L’accordo ‘di pace’ di Trump calpesta palesemente i diritti e le libertà dei palestinesi

Yara Hawari

30 gennaio 2020 The Guardian

Questo piano è semplicemente una continuazione della politica USA-Israele. I palestinesi lo hanno già sentito e non lo accetteranno

Martedì alla Casa Bianca Donald Trump ha rivelato il suo “accordo del secolo”: un piano per la totale capitolazione palestinese. Esso invita i palestinesi a riconoscere Israele come Stato ebraico con l’intera Gerusalemme come capitale, a rinunciare al diritto al ritorno che consentirebbe ai rifugiati palestinesi di vivere in Israele, ad accettare l’annessione della Valle del Giordano e le relative colonie illegali israeliane e a vivere in una serie di bantustan collegati da strade e tunnel che sarebbero tutti sostanzialmente controllati da Israele.

Nulla di tutto ciò dovrebbe sorprendere. Non solo il piano è una continuazione della politica dell’amministrazione Trump verso Israele e Palestina fin dal giorno in cui egli è entrato in carica, ma giunge dopo decenni di disprezzo per le aspirazioni palestinesi di libertà e sovranità.

Quando nel 1993 furono firmati gli Accordi di Oslo, vennero acclamati come la base per una pace negoziata tra Israele e Palestina – una posizione che la maggior parte degli attori e delle istituzioni internazionali hanno continuato a mantenere nei decenni successivi. All’epoca tuttavia lo studioso palestinese Edward Said definì il tanto celebrato accordo “una Versailles palestinese”, uno spettacolo umiliante che minava la lotta di liberazione e ogni speranza di una futura sovranità palestinese. Purtroppo aveva ragione. La divisione della Cisgiordania in aree A, B e C in base agli accordi ha consentito a Israele di dominare le ultime due mentre la prima è diventata una sacca di limitata autonomia palestinese. In altre parole, ha facilitato la completa bantustanizzazione della Cisgiordania e l’isolamento di Gaza.

Nel frattempo gli accordi non sono riusciti ad affrontare correttamente le questioni fondamentali di Gerusalemme, dei rifugiati, delle colonie, dei confini e della sicurezza; esse sono state invece considerate “questioni inerenti allo status finale”, da risolvere come parte di qualche futuro accordo di pace. Inavvedutamente allora l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), guidata da Yasser Arafat, ha permesso che esse diventassero questioni in discussione, piuttosto che centrali per la lotta palestinese e chiaramente definite dalle leggi internazionali. Questo è risultato chiaro ieri alla Casa Bianca quando, accanto a Trump, Benjamin Netanyahu ha detto che parlare dell’occupazione come “illegale” è oltraggioso.

Non c’erano palestinesi alla Casa Bianca; certamente Jared Kushner, genero di Trump e architetto di questo piano, difficilmente si è dato la pena di parlare ai palestinesi. E nel piano di Trump non vi è menzione dei diritti dei palestinesi. Invece vengono loro promessi incentivi economici, per la precisione 50 miliardi di dollari di investimenti nei prossimi 10 anni, in cambio dei loro diritti sanciti a livello internazionale – un’altra fin troppo conosciuta componente dei precedenti piani di “pace”. Come se dare denaro ai palestinesi potesse far loro dimenticare i diritti a Gerusalemme, al ritorno ai propri villaggi e città di origine o alla possibilità di vivere come esseri umani uguali e con pieni diritti.

È chiaro quindi che il piano di Trump non solo è un attacco ai diritti e alla libertà dei palestinesi, ma anche un tentativo di promuovere un nuovo ordine mondiale che compromette del tutto il diritto internazionale. Qualunque cosa possa dire la Casa Bianca, non si è mai aspettata che la leadership palestinese avrebbe accettato questo piano né avrebbe nemmeno preso in considerazione qualche suo articolo e condizione. E ciò significa che può continuare ad investire sulla pluridecennale narrazione totalmente razzista secondo cui il popolo palestinese rifiuta e non intende negoziare. Questo è stato evidente nei commenti di Kushner: se i palestinesi non accettano questo accordo, ha sostenuto, “stanno gettando via un’altra opportunità come hanno fatto con tutte le altre che hanno avuto nella loro esistenza”.

Per quanto il piano di Trump possa essere scoraggiante, esso suggerisce una possibile opportunità. Stabilisce che, mentre hanno luogo i negoziati, l’OLP non partecipi ad alcuna iniziativa contro Israele presso la Corte Penale Internazionale – con riferimento alla recente inchiesta su crimini di guerra avviata dalla capo procuratrice della Corte. Questo rivela che Israele è veramente spaventato da una simile mossa, se qualche soggetto internazionale fosse così coraggioso da tentarla.

Comunque nulla di tutto ciò modifica la realtà sul campo: c’è effettivamente un’unica entità che va dal fiume Giordano al mar Mediterraneo, dove due popoli vivono vite ampiamente ineguali e separate. Israele e gli USA stanno lavorando sodo per consolidare e portare a termine questa situazione – e, con l’aiuto di una comunità internazionale paralizzata e codarda, ci riusciranno. Ma l’altra faccia della realtà è che i palestinesi non andranno da nessuna parte. Continueranno a vivere a milioni a Haifa, Giaffa, Gerusalemme, Ramallah, Hebron e altrove. Dovranno cambiare drasticamente la loro situazione attuale, mobilitandosi e chiedendo di più alla loro dirigenza e immaginando un futuro radicalmente diverso anche quando questo sembra impossibile.

Yara Hawari è un’autorevole collaboratrice su questioni politiche di Al Shabaka, la rete di politica palestinese.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’“accordo del secolo” di Trump non porterà la pace, e quello era previsto

Jonathan Cook

29 gennaio 2020 – Palestine Chronicle

Buona parte dell’“accordo del secolo” di Trump a lungo rinviato non è stata una sorpresa. Nel corso degli ultimi 18 mesi fonti ufficiali israeliane hanno fatto filtrare molti dei suoi dettagli..

La cosiddetta “visione per la pace” svelata martedì ha semplicemente confermato che il governo USA ha pubblicamente adottato ciò che da molto tempo è accettato da tutti in Israele: che quest’ultimo ha il diritto di tenersi per sempre le aree di territorio che ha illegalmente sottratto nel corso degli ultimi 50 anni negando ai palestinesi una qualunque speranza di avere uno Stato.

La Casa Bianca ha scartato la tradizionale posizione USA come “mediatore neutrale” tra Israele e i palestinesi. I dirigenti palestinesi non sono stati invitati alla cerimonia e non ci sarebbero andati se lo fossero stati. Questo è un accordo concepito più a Tel Aviv che a Washington – e il suo obiettivo era di garantire che non ci sarebbe stata nessuna controparte palestinese.

Cosa più importante per Israele, esso avrà il permesso di Washington per annettersi tutte le colonie illegali, ora disseminate in tutta la Cisgiordania, così come la vasta area agricola della Valle del Giordano. Israele continuerà ad avere il controllo militare su tutta la Cisgiordania. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato la sua intenzione di portare il prima possibile davanti al suo governo un simile piano di annessione. Ciò rappresenterà senza dubbio l’asse centrale del suo tentativo di vincere le elezioni politiche molto incerte previste per il 2 marzo.

L’accordo di Trump approva anche la già esistente annessione di Gerusalemme est a Israele. Prevede che i palestinesi facciano finta che la loro capitale sia un villaggio della Cisgiordania fuori città, chiamando “Al Quds” [Gerusalemme in arabo, ndtr.] la loro capitale. Ci sono indicazioni con effetti fortemente provocatori che ad Israele sarà consentito di dividere il complesso della moschea di Al Aqsa per creare una zona di preghiera per ebrei estremisti, come è avvenuto ad Hebron.

Oltretutto sembra che l’amministrazione Trump stia prendendo in considerazione l’approvazione delle speranze di lunga data della destra israeliana di ridefinire gli attuali confini in modo tale da trasferire potenzialmente in Cisgiordania centinaia di migliaia di palestinesi che attualmente sono cittadini di Israele. Ciò rappresenterebbe quasi sicuramente un crimine di guerra.

Il piano non prevede nessun diritto al ritorno e sembra che il mondo arabo dovrebbe pagare il conto per indennizzare milioni di rifugiati palestinesi.

Una mappa USA distribuita martedì mostra enclave palestinesi collegate da un labirinto di ponti e tunnel, compreso uno tra la Cisgiordania e Gaza. L’unico incentivo concesso ai palestinesi sono le promesse USA di rafforzare la loro economia. Date le difficili condizioni finanziarie dei palestinesi dopo decenni di furto di risorse da parte di Israele, questa non è molto più di una promessa.

Tutto ciò è stato mascherato da “realistica soluzione dei due Stati”, che offre ai palestinesi circa il 70% dei territori occupati, che a loro volta rappresentano il 22% della loro patria originaria. Detto in altro modo, ai palestinesi viene richiesto di accettare uno Stato sul 15% della Palestina storica, dopo che Israele si è impossessato di tutte le migliori terre agricole e risorse idriche.

Come tutti gli accordi prendere o lasciare, questo “Stato” rappezzato, senza un esercito e in cui Israele controllerebbe la sicurezza, i confini, le acque territoriali e lo spazio aereo, ha una scadenza. Deve essere accettato entro quattro anni. In caso contrario Israele avrà la mano libera per iniziare a depredare ancora più territorio. Ma la verità è che né Israele né gli USA si aspettano o vogliono che i palestinesi collaborino.

Per questo il piano include, oltre all’annessione delle colonie, una miriade di precondizioni irrealizzabili prima che ciò che rimane della Palestina venga riconosciuto: le fazioni palestinesi devono deporre le armi, ed Hamas si deve sciogliere; l’Autorità Nazionale Palestinese, guidata da Mahmoud Abbas, deve elimnare i sussidi alle famiglie dei prigionieri politici; i territori palestinesi devono essere reinventati come una Svizzera del Medio Oriente, una fiorente democrazia e una società aperta, tutto ciò sotto il dominio israeliano.

Al contrario il piano Trump pone fine alla farsa per cui il processo di Oslo, durato 26 anni, ha avuto come obiettivo nient’altro che la resa dei palestinesi. Gli Usa si allineano totalmente con i tentativi di Israele, perseguiti per molti decenni da tutti i suoi principali partiti, di porre le basi per un’apartheid permanente nei territori occupati.

Trump ha invitato per la presentazione sia Netanyahu, il primo ministro israeliano ad interim, che il suo principale avversario politico, l’ex-generale Benny Gantz. Entrambi erano ansiosi di esprimere il proprio appoggio incondizionato.

Tutti e due insieme rappresentano i 4/5 del parlamento israeliano. Il principale campo di scontro delle elezioni di marzo sarà chi dei due potrà sostenere di essere più in grado di mettere in atto il piano e quindi sferrare un colpo mortale ai sogni palestinesi di avere uno Stato.

Nella destra israeliana ci sono state manifestazioni di dissenso. Gruppi di coloni hanno descritto il piano come “lungi dall’essere perfetto”, un’opinione quasi sicuramente condivisa in privato da Netanyahu. L’estrema destra israeliana è contraria a qualunque discorso riguardo alla costituzione di uno Stato palestinese, per quanto illusorio.

Ciononostante Netanyahu e la sua coalizione di destra sarà ben contenta di cogliere i benefici offerti dall’amministrazione Trump. Nel contempo l’inevitabile rifiuto del piano da parte della dirigenza palestinese servirà d’ora in avanti come giustificazione per il furto da parte di Israele di altra terra. Ci sono altri, più immediati vantaggi dell’“accordo del secolo”.

Consentendo a Israele di raccogliere illeciti vantaggi dalla conquista nel 1967 dei territori palestinesi, Washington ha ufficialmente appoggiato una delle più grandi aggressioni coloniali dell’epoca contemporanea. L’amministrazione USA ha di conseguenza dichiarato una guerra aperta ai già deboli limiti imposti dalle leggi internazionali.

Anche Trump ne beneficia di persona. Ciò fornirà un diversivo dalle udienze per il suo impeachment così come una consistente offerta per corrompere, durante la corsa alle elezioni presidenziali, la sua base evangelica ossessionata da Israele e importanti finanziatori, come il magnate USA dei casinò Sheldon Adelson.

E il presidente USA è corso in aiuto a un utile alleato politico. Netanyahu spera che questo sostegno da parte della Casa Bianca possa promuovere la sua coalizione ultra-nazionalista al potere in marzo e intimidire i tribunali israeliani quando prenderanno in considerazione le accuse penali contro di lui.

Martedì è risultato evidente quanto egli preveda di ricavare un vantaggio personale dal piano di Trump. Ha rimproverato la procura generale di Israele per aver presentato le accuse di corruzione, sostenendo che è stato messo a repentaglio un “momento storico” per lo Stato di Israele.

Nel contempo Abbas ha accolto il piano con “un migliaio di no”. Trump lo ha messo totalmente in pericolo. O l’ANP abbandona il suo ruolo di subappaltante della sicurezza a favore di Israele e si scioglie, o continua come prima ma privato ora esplicitamente dell’illusione che si possa perseguire la sua trasformazione in uno Stato.

Abbas cercherà di resistere con le unghie e con i denti, sperando che Trump in questo anno di elezioni venga spodestato e che una nuova amministrazione USA ritorni alla finzione di far avanzare il processo di pace di Oslo ormai da molto tempo arrivato a scadenza. Ma se Trump vince le difficoltà aumenteranno rapidamente.

Nessuno, ancora meno l’amministrazione Trump, crede che questo piano porterà alla pace. Una preoccupazione più realistica è con quale rapidità preparerà la strada per uno spargimento di sangue ancora più grande.

– Jonathan Cook ha vinto il premio speciale di giornalismo “Martha Gellhorn”. Tra i suoi libri “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per ridisegnare il Medio Oriente] (Pluto Press) e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [Palestina che sparisce: gli esperimenti israeliani sulla disperazione umana] (Zed Books). Ha contribuito con questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Trump rivela il suo piano per il Medio Oriente, rifiutato dai palestinesi

Al Jazeera

28 gennaio 2020 Al Jazeera

I palestinesi respingono la proposta di Trump in Medio Oriente, definendola una “cospirazione” che “non passerà”.

Dopo molti rinvii, martedì il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha esposto il suo piano per il Medio Oriente – una proposta che i leader palestinesi hanno definito una “cospirazione” che “non passerà”.

“Oggi Israele ha fatto un passo da gigante verso la pace”, ha dichiarato Trump con a fianco il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

“Il mio progetto presenta una soluzione vantaggiosa per entrambe le parti”, ha affermato, aggiungendo che i leader israeliani hanno dichiarato che avrebbero appoggiato la proposta.

Prima che fosse annunciata, i palestinesi l’avevano dichiarata già morta, dicendo che si tratta di un tentativo di “liquidare” la causa palestinese.

In seguito all’annuncio di Trump, il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha dichiarato i suoi “mille no” al piano.

Nel frattempo, Netanyahu ha detto trattarsi di un “giorno storico” e ha ringraziato Trump per la sua proposta. Ha detto che se i palestinesi accettano il piano, Israele sarà disposto a negoziare “subito”.

Gerusalemme “capitale indivisa”

L’iniziativa di Trump, il cui autore principale è suo genero Jared Kushner, segue una lunga serie di sforzi per risolvere uno dei problemi più irresolubili del mondo. I colloqui di pace israelo-palestinesi sono falliti nel 2014.

I palestinesi si sono rifiutati di confrontarsi con l’amministrazione Trump e hanno condannato la prima fase della proposta – un piano di risanamento economico di 50 miliardi di dollari annunciato lo scorso giugno.

Il piano politico di 50 pagine riconosce la sovranità israeliana sui principali gruppi di colonie illegali nella Cisgiordania occupata, a cui quasi sicuramente i palestinesi si opporranno. Trump ha dichiarato che a Israele verrà concesso il controllo di sicurezza della Valle del Giordano nella Cisgiordania occupata.

Trump ha detto che Gerusalemme resterà “capitale indivisa” di Israele. Ma ha anche detto che, secondo il piano, “Gerusalemme est” sarebbe la capitale di uno Stato di Palestina. Non ha approfondito cosa intendesse per Gerusalemme est. In seguito ha dichiarato su Twitter che una capitale palestinese potrebbe essere da qualche parte a “Gerusalemme est”.

Trump aveva già riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, trasferendovi l’ambasciata americana da Tel Aviv.

In replica al piano, Abbas ha dichiarato: “Gerusalemme non è in vendita; tutti i nostri diritti non sono in vendita e non sono un affare”.

Sami Abu Zhuri, funzionario di Hamas [portavoce di Hamas nella Striscia di Gaza], ha affermato che la dichiarazione di Trump è “un’aggressione e scatenerà molta rabbia”.

“La dichiarazione di Trump su Gerusalemme è una sciocchezza e Gerusalemme sarà sempre terra dei palestinesi”, ha detto Zhuri all’agenzia di stampa Reuters . “I palestinesi si opporranno a questo accordo e Gerusalemme rimarrà terra palestinese”.

Martedì scorso, migliaia di palestinesi hanno manifestato nella Striscia di Gaza assediata per protestare contro l’atteso piano. Ci sono state proteste anche a Ramallah, nella Cisgiordania occupata.

Marwan Bishara, capo analista politico di Al Jazeera, ha affermato che “In questo caso il diavolo non è nei dettagli “.

“Il diavolo è nei titoli”, ha detto Bishara. “Ciò che abbiamo qui è un riconfezionamento – ingegnoso, molto intelligente e diabolico – dei problemi cronici di Israele e in Palestina per promuoverli come soluzioni”.

Conseguenze pericolose”

La maggior parte dei leader della regione ha stracciato il piano, ma altri hanno prudentemente incoraggiato israeliani e palestinesi a sedersi al tavolo dei negoziati.

La Giordania ha messo in guardia contro “l’annessione delle terre palestinesi” con l’allarme del ministro degli esteri del regno per le “pericolose conseguenze di misure israeliane unilaterali che mirano a imporre nuove realtà sul terreno “.

Anche Numan Kurtulmus, vicepresidente del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AK) al potere in Turchia, ha rigettato le dichiarazioni di Trump su Gerusalemme, dicendo: “No, Trump! Gerusalemme è capitale dello Stato palestinese e cuore del mondo islamico!”

Secondo Al Manar TV, il movimento libanese Hezbollah ha definito la proposta “l’accordo della vergogna”, aggiungendo che si tratta di un passo molto pericoloso che avrebbe conseguenze negative sul futuro della regione,.

Ha dichiarato anche che non ci sarebbe stata questa proposta senza “complicità e tradimento” da parte di diversi stati arabi.

L’Egitto ha esortato israeliani e palestinesi a “studiare attentamente” la proposta. Il ministero degli Esteri ha affermato in una dichiarazione che il piano favorisce una soluzione che ripristina tutti i “diritti legittimi” del popolo palestinese attraverso la creazione di uno “Stato indipendente e sovrano sui territori palestinesi occupati”.

L’ambasciatore in USA degli Emirati Arabi Uniti ha dichiarato che gli Emirati Arabi Uniti credono che palestinesi e israeliani possano raggiungere una pace duratura e un’autentica convivenza con il sostegno della comunità internazionale.

Le Nazioni Unite hanno dichiarato di essere impegnate ad aiutare israeliani e palestinesi a discutere la pace sulla base delle risoluzioni delle Nazioni Unite, del diritto internazionale, degli accordi bilaterali e della visione di due Stati basati sui confini pre-1967. Una di queste risoluzioni delle Nazioni Unite è stata adottata dal Consiglio di sicurezza un mese prima dell’entrata in carica di Trump nel gennaio 2017. La risoluzione chiede la fine delle colonie israeliane, con 14 voti a favore e l’astensione dell’amministrazione dell’ex presidente americano Barack Obama.

Mediatore onesto?

I palestinesi avevano precedentemente affermato che gli Stati Uniti non possono essere un onesto mediatore per la pace nella regione, accusandoli di pendere a favore di Israele.

Oltre a spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, l’amministrazione Trump ha anche tagliato centinaia di milioni di dollari in aiuti umanitari ai palestinesi e riconosciuto la sovranità israeliana sulle alture del Golan occupate da Israele.

A novembre, con l’annuncio del segretario di Stato Mike Pompeo, che Washington non considerava più gli insediamenti israeliani sulle terre occupate della Cisgiordania come incompatibili con il diritto internazionale, l’amministrazione Trump ha ribaltato decenni di politica americana.

Kushner ha detto ad Al Jazeera che gli Stati Uniti credono che la proposta di Trump sia “l’ultima possibilità per i palestinesi di avere uno Stato”.

“È tempo [per i palestinesi] di lasciar andare le vecchie fiabe che a dirlo chiaramente non si realizzeranno mai”, ha aggiunto.

La proposta giunge proprio quando Trump e Netanyahu si trovano ad affrontare problemi politici in patria.

Trump ha ricevuto l’impeachment alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti il mese scorso ed è sotto processo al Senato per abuso di potere. Anche lui dovrà affrontare la rielezione a novembre. Netanyahu è accusato di corruzione e le elezioni nazionali saranno il 2 marzo, la sua terza volta in meno di un anno. Entrambi negano di aver commesso un illecito.

Il rivale elettorale di Netanyahu, Benny Gantz, anche lui a Washington questa settimana, ha affermato di aver lui pure appoggiato la proposta.

“Il piano di pace del presidente è una pietra miliare significativa e storica”, ha detto Gantz ai giornalisti lunedì.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




B’Tselem sul piano di “pace”di Trump: nessuna pace, apartheid

28 gennaio 2020 B’Tselem

Il piano dell’amministrazione americana, definito “l’accordo del secolo” è più simile al formaggio svizzero:il formaggio offerto agli israeliani e i buchi ai palestinesi.Esistono molti modi per porre fine all’occupazione, ma le uniche opzioni legittime sono quelle basate sull’uguaglianza e sui diritti umani per tutti. Questo è il motivo per cui l’attuale piano che legittima, consolida e addirittura amplia la portata delle violazioni dei diritti umani di Israele, perpetuate ormai da oltre 52 anni, è assolutamente inaccettabile.

Il piano di Trump svuota di qualsiasi significato i principi del diritto internazionale e ignora del tutto il concetto di responsabilità a causa delle loro violazioni. Trump propone di premiare Israele per le pratiche illegali e immorali in cui [Israele] si è impegnato sin da quando ha conquistato i Territori. Israele sarà in grado di continuare a saccheggiare terra e risorse palestinesi; riuscirà anche a mantenere le sue colonie e persino ad annettere più territorio, il tutto in totale spregio del diritto internazionale. I cittadini israeliani che vivono nei Territori continueranno a godere di tutti i diritti concessi ad altri cittadini israeliani, compresi i diritti politici e la libertà di movimento, come se non vivessero affatto all’interno di un’area occupata.

I palestinesi, d’altra parte, saranno relegati in piccole enclave chiuse, isolate, senza alcun controllo sulla loro vita poiché il piano rende eterna la frammentazione dell’area palestinese in porzioni di territorio non connesse tra loro e circondate dal controllo israeliano, non diversamente dai bantustan del regime di apartheid sudafricano. Senza contiguità territoriale, i palestinesi non saranno in grado di esercitare il loro diritto all’autodeterminazione e continueranno a dipendere completamente dalla buona volontà di Israele riguardo alla loro vita quotidiana, senza diritti politici e senza alcun modo di gestire il loro futuro.

Continueranno a essere alla mercé del rigido regime israeliano di permessi e avranno bisogno della sua approvazione per qualsiasi attività produttiva o sviluppo. In questo senso, non solo il piano non riesce a migliorare in alcun modo la situazione dei palestinesi, ma di fatto aggrava ancora la loro condizione perché la perpetua e la legittima. Questo piano rivela una visione del mondo che concepisce i palestinesi come eternamente sottomessi piuttosto che come esseri umani liberi e autonomi. Una “soluzione” di questo tipo, che non garantisce i diritti umani, la libertà e l’uguaglianza di tutte le persone che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo e perpetua invece l’oppressione e l’espropriazione di una parte – non è una soluzione valida. Di fatto, non è per niente una soluzione, ma solo una ricetta per ulteriore oppressione, ingiustizia e violenza.

(Traduzione dall’inglese di Carlo Tagliacozzo)




I candidati del Partito Laburista sbagliano ad aderire a queste misure sull’ antisemitismo

Ghada Karmi

27 gennaio 2020 – Middle East Eye

I candidati alla leadership laburista hanno accettato un elenco molto discutibile di misure riguardo l’”antisemitismo” redatto dal Board of Deputies of British Jewish [Consiglio dei delegati degli ebrei britannici ndtr.]

Il 13 gennaio, il Consiglio dei delegati degli ebrei britannici ha pubblicato i suoi “Dieci punti” destinati ad essere adottati dal Partito Laburista “perché inizi a ricucire i suoi rapporti con la comunità ebraica”.

I punti, disposti in due colonne su uno sfondo rosso, impegnano il nuovo leader laburista ad assumersi la responsabilità personale di “porre fine alla crisi antisemitica del partito laburista” – un’impresa ardua da ogni punto di vista e difficile da portare a termine.

Le votazioni per il nuovo leader laburista si apriranno il 21 febbraio e il vincitore dovrebbe essere proclamato il 4 aprile. Il leader uscente del partito, Jeremy Corbyn, ha annunciato l’intenzione di dimettersi a seguito dei modesti risultati del partito nelle elezioni di dicembre.

Richieste onerose

Le altre richieste del Consiglio dei delegati non sono meno onerose. Dopo aver ritenuto Corbyn responsabile dell'”antisemitismo nel partito” che ha tanto angosciato gli ebrei britannici, il consiglio ha delineato “i punti chiave”.

Ma le misure richieste appaiono assurde nel contesto di una piccola organizzazione della società civile che rappresenta una minoranza di ebrei britannici i quali rivolgono ad un grande partito politico richieste fortemente intrusive.

Tra tali richieste vi è quella secondo la quale tutti i casi di antisemitismo in sospeso nel partito debbano essere risolti attraverso un’agenzia “indipendente”, che scavalchi le procedure proprie del partito. I “trasgressori più manifesti” [una volta] espulsi o sospesi non dovrebbero mai più avere l’autorizzazione ad essere riammessi al partito. Ai trasgressori presunti e ai loro associati dovrebbe essere negata lo spazio per esprimersi.

Questo è il piano implicito di una vasta epurazione, senza diritto di appello, soprattutto dei membri di sinistra del partito.

Altre misure includono l’introduzione, per i membri del partito, di un corso di antirazzismo da parte del Jewish Labour Movement (JLM) [Movimento laburista ebreo, conosciuto dal 1903 al 2004 come “Poale Zion (Great Britain)”, è una delle più antiche associazioni socialiste affiliate al partito laburista britannico, ndtr.] e l’inserimento di interlocutori ebrei del partito nei “principali gruppi rappresentativi” della comunità, incluso presumibilmente il consiglio stesso, coll’esclusione di gruppi con differenti punti di vista, come Jewish Voice for Labour [organizzazione formata nel 2017 da membri ebrei del Partito laburista britannico che si oppongono a tutte le forme di razzismo e alle ingiustizie verso i popoli oppressi, compresi i palestinesi, ndtr.].

Inoltre, i dieci punti richiedono che i laburisti adottino la problematica e inadeguata definizione di antisemitismo dell’Alleanza internazionale della memoria dell’Olocausto, criticata dal suo stesso autore, Kenneth Stern, senza riserve, compresi i suoi controversi esempi [che citano esplicitamente le critiche a Israele come prove di antisemitismo, ndtr.].

Attacchi e riconciliazione

Nessuno, se non il più disperato dei candidati laburisti, uno che non abbia letto correttamente i punti o che creda erroneamente che la loro adozione avrebbe migliorato le opportunità nella competizione per la leadership, avrebbe potuto accettare queste condizioni umilianti.

Il fatto che tutti i principali candidati alla leadership lo abbiano fatto con alacrità è allarmante. Ciò suggerisce che non hanno imparato nulla dalla devastante sconfitta di Corbyn, che è arrivata almeno in parte a causa del feroce caccia alle streghe [sotto le vesti] dell’ “antisemitismo” contro di lui, montata dal Consiglio dei delegati e da altri gruppi, tra cui il JLM.

La serie di attacchi da parte di questi gruppi e le offerte di conciliazione di Corbyn hanno solo portato a ulteriori attacchi e ad un’ulteriore offerta di pace, fino a quando egli non è stato sconfitto. Ciò è apparentemente passato inosservato in questa nuova corsa alla riconciliazione.

Keir Starmer, il maggior favorito alla successione di Corbyn, ha twittato il 12 gennaio che la gestione dell’antisemitismo da parte del partito era “completamente inaccettabile”, ignorando così i suoi notevoli sforzi a tal fine.

Emily Thornberry, ministra degli Esteri ombra del partito Laburista e un’altra candidata alla leadership, è andata oltre, dicendo al Jewish News che il partito avrebbe dovuto “inginocchiarsi davanti alla comunità ebraica e chiedere perdono”.

Gli effetti di questa politica di riconciliazione sono già evidenti. Il nuovo parlamentare laburista Sam Tarry è stato recentemente criticato per non aver condannato una mozione contraria ai dieci punti del consiglio. Anche questo mese, l’ex candidato alla leadership Jess Phillips ha sospeso un membro chiave del personale per i tweet “antisemiti” che in realtà erano caratterizzati da critiche a Israele, non agli ebrei.

La confusione tra antisionismo e antisemitismo

Attraverso la loro accettazione acritica dei dieci punti, i candidati laburisti sembrano essersi innamorati di una serie di invenzioni e offuscamenti messi in atto dalla lobby dell’antisemitismo. L’antisionismo non è antisemitismo e la critica a Israele in quanto Stato razzista che opprime i non ebrei non è antisemita, ma una constatazione di fatto.

Non è chiaro se le accuse di antisemitismo rivolte ai membri laburisti siano di tale natura, ma laddove sono disponibili informazioni sembra probabile.

L’affermazione da parte del Consiglio dei delegati di rappresentare tutti gli ebrei britannici è stata messa in discussione da uno studio trimestrale ebraico del 2015. I suoi circa 300 delegati sono eletti da sinagoghe, congregazioni e altre organizzazioni ebraiche. Lo studio ha stimato che questo elettorato rappresenta l’1% della comunità ebraica. Gli ebrei Haredi [forma molto conservatrice di ebraismo ortodosso, ndtr.], che rifiutano di affiliarsi al consiglio, sono esclusi, così come quelli che non frequentano le sinagoghe. Il consiglio ha una posizione pro-Israele che non tutti gli ebrei britannici condividono.

Il JLM è una piccola organizzazione sionista aperta a membri non laburisti e non ebrei, il cui obiettivo dichiarato è quello di promuovere “la centralità di Israele nella vita ebraica”. Erede di Poale Sion, sorella del Partito laburista israeliano e parte di una coalizione all’interno della Federazione sionista mondiale, la sua agenda è incentrata su Israele.

Silente sin dalla sua fondazione nel 2004, si è riattivata nel 2016 dopo l’elezione di Corbyn come leader e da allora ha lavorato diligentemente per la sua rimozione. Al di fuori della promozione degli interessi israeliani, avrebbe dovuto rimanere marginale nella politica interna britannica.

Pericoli futuri

Chiaramente, nessuna delle organizzazioni è in grado di dettare la politica del partito laburista sull’antirazzismo o di supervisionarne la formazione. La remissiva accettazione da parte dei candidati alla leadership laburista di questa imposizione, nonostante i fatti, indica il successo della lobby israeliana in questo Paese.

Politici, personaggi di spicco e funzionari pubblici sono stati intimiditi e diranno o firmeranno quasi tutto pur di evitare le accuse di antisemitismo.

E i segnali sono che questa tendenza crescerà. L’antisemitismo come arma funziona e la tattica non sarà facilmente abbandonata da coloro che ne trarranno vantaggio. Ciò è pericoloso per la società britannica, per la sinistra politica e per i sostenitori della Palestina.

Corbyn è stato la prima vittima di alto profilo di questa campagna, ma non sarà l’ultima se le sarà permesso di proseguire.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ghada Karmi

Ghada Karmi è ricercatrice presso l’Istituto di studi arabi e islamici dell’Università di Exeter. È nata a Gerusalemme ed è stata costretta a lasciare la sua casa con la sua famiglia a seguito della creazione di Israele nel 1948. La famiglia si è trasferita in Inghilterra nel 1949, dove lei è cresciuta e ha studiato. Karmi ha esercitato la professione di medico per molti anni lavorando come specialista nel settore della salute di migranti e rifugiati. Dal 1999 al 2001 Karmi è stata membro associato del Royal Institute of International Affairs [comunemente noto come Chatham House, è un centro studi britannico, specializzato in analisi geopolitiche e delle tendenze politico-economiche globali, ndtr.], dove ha diretto un importante progetto sulla riconciliazione israelo-palestinese. Nel 2009 è diventata membro della Royal Society of Arts.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Avanti, annettiamo la Cisgiordania

Meron Rapoport 

23 gennaio 2020 – + 972

L’annessione della Valle del Giordano renderebbe ufficialmente Israele uno Stato di apartheid dal fiume al mare. Ma potrebbe essere meno terribile di come pensiamo.

Si è saputo che anche Benny Gantz, rivale di centro del Primo Ministro Netanyahu, persegue l’obiettivo che Israele annetta la Valle del Giordano. Martedì, durante una visita in quella zona della Cisgiordania occupata, Gantz ha affermato che la Valle del Giordano è “lo scudo difensivo di Israele verso est in qualsiasi futuro conflitto. Consideriamo questa terra come parte inseparabile dello Stato di Israele.” Dopo le elezioni, ha continuato Gantz, avrebbe esteso la sovranità sulla valle con una “mossa concordata a livello nazionale” e coordinata con la comunità internazionale.

Non è una posizione nuova tra i falchi del centro israeliano. Un piano strategico pubblicato nell’ottobre 2018 dal National Security Research Institute, il luogo di formazione ideologica di ex generali dell’IDF come Gantz, afferma che Israele avrebbe già dovuto dichiarare la Valle del Giordano area strategica, da mantenere sotto controllo israeliano fino a quando Israele non arriverà ad un sufficiente accordo per la sicurezza.

È peraltro vero che le recenti condizioni poste da Gantz – che l’annessione della Valle del Giordano abbia il consenso nazionale e sia coordinato a livello internazionale – potrebbero far sì che la dichiarazione resti priva di fondamento. A parte il presidente degli Stati Uniti Donald Trump (e anche questo non è del tutto certo), è improbabile che la “comunità internazionale” accetti la mossa.

Eppure, anche se non ha alcuna reale intenzione di annettere la Valle, Gantz ha deliberatamente scelto di schierarsi con la retorica della destra israeliana, per la quale l'”annessione” è diventata una questione di buone maniere, cartina di tornasole per qualsiasi personaggio politico.

Le affermazioni di Gantz ricordano in qualche modo lo slogan della campagna elettorale di Netanyahu del 1996: “Fare una pace sicura”. Netanyahu all’epoca non aveva intenzione di fare la pace, così come oggi sembra che Gantz non abbia alcuna intenzione di procedere all’annessione. Tuttavia, tre anni dopo gli Accordi di Oslo, Netanyahu fu costretto ad includere il centro-sinistra israeliano dell’epoca, per cui la parola “pace” era una categoria a parte. Questo vale per gli ultimi 25 anni della politica israeliana: la pace è out, l’annessione è in.

Potrebbe non essere terribile come si pensa. Per alcuni aspetti, è veramente deplorevole che la coalizione di destra, secondo recenti sondaggi, non sarà in grado di assicurarsi 61 seggi della Knesset nelle prossime elezioni di marzo. Se dovesse vincere Netanyahu, è difficile immaginare come se la caverà con le sue chiare promesse di annettere immediatamente la Valle del Giordano. Nell’attuale situazione politica, l’annessione è il miglior regalo che possano sperare gli avversari dell’occupazione.

Questo non significa che le cose debbano peggiorare prima di migliorare. L’annessione scuoterà lo status quo di espansione infinita fatta di occupazione e insediamento, diventata molto comoda per Israele. Costringerà la società israeliana e parti della comunità internazionale a tornare a discutere una soluzione politica del conflitto, un obiettivo quasi scomparso. E costringerà i sostenitori della soluzione a due Stati, e persino i sostenitori di un singolo Stato, a uscire dalla loro zona protetta e ricalibrare i loro desideri con la realtà concreta.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’impatto dell’annessione sui confini definitivi di Israele o la fattibilità dell’idea dei due Stati non creerebbero necessariamente un discrimine. Israele ha annesso Gerusalemme Est più di 52 anni fa, pochi giorni dopo la fine della guerra del 1967; ciò non ha impedito a rappresentanti israeliani, ufficiali e non, di discutere dell’annessione in vari negoziati con i palestinesi e concordare che il futuro Stato palestinese avrebbe controllato i quartieri palestinesi della città.

Ciò vale anche per l’ex primo ministro Ehud Olmert, che ha fatto carriera politica nel partito Likud promettendo di tenere Gerusalemme “per l’eternità” (Olmert è stato anche protagonista della campagna elettorale del 1996 di Netanyahu, accusando i laburisti di Shimon Peres di “dividere Gerusalemme”). Un decennio dopo, durante i colloqui di pace con il presidente palestinese Mahmoud Abbas, fu Olmert a proporre di dividere la città. E l’annessione delle Alture del Golan nel 1981 non ha impedito a Ehud Barak – e secondo i documenti, allo stesso Netanyahu – di discutere della possibilità di restituire il Golan alla Siria di Hafez al-Assad.

L’annessione non migliorerà particolarmente la situazione dei pochi coloni israeliani che vivono nella Valle del Giordano. Oggi, e specialmente dopo un decennio di governo di Netanyahu, la Linea Verde [confine tra Israele e Gerusalemme est, Cisgiordania e Gaza prima dell’occupazione del 1967, ndtr.] è quasi del tutto irrilevante e i coloni che vivono in Cisgiordania godono di diritti quasi identici ai cittadini israeliani all’interno dei confini del 1948.

L’annessione può rimuovere alcune delle barriere attualmente imposte ai coloni, ma può anche rendere loro la vita difficile. Nel momento in cui la Valle del Giordano diventasse soggetta ufficialmente alla legge israeliana – piuttosto che agli ordini militari – potrebbe essere molto più difficile confiscare terre, sfrattare palestinesi e stabilire colonie di soli ebrei.

Anche se Israele decidesse di concedere ai palestinesi che annette lo status di residenti invece della piena cittadinanza (come a Gerusalemme est), tale status consentirebbe loro di muoversi liberamente e lavorare all’interno di Israele, il che sicuramente migliorerebbe la loro attuale situazione. Eppure ci sono poche ragioni per credere che i palestinesi annessi rinuncerebbero alle loro aspirazioni nazionali: non è accaduto a Gerusalemme est dopo 52 anni di occupazione, non è accaduto con i palestinesi cittadini di Israele.

Ma c’è la possibilità che l’annessione possa dare impulso non solo ai palestinesi che si trovano sotto la sovranità israeliana, ma alla lotta palestinese in generale. L’annessione costringerebbe l’Autorità Nazionale Palestinese a emergere dal suo coma; renderebbe più facile smantellarla, costringerebbe Israele a riprendere il diretto controllo sulla Cisgiordania, e il ritorno a una lotta per i diritti civili in uno Stato democratico tra il fiume [Giordano] e il mare [Mediterraneo], simile al programma politico originario dell’OLP.

Se Israele, in effetti, rifiutasse di concedere pieni diritti civili ai palestinesi, sarà ancora più facile dimostrare che il regime in Cisgiordania non è un problema temporaneo di “territorio conteso”, come ama sostenere Israele. L’apartheid diventerebbe la politica ufficiale dello Stato.

Inoltre, l’annessione porterebbe la questione palestinese al centro dell’attenzione del mondo arabo. Il governo giordano sta già affrontando una forte opposizione al suo accordo di pace con Israele. Recenti manifestazioni nel Regno hascemita contro l’accordo con Israele per il gas sono ulteriori prove di dissenso. Se l’annessione dovesse avvenire, è difficile pensare che re Abdullah si atterrebbe all’accordo con Israele, volendo mantenere il potere.

La Giordania potrebbe trasformarsi in Palestina, come sperava Netanyahu nel suo libro del 1993 A Place Among the Nations [Un posto fra le Nazioni, ndtr.] – ma questa “Palestina” avrebbe un esercito che potrebbe puntare le sue armi su Israele per solidarietà con i fratelli dall’altra parte del fiume Giordano.

Netanyahu, che conosce la scena internazionale meglio di qualsiasi altro leader a destra – e forse in Israele – è ben consapevole di tutto ciò. Questo è il motivo per cui, durante il suo decennio al potere, ha evitato di compiere passi drastici, perfezionando allo stesso tempo lo status quo. Le sue politiche hanno assicurato l’annessione strisciante di sempre più colonie, la cancellazione della Linea Verde dalla coscienza israeliana e la completa normalizzazione dell’occupazione.

Netanyahu sperava che l’opinione pubblica israeliana, la comunità internazionale, i regimi arabi filo-occidentali e forse gli stessi palestinesi avrebbero alla fine accettato il dominio israeliano sull’intera terra e avrebbero tolto l’opzione di uno Stato palestinese dal tavolo. Ha funzionato brillantemente; persino Gantz, il maggior rivale di Netanyahu, non parla di due Stati.

Ma per il primo ministro potrebbe aver funzionato troppo bene. Proprio perché uno Stato palestinese non sembra più essere preso in considerazione, la destra nazionalista-religiosa ha trasformato l’annessione in richiesta politica – qualcosa che non ha fatto in 40 anni di permanenza al governo, da quando la destra ha preso il potere nel 1977. Se gli insediamenti sono riusciti a impedire l’istituzione di uno Stato palestinese, dicono, perché non passare alla fase successiva e realizzare l’ideale del Grande Israele?

Finché Netanyahu è stato politicamente forte, poteva evitare di parlare di annessione a gente come Naftali Bennett [politico israeliano dell’estrema destra dei coloni ed attuale ministro della Difesa, ndtr.] Ma non appena i problemi legali hanno cominciato a premergli addosso, lo spazio di manovra di Netanyahu è diminuito. Non ha altra scelta che abbracciare il linguaggio del sovranismo, che solo pochi anni fa giaceva in qualche posto nelle plaghe dormienti della destra.

Non che Netanyahu non creda nell’esclusiva sovranità ebraica tra il fiume e il mare: semplicemente non credeva che dovesse realizzarsi attraverso l’annessione formale. Oggi non si tratta più di buttare sul tavolo l’annessione in cambio dell’immunità politica. È annessione o prigione.

Non vi è dubbio che l’annessione sia una violazione del diritto internazionale, che sarebbe imposta ai palestinesi con la forza e trasformerebbe ufficialmente Israele in uno Stato di apartheid. Bisogna opporsi. Ma dopo tanti anni sotto il dominio della fazione del Grande Israele, potrebbe essere il momento di mettere alla prova la proposta della destra. L’annessione chiarirà il vero dibattito Israele-Palestina: uguaglianza e autodeterminazione per ogni Nazione che vive tra la Giordania e il mare o supremazia ebraica.

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su Local Call [versione in ebraico di +972, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Rapporto OCHA del periodo 7- 20 gennaio 2019

Secondo il Ministero della Salute, un palestinese è morto il 19 gennaio, a seguito della ferita riportata il 14 maggio 2018 quando, durante una manifestazione della “Grande Marcia del Ritorno”, venne colpito da un proiettile sparato dalle forze israeliane.

Dal 30 marzo 2018, data di inizio delle manifestazioni, il numero totale di morti [palestinesi] sale così a 213 ed il numero di feriti a 36.134. Il 26 dicembre, il Comitato organizzatore della GMR ha annunciato che le manifestazioni settimanali si concluderanno il 30 marzo 2020; dopo tale data continueranno con cadenza mensile e in ricorrenze particolari.

In diverse occasioni, palloncini caricati con ordigni esplosivi e rilasciati dalla Striscia di Gaza, sono caduti nel sud di Israele. I dispositivi sono stati fatti esplodere dalle forze israeliane, senza causare vittime o danni. In seguito, le forze israeliane hanno effettuato una serie di attacchi aerei su Gaza contro strutture di gruppi armati; anche in questo caso non sono state riportate vittime.

In almeno 45 occasioni, forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento sia verso aree [della Striscia] di Gaza prossime alla recinzione perimetrale israeliana, sia in mare, al largo della costa; non sono stati segnalati feriti. Inoltre, agricoltori palestinesi hanno riferito che il 14 e 15 gennaio, per la prima volta dal 2018, aerei israeliani hanno irrorato con erbicidi terreni agricoli palestinesi attigui alla recinzione. In due episodi separati, sette palestinesi sono stati arrestati mentre tentavano di entrare in Israele; altri due sono stati arrestati al valico di Erez.

In Cisgiordania, durante vari scontri, 40 palestinesi, tra cui almeno sei minori e due donne, sono stati feriti da forze israeliane. Più della metà dei feriti (25) si sono avuti nel Campo profughi di Aqbat Jaber (Gerico) e ad Al ‘Eizariya (Gerusalemme) in scontri scoppiati durante due operazioni di ricerca-arresto. Altri tredici palestinesi sono rimasti feriti nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante una protesta settimanale contro la violenza dei coloni e l’espansione degli insediamenti. Altri due [dei 40] palestinesi sono rimasti feriti nel villaggio di Ar Rifa’iyya (Hebron), in scontri seguiti ad una demolizione (vedi i dettagli nel paragrafo successivo). In Cisgiordania, durante il periodo in esame, le forze israeliane hanno effettuato 115 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 128 palestinesi, tra cui sei minori.

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito, o costretto palestinesi a demolire, 19 strutture, sfollando 22 persone e creando ripercussioni su altre 130. Dieci di queste strutture, di cui tre precedentemente fornite come aiuto umanitario, erano situate in Area C. Finora, nel 2020, in Cisgiordania sono state demolite o sequestrate 35 strutture, di cui dieci finanziate da donatori. Durante la demolizione di una struttura abitativa nel villaggio di Ar Rifa’iyya (Hebron), sono scoppiati scontri (menzionati sopra). Le restanti nove [delle 19] strutture demolite erano in Gerusalemme Est [segue dettaglio]. In tre episodi distinti, avvenuti nel quartiere Jabal al Mukabbir di Gerusalemme Est, tre famiglie palestinesi sono state costrette a demolire le loro case; ne risultano sfollate dodici persone. Altre cinque strutture si trovavano nelle Comunità di Bir Onah e nel villaggio di Al Walaja, entrambe situate all’interno del confine (stabilito da Israele) della municipalità di Gerusalemme, ma la Barriera [israeliana] le separa dal resto di Gerusalemme Est. Infine, una struttura abitativa è stata demolita a Beit Hanina, sfollando una famiglia di quattro persone, tra cui due minori.

Dal 19 gennaio, a seguito di una sentenza del tribunale israeliano, favorevole ad una organizzazione di coloni che rivendica la proprietà della terra, una comunità di rifugiati palestinesi, composta da tre famiglie, è ad elevato rischio di sfratto forzato dalle loro tre abitazioni situate nel quartiere di Silwan, a Gerusalemme Est. In quest’area, oltre 80 famiglie palestinesi hanno in corso procedure di sfratto, avviate contro di loro dalla medesima organizzazione di coloni.

Il 15 gennaio, forze israeliane hanno demolito due case di coloni israeliani, costruite nell’insediamento colonico avamposto [cioè, non autorizzato da Israele] di Kumi Ori (Nablus). La demolizione ha fatto seguito ad una sentenza dell’Alta Corte di Giustizia Israeliana, che ha ordinato l’allontanamento dei coloni e la demolizione dell’avamposto in quanto edificato, in Area B, su terreni di proprietà privata palestinese. Tuttavia, la sentenza non ha incluso disposizioni tali da consentire ai proprietari di riacquistare l’accesso alla terra.

Otto attacchi di coloni hanno provocato nove feriti, danni alle proprietà palestinesi e il ferimento di un volontario internazionale [segue dettaglio]. Nel villaggio di Madama (Nablus), un gruppo di circa 30 coloni israeliani provenienti, a quanto riferito, dall’insediamento di Yitzhar, ha attaccato e lanciato pietre contro una casa, ferendo una donna palestinese incinta e causando danni alla casa stessa. In un altro episodio verificatosi sulla strada 60, vicino a Hebron, un palestinese e una famiglia di sette persone, tra cui cinque minori e una donna, sono rimasti feriti dal lancio di pietre contro i loro veicoli, ad opera di coloni israeliani. In due episodi separati, secondo fonti della Comunità, coloni israeliani hanno vandalizzato almeno 67 ulivi e altri alberi nel villaggio di As Sawiya (Nablus). In altri due casi, secondo quanto riferito, coloni israeliani hanno causato danni a due case e forato le gomme di due veicoli nei villaggi di Battir (Betlemme) e Yasuf (Salfit). Inoltre, in un episodio separato accaduto nel villaggio di At Tuwani (Hebron), coloni hanno aggredito e ferito fisicamente un volontario internazionale che accompagnava pastori palestinesi.

Durante il periodo di riferimento, secondo media israeliani, palestinesi hanno lanciato pietre e bottiglie incendiarie contro veicoli israeliani in quattro episodi, arrecando danni a quattro auto. Gli episodi hanno avuto luogo su strade principali dei governatorati di Ramallah, Betlemme ed Hebron.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 21 gennaio, tre palestinesi di Gaza, tra cui un minore, sono stati colpiti e uccisi dalle forze israeliane; avevano forzato la recinzione perimetrale con Israele e, secondo quanto riferito, avevano lanciato un ordigno esplosivo contro le forze israeliane.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali. Il neretto è di OCHAoPt.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




I palestinesi mettono in guardia Israele e gli USA mentre Trump sta discutendo il nuovo ‘piano per la pace’

24 gennaio 2020 – Al Jazeera

I palestinesi respingono l’incontro tra gli USA e Netanyahu affermando di non riconoscere il piano di pace che si prevede favorisca Israele.

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha messo in guardia Israele e gli Stati Uniti dal “valicare le linee rosse” promettendo che non riconoscerà il piano di pace per il Medio Oriente che aveva già respinto in precedenza mentre il Presidente USA Donald Trump si prepara a presentare il piano nei prossimi giorni.

Giovedì Trump ha detto che probabilmente rivelerà il tanto atteso progetto prima della visita a Washington, DC, di Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, la prossima settimana.

“Probabilmente lo renderò noto un po’ prima” ha detto il leader degli USA ai reporter che andavano con lui in Florida a bordo dell’Air Force One, riferendosi all’incontro di martedì alla Casa Bianca.

“È un ottimo piano. È un piano che funzionerà davvero” ha aggiunto.

I palestinesi, che non sono stati invitati alla Casa Bianca per l’incontro con Netanyahu, hanno immediatamente respinto le trattative che si svolgono negli USA, in quanto respingono il piano in sé che è stato elaborato dal 2017. La sua presentazione è stata più volte rimandata.

La parte economica del piano è stata rivelata a giugno e prevede 50 miliardi di dollari di investimenti internazionali nei territori palestinesi e nei Paesi arabi vicini per 10 anni.

I palestinesi hanno respinto i tentativi di pace di Trump dopo il suo controverso riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e lo spostamento dell’ambasciata USA a maggio 2018.

Come ha riferito la WAFA, l’agenzia stampa ufficiale palestinese, Nabil Abu Rudeineh, un portavoce del presidente palestinese, ha dichiarato che i leader palestinesi respingeranno ogni atto USA che infranga le leggi internazionali. 

“Se questo accordo viene presentato con quelle premesse che sono state già respinte, i leader annunceranno una serie di misure volte a garantire i nostri legittimi diritti e pretenderemo che Israele si assuma tutte le responsabilità quale potenza occupante” ha detto Abu Rudeineh.

Sembrava fare riferimento alle minacce, spesso reiterate, di sciogliere l’Autorità Nazionale Palestinese, che ha un’autonomia limitata in alcune parti della Cisgiordania occupata da Israele. Ciò costringerebbe Israele ad assumersi la responsabilità di fornire servizi essenziali a milioni di palestinesi.

“Noi vogliamo mettere in guardia Israele e l’amministrazione USA dal valicare le linee rosse” ha detto Abu Rudeineh che ha ripetuto la richiesta di porre fine all’occupazione israeliana dei territori palestinesi e detto che dovrebbe essere costituito uno Stato palestinese indipendente con capitale Gerusalemme.

‘Si parla solo di Israele’

In aereo, giovedì, Trump si è detto contento che Netanyahu e il suo principale rivale alle elezioni, Benny Gantz, capo del partito di centro Blu Bianco, avrebbero fatto visita alla Casa Bianca nel mezzo della campagna per le elezioni in Israele del 2 marzo.

“Verranno entrambi i candidati, una cosa mai successa!” ha detto Trump.

Alla domanda se avesse contattato i palestinesi, Trump ha detto: “Abbiamo parlato brevemente con loro, ma lo faremo fra poco.

E loro hanno molti incentivi a farlo. Sono sicuro che forse all’inizio reagiranno negativamente, ma per loro è davvero molto positivo.”

Husam Zomlot, il capo della missione palestinese nel Regno Unito, ha detto all’agenzia di stampa AFP [agenzia di stampa francese, N.d.T] che il fatto che Trump abbia invitato i due leader israeliani e nessun palestinese dimostra che il meeting intende influire sulla politica interna israeliana più che essere un vero tentativo di pace. 

“Questa è la conferma di quella che è stata dall’inizio la loro politica fin dall’inizio – si parla solo di Israele.”

Si prevede che il progetto sia fortemente a favore di Israele e che gli offra il controllo di vaste zone della Cisgiordania.

I palestinesi vorrebbero invece che l’intero territorio, conquistato da Israele nel 1967, diventasse il cuore di un futuro Stato indipendente, parte della soluzione dei due Stati sostenuta dalla maggior parte della comunità internazionale.

Netanyahu ha detto che intende annettere sia la Valle del Giordano occupata che gli insediamenti illegali israeliani in Cisgiordania, ponendo così fine a ogni possibilità di creare uno Stato palestinese sostenibile.

Netanyahu ha tentato di fare di questa promessa la chiave di volta della sua campagna per la rielezione in seguito al testa a testa senza precedenti dopo le ultime elezioni dell’anno scorso che lo ha lasciato in virtuale pareggio con Gantz, ma senza che nessuno dei due fosse in grado di formare una coalizione di governo.

‘L’accordo del secolo’ di Trump

Trump, la cui squadra sta da tempo lavorando sul progetto di un piano di pace segreto, si è ripetutamente vantato di essere il presidente USA più pro-israeliano della storia.

Abbas ha tagliato ogni rapporto con gli USA dal dicembre 2017, dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele con cui Trump ha rotto decenni di consenso internazionale.

I palestinesi considerano la parte orientale della città la capitale del loro futuro Stato e le potenze mondiali concordano da tempo che il destino di Gerusalemme dovrebbe essere deciso con una soluzione negoziata.

Trump è salito al potere nel 2017 promettendo di mediare la pace tra israeliani e palestinesi, che aveva chiamato “l’accordo del secolo “.

Ma da allora ha preso una serie di decisioni che hanno indignato i palestinesi, incluso il taglio di centinaia di milioni di dollari di aiuti e la dichiarazione che gli USA non considerano più illegali le colonie israeliane in Cisgiordania.

Si ritiene che il suo piano per porre fine al conflitto israelo-palestinese ruoti attorno alla promozione di enormi investimenti economici.

Dopo molti rinvii, l’iniziativa di pace era prevista parecchi mesi fa, ma è stata rimandata dopo che le elezioni in Israele a settembre si sono dimostrate inconcludenti e non si pensava che sarebbe stata resa nota fino a dopo il voto del 2 marzo.

I media israeliani hanno discusso quella che dicono siano le linee generali dell’accordo trapelate giovedì, sostenendo che gli USA sono d’accordo su molte delle principali richieste israeliane.

L’incontro a Washington, DC, si terrà circa un mese prima delle nuove elezioni, con i sondaggi che mostrano un testa a testa fra la destra del Likud di Netanyahu e il partito di Gantz, il Blu e Bianco.

Il meeting di martedì coincide con una seduta del parlamento [israeliano] prevista per discutere la possibile immunità di Netanyahu per l’imputazione in una serie di casi di corruzione.    

I media israeliani sospettano che Trump abbia scelto di annunciare l’evento per sostenere il tentativo di rielezione di Netanyahu, il terzo in un anno.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La Cisgiordania era ed è ancora il principale campo di battaglia di Israele

Adnan Abu Amer

24 gennaio 2020 – Middle East Monitor

Circoli israeliani hanno accusato Hamas di continuare ad aggravare il conflitto contro l’esercito e i coloni in Cisgiordania al fine di destabilizzare la sicurezza interna. Questo si è trasformato in crescenti tensioni da parte di Israele, soprattutto in quanto uno dei motivi degli accresciuti timori israeliani è quello di una lotta per la successione di Mahmoud Abbas alla presidenza dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Alla luce di tali timori il servizio di sicurezza [interno] Shin Bet ha annunciato di aver sventato nel 2019 560 importanti operazioni, compresi sei attentati kamikaze, quattro rapimenti di soldati e coloni e oltre 300 uccisioni. L’esercito ha neutralizzato circa 12 cellule armate palestinesi, che avevano programmato di condurre operazioni violente usando esplosivi.

Questi dati israeliani confermano che col passare del tempo le tensioni in Cisgiordania stanno aumentando e che l’opinione prevalente è che un’operazione armata, simile a quella di agosto nella colonia Dolev vicino a Ramallah, in cui è stata uccisa una colona israeliana con un ordigno esplosivo, può avere un buon esito dopo che la cellula che ha condotto l’operazione è riuscita a eludere il sistema di controllo israeliano. Comunque l’identificazione da parte dello Shin Bet della cellula che ha eseguito l’operazione ha svelato una vasta infrastruttura militare.

L’esercito israeliano e i suoi servizi segreti si concentrano su ciò che definiscono l’importante ruolo ricoperto all’interno di Hamas dalla sua struttura in Cisgiordania, che è responsabile della direzione delle operazioni in Cisgiordania. Sta operando su più vasta scala e con maggiore intensità per destabilizzare la sicurezza e per prendere di mira soldati e coloni. Vale la pena sottolineare che alcune delle recenti decisioni prese a livello politico israeliano relativamente ai palestinesi non fanno che gettare benzina sul fuoco, scatenando ulteriori tensioni.

Quindi lo stato di allerta dell’esercito israeliano in Cisgiordania è recentemente aumentato in previsione della possibilità di un improvviso allontanamento di Abbas dalla scena politica. La ragione è che la lotta per la successione potrebbe portare ad una resistenza popolare che sconfini in resistenza armata, dato che la maggioranza dei candidati alla successione ha iniziato ad accumulare armi, sollevando gravi preoccupazioni in Israele.

Il principale fattore che influirà sulla situazione della sicurezza in Cisgiordania restano le elezioni israeliane e la parallela diffusione di messaggi provocatori da parte dei politici israeliani riguardo al futuro della Cisgiordania. Questi includono l’annessione della Valle del Giordano, di importanti blocchi di colonie, il divieto di costruzione per i palestinesi in area C ed altre decisioni arbitrarie.

Tutti questi orientamenti politici e comportamenti israeliani sul campo non faranno che esacerbare le tensioni per la sicurezza in Cisgiordania, suscitando reazioni negative tra i palestinesi, ed hanno un effetto dannoso sul coordinamento per la sicurezza con l’Autorità Nazionale Palestinese, che contribuisce ampiamente alla stabilità dell’esercito e dei coloni. Questo richiede che Israele sia preparato ad ogni sorpresa che possa verificarsi in Cisgiordania.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il BDS ha bisogno di una visione politica sulla costruzione di uno Stato palestinese

Haidar Eid

24 gennaio 2020 – Al Jazeera

Finora la campagna del BDS ha evitato questa questione, ma prima o poi dovrà fare una scelta.

Sono passati quasi 15 anni da quando il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni (BDS) è stato promosso dalla Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele (PACBI).

L’obiettivo della campagna è costringere Israele e i suoi sostenitori a riconoscere che lo status quo nelle terre palestinesi e in Israele non è sostenibile a lungo termine e che non può esserci soluzione senza rispetto del diritto internazionale, della civiltà e della democrazia. Ciò significa porre fine all’occupazione illegale della Cisgiordania e all’assedio di Gaza, garantire uguali diritti all’interno di Israele per i suoi cittadini palestinesi e concretizzare il diritto di tornare alle loro case per i palestinesi cacciati durante la diaspora.

Oggi la campagna del BDS gode del sostegno della stragrande maggioranza della società civile palestinese. La tendenza sta cambiando anche in Occidente, dove il sistema di oppressione a più livelli da parte di Israele, in particolare l’occupazione, la colonizzazione e l’apartheid, sono sempre più condannati.

La società civile internazionale sembra aver raggiunto la conclusione che, come per il Sudafrica, il sistema di oppressione israeliano non può essere arrestato senza che si ponga fine alla complicità internazionale e si intensifichi la solidarietà globale, in particolare attraverso il BDS. Pertanto, la campagna si sta rapidamente avvicinando al modello sudafricano per maturità e impatto.

Personalmente, sono stato coinvolto nel BDS sin dalle sue origini e lo sostengo con tutto il cuore. Tuttavia, sono anche preoccupato che l’attenzione del pubblico si limiti alle richieste immediate della campagna a spese dello sviluppo di un piano coerente per il futuro politico della Palestina. In altre parole, poiché la campagna si limita a garantire il rispetto dei diritti dei palestinesi, manca una visione della realtà politica all’interno della quale tali diritti saranno collocati.

La campagna del BDS è stata volutamente ambigua sulla forma che lo Stato palestinese dovrebbe prendere e ci sono ragioni tattiche per questo – evitare principalmente disaccordi all’interno del movimento.

Tuttavia, sono del parere che optare per il silenzio su importanti questioni politiche sul futuro della Palestina sia una tattica sbagliata. Concentrarsi sulla fine dell’occupazione, i diritti dei palestinesi in Israele e il diritto al ritorno deve essere inserito in un programma politico che promuova la soluzione dello Stato unico.

Questo è il motivo per cui ho co-fondato, con un gruppo di accademici e attivisti, il One Democratic State Group [Organizzazione per lo Stato unico democratico]. Il gruppo, che fa parte della One State Campaign [ODSC, Campagna per lo Stato unico democratico, organizzazione con adesioni palestinesi e israeliane fondata nel 2017, ndtr.], ha presentato un programma che non solo ribadisce il diritto al ritorno, i diritti dei cittadini palestinesi di Israele e la fine dell’occupazione, ma propone anche una visione riguardo a un’organizzazione statale, uno sviluppo economico, una giustizia sociale e una politica internazionale responsabile.

La premessa centrale è che la soluzione dei due Stati è morta e dovrebbe essere dichiarata tale, nonostante l’attaccamento che molti gruppi, specialmente quelli di sinistra, [continuano ad] avere.

È tempo che tutti coloro che nella discussione pubblica in Palestina e all’estero continuano a proporre la soluzione dei due Stati si rendano conto che la strategia israeliana di colonizzazione della Cisgiordania e la graduale espulsione dei residenti palestinesi col proposito di una futura annessione l’ha resa impossibile.

A questo punto, attenersi alla visione dei due Stati – una soluzione impossibile – significa semplicemente la continuazione dell’occupazione, della colonizzazione e dell’apartheid.

Anche se capisco perfettamente la posizione assunta dai difensori dell’approccio basato sui diritti, penso ancora che vi sia un urgente bisogno di una visione politica che aiuti a portare una luce alla fine del tunnel per quei milioni di persone che vivono tra il fiume Giordano e il Mediterraneo e per gli oltre cinque milioni di rifugiati palestinesi sparsi in tutto il mondo.

Secondo me, il diritto all’autodeterminazione non dovrebbe tradursi in una soluzione razzista in cui vi siano due Stati, uno dei quali viola i diritti dei due terzi del popolo palestinese. Vale a dire, uno Stato israeliano continuerebbe a trattare i suoi cittadini palestinesi come di seconda classe e continuerebbe a negare il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Non sarebbe diverso dal Sudafrica del governo bianco, uno Stato che ha concesso diritti esclusivi a una razza escludendone tutte le altre. Se vogliamo imparare dal movimento anti-apartheid sudafricano, allora dovremmo prestare attenzione alla sua visione politica: democrazia, uguaglianza razziale e fine della segregazione.

Questa strategia ha portato alla creazione di uno Stato laico e democratico nella terra del Sudafrica, che appartiene a tutti i sudafricani, proprio come previsto dalla Carta della libertà dell’Alleanza congressuale sudafricana [The Congress South African Alleance è un’organizzazione anti-apartheid fondata in Sud Africa, su iniziativa dell’African National Congress, negli anni ‘50 del secolo scorso ndtr.].

È incredibile che alcune persone che hanno sostenuto la fine dell’apartheid non vedano la contraddizione intrinseca nel loro sostegno a uno Stato etnico palestinese, che soddisferebbe il diritto all’autodeterminazione solo di quei palestinesi che risiedono in Cisgiordania e a Gaza e priverebbe di questo diritto la diaspora e i cittadini palestinesi di Israele.

Ciò equivale a sostenere il “diritto” dei quattro famigerati Bantustan [i Bantustan, vere e proprie riserve per le popolazioni di colore, conseguenza delle politiche di aparheid portate avanti in Sud Africa dal 1948 al 1991 dal National Congress, ndtr.], Transkei, Bophuthatswana, Venda e Ciskei, all’ “indipendenza”

La soluzione dei due Stati non garantirà la democrazia, la fine della segregazione e i pieni diritti politici per tutti i palestinesi. Non fornirà l’autodeterminazione per tutti i palestinesi. In realtà, escluderà milioni di palestinesi che vivono in Israele sia nella diaspora dalla cittadinanza palestinese sia dal riconoscimento dei diritti.

Dobbiamo andare oltre il dibattito sulla soluzione tra uno e due Stati e cercare di perseguire un approccio più accurato : la lotta basata sui diritti unita a una visione politica ben definita che può essere realizzata nel quadro di uno Stato unitario con garanzia di uguaglianza per tutti i suoi cittadini, indipendentemente dalla religione, dall’etnia o dal genere.

Per il momento la campagna del BDS potrebbe attendere nel prendere una posizione, ma prima o poi dovrà farlo.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera

Haidar Eid è professore associato presso l’Università Al-Aqsa di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)