Israele: il voto del partito dimostra che il Likud non ha intenzione di abbandonare Netanyahu

Arwa Ibrahim

27 Dec 2019 27 dicembre 2019 – Al Jazeera

Il primo ministro in difficoltà deve affrontare accuse di corruzione e terze elezioni politiche in 11 mesi

Gli analisti dicono che la vittoria schiacciante del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nelle primarie di giovedì ha dimostrato che il Likud non abbandonerà il suo storico leader e primo ministro in carica per più tempo [nella storia di Israele, ndtr.].

Pur essendo il primo capo del governo in carica ad essere accusato di corruzione e che ha dovuto affrontare gravi sconfitte in due elezioni generali in meno di sei mesi, un conteggio [delle preferenze] del Likud ha dato a Netanyahu il 72,5% dei voti contro il suo sfidante, l’ex ministro degli Interni e dell’Educazione Gideon Sa’ar. La commissione elettorale israeliana deve ancora pubblicare i dati ufficiali del voto, ma il conteggio preliminare ha rafforzato la reputazione di Netanyahu come politico invincibile, soprannominato il “mago”.

Questa schiacciante vittoria è la prova che Netanyahu non ha avversari nel Likud, nonostante le accuse di corruzione e il fatto che per due volte non sia riuscito a formare un governo,” dice ad Al Jazeera l’analista israeliano Mayer Cohen.

Il Likud crede ancora che Netanyahu abbia un ampio sostegno dell’opinione pubblica e sia l’unico in grado di guidare il partito nelle imminenti elezioni,” aggiunge.

Sa’ar, che venerdì ha riconosciuto la sconfitta, aveva annunciato la propria candidatura per la direzione del partito dopo che in novembre il procuratore generale di Israele ha incriminato Netanyahu in tre diversi processi penali per corruzione, frode e abuso di potere.

Netanyahu per due volte non è neanche riuscito a formare un governo in seguito a due elezioni politiche inconcludenti tenutesi nell’aprile e nel settembre di quest’anno.

Il 2 marzo 2020 si terranno le terze elezioni politiche senza precedenti, dopo uno stallo politico derivato dal fatto che neppure il rivale di Netanyahu e leader dell’alleanza “Blu e Bianco” [coalizione di centro destra che ha vinto per un seggio le elezioni di settembre, ndtr.], Benny Gantz, è riuscito a formare una coalizione di governo.

Base d’appoggio

Secondo alcuni analisti, il successo di Netanyahu alle primarie è dovuto a un forte senso di lealtà all’interno del partito e al suo retaggio come primo ministro di successo.

Nel Likud le persone danno importanza alla lealtà. Considerano il partito una famiglia e nessuno tradisce la famiglia,” dice Uri Dromi, direttore generale del Jerusalem Press Club [agenzia che fornisce servizi ai giornali, ndtr.].

Yair Wallach, importante docente di politica israeliana presso la Scuola di Studi Orientali e Africani a Londra, è d’accordo.

Il Likud non ha mai cacciato un leader. Farlo viene visto come sleale,” dice Wallach. “Anche l’opinione pubblica israeliana considera il regno di Netanyahu come un successo. È visto come una forza positiva per Israele sia economicamente che diplomaticamente, così come riguardo alla sicurezza. Il suo approccio militare relativamente cauto è considerato (dai suoi sostenitori) un pregio,” aggiunge Wallach.

Ma secondo lui tenersi stretto Netanyahu potrebbe porre seri rischi al Likud nelle prossime elezioni, e aggiunge che “per il Likud la seconda elezione è andata peggio della prima, e la terza potrebbe benissimo essere persino peggiore. Di conseguenza aggrapparsi su Netanyahu è un rischio per il Likud e per la destra in generale.”

Sfide da affrontare

Secondo Dromi molti membri del Likud potrebbero anche considerare Sa’ar un traditore per aver sfidato Netanyahu, ma l’ex-ministro dell’Educazione ora si è collocato nella posizione di essere in futuro il potenziale sostituto del leader del partito.

Sa’ar è visto come l’unico che ha avuto il coraggio di sfidare Netanyahu. Qualora Netanyahu venga spodestato, politicamente o per via giudiziaria, Sa’ar potrebbe sostituirlo,” spiega.

L’Alta Corte israeliana ha affermato che la prossima settimana prenderà una decisione sulla possibilità che un primo ministro sotto processo formi un governo – nel caso in cui Netanyahu vinca le elezioni di marzo.

Finora l’Alta Corte non ha espresso un parere sull’argomento, ma ha chiesto al procuratore generale Avichai Mandelblit di rendere pubblico un parere giuridico sulla questione prima dell’udienza. Secondo l’analista israeliano Eli Nissan la vittoria di Netanyahu alle primarie del partito potrebbe rafforzare la sua posizione in tribunale. “Dopo i risultati di oggi, questa decisione ora spetta all’opinione pubblica più che al tribunale,” dice Nissan a Al Jazeera.

Cohen concorda, affermando che “la base di sostenitori di destra di Netanyahu ha iniziato a convincersi sempre di più che egli è vittima di una caccia alle streghe per ragioni politiche guidata dai media.” Netanyahu, che ha definito la causa legale contro di lui come una caccia alle streghe politica orchestrata dai media e da una sinistra israeliana che spera di cacciarlo, ha cercato [di ottenere] l’immunità dall’incriminazione.

Benché all’inizio dell’anno gli alleati di Netanyahu abbiano sostenuto la bozza di una controversa legge intesa a proteggerlo dall’incriminazione, così come una normativa che limiterebbe il potere della Corte Suprema israeliana, non è scontato che al primo ministro venga concessa l’immunità.

Se i membri della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] che hanno votato per Sa’ar si astengono o si oppongono alla concessione dell’immunità a Netanyahu, allora egli è nei guai e il suo processo inizia,” dice Dromi ad Al Jazeera. “È ciò che potrebbe fare la differenza nelle terze elezioni.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Sulla via di Gaza: La Freedom Flotilla salperà ancora

Ramzy Baroud

23 dicembre 2019 – Middle East Monitor

Che cosa è Gaza per noi se non un missile israeliano, un razzo rudimentale, una casa demolita, un bambino ferito che viene portato via dai suoi coetanei sotto una grandinata di pallottole? Ogni giorno, Gaza ci viene presentata sotto forma di un’immagine di sangue o un video drammatico, nessuno dei quali può davvero cogliere la realtà quotidiana della Striscia – la sua formidabile risolutezza, gli atti quotidiani di resistenza e il genere di sofferenza che non potrebbe mai essere realmente compreso attraverso un’abituale occhiata ad un post dei social media.

Finalmente la procuratrice capo della Corte Penale Internazionale (CPI) Fatou Bensouda, ha dichiarato la propria “convinzione” che “in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza sono stati commessi, o vengono commessi, crimini di guerra”. Appena è stata fatta la dichiarazione della CPI il 20 dicembre, le organizzazioni filo palestinesi hanno vissuto un raro momento di gioia. Alla fine Israele verrà messo sotto accusa, pagando potenzialmente per i continui bagni di sangue nella isolata ed assediata Striscia di Gaza, per l’occupazione militare e l’apartheid in Cisgiordania e per molto altro ancora.

Però potrebbero volerci anni perché la CPI inizi le sue procedure legali ed emetta la sentenza. Inoltre non ci sono garanzie politiche che una sentenza della CPI che incrimina Israele sarà mai rispettata, tanto meno applicata.

Nel frattempo l’assedio di Gaza continua, per essere interrotto solo da una guerra massiccia, come quella del 2014, o da una meno devastante, simile all’ultimo attacco di Israele in novembre. E ad ogni guerra vengono prodotte ulteriori terribili statistiche, altre vite vengono stroncate ed altre storie dolorose vengono nuovamente raccontate.

Per anni le associazioni della società civile in tutto il mondo hanno faticosamente lavorato per destabilizzare questo orrendo status quo. Hanno organizzato e svolto veglie, scritto lettere ai propri rappresentanti politici e via dicendo. Non è servito a niente. Frustrato dall’inazione dei governi, nell’agosto 2008 un piccolo gruppo di attivisti è salpato per Gaza su una piccola imbarcazione, riuscendo in ciò che le Nazioni Unite non sono riuscite a fare: hanno spezzato, seppur fugacemente, l’assedio israeliano dell’impoverita Striscia.

Questa azione simbolica del movimento ‘Liberare Gaza’ ha avuto un enorme impatto. Ha inviato un chiaro messaggio ai palestinesi nella Palestina occupata: che il loro destino non è determinato solo dal governo israeliano e dalla macchina militare; che ci sono altri soggetti capaci di sfidare il tremendo silenzio della comunità internazionale; che non tutti gli occidentali sono complici come i propri governi delle interminabili sofferenze del popolo palestinese.

Da allora molte altre missioni di solidarietà hanno tentato di seguire questo esempio, giungendo attraverso il mare a bordo di flottiglie o attraverso il deserto del Sinai con grandi convogli. Alcune sono riuscite a raggiungere Gaza, distribuendo medicinali ed altri prodotti. Tuttavia in maggioranza sono state respinte o hanno avuto le loro navi sequestrate in acque internazionali da parte della marina israeliana.

Il risultato di tutto ciò è stato aver scritto un nuovo capitolo della solidarietà con il popolo palestinese che è andato oltre le occasionali manifestazioni e le classiche firme su una petizione.

La seconda Intifada palestinese, la rivolta del 2002, aveva già ridefinito il ruolo dell’“attivista” in Palestina. La creazione dell’“International Solidarity Movement” (ISM) ha permesso a migliaia di attivisti internazionali da tutto il mondo di partecipare all’“azione diretta” in Palestina – ricoprendo così, seppur simbolicamente, il ruolo tipicamente svolto da una forza di protezione delle Nazioni Unite.

Gli attivisti dell’ISM tuttavia usavano i mezzi non violenti di testimonianza del rifiuto della società civile dell’occupazione israeliana. Prevedibilmente, Israele non ha rispettato il fatto che molti di questi attivisti provenissero da Paesi considerati “amici” in base agli standard di Tel Aviv. Le uccisioni di cittadini come l’americana Rachel Corrie e il britannico Tom Hurndall a Gaza, rispettivamente nel 2003 e 2004, è stata solo un prodromo della violenza israeliana che sarebbe seguita.

Nel maggio 2010 la marina israeliana ha attaccato la Freedom Flotilla formata dalla nave di proprietà turca ‘MV Mavi Marmara’ ed altre, uccidendo dieci operatori umanitari disarmati e ferendone almeno altri 50. Come nei casi di Rachel e Tom, non vi è stata una vera attribuzione di responsabilità per l’attacco israeliano alle navi della solidarietà.

Occorre capire che la violenza israeliana non è casuale né è solo un riflesso del noto disprezzo israeliano per il diritto internazionale ed umanitario. Con ogni episodio di violenza Israele spera di dissuadere i soggetti esterni dall’occuparsi degli “affari israeliani”. Eppure, di volta in volta il movimento di solidarietà ritorna con un messaggio di sfida, ribadendo che nessun Paese, nemmeno Israele, ha il diritto di commettere impunemente crimini di guerra.

Dopo un recente incontro nella città olandese di Rotterdam, la coalizione internazionale della Freedom Flotilla, che consta di molti gruppi internazionali, ha deciso di salpare ancora una volta per Gaza. La missione di solidarietà è prevista per l’estate del 2020 e, come nella maggior parte dei 35 tentativi precedenti, è probabile che la Flotilla venga intercettata dalla marina israeliana. Ma probabilmente seguirà un altro tentativo, ed altri ancora, fino a quando l’assedio di Gaza sarà completamente tolto. È diventato chiaro che lo scopo di queste missioni umanitarie non è di consegnare un po’ di farmaci ai circa due milioni di gazawi sotto assedio, ma di sfidare la narrazione israeliana che ha riportato l’occupazione e l’isolamento dei palestinesi allo status quo precedente, cioè un “affare israeliano”.

Secondo l’ufficio delle Nazioni Unite nella Palestina occupata, il tasso di povertà a Gaza sembra si stia incrementando alla velocità allarmante del 2% all’anno. Alla fine del 2017 il 53% della popolazione di Gaza viveva in stato di povertà, e due terzi di essa in “povertà assoluta”. Questo terribile dato include oltre 400.000 bambini.

Una fotografia, un video, un grafico o un post sui social media non potranno mai trasmettere la sofferenza di 400.000 bambini che soffrono la fame ogni giorno della loro vita, affinché il governo israeliano possa soddisfare i suoi scopi militari e politici a Gaza. Certo, Gaza non è soltanto un missile israeliano, una casa demolita ed un bimbo ferito. È una nazione intera che sta soffrendo e resistendo, nel quasi totale isolamento dal resto del mondo.

La vera solidarietà dovrebbe avere l’obbiettivo di costringere Israele a porre fine alla protratta occupazione e all’assedio del popolo palestinese, navigando in alto mare, se necessario. Per fortuna i bravi attivisti della Freedom Flotilla stanno facendo proprio questo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




“Israele congela il progetto di annessione della Valle del Giordano dopo la decisione della CPI di avviare un’inchiesta per crimini di guerra.

Mercoledì 25 dicembre 2019 - Press TV

Israele avrebbe congelato il progetto del primo ministro Benjamin Netanyahu di annettere la Valle del Giordano a seguito della decisione della Corte Penale Internazionale (CPI) di iniziare un’indagine su crimini di guerra del regime nei territori palestinesi occupati.

Martedì [17 dic.] il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth ha scritto che la scorsa settimana la prima riunione di una commissione interministeriale sull’applicazione della “sovranità” israeliana sulla valle del Giordano è stata annullata, poche ore prima dell’inizio previsto.

La riunione della commissione, presieduta da Ronen Peretz, direttore generale ad interim dell’ufficio del primo ministro, è stata annullata dopo che è diventato chiaro che era in arrivo un annuncio della CPI su un’approfondita indagine su crimini di guerra israeliani.

“A causa della decisione del pubblico ministero dell’Aja, la questione dell’annessione della Valle del Giordano verrà a lungo congelata”, ha detto una fonte anonima al quotidiano israeliano.

La commissione interministeriale era stata incaricata di formulare la procedura di annessione del regime di Tel Aviv e [di stilare] un disegno di legge della Knesset.

Venerdì [20 dic.], il procuratore capo della CPI Fatou Bensouda ha dichiarato che l’esame preliminare dei crimini di guerra, aperto nel 2015, ha fornito informazioni sufficienti per soddisfare tutti i criteri per l’apertura di un’inchiesta.

C’è una “base ragionevole” per indagare sulla situazione in Palestina, ha detto. “Sono persuasa che … crimini di guerra siano stati commessi o si stiano commettendo in Cisgiordania, comprese Gerusalemme est (al-Quds)] e la Striscia di Gaza.”

A settembre Netanyahu ha promesso che se fosse stato rieletto, avrebbe immediatamente annesso la Valle del Giordano, un territorio fertile che rappresenta circa un quarto della Cisgiordania.

Attualmente nella Valle del Giordano vivono circa 70.000 palestinesi e 9.500 coloni israeliani

Il commentatore politico israeliano Barak Ravid ha scritto sabato in un tweet che il piano di annessione della Cisgiordania di Netanyahu è stato una delle cause dell’indagine della CPI.

“Ecco cosa ha scritto la procuratrice nell’articolo 177: “Nonostante gli espliciti e continui richiami a Israele di porre fine ad interventi nei territori palestinesi occupati ritenuti contrari al diritto internazionale, non vi è alcuna indicazione che possano cessare. Al contrario, ci sono indicazioni che potrebbero non solo continuare ma che Israele potrebbe cercare di annettere questi territori”, ha scritto.

Il giorno prima dell’annuncio della CPI, Netanyahu ha promesso di ottenere il sostegno degli Stati Uniti all’annessione della Valle del Giordano e di altre colonie in Cisgiordania.

“La prima cosa che faremo”, ha detto Netanyahu, “è instaurare la nostra sovranità sulla Valle del Giordano e anche sulle colonie, e lo faremo con il riconoscimento americano”.

Da quando è entrato in carica nel 2017, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha ricoperto Netanyahu di regali politici, tra cui il riconoscimento di Gerusalemme al-Quds quale “capitale” di Israele e il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv alla città occupata, nonché il taglio degli aiuti ai palestinesi e la chiusura dell’ufficio dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina a Washington.

Prima delle elezioni generali israeliane di aprile, Trump ha firmato un decreto che riconosce la “sovranità” israeliana sulle alture del Golan siriane occupate .

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)

 



L’antisionismo riguarda la correzione di errori storici, non l’incoraggiamento all’antisemitismo

Ran Greenstein

23 dicembre 2019 – +972

Il dibattito sul sionismo è fondamentale, ma non deve diventare anche un test di purezza che indebolisca la solidarietà dove può essere costruita.

Il decreto del presidente Trump dell’11dicembre non cita sionismo o antisionismo, Israele o Palestina. Eppure ha determinato un acceso dibattito su tutte e quattro le questioni, in particolare sul rapporto tra antisionismo e antisemitismo. Buona parte di questo dibattito si sta svolgendo come se avessimo una comprensione condivisa di questi termini e come se fossero interconnessi. Sarebbe opportuno riflettere su questi problemi per chiarire le questioni che ci troviamo ad affrontare oggi.

Il sionismo – l’ideologia, il movimento politico e il progetto di insediamento nato nell’Europa centro-orientale alla fine del XIX° secolo – nella sua essenza vedeva gli ebrei come un gruppo nazionale che necessitava di una propria patria o un proprio Stato indipendente in cui essere al sicuro dalle persecuzioni. Questa patria doveva essere il loro “vecchio-nuovo” territorio ancestrale: la storica terra di Israele, che allora era la terra di Palestina abitata da arabi.

Comprendere il sionismo, così come l’atteggiamento internazionale nei suoi confronti, richiede di guardare al contesto storico in cui è nato, con tre dimensioni fondamentali. La prima è l’emergere dell’etno-nazionalismo negli imperi territoriali in declino, in cui all’epoca viveva la maggior parte degli ebrei – gli imperi russo, austro-ungarico e ottomano – che videro minoranze cercare l’indipendenza dai loro dominatori imperiali. La seconda è l’ultimo stadio dell’espansione coloniale degli imperi marittimi – in particolare di Gran Bretagna e Francia – che videro vaste parti dell’Asia e dell’Africa cadere sotto la dominazione straniera. La terza, che si sviluppò in seguito, è la decolonizzazione dei domini coloniali degli imperi e il sorgere di nuove forme di potere imperialista, che hanno portato alla Guerra Fredda e alle sue conseguenze.

Nei suoi primi decenni il sionismo non riuscì a conquistarsi l’adesione della maggior parte degli ebrei. Alcuni di loro adottarono esplicite posizioni antisioniste e rifiutarono l’appello alla concentrazione territoriale degli ebrei in un proprio Stato. Queste posizioni erano variamente motivate da visioni del mondo religiose, di sinistra e liberali.

La maggioranza degli ebrei non era attivamente contraria al sionismo, ma non lo seguì ideologicamente o nella pratica. Privilegiavano invece altre possibilità: l’integrazione come uguali nei propri Paesi di residenza (su base individuale o collettiva); l’assimilazione nelle culture dominanti; l’immigrazione in luoghi più favorevoli, dove gli ebrei potessero vivere liberi dai vecchi pregiudizi europei contro di loro, come il Nord e il Sud America e il Sudafrica.

In contrasto con questa linea di condotta, il sionismo chiese agli ebrei di tutto il mondo di insediarsi in Palestina. Alcuni lo fecero durante le prime fasi del movimento sionista, ma non necessariamente per un impegno ideologico. Di fatto molti immigrati ebrei si spostarono e si insediarono là perché costretti e in mancanza di alternative migliori – in particolare gli ebrei polacchi negli anni ’20 e quelli tedeschi negli anni ’30, il cui viaggio verso l’ovest era stato bloccato da leggi restrittive.

Comunque centinaia di migliaia di ebrei si spostarono in Palestina, incrementando la popolazione ebraica locale da 50.000 alla fine della Prima Guerra Mondiale nel 1918 a 450.000 alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, nel 1939. Non era solo il numero crescente che importava: durante quel periodo sotto la direzione delle agenzie sioniste gli ebrei comprarono grandi appezzamenti di terra, fondarono decine di nuovi insediamenti urbani e rurali e costruirono vaste infrastrutture economiche ed istituzionali.

Naturalmente gli arabi palestinesi si opposero all’immigrazione, all’acquisto di terre e allo sviluppo politico sulla loro terra guidati fin dalla nascita dal movimento dai sionisti. Tuttavia avevano scarso interesse nel sionismo come l’ideologia della costruzione dello Stato e dell’identità ebraici: il movimento nazionale palestinese si è sempre concentrato sulle conseguenze pratiche dell’insediamento sionista, su come lo colpiva direttamente. Che ciò fosse messo in pratica in particolare dagli ebrei era una preoccupazione molto marginale, ed è lo stesso ora. Alcuni atteggiamenti negativi verso gli ebrei potrebbero essere emersi come conseguenza dello scontro con il sionismo, ma questi furono un risultato, non una causa, della resistenza ad un progetto politico visto come intenzionato a cacciarli e a sostituirli.

Negli anni ’40, in seguito alla Seconda Guerra Mondiale e all’Olocausto, il principio fondante del sionismo – la necessità di una patria sicura o di uno Stato per gli ebrei – conquistò un vastissimo appoggio internazionale e divenne la posizione maggioritaria tra gli ebrei. Anche allora la maggioranza di quanti emigrarono nel nuovo Stato di Israele continuò a farlo per mancanza di opzioni migliori, in particolare a causa dell’espulsione fisica e di condizioni politiche difficili nell’Europa orientale del dopoguerra e della crescente sensazione di insicurezza e di esclusione politica in Medio Oriente e in Nord Africa. L’impegno politico giocò ancora un ruolo secondario in questo processo. La percezione del sionismo come la possibilità di un rifugio per gli ebrei in circostanze disperate e di fare tutto quanto fosse possibile per garantire la loro sopravvivenza alla fine si consolidò nelle menti degli stessi ebrei e nel resto del mondo.

Tuttavia questa forma di sopravvivenza degli ebrei comportò un prezzo notevole. Israele venne edificato sulle rovine della società arabo-palestinese e la sua creazione diede come risultato la pulizia etnica, la frammentazione e l’esilio su larga scala. Quindi l’opposizione a Israele divenne molto vasta nel mondo arabo e islamico. Parte di questa opposizione venne occasionalmente espressa in discorsi e azioni antisemiti, ma fu quasi sempre un risultato dell’indignazione per l’espulsione dei palestinesi, non la sua causa. Così è in buona misura ancora ai giorni nostri.

Globalmente il sionismo è stato visto contemporaneamente come una forma di autodeterminazione nazionale e come una forma di dominio colonialista sulla popolazione indigena del territorio. Per i palestinesi, sionismo significa spoliazione e privazione dei diritti; per la maggior parte degli ebrei, significa appoggiare il concetto di uno Stato ebraico. Le precise implicazioni del carattere ebraico dello Stato, la sua relazione con l’ebraismo come religione, le conseguenze pratiche per i cittadini ebrei e non ebrei e i suoi confini e le sue politiche sono tutti messi in discussione all’interno. Non c’è una posizione sionista unitaria su questi argomenti, e non c’è mai stata.

Di fronte a questo scenario, per la maggioranza degli attivisti della solidarietà di oggi, antisionismo significa il rifiuto della nozione di Israele come Stato esclusivamente ebraico in cui i palestinesi sono sottoposti a una posizione di inferiorità o ne sono del tutto esclusi. In pratica antisionismo significa appoggiare l’uguaglianza, la giustizia e il risarcimento per i palestinesi che vivono come cittadini di seconda classe, soggetti all’occupazione o rifugiati senza Stato. Ciò significa appoggiare i diritti degli ebrei di vivere come uguali in Israele-Palestina, e in qualunque altro luogo di residenza, senza particolari privilegi o obblighi. Ciò va oltre la contrapposizione rispetto a politiche specifiche, come l’occupazione del 1967 o l’assedio di Gaza, che non richiedono una posizione antisionista.

Le principali obiezioni nel dibattito interno tra gli ebrei sul sionismo nel periodo precedente al 1948 sono di grande interesse per gli accademici. Tuttavia sono diventate marginali nel discorso pubblico a causa della concentrazione di molti attivisti sulle sole politiche israeliane. Queste questioni rimangono rilevanti oggi: gli ebrei sono una Nazione, una religione o una combinazione di entrambe? Hanno bisogno di uno Stato solo per loro? La diaspora è un’anomalia o una caratteristica permanente, forse desiderabile, dell’esistenza ebraica?

In questo contesto di solidarietà e di lotta, la divisione tra prospettive liberali e radicali si basa sulla questione dello Stato ebraico, che tende a separare i sionisti dagli antisionisti. Ma ciò non dovrebbe essere un ostacolo per la mobilitazione su preoccupazioni pratiche condivise: opposizione all’occupazione del 1967 e alle politiche di colonizzazione, uguaglianza per i cittadini palestinesi, e via di seguito. Qui la regola pratica è costruire un vasto fronte basato su quello che abbiamo in comune, facendo nel frattempo attivismo in modo separato per pubblici diversi su questioni che ci dividono. La questione del sionismo, per quanto fondamentale, non deve diventare un test di purezza che indebolisca la solidarietà dove può essere costruita.

Un modo per garantire questo è l’adozione di un linguaggio strategico semplice. Le forze che mettono in atto l’assedio di Gaza, spogliano il popolo della propria terra su entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra Israele e la Cisgiordania, ndtr.] e tengono i palestinesi sotto occupazione sono lo Stato di Israele e i suoi organi militari e civili. Sono aiutati e spalleggiati da sostenitori (sia ebrei che non ebrei) che agiscono come agenti dell’hasbara [propaganda israeliana, ndtr.] all’estero. Non sono i “sionisti” genericamente etichettati (per non parlare degli “zios” [termine spregiativo per indicare i sionisti, ndtr.]) che lo fanno. Semmai è una concreta serie di forze affiliate in vario modo all’apparato statale israeliano.

Più prendiamo di mira individui, istituzioni e politiche concreti ed evitiamo di usare termini vaghi e fumosi, meglio possiamo concentrare gli sforzi di solidarietà e resistenza e contrastare con efficacia accuse di antisemitismo come armi utilizzate contro il movimento per porre fine all’apartheid israeliana e ottenere giustizia ed uguaglianza per tutti.

Ran Greenstein è professore associato di sociologia all’università del Witwatersrand a Johannesburg, in Sudafrica. Tra le sue opere ci sono “Zionism and its Discontents: A Century of Radical Dissent in Israel/Palestine [Il sionismo e i suoi dissidenti: un secolo di dissenso radicale in Israele/Palestina], (Pluto, 2014) e “Identity, Nationalism, and Race: Anti-Colonial Resistance in South Africa and Israel/Palestine [Identità, Nazionalismo e Razza: resistenza anticolonialista in Sudafrica e in Israele/Palestina] (Routledge, in uscita).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Gli studenti della York chiedono di mettere al bando la violenta JDL

Nora Barrows-Friedman

20 dicembre 2019 – Electronic Intifada

In seguito agli attacchi contro attivisti antirazzisti dello scorso mese nell’università canadese di York, alcuni studenti hanno chiesto che due gruppi estremisti vengano esclusi dal campus: la Jewish Defense League of Canada [Lega di Difesa Ebraica del Canada, gruppo sionista di estrema destra dichiarato terrorista dall’FBI nel 2001, ndtr.] ed Herut, sezione canadese di un partito israeliano di estrema destra. Ciò avviene dopo che l’università di Toronto ha ceduto alle pressioni di politici di destra e di gruppi della lobby israeliana ed ha sospeso il riconoscimento formale di Herut che del gruppo universitario Students Against Israeli Apartheid [Studenti contro l’Apartheid Israeliana] (SAIA).

I membri del SAIA sono stati aggrediti mentre protestavano contro un evento del 20 novembre, che ospitava soldati israeliani nel loro campus. Poi sono stati calunniati in quanto antisemiti da Herut e dalla JDL del Canada. Invece di prendere iniziative contro i gruppi antipalestinesi e proteggere i suoi studenti contro tali attacchi, l’amministrazione della York ha proposto un processo di mediazione tra Herut e SAIA. Mercoledì la rettora dell’università, Rhonda Lenton, ha annunciato che il prossimo mese inizierà un’ “analisi indipendente” dell’incidente.

Ma l’inchiesta non sarà così imparziale come sostiene l’università.

Secondo i suoi criteri di riferimento, l’indagine non potrà “attribuire responsabilità a gruppi o individui.”

Ciò di fatto protegge Herut e la JDL dall’essere chiamati a rispondere del loro comportamento, perché molte prove indicano che i loro membri sono stati responsabili di soprusi e violenze.

In una recente dichiarazione Michael Levitt, capo del Gruppo Interparlamentare Canada-Israele, si è vantato di aver incontrato Lenton lunedì.

Levitt, parlamentare del partito Liberale del primo ministro Justin Trudeau al governo, ha ripetuto accuse senza fondamento di antisemitismo contro i sostenitori dei diritti dei palestinesi, ed ha chiesto che Herut venga immediatamente reinserito come associazione del campus.

Lo scorso mese Lenton ha denunciato una risoluzione da parte della Federazione degli Studenti della York che ha difeso il diritto degli studenti a mobilitarsi contro la guerra, l’occupazione e l’estrema destra, compresi i rappresentanti di Israele “o di qualunque altro potere imperialista”.

JDL ha fatto da sicario per Herut

Il 20 novembre il gruppo propagandistico dell’esercito israeliano “Reservists on Duty” [Riservisti in servizio] ha tenuto un incontro ospitato alla York da Herut.

Students Against Israeli Apartheid” ha affermato di aver deciso di protestare contro l’evento perché, ha sostenuto, “l’esercito israeliano, utilizzando Herut come tramite, è stato visto fare attivamente opera di reclutamento nei campus di tutto il Canada, cosa che di fatto è illegale.”

E quando gli studenti si sono presentati per manifestare a favore dei diritti dei palestinesi sono stati accolti con la violenza e l’intimidazione.

I membri della Jewish Defense League hanno aggredito gli studenti che protestavano e poi hanno inventato accuse di antisemitismo, nonostante non abbiano presentato nessuna prova credibile.

Importanti politici canadesi hanno ripetuto queste calunnie senza alcuna prova.

Il Jerusalem Post [giornale israeliano di destra, ndtr.] ha alimentato queste accuse con la provocatoria affermazione secondo cui i sostenitori dei diritti dei palestinesi avrebbero scandito verso gli ebrei “Intifada, Intifada, tornate nei forni.”

In seguito il giornale è stato obbligato ad ammettere di non avere prove di questa grave accusa, nonostante ci siano decine di video dell’evento.

Il quotidiano ha semplicemente ripetuto un’accusa fatta da un ex-membro di uno squadrone della morte dell’esercito israeliano che ora fa parte di “Riservisti in Servizio”.

Prima dell’evento e della protesta, l’amministrazione dell’università aveva scritto a Meir Weinstein, il capo di JDL Canada, mettendo in guardia i suoi membri dal mettere in atto “minacce o intimidazioni”. Secondo un’intervista che egli ha rilasciato in aprile, in precedenza a Weinstein era stato vietato l’accesso all’università di York.

Ma il 20 novembre ai membri della JDL, compreso Weinstein, è stato consentito di entrare nel campus. L’avvocato Dimitri Lascaris, che rappresenta i militanti del SAIA, afferma che “teppisti della violenta Jewish Defense League hanno partecipato all’avvenimento e agito come sicari per conto di Herut.” La lettera della York a Weinstein dimostra che l’università era consapevole che la Jewish Defense League stava progettando di partecipare all’evento, “e che la JDL rappresenta una seria minaccia per la sicurezza degli attivisti del SAIA,” dice Lascaris a The Electronic Intifada.

Nel recente passato membri della JDL sono stati imputati per crimini di odio e aggressioni,” afferma Lascaris. “Anche questo molto probabilmente è noto all’amministrazione dell’università York. Nonostante questi fatti, la York ha consentito ai membri della JDL di partecipare all’evento.”

Peggio ancora, sottolinea, “le guardie della sicurezza sono rimaste inerti sia prima che dopo gli attacchi contro gli attivisti solidali con i palestinesi.”

L’avvocato sostiene che l’università di York “è quindi responsabile per il danno recato a questi attivisti.”

Students Against Israeli Apartheid’ sta prendendo in considerazione le sue alternative legali, ma nel frattempo, afferma Lascaris, il gruppo attenderà i risultati dell’inchiesta della York e della mediazione.

Alcuni studenti stanno chiedendo che l’università garantisca la loro sicurezza e consideri responsabili la JDL ed Herut, anche vietando il loro ingresso nel campus.

Nel contempo secondo Lascaris la sospensione del SAIA “trasmette un terribile messaggio”. “Comunica agli attivisti antirazzisti che, se si oppongono ad attori potenti ed influenti che si impegnano o promuovono gravi violazioni dei diritti umani, l’amministrazione dell’università non solo non li proteggerà, ma li prenderà di mira con misure punitive,” ha affermato.

Oltretutto le azioni e le dichiarazioni di Levitt, di Trudeau, del primo ministro dell’Ontario Doug Ford e di altri politici “mettono assolutamente in chiaro che Israele e i suoi sostenitori sono tenuti in altissima considerazione in questo Paese.”

Questi politici hanno ripetutamente lanciato gravissime accuse contro i miei clienti senza la minima prova che le giustificasse,” afferma Lascaris.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 10 – 23 dicembre 2019

Durante le manifestazioni della “Grande Marcia del Ritorno” (GMR), tenute nei pressi della recinzione perimetrale che separa la Striscia di Gaza da Israele, 129 palestinesi, tra cui 44 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane.

Secondo il Ministero palestinese della Salute di Gaza, 60 persone sono state ricoverate in ospedale per ferite, mentre le rimanenti sono state curate sul campo. Fonti israeliane hanno riferito che, in diverse occasioni, i manifestanti si sono avvicinati alla recinzione ed hanno lanciato ordigni esplosivi, senza provocare feriti israeliani. Le proteste del 13 e del 20 dicembre hanno fatto registrare il più basso numero di ferimenti dal marzo 2018, data di inizio della GMR.

In alcune occasioni, fazioni armate di Gaza hanno lanciato missili contro Israele che, a sua volta, ha effettuato attacchi aerei su Gaza, prendendo di mira, a quanto riferito, strutture militari. Nessuno degli attacchi ha provocato vittime. A Gaza, circa 10 edifici residenziali, prossimi agli obiettivi citati sopra, hanno subito lievi danni.

Il 19 dicembre, secondo quanto riferito in risposta al lancio di un razzo, Israele ha ridotto da 15 a 10 miglia nautiche (NM) la zona di pesca consentita [ai palestinesi] al largo della costa meridionale di Gaza; il limite di 15 miglia è stato poi ripristinato il 23 dicembre. Sulla costa settentrionale rimangono immutate le restrizioni di pesca imposte da Israele; qui la distanza massima consentita dalla costa è di sei miglia nautiche. Durante il periodo in esame, al largo della costa di Gaza le forze israeliane hanno aperto il fuoco verso pescatori palestinesi in almeno sette occasioni; non risultano feriti, ma una barca è stata affondata.

L’esercito israeliano ha riferito che a Gaza, il 17 dicembre, ad est di Khan Younis, un palestinese 18enne armato è stato colpito e ucciso dalle forze israeliane mentre si stava avvicinando alla recinzione. Il giovane non è stato riconosciuto da alcuna fazione armata e il suo corpo è stato trattenuto dalle autorità israeliane. In un altro caso, le forze israeliane hanno sparato e ferito, e successivamente arrestato, un palestinese che era entrato in Israele attraverso la recinzione; secondo quanto riferito era in possesso di un coltello.

In almeno altre 15 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco [di avvertimento] allo scopo di far rispettare le restrizioni di accesso [imposte da Israele ai palestinesi] sulle aree [di Gaza] adiacenti alla recinzione perimetrale; non sono stati segnalati feriti. Le forze israeliane hanno effettuato una incursione [nella Striscia] ed hanno svolto una operazione di spianatura del terreno vicino alla recinzione. In due episodi separati, vicino alla recinzione perimetrale tra Gaza e Israele, sono stati arrestati quattro palestinesi, tra cui tre minori.

Il 22 dicembre, le autorità israeliane hanno annunciato che, in occasione delle festività natalizie, avrebbero agevolato l’accesso dei residenti cristiani di Gaza e della Cisgiordania ai luoghi sacri di Gerusalemme Est e Betlemme. Secondo lo stesso annuncio, i permessi per uscire da Gaza ed entrare in Gerusalemme Est (destinati ai titolari di documento di identità della Cisgiordania) consentiranno agli interessati di dover sostenere unicamente il controllo di sicurezza individuale, indipendentemente dalla loro età. Secondo la consueta politica israeliana nei confronti di Gaza, avrebbero invece ottenuto permessi di uscita solo palestinesi appartenenti a determinate categorie ben definite, fermo restando il controllo di sicurezza individuale.

In Cisgiordania, in diverse circostanze, sono stati feriti dalle forze israeliane 14 palestinesi, tra cui almeno tre minori [segue dettaglio]. Nella zona di Tulkarm, in tre diverse occasioni, le forze israeliane hanno sparato con armi da fuoco ed hanno ferito sei palestinesi; ne hanno aggredito fisicamente altri due che, a quanto riferito, per motivi di lavoro avevano tentato di entrare in Israele valicando la Barriera, senza permesso e attraverso aperture non autorizzate. Altri quattro ferimenti sono stati segnalati durante scontri avvenuti nel corso di operazioni di ricerca-arresto. Un altro palestinese di 16 anni è stato colpito e ferito con arma da fuoco sulla strada 60, vicino a Betlemme; a quanto riferito, stava per lanciare una bottiglia incendiaria contro veicoli israeliani; il ragazzo è stato successivamente arrestato.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno effettuato un totale di 154 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 146 palestinesi, tra cui almeno 17 minori. Il maggior numero di operazioni è stato registrato nel governatorato di Gerusalemme (41) (principalmente nel quartiere di Al ‘Isawiya a Gerusalemme Est), seguito dai governatorati di Ramallah (34) e Hebron (27).

In Area C e Gerusalemme est, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o costretto le persone ad autodemolire 29 strutture, sfollando 45 persone e creando ripercussioni su altre 100. Dodici delle strutture prese di mira, di cui cinque precedentemente fornite come assistenza umanitaria, si trovavano nei governatorati di Tubas, Nablus e Gerico, presso tre Comunità di pastori situate in aree designate come “zone per esercitazioni a fuoco” e destinate [da Israele] all’addestramento militare. In Cisgiordania nel 2019, finora, sono state demolite o sequestrate 617 strutture, sfollando 898 palestinesi; queste cifre rappresentano rispettivamente un aumento del 35% (strutture) e del 92% (sfollati), rispetto al corrispondente periodo del 2018. Oltre il 20% di tutte le strutture prese di mira nel 2019 e circa il 40% di tutte le strutture di sostegno finanziate da donatori, si trovavano in “zone per esercitazioni a fuoco”; questa denominazione viene attribuita a circa il 30% dell’Area C.

Durante una delle demolizioni in una “zona per esercitazioni a fuoco” ad est di Nablus, le forze israeliane hanno sradicato o tagliato circa 2.500 alberi forestali e alberelli. Gli alberi facevano parte di un’area ricreativa (anche descritta dai palestinesi come una “riserva naturale”) fruibile da circa 14.000 residenti della vicina città di Beit Furik e della Comunità di pastori di Khirbet Tana. Quest’area era stata attivata con il sostegno del Ministero dell’Agricoltura palestinese e di una Organizzazione internazionale. In Area C, questa è la terza area ricreativa distrutta nel 2019.

Il 10 dicembre, circa 80 agricoltori palestinesi di tre villaggi del governatorato di Salfit hanno perso il diritto di accesso alla loro terra situata dietro la Barriera della Cisgiordania; infatti le autorità israeliane hanno confiscato i loro permessi di ingresso. L’episodio si è verificato al cancello della Barriera che porta ai terreni degli agricoltori, secondo i quali non è stata data loro alcuna motivazione. Il 5 dicembre, gli agricoltori di questi tre villaggi avevano presentato una petizione alla Corte Suprema di Israele contro la abituale trascuratezza delle autorità nell’apertura del cancello all’ora prevista.

In otto attacchi di coloni israeliani, quattro palestinesi sono rimasti feriti e circa 330 alberi di ulivo e sette veicoli sono stati danneggiati [segue dettaglio]. Nella Zona (H2) della città di Hebron, controllata da Israele, tre donne palestinesi sono state aggredite con spray al peperoncino e ferite. Nei pressi dell’insediamento colonico avamposto [cioé, non autorizzato da Israele] di Ibei Hanahal (Betlemme), un pastore palestinese che stava pascolando le sue pecore è stato attaccato e ferito da un cane sguinzagliato da coloni. Presso i villaggi di Al Khadr (Betlemme) e Al Mughayyir (Ramallah), assalitori (ritenuti coloni) hanno vandalizzato circa 330 alberi di ulivo; questo episodio si è verificato in un’area in cui i palestinesi, per accedere alla loro terra, devono richiedere una autorizzazione alle autorità israeliane. In altri due episodi verificatisi nel villaggio di Far’ata (Qalqiliya) e nella Zona H2 della città di Hebron, coloni israeliani hanno dato fuoco a due veicoli palestinesi, hanno forato le gomme di altri due ed hanno spruzzato scritte tipo “Questo è il prezzo da pagare”. Altri tre veicoli palestinesi, in transito su strade principali, sono stati colpiti da pietre e danneggiati.

Secondo resoconti di media israeliani, nel corso di sette episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi, verificatisi su strade prossime a Betlemme, Hebron, Gerusalemme e Ramallah, un israeliano è stato ferito e almeno otto veicoli sono stati danneggiati.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali. Il neretto è di OCHAoPt.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

 




Il sionismo fa affidamento sul suprematismo bianco

Asa Winstanley

20 dicembre 2019 – Middle East Monitor

Un obiettivo strategico a lungo termine del movimento sionista è stato quello di fomentare il settarismo in Palestina e in tutta l’area. È un classico trucco delle strategie imperialiste: dividi e governa.

Ciò ha ovviamente avuto in una certa misura successo. La falsa divisione della regione in “arabi contro ebrei” è stato un importante risultato del movimento colonialista di insediamento sionista. La realtà, tuttavia, è che, fino alla nascita del movimento sionista, in Palestina come in altri Paesi del mondo arabo gli ebrei di lingua araba hanno vissuto quasi sempre in pace con i loro vicini musulmani e cristiani.

Il sionismo è sempre stato un movimento razzista, colonialista, che si affida all’aiuto del suprematismo bianco occidentale (e quindi dell’antisemitismo) per avere successo. Il movimento sionista tedesco, per esempio, andò incontro ad un fallimento quasi totale nel [tentativo di] persuadere gli ebrei tedeschi a lasciare il loro Paese d’origine e trasferirsi in Palestina come coloni sionisti. Questo storia di insuccessi subì una inversione quando il movimento sionista in Germania iniziò a ricevere il sostegno dello Stato. Esso in effetti collaborò negli anni ’30 con il regime nazista di Hitler .

In seguito alla presa del potere dei nazisti nel 1933, il governo tedesco ferocemente antisemita fece dell’emigrazione ebraica una delle sue massime priorità. Inizialmente ciò non venne compiuto attraverso le deportazioni forzate, che giunsero più tardi. L’ eliminazione fisica degli ebrei europei nei campi di sterminio nazisti durante l’Olocausto iniziò nel 1941.

È un fatto storico ben documentato (anche se a volte tabù) che negli anni ’30 il movimento sionista si unì al governo nazista per dare alla popolazione ebraica tedesca una serie di incentivi perché lasciasse la Germania e andasse in Palestina. Il più noto di questi incentivi fu l’accordo di trasferimento, o Haavara. In base a questo accordo, gli ebrei tedeschi che accettavano di lasciare il loro Paese potevano recuperare una parte del proprio patrimonio finanziario sotto forma di proventi dalla vendita di prodotti tedeschi, ma solo dopo aver raggiunto la Palestina [accordo di Haavara (trasferimento) del 1933, siglato tra Hitler e i movimenti sionisti, grazie al quale gli ebrei forzatamente emigrati in Palestinaavrebbero recuperato almeno in parte le somme lasciate in Germania grazie all’esportazione di prodotti tedeschi destinati alle comunità ebraiche già insediate nel Mandato britannico”, ndtr.].

Ma si andò oltre l’accordo di trasferimento. Dozzine di centri di riqualificazione o di “rieducazione” vennero istituiti in tutta la Germania per preparare i partecipanti alla loro nuova vita da coloni in Palestina. Questi centri erano gestiti dall’ala giovanile della Federazione sionista tedesca ed erano anche tenuti sotto stretto controllo nazista dalla notoriamente antisemita Schutzstaffel, le SS.

La propaganda sionista (consentita e persino incoraggiata dai nazisti) affermava che gli ebrei tedeschi non erano realmente tedeschi, ma erano solo ebrei che vivevano in Germania. Ciò si sposava perfettamente con la propaganda nazista velenosamente antisemita. I nazisti spogliarono sistematicamente tutti gli ebrei dei loro diritti, spingendoli a lasciare la Germania. Fino alla vigilia della seconda guerra mondiale, gli sforzi nazisti per rimuovere gli ebrei tedeschi dalla Germania e inviarli in Palestina continuarono con la collusione attiva dei gruppi sionisti. Le SS furono persino coinvolte in alcuni tentativi di condurre illegalmente ebrei dall’Europa in Palestina sotto il naso delle autorità di occupazione del Mandato Britannico [in base agli accordi Sykes-Picot del 1916, dopo la sconfitta dell’Impero ottomano nella prima guerra mondiale, il Regno Unito governò sulla Palestina dal 1920 e il 1948, ndtr.].

Le leggi antisemite di Norimberga dei nazisti nel 1935 perseguitarono in diversi modi gli ebrei tedeschi e li privarono del diritto di voto. Ai sensi dell’articolo 4 di tale ordinamento legislativo, tuttavia, l’unica bandiera che gli ebrei erano autorizzati a sventolare era [quella con] “i colori ebraici”; la stessa bandiera divenne in seguito la bandiera nazionale di Israele [la bandiera israeliana ha due strisce blu con una stella di David blu su uno sfondo bianco, ndtr.].

Un’altra fonte del suprematismo bianco su cui il sionismo fece affidamento per il sostegno finanziario, logistico e politico fu quella avvalorata dall’Impero britannico. Per 31 anni, a partire dal 1917, la Gran Bretagna occupò militarmente la Palestina, sfidando la volontà della sua popolazione originaria, che voleva uno Stato democratico e non settario. Ancor prima di invadere con successo la Palestina, nel corso della prima guerra mondiale l’Impero britannico aveva già preso la decisione politica di consegnare la Palestina al movimento sionista.

La famigerata Dichiarazione di Balfour del governo britannico del 1917 decretò che la Palestina sarebbe diventata “il focolare nazionale per il popolo ebraico”, nonostante all’epoca soltanto una piccola minoranza della popolazione di quel Paese fosse ebrea. La stragrande maggioranza degli abitanti erano musulmani e cristiani di lingua araba.

L’impero britannico prese la sua decisione in parte per motivi di fanatismo religioso – il sionismo cristiano – e in parte per le solite ragioni geopolitiche nell’interesse dell’impero. La Palestina era considerata un importante crocevia internazionale, parte della rete di comunicazione e commercio britannico con i suoi possedimenti imperiali in India.

Ovviamente, il sostegno dell’impero al movimento sionista è diminuito ed è cessato nel corso degli anni, con l’avvio da parte delle milizie sioniste di una guerra aperta contro la Gran Bretagna nel periodo precedente al 1948 e la creazione dello Stato di Israele in Palestina. Questo faceva parte della loro guerra contro la popolazione palestinese nativa.

Tuttavia, la realtà essenziale della storia è che l’Impero britannico sostanzialmente consegnò la Palestina al movimento sionista a spese della popolazione autoctona. Come Lord Arthur Balfour stesso ammise in privato nel 1919: “In Palestina, non abbiamo nessuna intenzione di seguire una modalità di consultazione dei desideri degli attuali abitanti del Paese … Le quattro grandi potenze si affidano al sionismo e il sionismo, sia esso giusto o sbagliato, buono o cattivo, è radicato nella tradizione millenaria, nei bisogni attuali, nelle speranze future con un’importanza molto più profonda dei desideri e dei pregiudizi di 700.000 arabi che ora abitano quella terra antica ”.

Tale aperto razzismo era tipico dell’Impero britannico. E mostra perché Hitler non ebbe mai dei problemi con i territori d’oltremare sotto il controllo della Gran Bretagna. Cercò invece di persuadere il governo britannico ad accettare “sfere di influenza” reciprocamente vantaggiose, prima di tentare di imporle quando la Gran Bretagna rifiutò di accettare il dominio tedesco nell’Europa continentale.

Ovviamente oggi il movimento sionista si affida principalmente al sostegno dell’impero americano. L’ultima manifestazione di come esso faccia anche affidamento sul suprematismo bianco è data dall’amore aperto ed esplicito tra Israele e il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, nonostante il suo aperto razzismo, compreso l’antisemitismo, così come dal corteggiamento del primo ministro Benjamin Netanyahu verso i governi di estrema destra in Europa e altrove. Il sionismo e lo Stato sionista di Israele fanno affidamento sul suprematismo bianco.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La Corte Penale internazionale (CPI) avvierà un’indagine approfondita sui crimini di guerra israeliani.

Redazione di MEE

20 dicembre Middle East Eye

Le associazioni palestinesi e israeliane per i diritti umani salutano la decisione della procuratrice della Corte Penale Internazionale di aprire un’indagine ufficiale

La procuratrice capo della Corte Penale Internazionale ha dichiarato che aprirà un’indagine approfondita su presunti crimini di guerra nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza, un annuncio che è stato accolto favorevolmente dai palestinesi ma che ha suscitato una forte critica da Israele.

“Sono persuasa che ci sia una base ragionevole per procedere a un’indagine sulla situazione in Palestina”, ha detto venerdì Fatou Bensouda in un comunicato.

“In breve, sono convinta del fatto che i crimini di guerra siano stati commessi o si stiano commettendo in Cisgiordania, tra cui Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza”.

Bensouda ha aggiunto che prima di aprire l’ indagine avrebbe chiesto al tribunale dell’Aja di pronunciarsi sui territori sui quali è competente, poiché Israele non è membro della Corte.

La questione della giurisdizione del tribunale deve essere risolta prima che la CPI possa procedere alle indagini.

Un’indagine approfondita da parte della CPI può comportare accuse contro singoli. Gli Stati non possono essere processati.

Questa fondamentale questione dovrebbe essere decisa ora e il più rapidamente possibile nell’interesse delle vittime e delle comunità colpite “, ha detto Bensouda.

Ha aggiunto che “non ci sono ragioni sostanziali per credere che un’indagine non servirebbe a fare giustizia”.

Il 5 dicembre, dopo cinque anni di indagini preliminari ed esame di prove di violenti azioni israeliane contro i palestinesi, la CPI ha pubblicato un rapporto.

La CPI ha esaminato le prove relative al conflitto tra Israele e Gaza del 2014,in cui sono morti 2.251 palestinesi, di cui la maggior parte erano civili e 74 israeliani, la maggior parte dei quali soldati.

L’annuncio è stato accolto con favore dalla leadership palestinese come un “passo atteso da tempo”.

“La Palestina si compiace di questo … come passo atteso da tempo per far avanzare il processo verso un’indagine, dopo quasi cinque lunghi e difficili anni di esame preliminare”, si afferma in una dichiarazione del ministero degli Esteri

Anche Hanan Ashrawi funzionara palestinese di alto livello, ha accolto con favore l’annuncio, affermando che i palestinesi “hanno fatto affidamento sulla Corte Penale Internazionale”.

“Israele deve essere ritenuto responsabile”

Mohammed Bassem, un attivista della Cisgiordania occupata, ha dichiarato a Middle East Eye di sostenere la decisione della CPI.

“Penso che sarà una buona opportunità per discutere della colonizzazione della Palestina e di come Israele ha portato avanti la sua occupazione”, ha detto Bassem.

Tuttavia ha affermato che alcuni palestinesi sono scettici sul fatto che l’inchiesta porti a risultati concreti.

“Siamo anche preoccupati di cosa si occuperà effettivamente l’indagine “, ha detto Bassem. “Per esempio l’inchiesta non seguirà le questioni dei rifugiati e il loro diritto al ritorno e questo è preoccupante, perché è una delle maggiori questioni al centro di ciò che riguarda il conflitto, e sappiamo che, a tal proposito, la Corte non farà nulla “.

In seguito all’annuncio di Bensouda, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è scagliato contro quello che ha definito “un giorno oscuro per la verità e per la giustizia”.

“La Corte non ha giurisdizione in questo caso. La CPI ha giurisdizione solo sulle petizioni presentate da Stati sovrani. Ma non c’è mai stato uno Stato palestinese”, ha detto Netanyahu in un comunicato.

Nel contempo anche il procuratore generale israeliano Avichai Mandelblit si è opposto alla decisione della CPI, affermando che la Corte non ha la giurisdizione per processare [cittadini] israeliani per crimini di guerra.

“Solo gli Stati sovrani possono delegare alla Corte la giurisdizione penale. Ai sensi del diritto internazionale e dello statuto istitutivo della Corte l’Autorità Nazionale Palestinese chiaramente non soddisfa i criteri di statualità”, ha affermato Mandelblit.

L’Autorità Nazionale Palestinese è riconosciuta come uno Stato non membro dalle Nazioni Unite, il che le consente di firmare trattati e godere della maggior parte delle prerogative, in modo simile agli Stati membri a pieno titolo.

Nel 2015 l’ANP ha firmato lo Statuto di Roma che governa la CPI. Alcuni Paesi, tra cui gli Stati Uniti e Israele, non sono firmatari e pertanto sono protetti dall’accusa all’Aja per crimini di guerra.

Il centro legale per i diritti delle minoranze arabe [palestinesi ndt] in Israele “Adalah” ha accolto con favore la decisione della CPI, affermando di ritenere che la Corte “abbia la piena giurisdizione per decidere sui casi penali in questione”

“Sulla base dei numerosi rapporti delle organizzazioni per i diritti umani e delle commissioni d’inchiesta delle Nazioni Unite nel corso degli anni, il procuratore della CPI, alla luce dei fatti, ha preso la giusta decisione”, ha scritto Adalah in un comunicato venerdì. Ha aggiunto che “nessun’ altra decisione avrebbe potuto essere possibile”.

Anche B’Tselem, un’associazione israeliana per i diritti umani, ha affermato che la decisione di aprire un’indagine “è stato l’unico possibile risultato derivante dai fatti”.

In una dichiarazione dell’associazione si afferma che “alle acrobazie legali di Israele nel tentativo di nascondere i propri crimini non deve essere consentito di bloccare i tentativi giudiziari internazionali, che finalmente se ne stanno occupando”.

(Traduzione dall’inglese di Carlo Tagliacozzo)

 




“Siamo tutti intrappolati”: Israele vieta ai cristiani di Gaza di visitare i luoghi santi

Adam Khalil

17 dicembre 2019 – Middle East Eye GAZA

I progetti dei cristiani di Gaza per le feste sono andati in fumo dopo che Israele ha vietato l’accesso a città come Betlemme e Nazareth in base a “considerazioni riguardanti la sicurezza”.

Per il secondo anno consecutivo Haneen Elias al-Jilda teme che le autorità israeliane le neghino il diritto di partecipare alle cerimonie religiose e alle feste di Natale nella città di Betlemme.

L’anno scorso non ha potuto ottenere il permesso di lasciare la Striscia di Gaza assediata per recarsi nella Cisgiordania occupata attraverso il valico di Erez.

Questa sensazione di delusione e frustrazione è predominante tra i cristiani di Gaza.

Giovedì scorso un portavoce dell’Ufficio di Contatto con i palestinesi dell’esercito israeliano ha dichiarato che i cristiani palestinesi residenti a Gaza potevano ottenere il permesso di andare all’estero, ma che nessuno di loro sarebbe stato autorizzato ad entrare in Israele e in Cisgiordania, dove si trovano molti luoghi sacri per i cristiani.

Il portavoce ha dichiarato che in base a “considerazioni riguardanti la sicurezza” i gazawi sarebbero stati autorizzati a recarsi all’estero attraverso il ponte di Allenby, passaggio sotto controllo israeliano tra la Cisgiordania e la Giordania, ma non avrebbero potuto entrare in città come Gerusalemme, Betlemme e Nazareth.

Anche se i cristiani di Gaza sono generalmente noti per non essere affiliati a fazioni e forze politiche palestinesi, Israele invoca spesso ragioni di sicurezza quando rifiuta di concedere loro dei permessi.

Haneen Elias al-Jilda dal 2017 non ha ottenuto il permesso di recarsi a Betlemme, la città dove sarebbe nato Gesù Cristo, e non ha potuto partecipare alle celebrazioni di Natale nella basilica della Natività, uno dei luoghi religiosi più sacri per i cristiani di tutto il mondo.

I pellegrini cristiani vengono dai quattro angoli del mondo alla basilica della Natività, mentre i palestinesi fanno un’enorme fatica per ottenere il diritto di viaggiare, di praticare la loro fede e di far visita alle loro famiglie”, si lamenta la ragazza di 19 anni.

Israele impone severe restrizioni ai palestinesi per entrare ed uscire dalla Striscia di Gaza sotto assedio.

Afferma che un certo numero di cristiani che hanno ottenuto un permesso di viaggio negli ultimi anni sono rimasti in Cisgiordania e non sono tornati a Gaza.

Ma Haneen respinge queste insinuazioni. “Amo Gaza e non penserei mai di emigrare o di sistemarmi da un’altra parte, in Cisgiordania o altrove. È qui che ci sono la mia famiglia e i miei amici”, confida a Middle East Eye.

Giudicando le giustificazioni di Israele “superficiali”, sostiene che i cristiani palestinesi sono prima di tutto palestinesi e sottolinea che Israele non fa differenze tra palestinesi nelle procedure discriminatorie e negli ostacoli che impone loro.

Nessuna considerazione per le famiglie

Haneen fa parte di una famiglia di cinque persone regolarmente colpite dalle decisioni israeliane durante le festività, dato che uno o più membri si vedono rifiutare ogni anno da Israele il permesso di viaggiare.

L’anno scorso la famiglia ha ottenuto un solo permesso, per il fratello di Haneen, di 9 anni.

L’occupazione incide anche sulla gioia delle feste”, si rammarica la ragazza.

L’anno scorso Israele ha autorizzato circa 700 cristiani di Gaza a recarsi a Gerusalemme, Betlemme, Nazareth ed altre città sante per partecipare alle celebrazioni di Natale.

Ma, secondo Kamel Ayyad, direttore delle pubbliche relazioni della chiesa ortodossa di Gaza, Israele concede “falsi” permessi ai cristiani di Gaza, decidendo una “quota” arbitraria senza alcuna considerazione per le famiglie, che spesso preferiscono rinunciare al viaggio piuttosto che essere separate durante le festività.

E’ logico per una famiglia partire per partecipare alle celebrazioni senza uno dei suoi figli, perché Israele gli ha negato il permesso?”, chiede.

Lo stesso Ayyad faceva parte dei 104 cristiani a cui lo scorso anno Israele ha rifiutato il permesso di recarsi da Gaza in Cisgiordania. Sua moglie ha ricevuto sei rifiuti.

Sottolinea che Israele viola anche i diritti della popolazione musulmana di Gaza, impedendole di accedere alla moschea di Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata, in flagrante violazione delle convenzioni internazionali che garantiscono la libertà di culto.

Ho molti amici a Betlemme e noi abbiamo parenti a Beit Sahour, là vicino. Se Israele mantiene le sue decisioni, quest’anno non potremo andarli a trovare, ma ci prepariamo a vivere l’atmosfera natalizia a Gaza malgrado l’assedio, perché vogliamo far felici i nostri bambini”, dice Ayyad a MEE.

Discriminazioni a prescindere dalla religione

Hani Farah, segretario generale dell’YMCA [associazione giovanile cristiana, ndtr.] di Gaza, è della stessa opinione di Kamel Ayyad.

Proprio come le bombe e i missili israeliani non fanno differenze tra i palestinesi, così il blocco e le misure repressive non fanno differenza tra un musulmano e un cristiano”, specifica a MEE.

Siamo tutti intrappolati a Gaza e condividiamo lo stesso dolore e la stessa sofferenza.”

Secondo Farah, ad eccezione delle festività di fine anno, i cristiani sono anch’essi vittime delle severe restrizioni negli spostamenti verso la Cisgiordania imposte da Israele ai gazawi. “In tempi normali il respingimento delle domande di permesso ne è la conseguenza prevalente.”

Farah spiega che quest’anno 955 cristiani hanno chiesto un permesso per partecipare alle celebrazioni del Natale, in base ad un elenco presentato al dipartimento degli Affari Civili palestinesi, specializzato nella comunicazione con le autorità israeliane.

Da quando Israele nel 2007 ha imposto un rigido blocco alla Striscia di Gaza, i cristiani, come la maggioranza della popolazione dell’enclave costiera, subiscono severe restrizioni nell’ottenimento dei permessi.

L’anno scorso Farah e i suoi cinque figli, dei quali il più grande ha 11 anni, hanno ottenuto un permesso, ma sua moglie se lo è visto negare.

Secondo Farah Israele concede intenzionalmente un numero troppo piccolo di permessi ai cristiani per andare a celebrare le festività, e anche quando li concede, Israele vieta ad alcuni membri della stessa famiglia di partire.

Scacciati

Hani Farah ritiene che il numero annuale di permessi concessi ai cristiani di Gaza sia “falso e ingannevole”.

Come può essere un bene concedere dei permessi a dei bambini senza i loro due genitori o senza uno di loro?”, chiede.

Il segretario generale dell’YMCA di Gaza spiega che la maggior parte dei permessi concessi dopo il blocco del 2007 sono destinati ai bambini, mentre Israele impedisce di partire a moltissimi uomini e giovani.

Secondo l’ultimo censimento svolto dall’YMCA nel 2014, su una popolazione di circa due milioni di abitanti, solo 1.313 cristiani, in maggioranza ortodossi, vivono nella Striscia di Gaza.

Scacciati dalla situazione economica disastrosa, dall’assedio e dalle continue guerre israeliane, negli ultimi anni i cristiani di Gaza hanno lasciato la striscia costiera in numero sempre maggiore per andare a vivere in Cisgiordania o all’estero.

Sana Tarazi, un’abitante di Gaza il cui figlio lavora nell’ ingegneria medica in Oman, per vederlo è stata costretta ad attraversare il valico di frontiera di Rafah con l’Egitto, dopo che Israele le ha rifiutato un permesso di viaggio attraverso Erez.

Questa impiegata dell’Alto Comitato Presidenziale per gli Affari Ecclesiastici dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) in marzo aveva chiesto un permesso per attraversare il ponte di Allenby, ma in assenza di risposta è stata costretta a passare dall’Egitto con suo marito.

Le sofferenze dei palestinesi sotto l’occupazione sono le stesse, senza distinzione di religione, razza e sesso», sottolinea.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Riorganizzare l’UNRWA nel mondo della post-verità

Christopher Gunness

17 dicembre 2019 – Al Jazeera

Non più dipendente dai finanziamenti USA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi deve tornare a dedicarsi al suo storico compito.

Nel mondo di Donald Trump e Boris Johnson della post-verità e della post-vergogna, in cui le politiche sono lanciate con un tweet, la storia è riscritta con una citazione e la “realtà” fatta da un titolo in prima pagina, il sostegno costante dell’UNRWA a oltre cinque milioni di rifugiati palestinesi, ai loro diritti e alla loro dignità non è mai stato più importante.

Ma l’agenzia, che ora celebra i suoi 70 anni, deve riuscire a ribaltare il recente scandalo di cattiva gestione, ricuperare la fiducia dei donatori e riprendere i contatti con le comunità di rifugiati. Sotto la sua nuova dirigenza può riuscirci e risorgere più forte.

La posta in gioco non è mai stata così alta.

Nell’agosto 2018 la Casa Bianca di Trump ha tagliato il contributo annuale degli USA all’UNRWA – 365 milioni di dollari del bilancio dell’agenzia – pregiudicando i servizi per la più numerosa ed antica popolazione di rifugiati al mondo.

È presto emerso uno schema di unilateralismo distruttivo. Nel dicembre 2017 gli USA hanno annunciato la decisione di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo l’annessione e l’occupazione illegali della città da parte di Israele, facendo a pezzi decenni di consenso internazionale.

Nel marzo di quest’anno l’ambasciatore di Washington in Israele ha appoggiato l’illegale annessione delle Alture del Golan e a novembre gli USA hanno dichiarato che le colonie ebraiche non sono in contraddizione con le leggi internazionali, avallando quindi molteplici “gravi violazioni” delle Convenzioni di Ginevra – che potrebbero rappresentare crimini di guerra – da parte di Israele, il potere occupante, contro un popolo protetto dall’ONU.

Incoraggiato dalla debole risposta internazionale, il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, ha chiesto di più. Ha sollecitato il sostegno USA ai progetti di annessione della Valle del Giordano, in cui oltre 65.000 palestinesi vivono accanto a circa 11.000 coloni ebrei su terre anch’esse espropriate in violazione del diritto internazionale.

Il quadro giuridico si cui l’ordine mondiale si è fondato dalla Seconda Guerra Mondiale è sotto attacco unilaterale.

Oltretutto la Casa Bianca sta cercando di ridefinire tre questioni centrali per la ricerca della pace in Medio Oriente – Gerusalemme, i rifugiati e le colonie –, tutto ciò a costo zero per Israele, senza chiedere niente in cambio.

Sia chiaro chi sta guidando tutto questo. Fin dal dicembre 2016 Netanyahu ha chiesto che l’UNRWA venisse “smantellata”. I suoi accoliti a Washington, come l’amico di famiglia di Netanyahu e genero di Trump diventato consigliere per il Medio Oriente, Jared Kushner, hanno offerto il loro appoggio all’obiettivo a lungo accarezzato da Israele: l’eliminazione dello status di oltre cinque milioni di rifugiati palestinesi registrati dall’UNRWA, insieme al loro diritto al ritorno.

La Casa Bianca di Trump ha sostenuto che i discendenti dei rifugiati del 1948 non sono anch’essi rifugiati, un concetto in flagrante conflitto con le norme internazionali e le buone pratiche riguardo ai rifugiati sostenute da molti, compresa l’altra agenzia dell’ONU per i rifugiati, l’UNHCR, di cui gli USA sono il principale donatore.

Ma c’è stata opposizione contro questo tentativo di spazzare via dalla storia i diritti, l’identità, l’esistenza stessa di milioni di rifugiati.

A dicembre l’assemblea generale dell’ONU ha votato in modo quasi unanime il rinnovo del mandato dell’UNRWA per altri tre anni, compresa la corretta definizione di rifugiati. Non meno di 169 membri l’hanno appoggiata e solo due hanno votato contro: gli USA e Israele. Sono stati isolati, sconfitti.

Per l’UNRWA questa vittoria diplomatica ha un nuovo significato.

Nel periodo che ha preceduto il dibattito all’assemblea generale, l’agenzia è stata usurata da uno scandalo gestionale limitato a un piccolo gruppo di funzionari della cerchia del direttore esecutivo, il commissario generale, che è stato obbligato a dare le dimissioni.

Un dirigente ad interim, Christian Saunders – un esperto riformatore dell’ONU e persona di fiducia del segretario generale dell’ONU – è stato inviato per risolvere la cattiva gestione. Il voto a stragrande maggioranza dell’assemblea generale è stato un primo segnale del fatto che l’UNRWA sta voltando pagina. Recentemente donatori che avevano sospeso l’aiuto finché l’agenzia non avesse risolto i suoi problemi interni sono tornati.

L’UNRWA ha ancora un grave deficit finanziario da colmare entro la fine dell’anno. Ma ha un piano in corso per riempire il vuoto lasciato dal malvagio de-finanziamento di Washington. Cosa fondamentale, e senza dubbio temporanea, ha bloccato l’attacco politico ispirato da Israele, che ha incluso un tentativo di chiudere l’operatività dell’UNRWA a Gerusalemme.

Quindi, come va avanti l’agenzia dopo il triplice smacco della crisi finanziaria, dello scandalo della dirigenza e dell’attacco politico contro il suo mandato?

Per iniziare, deve consolidare la fiducia dei suoi principali donatori per realizzare le riforme gestionali iniziate da Christian Saunders, intese a stabilizzare l’agenzia in seguito alle dimissioni del precedente commissario generale e della sua cerchia più ristretta.

I donatori devono onorare pienamente il loro tanto vantato “grande patto” e rispondere con accordi pluriennali a tutti i livelli, facilitando la pianificazione a lungo termine e la sicurezza finanziaria, riconoscendo il contributo di lungo periodo dell’UNRWA al capitale umano e la costante necessità dei suoi programmi d’emergenza.

Garantire e migliorare i servizi aiuterà l’UNRWA a recuperare presso i palestinesi che aiuta la credibilità danneggiata dalle recenti accuse di cattiva gestione.

Ma l’agenzia deve andare oltre.

Con un incremento dei finanziamenti arabi e una maggiore diversificazione della sua base di donatori in seguito alla dipartita degli americani, c’è un’opportunità di sostegno e di lavoro mediatico più consistenti, guidati da prove e basati sul diritto internazionale, che quest’anno sono stati palesemente assenti.

Una UNRWA rafforzata deve radicare la propria missione umanitaria nelle esperienze dei rifugiati. Per riuscirvi, l’agenzia deve iniziare un dialogo inclusivo ad ampio raggio con le comunità di rifugiati. Liberata dai limiti della pressione finanziaria americano-israeliana, ora è tempo di consultare i rifugiati sulle loro aspirazioni e rivendicare in modo significativo i loro diritti, compreso quello all’autodeterminazione e all’intero spettro dei loro diritti civili e politici.

L’UNRWA deve dire con chiarezza e con fermezza alla comunità dei donatori che l’aiuto non è un’attività di rimpiazzo. Non potrà mai sostituire i diritti e la dignità. I diritti dei palestinesi non sono in vendita.

I portavoce dell’UNRWA devono richiamare l’attenzione sul contesto in cui l’agenzia lavora e sul suo impatto sui rifugiati, gente che vive da mezzo secolo sotto occupazione in Cisgiordania e a Gaza, da 13 anni sotto un blocco illegale a Gaza, da 9 anni di guerra in Siria e da decenni di emarginazione sociale in Libano.

L’agenzia deve tornare a storicizzare il discorso pubblico, ricordando al mondo gli eventi del 1948, in cui 770.000 persone vennero espulse e più di 450 villaggi palestinesi vennero distrutti durante una campagna sistematica di pulizia etnica da parte dei gruppi armati ebraici. Dopo settant’anni l’UNRWA e i suoi donatori devono impegnarsi di nuovo nella propria missione finché le ingiustizie del 1948, che durano fino ad oggi, sarano affrontate e verrà risolta la spoliazione dei palestinesi.

Soprattutto, l’UNRWA deve dare ai palestinesi il potere di presentarsi al mondo come titolari e attori della loro stessa dignità e del loro destino.

Per fare ciò, i servizi devono essere totalmente finanziati; ci devono essere accurate e costanti modifiche della gestione e un sostegno consistente e basato sui diritti. Questi sono i tre pilastri su cui sicuramente deve essere costruita la riorganizzazione dell’UNRWA.

Sono anche una potente e realizzabile risposta all’unilateralismo di Trump attorno a cui l’UNRWA e tutti i soggetti coinvolti – compresi i rifugiati – si devono unire.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Christopher Gunness è un giornalista pluripremiato che in precedenza è stato portavoce dell’UNRWA.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)