autorità Nazionale Palestinese ha denunciato le affermazioni di David Friedman in quanto ‘non hanno nulla a che vedere con la logica, la giustizia o la legge’

L’ambasciatore USA in Israele ha detto al New York Times che Israele ha il diritto di annettersi almeno “parte” della Cisgiordania occupata, facendo considerazioni che probabilmente accentueranno l’opposizione palestinese a un piano USA atteso da lungo tempo.

I dirigenti palestinesi hanno rigettato il piano prima ancora che sia totalmente reso noto, facendo riferimento a una serie di iniziative da parte dell’amministrazione del presidente USA Donald Trump che secondo loro mostra la sua irrimediabile parzialità a favore di Israele.

Nell’intervista pubblicata sabato dal New York Times l’ambasciatore USA in Israele David Friedman ha affermato che un certo livello di annessione della Cisgiordania sarebbe legittimo.

A determinate condizioni penso che Israele abbia il diritto di tenersi parte della Cisgiordania, ma difficilmente tutta,” ha detto.

Non è chiaro a quali territori della Cisgiordania si riferisca Friedman e se la presa di possesso da parte di Israele rientrerebbe in un accordo di pace che includa scambi di terre – un’idea ventilata in precedenti negoziati – piuttosto che un’iniziativa unilaterale come l’annessione, ha detto la Reuter [agenzia di notizie inglese, ndtr.].

Il segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) Saeb Erekat ha condannato sulle reti sociali le affermazioni di Friedman.

Nel contempo un portavoce dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha affermato che Friedman è una delle molte figure di rilievo della politica USA che sul problema israelo-palestinese sono “estremiste” e mancano di “maturità politica”.

Il ministero degli Esteri dell’ANP ha affermato che sta pensando di presentare sulla questione una denuncia alla Corte Penale Internazionale (CPI).

In base a quale logica Friedman pensa che Israele abbia il diritto di annettersi parte della Cisgiordania?” ha chiesto domenica il ministero in un comunicato stampa. “Su quale realtà basa la sua convinzione? Sulla legge internazionale che vieta l’annessione di territori con la forza? O sulla realtà imposta dalle autorità dell’occupazione?”

Il ministero ha proseguito chiamando Friedman una “persona ignorante in politica, in storia e in geografia e che appartiene allo Stato delle colonie…(Egli) non ha niente a che vedere con la logica, la giustizia o la legge finché è al servizio dello Stato dell’occupazione, che egli è desideroso di difendere con ogni mezzo.”

Sabato il centro israeliano di monitoraggio delle colonie Peace Now ha chiesto a Trump di rimuovere Friedman dal suo incarico se vuole che i suoi tentativi di pace abbiano una qualche credibilità.

L’ambasciatore Friedman è un cavallo di Troia inviato dalla destra dei coloni, che sabota gli interessi di Israele e le possibilità di pace. Il prezzo sarà pagato dagli abitanti dell’area, non da Friedman o Trump. Se intende fungere da mediatore corretto, stasera il presidente USA dovrebbe mandare Friedman a fare i bagagli,” avrebbe detto Peace Now citato da Haaretz.

La fondazione di uno Stato palestinese nei territori, compresa la Cisgiordania, che Israele ha occupato nella guerra dei Sei Giorni del 1967, è stata al centro di ogni piano di pace in Medio Oriente del passato. Tuttavia i palestinesi hanno sempre più spesso affermato che la soluzione dei due Stati, come è nota, è da tempo diventata impraticabile a causa dei tentativi israeliani di consolidare il controllo sulle terre palestinesi e incrementare la costruzione di colonie illegali.

Alcuni sostengono che lo status quo rende una soluzione per uno Stato unico con uguali diritti per cittadini sia israeliani che palestinesi l’unica opzione equa per garantire l’autodeterminazione e i diritti umani per tutti. Non è stata fissata nessuna data certa per la presentazione del piano dell’amministrazione Trump, comunemente noto come l’accordo del secolo, anche se alla fine di questo mese si terrà in Bahrein una conferenza sui suoi aspetti economici.

Le affermazioni pubbliche rese da funzionari dell’amministrazione USA suggeriscono finora che il piano si baserà in modo consistente sull’appoggio finanziario all’economia palestinese, per la maggior parte con fondi degli Stati arabi del Golfo, in cambio di concessioni sul territorio e sulla fondazione di uno Stato.

Assolutamente l’ultima cosa di cui il mondo ha bisogno è uno Stato fallito palestinese tra Israele e la Giordania,” ha affermato Friedman nell’intervista al Times. “Forse non lo accetteranno, forse non risponde alle loro condizioni minime. Ci basiamo sul fatto che il giusto piano, nel momento giusto, col tempo riscuoterà la giusta reazione.”

Friedman, un fiero sostenitore delle colonie illegali israeliane, ha detto al Times che il piano di Trump mira a migliorare la qualità della vita dei palestinesi ma non è in grado di ottenere “una soluzione permanente del conflitto.”

Comunque ha detto che gli Stati Uniti intendono avere uno stretto coordinamento con la Giordania, alleato arabo, che potrebbe affrontare rivolte tra la vasta popolazione palestinese riguardo a un piano percepito come apertamente favorevole a Israele. I palestinesi rifiutano in modo massiccio un piano centrato sull’economia per risolvere un conflitto durato 71 anni che ha portato all’espulsione forzata e all’esilio di milioni di rifugiati e all’imposizione di un’occupazione militare brutale e discriminatoria su quelli che sono rimasti.

La pubblicazione dell’accordo del secolo si prevede sarà ulteriormente rimandata dopo che il parlamento israeliano ha convocato elezioni anticipate per settembre, le seconde di quest’anno.

Il piano potrebbe essere considerato troppo delicato da essere reso noto nel corso della campagna elettorale.

In aprile, durante la campagna per le prime elezioni generali [di quest’anno], il primo ministro Benjamin Netanyahu si è impegnato ad annettere colonie a Israele, un’iniziativa a lungo sostenuta da molti parlamentari della sua alleanza di destra e di partiti religiosi.

In seguito alla continua espansione delle colonie da parte dei successivi governi di Netanyahu, più di 600.000 coloni ebrei vivono ora in Cisgiordania e nella Gerusalemme est occupata, in violazione delle leggi internazionali.

Un funzionario USA, parlando in forma anonima, ha detto alla Reuter: “Nessun piano per l’annessione unilaterale da parte di Israele di qualunque parte della Cisgiordania è stato presentato da Israele agli USA, né è in discussione.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il rapper Talib Kweli respinge la richiesta della Germania di denunciare il boicottaggio di Israele

Tamara Nassar

7 giugno 2019 – Electronic Intifada

Il rapper americano Talib Kweli [noto cantante hip hop statunitense di origine ghanese, ndtr.] ha rifiutato di cedere alle richieste da parte di un festival tedesco di condannare il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) per i diritti dei palestinesi.

Di conseguenza è stato tolto dal programma del festival che si tiene a luglio. Kweli afferma di rifiutare di “autocensurarsi e mentire sul BDS in cambio di un assegno.”

Recentemente la camera bassa del Parlamento tedesco, il Bundestag, ha approvato una risoluzione che equipara il BDS all’antisemitismo.

Le calunnie nei confronti di un movimento nonviolento che respinge ogni forma di razzismo hanno provocato proteste da parte dei palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza occupate e accuse da parte dell’intera società palestinese.

Impostato sul modello della campagna mondiale di solidarietà che ha favorito la fine dell’apartheid in Sudafrica, il movimento BDS si oppone ad ogni forma di intolleranza, compresi l’antisemitismo e l’islamofobia.

Richiesta

Questa settimana Kweli ha rivelato di aver ricevuto una email da Philipp Maiburg, direttore artistico dell’‘Open Source Festival’ della città occidentale di Dusseldorf, in cui si metteva in rilievo la decisione del Bundestag e si chiedeva quale fosse la posizione dell’artista riguardo al BDS.

Come lei sa, in Germania vi sono molte discussioni riguardo al BDS e agli artisti che vi hanno aderito. Vi è stata anche molta confusione persino per festival molto più importanti del nostro”, ha scritto Maiburg.

Adesso la nuova situazione è che dal 17 maggio 2019 esiste una posizione ufficiale del governo tedesco sottoscritta da tutti i partiti che in sostanza dichiara ufficialmente che le affermazioni ed i metodi del BDS sono antisemiti.”

Benché la risoluzione del Bundestag non sia vincolante, Maiburg ha affermato che “tutte le amministrazioni delle regioni o delle città, come anche i rappresentanti delle istituzioni pubbliche, sono sollecitati a non concedere al BDS alcuno spazio o tribuna.”

Poiché noi stiamo lavorando anche con finanziamenti pubblici, non abbiamo altra scelta che chiederle una dichiarazione ufficiale riguardo alla sua posizione verso il BDS”, ha aggiunto.

Clima da maccartismo

Anche se non possono essere accusati della violazione di alcuna legge, gli organizzatori del festival probabilmente temono le pressioni e la denigrazione che potrebbero subire per il fatto di ospitare Kweli nell’atmosfera maccartista antipalestinese assecondata dai media e dalle elite della Germania e ulteriormente alimentata dal voto del Bundestag.

La risoluzione del Bundestag invita a rifiutare finanziamenti pubblici alle organizzazioni che sostengono il movimento per il boicottaggio o mettono in discussione il preteso “diritto all’esistenza” di Israele.

Diverse amministrazioni pubbliche tedesche sono sponsor del festival.

Questo è fascismo”

Kweli ha detto che gli è stato chiesto di “condannare il BDS oppure di non esibirsi” ed ha postato sulla sua pagina Facebook una risposta pubblica alla lettera di Maiburg.

Mentendo e sostenendo che il BDS è un movimento antisemita, il governo tedesco si sta dimostrando fascista e non rende un buon servizio al popolo tedesco”, ha scritto Kweli.

Il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni sono soluzioni pacifiste alla crisi che distrugge le case e le vite dei palestinesi. È l’opposto del terrorismo.”

Ha funzionato nel fare del Sudafrica una Nazione più giusta ed equa e potrebbe funzionare in Israele se i suoi oppositori non fossero così ostili ai neri e ai musulmani.”

Kweli si rifiuta categoricamente di piegarsi alle richieste del festival.

Mi piacerebbe esibirmi in Germania, ma non ne ho bisogno. Preferisco comportarmi come un degno essere umano e sostenere ciò che è giusto piuttosto che autocensurarmi e mentire riguardo al BDS in cambio di un assegno.”

Ha anche utilizzato Twitter per affermare la sua posizione dopo che i sostenitori di Israele hanno iniziato ad attaccarlo.

Il governo tedesco sta chiedendo agli artisti che si esibiscono all’ ‘Open Source Festival’, un evento finanziato dallo Stato, di condannare il BDS come antisemita. Il BDS non è antisemita. Questo è fascismo. Io non accetterò censure”, ha twittato Kweli.

Sostenere la Palestina

Questa non è la prima volta che il rapper ha fatto dichiarazioni di principio a favore dei diritti dei palestinesi.

Nel 2014 Kweli ha cancellato i progetti per esibirsi in Israele in seguito agli appelli degli attivisti per i diritti dei palestinesi.

Ha anche espresso il suo appoggio ai diritti palestinesi attraverso la sua musica.

L’anno scorso il gruppo musicale scozzese ‘Young Fathers’si è visto annullare lo spettacolo da un altro festival tedesco perché aveva rifiutato di ritirare il sostegno ai diritti dei palestinesi.

Il gruppo ha definito “una decisione sbagliata e molto scorretta” la richiesta agli artisti di “ripudiare i nostri principi sui diritti umani perché l’esibizione potesse avere luogo.”

Di conseguenza i palestinesi hanno invitato al boicottaggio del festival triennale della Ruhr.

Diversi artisti hanno accettato l’invito e annullato le proprie esibizioni.

Di fronte alla grande manifestazione di solidarietà per i ‘Young Fathers’ il festival ha cambiato idea e ha nuovamente invitato la band.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




“Cantare non è un diritto nella Striscia di Gaza”

Hind Khoudary

6 giugno 2019 – +972

Date le crescenti restrizioni sociali e politiche sotto il controllo di Hamas, i musicisti incontrano notevoli difficoltà se vogliono sviluppare la propria carriera musicale nella Striscia. Molti intendono andarsene per cercare opportunità altrove.

GAZA CITY – Abed Nasser, il proprietario del ristorante Ceda a Gaza City ha dato la notizia ai suoi clienti in un post su Facebook: lo spettacolo musicale tanto atteso in programma più tardi per la serata di Ramadan era stato annullato per le persecuzioni e l’intromissione dell’amministrazione di Hamas.

Secondo Nasser, la polizia aveva cercato di impedire l’accesso a un pubblico misto. Gli avevano ordinato di non permettere agli uomini di partecipare, a meno che non facessero parte di una famiglia che partecipava all’evento. A Nasser è stato chiesto di presentarsi alla sezione dell’intelligence della polizia di Gaza, ma lui ha rifiutato.

La musica sta diventando sempre di più un modo per i giovani di Gaza per sfogare stress e traumi – I palestinesi a Gaza hanno dovuto sopportare, per decenni, violenze e violazioni di diritti umani, in particolare da quando Israele ha imposto il blocco sulla Striscia nel 2007. Ma, con le crescenti restrizioni, sociali, politiche e religiose sotto il governo di Hamas, le opportunità per i musicisti sono ridotte, dato che il governo impedisce a gruppi e attività commerciali di offrire un palco per farlo.

Gli artisti che vogliono esibirsi o i locali che intendono ospitare eventi culturali devono prima procurarsi un permesso. Questo implica rivolgersi ad almeno quattro differenti autorità: il ministero del Turismo, il ministero della Pubblica Sicurezza, l’Unità Generale di Investigazioni che, fra le altre cose, agisce come una polizia della morale pubblica, e la stazione di polizia di Abbas. I permessi sono rilasciati in base a considerazioni di sicurezza e di carattere sociale. Parecchi titolari di esercizi che sono stati oggetto di tali restrizioni sono stati contattati per questo articolo, ma si sono rifiutati di rilasciare interviste per paura di intimidazioni governative.

Hamada Naserallah, un cantante professionista, laureato in legge, ha detto che Hamas gli ha impedito di esibirsi a Gaza almeno cinquanta volte. “Cantare non è un diritto nella Striscia di Gaza”, ha detto Naserallah, che canta con il gruppo Sol Band, una band musicale palestinese che ha preso il nome della quinta nota della scala musicale. Il gruppo di otto componenti suona sia musica moderna che araba tradizionale. “Reprimere, umiliare, vietare feste, controllare la libertà – non posso cantare liberamente come tutti gli altri cantanti su questo pianeta”, ha aggiunto Naserallah.

Ci ha detto che, dopo il concerto del 2016 nella sala della Mezzaluna rossa, la polizia ha proibito al gruppo Sol Band di esibirsi per due anni, perché le donne e le ragazze del pubblico applaudivano e cantavano con Naserallah. Ora un ufficiale di polizia è presente a tutti i suoi concerti, sorveglia la lista delle canzoni e le interazioni con il pubblico. “Ricordo che la polizia una volta ha minacciato di buttarmi giù dal palco se avessi cantato ‘canzoni d’amore’, ha commentato.

In aprile Sol Band ha avuto l’opportunità di esibirsi all’Expo musicale palestinese, a Ramallah. Per Naserallah il sogno di lasciare Gaza si è avverato. Andarsene da Gaza è costoso, e richiede un permesso difficile da ottenere e Israele proibisce ai palestinesi quasi tutti i viaggi tra la Cisgiordania e Gaza. Per Naserallah questa è stata anche l’occasione di esibirsi su un palcoscenico senza una supervisione o censura governative, dato che Ramallah è relativamente più liberale di Gaza.

Prima che Hamas prendesse il controllo nel giugno 2007, la comunità palestinese a Gaza era per la maggior parte tradizionalista e conservatrice”, scrisse nel 2010 Mkhaimer Abu Saada, docente di scienze politiche all’università Al Azhar di Gaza. Ma, da quando controlla la Striscia, Hamas ha intensificato gli sforzi per imporre un’interpretazione conservatrice delle regole della Sharia, anche sulla vita sociale della Striscia.

Ayman Al Batniji, un portavoce della polizia di Gaza a cui è stato chiesto un commento, ha detto che le autorità impediscono solo le feste che “incoraggiano le frequentazioni anormali” fra i sessi. La polizia vieta le riunioni che possono danneggiare i valori della comunità, ha aggiunto, sottolineando che Gaza è una società conservatrice. La gente o i locali a cui è stato impedito di fare una festa avevano avuto in precedenza problemi con il governo in relazione alla moralità, ha detto Batniji, ma per il resto le autorità non impediscono alla gente di esibirsi o di tenere eventi culturali.

Secondo uno studio del Palestinian Center for Policy and Survey Research, che ha preso in esame l’amministrazione di Hamas nella Striscia dal 2011 al 2015, Hamas ha informalmente permesso un approccio più liberale di esistere parallelamente al suo governo conservatore. Per esempio, Hamas incoraggia la separazione dei sessi in scuole e università, ma non l’ha imposta ufficialmente. Basandosi sui dati del medesimo rapporto, Hamas ha comunque mostrato “poca tolleranza nei confronti di una presenza mista ad attività culturali, specialmente se implicano musica, danza e canto”.

Le restrizioni sociali stanno avendo un impatto, al punto che Sol Band ha rinunciato ad esibirsi a Gaza. Hanno invece deciso di crearsi un pubblico sui social media, postando video su Instagram e Facebook. Comunque anche questo sta diventando difficile, dice Naserallah, dato che Hamas non permette ai musicisti a Gaza di filmare video mentre cantano o suonano uno strumento in strada senza prima avere un permesso del Ministero degli Affari Interni, neppure per una storia su Istagram.

Tre dei componenti del gruppo hanno già lasciato Gaza per sempre a causa della mancanza di libertà e di opportunità di sviluppare la propria carriera. A uno dei più giovani, Rahaf Shamaly, 16 anni, è proibito cantare su un palcoscenico, in ristoranti e caffè a Gaza, semplicemente perché è una donna. L’anno scorso la polizia ha impedito a Shamaly di esibirsi al Jazz Journey in Palestine tenuto a Gaza dall’UNESCO.

Vivo in una comunità conservatrice, dove la cultura e le tradizioni controllano la gente. A Gaza non si è abituati a vedere una donna cantare con musicisti maschi” ci ha detto Shamaly. Lei non crede di avere un futuro da cantante a Gaza, date queste restrizioni. Come molti giovani palestinesi, frustrati dai vari livelli di oppressione, con una disoccupazione crescente e limitazioni alla libertà, sta progettando di lasciare la Striscia dopo il diploma di scuola superiore.

Hind Khoudary è un reporter che vive a Gaza.

(traduzione di Mirella Alessio)




L’OMS occulta la responsabilità di Israele per le uccisioni a Gaza

Maureen Clare Murphy

5 giugno 2019 – Electronic Intifada

Nell’arco di un anno tra la popolazione di Gaza, che ammonta a due milioni di persone, ci sono stati circa 7000 feriti da arma da fuoco.

Molti dei feriti hanno subito danni estesi ed in alcuni casi irreversibili alle ossa, alle strutture vascolari e ai tessuti molli.

Centinaia di loro dovranno subire amputazioni se non potranno accedere a cure specialistiche complesse per le loro disastrose ferite.

Tre operatori sanitari sono stati uccisi e oltre 700 feriti.

Sono state rinviate migliaia di operazioni non urgenti in quanto il sistema sanitario, già in crisi, ha affrontato successive ondate di vittime che necessitavano di interventi d’emergenza.

I casi di violenza di genere esaminati dagli operatori del servizio sono raddoppiati in quanto le famiglie hanno avuto difficoltà a fronteggiare ulteriori pressioni economiche e traumi.

Questi allarmanti fatti emergono dall’esame dei dati sui traumi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) relativamente alle proteste della Grande Marcia del Ritorno a Gaza, iniziata nel marzo 2018.

Occultati

I dati forniti dall’OMS sono una lettura sconvolgente. Ma il rapporto nasconde il fatto che questa violenza che spezza e traumatizza i corpi è frutto di una deliberata politica israeliana.

Qualunque cura efficace deve fare una diagnosi corretta delle cause e non solo dei sintomi.

Nell’anno che è seguito all’inizio della Grande Marcia del Ritorno, a Gaza sono stati feriti più di 28.000 palestinesi e uccisi 277, compresi 52 minori, la maggior parte dei quali assassinati durante le manifestazioni di massa disarmate lungo il confine est e nord di Gaza.

Nonostante il carattere civile delle proteste, come affermato da un’equipe di ricercatori delle Nazioni Unite, l’OMS afferma che le uccisioni e i ferimenti sono avvenuti “a causa di scontri con le forze di sicurezza israeliane.”

Si tratta di una grossolana mistificazione dell’uso israeliano della forza contro manifestanti pacifici e disarmati, ufficialmente sancito da ordini di sparare per uccidere o menomare civili, persino se sono minorenni, che non costituiscono alcuna plausibile minaccia.

L’uccisione di circa 60 palestinesi durante le manifestazioni del 14 maggio 2018 è stata un massacro.

Secondo la commissione di inchiesta dell’ONU, quel giorno durante le proteste di Gaza City le forze israeliane di occupazione hanno sparato quasi a una persona al minuto tra le 9,30 e le 17,30.

Alcuni manifestanti hanno cercato di superare la barriera di confine, o hanno tirato pietre o rimandato indietro in direzione dei soldati candelotti di gas lanciati da Israele. Ma questi non erano scontri tra due gruppi armati, come suggerirebbe l’uso del termine “scontri” da parte dell’OMS.

I medici che quel giorno hanno curato i feriti hanno detto, come sintetizzato nel rapporto della commissione ONU, che “le ferite assomigliano a quelle che di solito si possono riscontrare durante una guerra.”

I medici dell’ospedale hanno detto ai ricercatori che alle loro strutture arrivavano “ferite terribili una dopo l’altra”, i pazienti presentavano grandi ferite esposte agli arti inferiori, “la loro pelle ed i tessuti sottostanti….spappolati dalla potenza del proiettile.”

Nel loro rapporto i ricercatori dell’ONU dichiarano che nei mesi delle proteste circa 1.600 persone “sono state ferite da proiettili o frammenti di metallo di rimbalzo, colpi e proiettili frammentati e colpi passati da un corpo all’altro – il che dimostra chiaramente il pericolo di sparare proiettili veri ad alta velocità in mezzo ad una folla di manifestanti.”

L’incredibile numero di vittime non è “il risultato di scontri con le forze di sicurezza israeliane”, è l’uso illegale di forza letale contro persone indifese da parte di un potere occupante che mira alla completa capitolazione della popolazione sotto il suo controllo.

“Sono state commesse gravi violazioni dei diritti umani, che potrebbero configurare crimini contro l’umanità”, affermano i ricercatori dell’ONU.

12 anni di assedio

Il rapporto dell’OMS specifica che le proteste hanno luogo nel contesto di un assedio di 12 anni contro Gaza, però non afferma esplicitamente che l’assedio è imposto da Israele.

L’OMS afferma che il sistema sanitario di Gaza “disponeva già di risorse insufficienti e versava cronicamente in difficoltà”. Durante il primo mese delle proteste della Grande Marcia del Ritorno la metà del totale di farmaci a Gaza aveva raggiunto il livello zero di scorte – meno di un mese di rifornimento.

Un duro stallo tra la dirigenza politica palestinese, con la conseguenza che il personale degli ospedali governativi riceveva solo una parte del salario dovuto, ha inoltre “ridotto la capacità delle istituzioni locali a Gaza di fornire servizi essenziali.”

“Nel solo 2018 hanno lasciato Gaza 84 medici”, afferma l’OMS.

E nonostante tutto questo, come riferito nel rapporto, migliaia di medici volontari a Gaza hanno mantenuto attivo il sistema sanitario ed hanno salvato vite.

Grazie alla presenza di volontari di comunità esperti, solo due pazienti su 6.000 che sono stati feriti agli arti da proiettili ad alta velocità durante le proteste sono morti dissanguati.

Secondo l’OMS, un protocollo di percorso per i traumi, dal primo soccorso nel luogo del ferimento all’ospedale e al trattamento postoperatorio e riabilitativo, ha salvato centinaia di vite.

Tre medici che salvavano vite, due dei quali volontari, sono stati uccisi durante le proteste.

Eppure la responsabilità di Israele per la loro morte è occultata nel rapporto dell’OMS.

L’OMS afferma che “vi è stata un’ondata di incidenti violenti che ha coinvolto il settore sanitario” durante l’anno di proteste, con 446 incidenti a Gaza nel 2018, rispetto ai 24 segnalati nell’anno precedente.

Oltre agli operatori sanitari uccisi, 730 sono stati feriti e più di 100 ambulanze ed altri veicoli sanitari sono stati danneggiati.

Ma il rapporto non identifica il responsabile: Israele.

Lo si confronti con le conclusioni inequivocabili dei ricercatori dell’ONU, che dichiarano:

“Sulla base di numerose interviste alle vittime e ai testimoni e della conferma di riprese video in molte situazioni, la Commissione ha riscontrato ragionevoli motivi per ritenere che i cecchini israeliani abbiano colpito deliberatamente operatori sanitari, nonostante vedessero che erano chiaramente contraddistinti come tali.”

Come le uccisioni e i ferimenti di manifestanti, l’uccisione e la menomazione di operatori sanitari sono la conseguenza diretta di ordini di aprire il fuoco da parte di Israele – non le “conseguenze di scontri.”

Inizio modulo

Maureen Clare Murphy è capo redattrice di Electronic Intifada e vive a Chicago.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Il Futuro della Palestina : il punto di vista dei giovani sulla soluzione dei due stati.

Hugh Lovat

ecfr, 28 maggio 2019

Un quarto di secolo dopo gli accordi di pace di Oslo, alcuni giovani scrittori palestinesi espongono il loro punto di vista sulla soluzione dei due stati.

Mai come oggi la validità del modello dei due stati è stata messa in dubbio. Una delle cause determinanti è senz’altro la comparsa sulla scena di una amministrazione americana che mostra un allineamento senza precedenti con l’ideologia della Grande Israele tipica dell’estrema destra israeliana. Tuttavia, già prima dell’elezione di Donald Trump, il modello dei due stati presentava segni di logoramento. A ciò hanno contribuito non poco lo stallo interminabile del processo di pace in Medio Oriente e l’impegno deliberato dei governi israeliani per ostacolare il processo di crescita dello stato palestinese, mentre consolidavano il loro controllo su Gerusalemme Est e sulla Cisgiordania. Un altro fattore determinante è stata senz’altro l’incapacità dell’Unione Europea di mettere in atto azioni conseguenti alla propria fervente presa di posizione in favore della soluzione dei due stati.

È difficile dire se la prospettiva dei due stati andrà avanti e la situazione attuale non depone certo a favore della sua futura realizzazione. Quello che tuttavia sembra più che certo oggi è che le misure politiche di USA e Israele stanno consolidando una realtà fatta di un solo stato senza uguali diritti per i Palestinesi. Il modo in cui il movimento di liberazione palestinese risponderà a questa sfida sarà cruciale. Se un cambio di strategia da parte dei leader palestinesi più anziani pare improbabile, i giovani attivisti della Cisgiordania, di Gaza, di Israele e della diaspora stanno già sviluppando un approccio diverso.

Questa serie di brevi saggi scritti da giovani intellettuali costituisce una rassegna parziale del dibattito sulla validità attuale del modello dei due stati e su cosa chiedere all’Unione Europea in questo momento critico.

Le opinioni espresse di seguito non rappresentano certo la totalità delle posizioni palestinesi e senz’altro mancano alcune voci, quali quelle degli Islamisti e dei rifugiati nei paesi limitrofi. Tuttavia questi brevi contributi riflettono le posizioni di molti giovani palestinesi sulla situazione attuale e danno un’indicazione sulla direzione in cui si svilupperà il futuro movimento nazionale palestinese. Per questo motivo dovrebbero essere presi in seria considerazione dai responsabili politici.

Yasmeen Al Khodary, scrittrice e ricercatrice. Londra/Gaza

La domanda se si debba o no lasciar cadere la soluzione dei due stati è obsoleta. È difficile pensare che la gente la creda ancora possibile: siamo nel 2019 e non nel 1995 e molte cose sono cambiate in peggio. E poi, come sarebbe una soluzione a due stati?

La gente che quotidianamente subisce le conseguenze di questo progetto –i Palestinesi di Gaza e della Cisgiordania– hanno problemi ben più importanti, quali la sopravvivenza. Le conseguenze devastanti dell’occupazione israeliana hanno gradualmente trasformato i Palestinesi in popolazioni divise, che non godono dei diritti fondamentali e sono senza alcun sostegno, costrette ogni giorno a fronteggiare difficoltà sempre diverse: sono assediati, attaccati militarmente, circondati dagli insediamenti, bloccati da strade con divieto di transito, sottoposti a coprifuoco, arresti e prigione, per nominarne solo alcune. Provate a chiedere a un Palestinese che sta soffocando a Gaza a causa di un blocco che va avanti da 12 anni che cosa pensa della soluzione dei due stati. Molto probabilmente non otterrete risposta. La gente non ne po’ più di discorsi, non ne può più di ripetere sempre la stessa richiesta: ponete fine all’occupazione. Questo è il solo modello che possiamo portare avanti ora.

Yasmeen Al-Khoudary è una scrittrice e ricercatrice indipendente, è specializzata in archeologia e patrimonio e culturale palestinese dell’area di Gaza. Ha co-fondato Diwan Ghazza e scritto per numerose testate fra cui il Guardian, CNN, Al Jazeera English. Account twitter @yelkhoudary

Zaha Hassan, avvocata esperta in diritti umani e visiting fellow presso il Carnegie Endowment for International Peace di Washington.

Venticinque anni di trattato di pace di Oslo hanno confinato i Palestinesi in un buco nero politico e legale. Nella realtà attuale i Palestinesi sono privi del diritto all’autodeterminazione in quello che dovrebbe essere il loro stato sovrano e sono privi di uguali diritti di cittadinanza nello stato di Israele. Benjamin Netanyahu lo chiama lo ‘stato ridotto (state minus)’ palestinese.

Attualmente la scelta fra un unico stato binazionale e due stati è quindi illusoria. Entrambe queste soluzioni sono impraticabili in questo momento e lo saranno anche in futuro, per quanto è dato prevedere. La necessità più urgente è quella di definire con precisione la natura del conflitto attuale e quale dovrebbe essere la risposta a livello internazionale e dell’Europa in particolare.

I Palestinesi subiscono da oltre settant’anni un colonialismo insediativo che li costringe ad abbandonare i loro territori. Ridefinire il conflitto in questi termini non significa che il quadro del diritto internazionale, entro cui sono definiti gli obblighi di Israele quale forza occupante dal 1967, diventi inapplicabile o impraticabile. Il diritto umanitario internazionale non viene disatteso quando si chiede il rispetto delle norme internazionali sui diritti umani. I due quadri normativi si completano a vicenda e forniscono un orientamento per gli stati terzi su come inquadrare e che risposta dare alle azioni di Israele contro i Palestinesi.

Nel passato l’Europa è stata pioniera nel riconoscimento dell’OLP e del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. L’Unione Europea è particolarmente impegnata nel rispetto della legge e dei diritti umani; per questo l’Europa, in accordo con l’ONU, può agire come baluardo nella protezione dei diritti del popolo palestinese e condurre un dibattito che individui una soluzione durevole del conflitto, rispettosa delle richieste individuali e collettive dei Palestinesi.

Ma prima di tutto la UE e i suoi stati membri devono riconoscere la realtà attuale per quella che è, ossia che Israele impone oggi ai Palestinesi un solo stato con un’occupazione e un conflitto perenne che non prevedono uguali diritti.

Zaha Hassan è avvocata specializzata in diritti umani e visiting fellow alla Carnegie Endowment for International Peace. È stata coordinatrice e senior legal advisor del team palestinese di negoziazione durante la richiesta della Palestina di ammissione all’ONU come stato membro, ha fatto parte della delegazione palestinese nei colloqui esplorativi sponsorizzati dal ‘quartetto per la pace’ nel 2011/2012. Account twitter: @zahahassan

Yara Hawari, policy fellow di Al-Shabaka: The Palestinian Policy Network, Ramallah

Molti stati dell’Unione Europea temono che l’annessione formale della Cisgiordania da parte di Israele sia imminente e metta così l’ultima pietra sulla tomba degli accordi di pace di Oslo e della soluzione dei due stati. Se questa preoccupazione include un interesse nella difesa dei diritti dei Palestinesi, essa però non riconosce che gli accordi di Oslo e il modello dei due stati hanno fornito, nei 26 anni trascorsi, una complice copertura all’imposizione di un regime di apartheid che si estende dalla valle del Giordano al Mediterraneo e istituisce un controllo assoluto di Israele sulla vita dei Palestinesi.

Israele accusa continuamente i Palestinesi di non volere la pace e allo stesso tempo colonizza le loro terre costringendoli in ‘bantustan’ sempre più ristretti. La leadership palestinese, ostaggio del dibattito sul processo di pace di Oslo, ha fallito nel proprio progetto democratico e rivoluzionario e di conseguenza il popolo palestinese, con i suoi diritti e le sue aspirazioni all’autodeterminazione, non è mai stato così vulnerabile come in questo momento.

È necessario che gli stati dell’Unione Europea compiano un atto di umiltà e di onestà e riconoscano che un progetto in cui essi avevano investito tempo, denaro e energie non ha avuto gli esiti sperati né ha ottenuto risultati concreti.

Anziché impegnarsi in negoziati che ormai avvengono in un contesto e all’interno di una cornice politica ormai impraticabili, l’UE dovrebbe impegnarsi a far rispettare i diritti internazionalmente riconosciuti ai Palestinesi, ovunque essi si trovino, e garantire l’applicazione del diritto umanitario internazionale. Usando i propri canali diplomatici e di scambio, l’UE dovrebbe chiedere conto a Israele delle violazioni compiute, creando così un ambito più equo di discussione.

Contestualmente, abbandonato il sostegno caparbio alla politica dei due stati, l’Unione Europea potrà contribuire a creare spazi e opportunità anche per i Palestinesi, perché essi possano elaborare altre soluzioni al di fuori dal contesto della divisione in due stati che li ha paralizzati per tutto questo tempo.

Yara Hawari è Palestine policy fellow per Al-Shabaka: The Palestinian Policy Network. Ha tenuto diversi corsi alla Università di Exeter; come giornalista free-lance collabora con diverse testate fra cui Al Jazeera English, Middle East Eye, e Independent. Account twitter:@yarahawari

Amjad Iraqi, scrittore, +972 Magazine, Haifa

Una regola elementare della politica ci insegna che se un piano non produce gli esiti desiderati, allora va rivisto. Purtroppo i governi europei, quando si tratta del processo di pace in Medio Oriente

prefigurato degli accordi Oslo, ignorano questo principio.

Per anni l’Europa ha creduto che l’occupazione fosse insostenibile e indesiderabile tanto per gli Israeliani quanto per i Palestinesi. Questa idea si è rivelata fatalmente sbagliata. Nella situazione attuale gli Israeliani possono permettersi di abitare in ‘Giudea e Samaria’, godersi le risorse naturali del territorio sentendosi sicuri perché sanno che i loro ‘nemici’ a Gaza sono tenuti a bada dall’occhio vigile dell’esercito. La maggioranza delle forze politiche di Israele non considera più l’occupazione una situazione transitoria, ma una soluzione permanente del ‘problema’ palestinese.

L’incapacità dell’Europa di comprendere questa situazione la colloca dieci passi indietro rispetto alla realtà odierna. Sebbene la Green Line compaia come una linea tratteggiata in Google Maps, nella realtà essa non esiste più e di certo non esiste nella mente della potenza occupante. Anche quando il governo israeliano palesa apertamente i propri obiettivi –incluse le leggi sull’annessione di terre e la legge sullo Stato Nazione– le autorità europee continuano a negare le intenzioni di Israele, si dicono preoccupate, ma non sanzionano questa deliberata cancellazione della soluzione dei due stati.

Perciò questo modello non solo è liquidato, ma risulta addirittura deleterio. L’Europa deve aggiornarsi su una situazione di cui i Palestinesi sono ormai consci da decenni: che la realtà in cui viviamo è quella di un solo stato, in cui siamo governati da un regime complesso, ma comunque gestito da uno stato unico, di apartheid. Finché l’Europa non giocherà le proprie carte contro questo sistema, Israele riterrà logico insistere nel mantenimento di questo stato di cose.

Amjad Iraqi è un palestinese con cittadinanza israeliana e attualmente risiede a Haifa. È advocacy coordinator al Centro Legale Hadala, scrive su + 972 Magazine ed è analista politico per Al-Shabaka. Account twitter: @aj_iraqi

Inès Abdel Razek, consulente free-lance, ha lavorato come consulente per l’Ufficio del Primo Ministro Palestinese, Ramallah.

Dobbiamo prendere le distanze dai fallimenti dal processo di pace in Medio Oriente (PPME) gestito dagli USA e dalla soluzione dei due stati, che sono diventati esercizi interconnessi di retorica politica e non tengono conto della realtà. Dobbiamo liberarcene sia perché Israele non ha mai riconosciuto i parametri internazionalmente fissati per la soluzione dei due stati, sia soprattutto se vediamo i passi compiuti dall’amministrazione Trump per porre fine all’autodeterminazione e al diritto al ritorno del popolo palestinese e la sua aperta adesione al punto di vista israeliano.

Bisogna articolare un nuovo modello politico basato sul diritto internazionale, che adotti una strategia imperniata sulle persone, tesa a promuovere uguali diritti e uguale libertà di autodeterminazione per Palestinesi e Israeliani. A prescindere dal fatto che ciò venga realizzato da un unico stato o da due stati, un nuovo modello deve prima di tutto sconfiggere la realtà di un unico stato che espande continuamente gli insediamenti coloniali, e deve contrastare ogni discriminazione su base etnica. La pace non può venire prima della libertà.

Questo nuovo modello politico dovrà quindi controllare che l’abbandono dei parametri tradizionali previsti ad Oslo per il Processo di Pace in Medio Oriente (PPME) non lasci spazio a interpretazioni ambigue e che il governo di Israele non sfrutti eventuali ambiguità per consolidare l’attuale situazione di un solo stato con un regime di apartheid.

Il movimento nazionale palestinese deve impegnarsi a questo cambio di metodo, abbandonare le tattiche usate da Oslo in poi e fare un uso strategico del diritto al ritorno e all’auto-determinazione come vengono riconosciuti a livello internazionale, senza cadere nella trappola della sovranità nazionale. Dal punto di vista della diplomazia, occorreranno una serie di sforzi multilaterali che facilitino questa nuova strategia, mentre gli attori geopolitici fondamentali del Sud globale e dell’Europa dovranno assumere un ruolo determinante e cambiare la deleteria agenda politica ora dominata dagli USA.

Inès Abdel Razek è consulente diplomatica e per la cooperazione internazionale in Palestina e nell’area del Mediterraneo. Attualmente collabora con il Palestinian Institute for Public Diplomacy e si occupa di advocacy internazionale. Account twitter: @InesAbdelrazek

https://www.ecfr.eu/article/commentary_the_future_of_palestine_youth_views_on_the_two_state_paradigm

Traduzione di Nara Ronchetti

A cura di AssopacePalestina




Una risposta palestinese alle esternazioni razziste di Jared Kushner

Haidar Eid

5 giugno 2019 – MondoWeiss

Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Disperdi il fiore della tua progenie–
Obbliga i tuoi figli all’esilio
Per assolvere le necessità dei tuoi prigionieri;
Per vegliare pesantemente bardati
Su gente inquieta e selvaggia–
Popoli da poco sottomessi, riottosi,
Metà demoni e metà bambini.

Da ‘Il fardello dell’uomo bianco’ – Gli Stati Uniti e le isole Filippine

Di Rudyard Kipling, 1899

Nella letteratura e nel discorso razzisti classici i nativi neri e di colore sono raffigurati come gruppi etnici indolenti, che non sono in grado di gestire i propri interessi; sono soggetti arretrati che entrano in conflitto con altri soggetti moderni. Le migliori intenzioni di queste nazioni in ultima istanza non contano niente e qualsiasi cosa abbiano è realizzato dal potere dell’illusione e dall’intervento occidentale. L’ideologia razzista del colonialismo giustifica l’occupazione di terre altrui e quindi sostiene il cosiddetto volto umano del colonialismo occidentale in generale, e del colonialismo di insediamento israeliano in particolare.

Jared Kushner, genero di Donald Trump e suo consigliere per il Medio Oriente, recentemente ha sollevato dubbi sulla capacità dei palestinesi di autogovernarsi: “È qualcosa che dovremo osservare. La speranza è che nel tempo diventino capaci di governare…Prima che i territori palestinesi possano diventare ‘meta di investimenti’, (i palestinesi) hanno bisogno di avere un sistema giudiziario equo….libertà di stampa e di espressione, tolleranza verso tutte le religioni.” Ovviamente secondo lui Israele possiede tutte queste libertà, anche se si guarda bene dal riconoscere che esse spettano esclusivamente ad uno specifico gruppo etnico-religioso.

È andato oltre quando ha chiesto se i palestinesi possano aspettarsi la liberazione dall’ingerenza militare e governativa israeliana, dicendo che questo sarebbe “difficile!”. Per lui “ciò che il popolo palestinese vuole è l’opportunità di vivere una vita migliore. Vogliono la possibilità di pagare il mutuo.”

Questo è razzismo al 101%, direttamente mutuato dal darwinismo sociale del XIX secolo.

Una definizione classica di razzismo, fondata su un approccio rigidamente biologico, in cui credono quelli come Jared Kushner ed altri suprematisti bianchi, dal Sudafrica al Sudamerica all’Israele dell’apartheid, è che gli esseri umani si possano distinguere in base alla loro costituzione biologica e queste differenze comportano innate diversità fondamentali riguardo alle capacità mentali. Questo è il fondamento logico del razzismo. Quindi in base a questa logica i palestinesi non sono in grado di autogovernarsi come gli israeliani bianchi askenaziti. A parte il fatto che le differenze tra gruppi sociali sono una funzione di elementi materiali e storici. E questo si applica alle differenze tra i coloni di insediamento e i nativi in Palestina.

Ci si può chiedere se Kushner abbia mai sentito parlare di Samira Azzam, Salma Khadra Jayyusi, Ghassan Kanafani, Mahmoud Darwish, Toufik Zayyad, Ibrahin Abu Lughd, Hisham Sharabi, Naji Al-Ali, o Fadwa Touqan – solo per citare alcune delle grandi menti palestinesi.

I palestinesi, per i ragazzi ricchi e bianchi come Kushner, non sono veri e propri esseri umani, come gli israeliani askenaziti, perché non producono bombe e macchine. Quindi semplicemente non possono autogovernarsi. Però sono ovviamente responsabili della tragedia delle loro vite dal 1948 ad oggi. Israele, insieme agli USA, ha tentato di civilizzarli. I palestinesi hanno una mentalità diversa, inferiore a quella degli occidentali. Ecco perché questi primitivi ed incivili palestinesi dovrebbero essere grati se gli israeliani askenaziti sono abbastanza generosi da sobbarcarsi il peso di governarli.

Il messaggio di Kushner è abbastanza chiaro: dato che non si può contare sul fatto che i palestinesi gestiscano i propri interessi, dovrebbero accettare l’ “accordo del secolo” e di essere schiavi degli israeliani. Quella di Kushner non è solo un’ideologia razzista, ma anche islamofobica e orientalista. Non ho alcun dubbio che avrebbe sostenuto le leggi ‘Jim Crow’ [leggi sulla segregazione razziale nel sud degli Stati Uniti, ndtr.] e il regime di apartheid, dal momento che la nuova legge israeliana dello Stato-Nazione non gli crea alcun problema!

Permettetemi di concludere questo scritto con una perla tratta da uno dei più grandi pensatori palestinesi del XX secolo, il defunto Edward Said, che scrisse in ‘Cultura e Imperialismo’ che “l’elemento comune sia al colonialismo che al neo-colonialismo, come parti costitutive dell’imperialismo, è la presunzione della superiorità del colonialista bianco occidentale rispetto al colonizzato nero/nativo – e il diritto del primo di opprimere il secondo, il cui ruolo è solamente riaffermare la superiorità del primo.”

Haidar Eid

Haidar Eid è professore associato di letteratura postcoloniale e postmoderna all’università al-Aqsa di Gaza. Ha scritto molto sul conflitto arabo-israeliano, compresi articoli pubblicati su Znet, Electronic Intifada, Palestine Chronicle e Open Democracy. Ha pubblicato saggi su studi culturali e letteratura in parecchie riviste, tra cui Nebula, Journal of American Studies in Turchia, Cultural Logic e Journal of Comparative Literature.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)