Le prospettive di un’indagine formale della CPI sulla situazione della Palestina sono nulle

John Dugard

9 dicembre 2019 – The Right Forum

C’è qualche possibilità di un’indagine sulla “situazione in Palestina” sotto la supervisione dell’attuale procuratrice della CPI, Fatou Bensouda? No, non ce n’è nessuna, spiega John Dugard, per ragioni che potrebbero essere considerate scioccanti.

Ho una breve e semplice risposta alla domanda posta. No, non c’è nessuna possibilità di una simile inchiesta sotto la supervisione dell’attuale procuratrice della CPI [Corte Penale Internazionale, ndtr.], Fatou Bensouda, il cui incarico scade nel 2021.

Perché lo dico?

È diventato assolutamente chiaro che l’ufficio della procuratrice è deciso a non aprire un’indagine sui crimini commessi da Israele in Palestina e contro il popolo palestinese. Il 16 gennaio 2015 la procura ha iniziato un esame preliminare sulla situazione in Palestina. Il 15 maggio 2018 la stessa Palestina ha deferito la questione alla CPI.

Tuttavia già nel 2009 la procuratrice aveva condotto un esame preliminare sulla situazione in Palestina, interrotto nell’aprile 2012, e dal 2013 sulla situazione della ‘Flotilla’ per Gaza. Ciò significa che per 10 anni la procura ha condotto un esame preliminare su una situazione sulla quale ci sono quattro rapporti della commissione d’inchiesta indipendente del Consiglio per i Diritti Umani [dell’ONU], un’opinione consultiva della Corte Internazionale di Giustizia, risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale, rapporti di numerose Ong israeliane, palestinesi e internazionali, ampia copertura televisiva e video che descrivono e testimoniano di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

E finora [la Procura] non ha trovato nessuna base per procedere alla fase successiva dell’inchiesta – cosa che è stata riconfermata dalla procuratrice nel suo ultimo rapporto sulle indagini preliminari. Un rapporto che, come al solito, non dà una onesta e ragionevole spiegazione del fatto che non abbia iniziato un’indagine.

A ciò si unisce il persistente rifiuto della procuratrice ad aprire un’inchiesta sul caso delle Comore (della Mavi Marmara, ndr.), nonostante gli inviti da parte dei giudici della Corte. Secondo me l’unica spiegazione di questo rifiuto a indagare sulla situazione in Palestina e su quella delle Comore è che la Procura è guidata nella sua presa di decisioni da considerazioni extragiudiziarie e politiche.

Sono convinto che ci siano prove più che sufficienti per sostenere che Israele ha commesso crimini di guerra usando una forza e una violenza eccessive e sproporzionate contro civili a Gaza e in Cisgiordania. Sono anche convinto che ci siano prove certe che l’impresa di colonizzazione israeliana costituisca apartheid e abbia dato come risultato l’espulsione forzata e il trasferimento di migliaia di palestinesi dalle loro case, il che significa che ha commesso crimini contro l’umanità.

Tuttavia sono poco propenso ad accettare che ci possa mai essere ragionevolmente una discussione sulla legge e le prove relative al fatto che siano stati commessi questi crimini. Quindi mi si lasci invece spiegare il fondamento della mia affermazione secondo cui fattori extragiudiziari guidano la procura riguardo al crimine di trasferimento da parte della potenza occupante – Israele – di settori della propria popolazione civile nei territori occupati della Cisgiordania e di Gerusalemme est.

Qui le leggi e i fatti sono chiari e non consentono alcuna possibile discussione o dibattito di sorta. La legge è chiara. L’articolo 8(2)(viii) dello Statuto di Roma definisce questo comportamento come un crimine di guerra. Così fanno gli articoli 49(6) della Quarta Convenzione di Ginevra e 85(4) del protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1977. Così fa il diritto internazionale consuetudinario (1).

I fatti sono chiari. Circa 700.000 coloni ebrei israeliani vivono in circa 130 colonie in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Questi insediamenti sono chiaramente all’interno del territorio palestinese occupato – come stabilito dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 2004 (2). Israele continua ad espandere il suo impero coloniale. Questi fatti sono stati ripetutamente portati all’attenzione della Procura della CPI dal governo della Palestina e da ong.

Le prove forniscono chiaramente una base ragionevole per credere che sia stato commesso un crimine che rientra nell’ambito di competenza della Corte, come richiesto dallo Statuto della CPI (3). Non agire in queste circostanze, quando le prove dei crimini di Israele riguardo all’espansione delle colonie aumentano, non solo elimina ogni pretesa di deterrenza, ma in più contribuisce alla commissione del reato. La colpevole mancanza di iniziative per interrompere il crimine quando si ha l’obbligo di farlo rende la procuratrice complice della perpetrazione del reato.

C’è uno schiacciante e autorevole sostegno per arrivare alla conclusione che le colonie siano illegali in base alle leggi internazionali. La Corte Internazionale di Giustizia ha sostenuto all’unanimità che le colonie sono state edificate in violazione del diritto internazionale (4). Il Consiglio di Sicurezza in molte occasioni ha condannato le colonie come illegali, di recente con la risoluzione 2334 del 2016. Ogni anno l’Assemblea Generale [dell’ONU] ha condannato le colonie come illegali. L’UE e quasi tutti gli Stati hanno condannato le colonie come illegali. Il Comitato Internazionale della Croce Rossa è d’accordo. Persino lo stesso consulente legale di Israele: quando Israele iniziò questa impresa di colonizzazione Theodor Meron avvertì che erano illegali. (Ovviamente il presidente Trump ha un’opinione diversa, ma questa è solo una prova a favore della posizione contraria).

Tutto ciò mi porta a concludere che fattori politici e non giuridici guidino la presa di decisioni dalla procura. Ma come questi fattori hanno determinato le decisioni della procura? Per come la vedo io, ci sono due possibilità: una deliberata decisione collettiva della procuratrice, del suo vice e dei funzionari più importanti di non procedere, oppure fattori non esplicitati che hanno portato la procuratrice e la sua équipe ad essere prevenute a favore di Israele.

La prima spiegazione prospetta una deliberata decisione collettiva da parte della procuratrice e dei suoi principali collaboratori di non aprire un’inchiesta. La ragione più probabile per una simile decisione sarebbe il timore di ritorsioni da parte di Israele e degli Stati Uniti. O potrebbe essere la suscettibilità all’opinione diffusa, prevalente tra gli Stati europei, secondo cui la CPI è troppo fragile come istituzione da resistere alle reazioni che potrebbero seguire a una simile inchiesta. Benché una decisione collettiva di questo genere sia possibile, non penso che sia la spiegazione più probabile. La seconda, che fattori non esplicitati abbiano determinato la decisione, richiede qualche spiegazione.

I realisti giuridici americani, una rispettabile scuola di filosofia del diritto, sostengono che la decisione giudiziaria sia il risultato di tutta la storia personale del giudice: che le norme di legge e spinte nascoste, come i pregiudizi politici e morali del giudice, interagiscano nel produrre la decisione giudiziaria. Il giudice della Corte Suprema [USA] Benjamin Cardozo avvertiva che “molto al di sotto della coscienza ci sono…forze, le simpatie e antipatie, le predilezioni e i pregiudizi, il complesso degli istinti ed emozioni e abitudini e convinzioni” di un giudice che contribuiscono alla decisione giudiziaria.

Questi fattori inespressi contribuiscono ancor di più nel processo decisionale dei pubblici ministeri. Fattori non esplicitati sono molto significativi nel contesto della discrezionalità dell’azione penale – un’ampia concessione di autorità discrezionale con scarso controllo e poca trasparenza. È molto più facile per un procuratore soccombere a indebite influenze non formalizzate quando crede che non dovrà giustificare pubblicamente la propria posizione.

Benché la decisione di avviare un’inchiesta spetti principalmente alla procuratrice, è strano che nessun membro del suo staff abbia pubblicamente sollevato obiezioni contro la decisione di non indagare. Ci si sarebbe aspettato che qualcuno anonimamente denunciasse la decisione presa dalla procuratrice e dal suo gruppo di esperti. L’unica spiegazione di ciò è che anche loro abbiano ragioni non esplicitate per adeguarsi alla decisione.

Poiché la maggior parte dei membri della procura ha un mandato limitato e la necessità di tener conto del proprio futuro professionale, c’è inevitabilmente il timore che future possibilità di lavoro possano essere pregiudicate dalla decisione di avviare un’inchiesta su Israele, che sarebbe interpretata da potenziali datori di lavoro come un indicatore di antisemitismo. C’è anche la paura che ciò possa portare a un divieto d’ingresso negli Stati Uniti. La maggior parte degli Stati europei vede Israele come parte dell’alleanza europea (da qui la sua inclusione nel WEOG, il gruppo dei Paesi dell’Europa Occidentale ed Altri Paesi alle Nazioni Unite) e quindi come uno Stato esentato dalle indagini da parte della CPI. Il fatto di non rispettare questo “dato di fatto” può comprensibilmente essere visto come un ostacolo per un futuro impiego.

Il presupposto non esplicitato della procuratrice è di importanza fondamentale. Ci sono fattori nella sua storia personale, in particolare in Gambia, che potrebbero fornire qualche indicazione sulle ragioni inespresse della sua decisione di proteggere Israele dalle indagini?

Tra il 1987 e il 2000 Fatou Bensouda è stata consigliera principale dello Stato, vice direttrice dei pubblici ministeri, avvocatessa generale, ministra della Giustizia e capo dei consiglieri giuridici del presidente e del governo della repubblica del Gambia. Dal 1994 al 2016 il Gambia è stato sottomesso alla brutale dittatura di Yahya Jammeh. La repressione era all’ordine del giorno, mentre i diritti umani vennero duramente eliminati. La ministra della Giustizia non poteva rimanere indifferente a ciò. Che lei fosse coinvolta in questo processo di repressione è diventato chiaro dalle prove di fronte alla Commissione Gambiana per la Verità, la Riconciliazione e il Risarcimento (TRRC). Due uomini, Batch Samba Jallow e Sainey Faye, recentemente hanno testimoniato che fu complice della loro brutale tortura, lunga detenzione senza processo e negazione di una difesa legale (5). Ciò ha portato due avvocati venezuelani a presentare una denuncia al capo del Meccanismo Indipendente di Supervisione (IOM) della CPI in cui si afferma che lei è inadeguata a ricoprire l’incarico di procuratrice. Non risulta che Fatou Bensouda abbia criticato o preso le distanze da Yahya Jammeh.

Queste denunce richiedono un’indagine seria e urgente sull’adeguatezza della procuratrice a ricoprire il suo incarico. E il timore che da parte di Israele possano essere rivelati ulteriori abusi se avviasse un’inchiesta potrebbe benissimo essere il fattore non esplicitato della sua decisione di non aprire un procedimento su Israele.

Durante il periodo dell’apartheid, in Sudafrica i giuristi invocavano i metodi dei realisti giuridici americani per denunciare le premesse sottaciute dei giudici bianchi che regolarmente emanavano sentenze razziste e a favore del governo (7). Ciò portò a un’accentuata consapevolezza da parte dei giudici sulla natura delle sentenze e diede come risultato decisioni più corrette e indipendenti. Il realismo giuridico americano è un potente antidoto in un sistema ingiusto e corrotto. Potrebbe essere proficuamente utilizzato nell’esame del lavoro dell’Ufficio della Procura della CPI.

L’intenzione del mio intervento di stanotte è di rendere consapevoli la procuratrice e la sua équipe dei pericoli di essere guidate dai loro presupposti non esplicitati, che hanno portato al fatto di non garantire giustizia per il popolo palestinese. Ho cercato di evidenziare il tipo di fattori extragiudiziari che probabilmente hanno portato la procuratrice e il suo staff a dimostrarsi di parte a favore di Israele. Spero che facciano un serio esame di coscienza e mettano in discussione i loro motivi nascosti per non aver fatto giustizia a favore del popolo palestinese.

Questo testo è stato presentato da John Dugard ad un evento parallelo dell’assemblea degli Stati membri dello Statuto di Roma, l’Aia, 5 dicembre 2019. Dugard è membro del consiglio consultivo di The Right Forum [una rete di ex- ministri e docenti di diritto internazionale che intendono promuovere una soluzione giusta e durevole al conflitto israelo-palestinese, ndtr.].

John Dugard è professore emerito di Diritto presso le università di Leida e Witwatersrand, relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 2001 al 2008, ex giudice speciale della Corte Internazionale di Giustizia e membro del comitato consultivo di The Right Forum.

(1) J-M Henkaerts e L Doswald-Beck, Customary International Humanitarian Law [Diritto Internazionale Umanitario Consuetudinario], Vol I: Rules, ICRC, CUP, 2005, Rule 130, p. 462.

(2) Legal Consequences of the Construction of a Wall in the Occupied Palestinian Territory [Conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nei territori palestinesi occupati] , 2004 ICJ Reports 136, paras 78, 122.

(3) Articolo 53(1)(a) dello Statuto di Roma.

(4) Ibid, para 120. Il giudice statunitense Buergenthal ha contribuito a questi dati.

(5) Thierry Cruvellier e Mustapha K Darboe, ‘Will Fatou Bensouda Face the Truth Commission in Gambia?’ [Fatou Bensouda affronterà la commissione per la verità in Gambia?], JusticeInfo.Net, Fondation Hirondelle, https://www.justiceinfo.net/en/truth-commission/4/1906-will-fatou-bensouda-face-the-truth- commission-trrc-gambia.html

(6) Carlos Ramirez Lopez e Walter Marquez, ex deputato dell’Assemblea Nazionale del Venezuela e presidente della Fondazione Amparo IAP. Denuncia del 2 agosto 2019.

[7] Vedi J. Dugard, Human Rights and the South African Legal Order [Diritti umani e sistema giudiziario sudafricano], Princeton University Press, 1978, pp 366-388; J Dugard, ‘The Judicial Process, Positivism and Civil Liberty’ (1971) [Il processo giudiziario, positivismo e libertà civili], South African Law Journal 181; J Dugard, Confronting Apartheid. A Personal History of South Africa, Namibia and Palestine [Paragonare l’aprtheid. Una storia personale del Sudafrica, della Namibia e della Palestina], Jacana 2019, pp 52-53.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)