Addameer raccoglie prove concrete sulla tortura e i maltrattamenti commessi contro i detenuti palestinesi nei centri di interrogazione israeliani

 

23 dicembre 2019 Addameer

 Dalla sua creazione, lo stato occupante ha sviluppato e applicato leggi e pratiche che hanno portato sia all’uso sistematico della tortura sia all’impunità assoluta per gli autori di questo crimine.

Non c’è mai stato alcun individuo o agenzia ritenuta responsabile per i ben documentati crimini di tortura e maltrattamenti nelle carceri israeliane e nei centri di interrogatorio. Le autorità di occupazione, in particolare, l’agenzia di intelligence israeliana “Shabak” ricorrono alla tortura e ai maltrattamenti come procedura operativa standard in un approccio sistematico e su larga scala contro i detenuti palestinesi. Negli ultimi tre mesi, l’agenzia di intelligence ha sottoposto numerosi detenuti nei centri di interrogatorio israeliani a gravi torture fisiche e psicologiche senza alcuna forma di monitoraggio e protezione.

Addameer ha prove concrete dei crimini di tortura e maltrattamenti commessi contro un numero di detenuti nei centri di interrogatorio dalla fine di agosto 2019. A Addameer è stato vietato pubblicare qualsiasi dettaglio della tortura prima di questa data, a causa di un “ordine di bavaglio” emesso dal tribunale di primo grado israeliano a Gerusalemme.

Il 10 settembre 2019, è stato emesso un “ordine di tacere” per un certo numero di casi sotto interrogatorio presso il centro di interrogatorio al-Mascobiyya. Pertanto, impedire al pubblico, incluso Addameer che è il rappresentante legale, di pubblicare qualsiasi informazione relativa a questi casi. L’ordine di tacere è stato emesso sulla base di una richiesta dell’agenzia di intelligence israeliana e della polizia israeliana ed è stato rinnovato più volte. Nonostante l’ordine di tacere, i media israeliani e l’agenzia di intelligence israeliana hanno pubblicato informazioni al pubblico su alcuni di questi casi. Questa incoerente esecuzione dell’ordine di tacere, in cui le fonti israeliane hanno esercitato la libertà di pubblicare, può essere intesa solo come un mezzo per influenzare l’opinione pubblica. Ancora più importante, l’emissione di questo ordine di tacere è un tentativo di nascondere i crimini commessi contro i detenuti e impedire al pubblico e ai rappresentanti legali di esporre i dettagli dei crimini di tortura e maltrattamenti commessi contro i detenuti in questione in tutto il mesi scorsi.

Tortura nei centri di interrogatorio israeliani

Secondo le leggi militari israeliane, un detenuto può essere trattenuto in interrogatorio per un periodo totale di 75 giorni senza ricevere alcuna accusa ufficiale. Secondo queste stesse leggi, a un detenuto può essere proibito di incontrare il suo avvocato per un periodo totale di 60 giorni. Quei detenuti, in particolare, sono stati trattenuti per periodi estremamente lunghi di interrogatorio e sono stati inoltre esclusi dalle visite degli avvocati e dalla consultazione legale. In alcuni casi i periodi del divieto di incontrare gli avvocati variavano da 30 a 45 giorni. Durante gli interrogatori, i detenuti hanno subito diverse forme di tortura sia fisica che psicologica. I metodi usati contro di loro includevano, ma non si limitavano a pestaggi duri, privazione del sonno, isolamento, posizioni di stress, negazione dei bisogni di igiene di base, molestie sessuali, minacce e torture psicologiche intense incluso l’uso di familiari e / o altri detenuti . Le minacce utilizzate includevano minacce di stupro, tortura e revoca della residenza. Le gravi torture e umiliazioni subite da questi detenuti hanno provocato lesioni, fratture ossee, svenimenti, vomito, sanguinamenti da diverse parti del corpo (naso, bocca, mani, gambe [1] e area genitale). Inoltre, i detenuti hanno anche sofferto della falsa valutazione fatta dai medici nei centri di interrogatorio, che quasi in tutti i casi hanno dichiarato che i detenuti sono qualificati per gli interrogatori mentre negano i chiari segni di tortura.

Una breve descrizione di alcune delle tecniche di tortura:

Tortura di posizione (posizioni di stress): gli ufficiali dell’intelligence israeliana hanno costretto i detenuti in una serie di posizioni di stress come la posizione della banana, [2] la posizione della rana, seduto su una sedia immaginaria, accovacciato e molte altre posizioni diverse. Quasi in tutte queste posizioni di stress, i detenuti perderebbero l’equilibrio e caderebbero a terra, il che porterebbe a un duro pestaggio da parte degli ufficiali e quindi costringono il detenuto a tornare nella posizione di stress. Altre posizioni di stress usate includevano stare in piedi sulle dita dei piedi mentre le loro mani erano incatenate sopra la testa a un muro. Un’altra posizione includeva sedersi su una sedia mentre era ammanettato allo schienale, dove le mani erano posizionate su un tavolo dietro la sedia del detenuto. Una terza posizione riguardava il detenuto steso a terra con le mani incatenate l’una all’altra con polsini di ferro e posizionate dietro la schiena. Questa posizione include anche agenti seduti sul detenuto per fare pressione sul suo corpo mentre lo picchia ferocemente

Pestaggi duri: gli ufficiali dell’intelligence dell’occupazione israeliana hanno usato metodi estremi di pestaggi contro i detenuti usando mani, gambe, ginocchia e persino le dita. Gli agenti hanno colpito, schiaffeggiato, preso a pugni, colpito (usando le dita) e preso a calci i detenuti. Questi metodi hanno provocato lesioni gravi e potenzialmente letali che includevano costole rotte, incapacità di camminare, lividi brutali, segni di gonfiore sulla pelle, ferite da ulcera … ecc. Gli ufficiali, che in alcuni casi superavano il numero di cinque, erano soliti bendare gli occhi dei detenuti in modo da non aspettarsi il pestaggio o sapere da dove venisse. Molti di questi detenuti sono comparsi nelle loro sedute di tribunale con segni sui loro corpi, esprimendo un forte dolore, o in alcuni casi sono arrivati ​​su sedie a rotelle. In uno dei casi, il duro pestaggio è stato commesso con l’intenzione di uccidere il detenuto, che in realtà è stato trasferito in ospedale in gravi condizioni dopo circa 30 ore di percosse gravi ed estreme. In un altro caso, il duro pestaggio mirato alle ferite causate da un cane poliziotto durante l’arresto, gli interrogatori intendevano colpire le ferite precedentemente ottenute, che erano principalmente nell’area genitale del detenuto che causava la riapertura delle ferite più volte. Inoltre, in molti altri casi, è stato utilizzato il metodo di estrarre i peli del viso dalle sue radici causando lesioni e segni di gonfiore.
Privazione del sonno: questa tecnica è stata implementata con diversi metodi, in alcuni casi i detenuti hanno trascorso circa venti giorni dormendo da una a tre ore al giorno. Anche quando quei detenuti venivano mandati nelle loro celle a dormire, venivano disturbati da rumori forti e inquietanti emessi dalle guardie carcerarie, le voci di altri detenuti venivano picchiate duramente o il suono di bussare alle porte delle loro celle. In alcuni casi, la privazione del sonno variava da 30 a 60 ore consecutive, in cui il detenuto non sarebbe stato mandato a dormire durante queste ore e si sarebbe svegliato se si fosse addormentato durante l’interrogatorio. Alcuni detenuti sono stati duramente schiaffeggiati sul viso per svegliarsi, altri hanno avuto getti d’acqua. I detenuti descrivono gli schiaffi come estremamente pesanti, provocando loro le vertigini.
L’uso dei familiari (ricatti emotivi): torture psicologiche e maltrattamenti sono stati utilizzati sulla maggior parte di questi detenuti, concentrandosi sulle minacce contro i loro familiari e i loro cari. Le forze di occupazione israeliane hanno utilizzato la politica di punizione collettiva arrestando e portando alcuni membri della famiglia principalmente nel centro di interrogatori di al-Mascobiyya e nella prigione di Ofer. Otto membri della famiglia per sette diversi detenuti sono stati arrestati e altri dieci membri della famiglia sono stati portati per essere interrogati. Alcuni di questi parenti sono stati trattenuti per un certo numero di giorni, mentre altri sono stati tenuti per ore. In tutti i casi, i familiari e i loro cari sono stati portati principalmente per fare pressione sui detenuti stessi. Gli interrogatori hanno indotto i detenuti a ritenere che i loro parenti fossero stati arrestati e anch’essi sarebbero stati torturati. I parenti includevano padri, madri, fratelli, figlie, mogli, ecc.
Interrogatorio nelle carceri segrete israeliane: almeno uno dei detenuti Addameer ha documentato che i loro casi hanno dichiarato di essere stati portati in centri sconosciuti. Il detenuto ha detto che gli interrogatori in questo centro avevano tutti il volto coperto e indossavano un’uniforme diversa dalle solite uniformi conosciute. In passato è stato rivelato che Israele ha prigioni segrete che vengono rimosse da mappe e fotografie aeree. [3]
Questi detenuti che sono stati sottoposti a tortura e maltrattamenti negli ultimi mesi sono stati circa 50, quasi la metà di loro sono stati sottoposti a tortura e tutti hanno subito maltrattamenti. Tra i detenuti c’erano detenuti maschi e femmine, tra cui studenti universitari, sindacalisti, difensori dei diritti umani e un membro del PLC. L’avvocato di Addameer ha iniziato a raccogliere prove concrete a dimostrazione della tortura e dei maltrattamenti commessi contro questi detenuti dal primo giorno in cui gli avvocati sono stati autorizzati a incontrarli.

Legge pubblica internazionale

Violazioni delle garanzie di prova equa

I tribunali militari israeliani ignorano completamente le garanzie del processo equo. I casi monitorati negli ultimi mesi sono solo un’altra prova del fatto che il tribunale militare israeliano dalla sua creazione non ha mai incontrato gli standard minimi di un processo equo. Il diritto a un processo equo è sancito in tutte le convenzioni di Ginevra e nei loro protocolli aggiuntivi. [4] Secondo la terza e la quarta convenzione di Ginevra, privare una persona protetta di un processo equo e regolare è una grave violazione. [5] Inoltre, il diritto a un giusto processo è stabilito nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (ICCPR) e in numerosi altri strumenti internazionali [6]. Ad esempio, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite nel suo Commento generale sull’articolo 4 dell’ICCPR ha affermato che il principio del processo equo non può essere derogato. [7

Il processo equo garantisce dei principi di base che sono sistematicamente violati nei tribunali militari israeliani che includono, ma non si limitano a quanto segue; processo da un tribunale indipendente, imparziale e regolarmente costituito; presunzione di innocenza; informazioni sulla natura e sulla causa dell’accusa (diritto di essere informato); diritti e mezzi di difesa necessari (diritto alla consulenza); la presenza dell’imputato nel processo; e costringere gli accusati a testimoniare contro se stessi o a confessare la colpa. [8]

Come accennato in precedenza, c’era un provvedimento di messa a tacere valido per un periodo di oltre tre mesi, a causa di questo provvedimento di imbavagliamento i procedimenti giudiziari non erano aperti al pubblico e persino si impediva ai familiari di partecipare alle sedute giudiziarie. Pertanto, violando il diritto a procedimenti pubblici [9] Inoltre, la maggior parte dei detenuti inclusi nell’ordine di silenzio è stata anche bandita dalle visite e dalle consultazioni degli avvocati. Anche nelle sedute giudiziarie condotte mentre il divieto degli avvocati era efficace, ai detenuti veniva negato di vedere il proprio avvocato. Il periodo degli ordini di divieto per gli avvocati variava da 30 giorni a circa 45 giorni in alcuni casi, privandoli del loro diritto di prestare consulenza [10] nel periodo più delicato di detenzione.

Inoltre, secondo la legge militare israeliana, un detenuto può essere trattenuto senza alcun addebito per un periodo totale di 75 giorni soggetto a rinnovi. In quei casi, in particolare, l’accusa militare ha presentato un elenco di accuse dopo un periodo di interrogatori che in alcuni casi variava da 50 a 60 giorni. Uno dei detenuti ha trascorso più di 100 giorni nel centro di interrogatorio di al-Mascobiyya senza conoscere tutte le accuse mosse contro di lui. Pertanto, violando il diritto del detenuto di essere informato [11] sulla natura delle accuse mosse contro di loro senza indugio. In altri casi, l’agenzia di intelligence ha pubblicato accuse contro le persone al pubblico prima di presentare loro il loro elenco di accuse in tribunale. Le dichiarazioni pubblicate erano per mero motivo politico in quanto le accuse effettive avviate contro gli stessi detenuti presso il tribunale militare non sono in linea con l’accusa pubblicata.

Inoltre, secondo i protocolli delle sessioni giudiziarie, i detenuti hanno mostrato ed espresso la loro necessità di cure mediche urgenti sottolineando che sono stati torturati. Alcuni dei detenuti hanno partecipato alle loro sessioni su una sedia a rotelle e uno non è stato in grado di partecipare a un certo numero di sessioni a causa della sua situazione medica. Tuttavia, il giudice del tribunale militare in tutti i casi ha prolungato i periodi di detenzione per i detenuti ai fini degli interrogatori. In effetti, negli ultimi tre mesi, gli avvocati di Addameer hanno fatto diversi appelli alle corti militari israeliane con appelli sui periodi di detenzione e molte petizioni all’Alta Corte israeliana sugli ordini che vietano ai detenuti di incontrare i loro avvocati. Tutte le petizioni presentate all’Alta corte israeliana sono state respinte e circa il 95 percento degli appelli presentati alla corte d’appello militare israeliana sono stati respinti. Ciò dimostra come il tribunale militare e l’Alta corte non siano tribunali indipendenti, imparziali e regolarmente costituiti [12] in quanto danno priorità alle richieste e ai bisogni dell’agenzia di intelligence israeliana senza alcuna considerazione per i diritti dei detenuti. Ancora più importante, l’insistenza dei giudici israeliani in entrambe le corti per estendere i periodi di interrogatorio con la conoscenza della tortura commessa mostra la complicità di questo sistema legale nei crimini commessi. In effetti, i giudici hanno anche ostacolato la documentazione della tortura tentando di ritardare l’ottenimento di referti medici e immagini dei corpi di quei detenuti torturati, piuttosto che monitorare e prevenire la tortura, che è il loro obbligo legale. Solo in uno dei casi, il giudice ha ordinato al medico del centro di detenzione di documentare lo stato del corpo del detenuto scattando foto.

Alla fine, quasi tutti quei detenuti sono stati costretti a fare confessioni sotto tortura. L’intensità degli interrogatori e la gravità della tortura fisica e psicologica hanno costretto la maggior parte dei detenuti a testimoniare contro se stessi, contro gli altri e confessarsi colpevoli. [13] Al tribunale militare israeliano, quelle confessioni sono usate come strumento principale per accusare quei detenuti, nel completo disprezzo di tutte le norme internazionali che affermano l’inammissibilità di tutte le confessioni ottenute sotto tortura

Divieto di tortura nel diritto internazionale pubblico

Il divieto di tortura è una delle norme fondamentali del diritto internazionale a cui non si può derogare. La protezione contro la tortura in ogni circostanza è sancita sia dal trattato [14] che dal diritto internazionale consuetudinario [15]. Nonostante il divieto assoluto e non derogabile contro la tortura, sancito dall’articolo (2) della Convenzione internazionale contro la tortura e ratificato da Israele il 3 ottobre 1991, la tortura contro i detenuti palestinesi è sistematica e diffusa nelle carceri israeliane e nei centri di interrogatorio. In effetti, la tortura è stata sanzionata da una serie di decisioni della Corte Suprema israeliana. Nella decisione della High Court numero 5100/94 del 1999, [16] la High Court rese ammissibile l’uso di “mezzi speciali di pressione” nel caso di uno scenario di “bomba ad orologeria”, in cui gli interrogatori ritengono che un sospetto stia trattenendo informazioni che potrebbero prevenire una minaccia incombente per le vite civili, come indicato nell’articolo (1) 34 del Codice penale israeliano del 1972. Questa eccezione costituisce una grave scappatoia legale che legittima la tortura e il trattamento crudele da parte degli interrogatori dell’intelligence israeliana contro i detenuti palestinesi e protegge anche gli interrogatori a cui viene garantita l’impunità per i loro crimini.

Inoltre, la High Court israeliana, nel caso Tbeish numero 9018/17 nel 2018, [17] ha emesso una sentenza che ha ampliato il concetto di uno scenario di “bomba ad orologeria” per includere casi che non rappresentano minacce imminenti per la sicurezza. In questo caso, il giudice ha basato la sua decisione su decisioni precedenti e ha ampliato l’elemento dell’immediatezza per non limitarsi ad un lasso di tempo. Lo stato occupante israeliano sostiene che le “misure speciali” che usano con i detenuti palestinesi fanno parte delle loro misure di sicurezza. Tuttavia, tali pratiche equivalgono a tortura e maltrattamenti e, anche se le accuse israeliane erano accurate, la tortura è assolutamente vietata in tutte le circostanze, comprese quelle relative alle misure di sicurezza. Inoltre, la tortura viene commessa nei centri di interrogatorio israeliani a prescindere dalla classificazione di una situazione di “bomba esplosiva / misure speciali” che viene utilizzata in casi che includono persino il diritto all’affiliazione e all’organizzazione politica [18].

Gli standard legali internazionali affermano il divieto assoluto di tortura in ogni circostanza. Ad esempio, il Consiglio d’Europa ha delineato linee guida per i diritti umani e la lotta al terrorismo che sono state adottate dal Comitato dei Ministri l’11 luglio 2002. Le linee guida hanno dichiarato: “L’uso della tortura o di trattamenti o pene disumani o degradanti è assolutamente proibito, in tutte le circostanze, in particolare durante l’arresto, l’interrogatorio e la detenzione di una persona sospettata o condannata per attività terroristiche, indipendentemente dalla natura degli atti di cui è sospettata la persona o per i quali è stata condannata. “[19]

Il relatore speciale sulle torture delle Nazioni Unite, Nils Melzer, ha dichiarato: “Il divieto di tortura e maltrattamenti era una delle norme fondamentali del diritto internazionale e non poteva essere giustificato in nessuna circostanza”. [20] Ha aggiunto lo stesso in una dichiarazione sulla prigione americana nella baia di Guantanamo secondo cui: “Non riuscendo a perseguire il crimine di tortura in custodia della CIA, gli Stati Uniti stanno chiaramente violando la Convenzione contro la tortura e stanno inviando un pericoloso messaggio di compiacenza e impunità dei funzionari negli Stati Uniti in tutto il mondo ”. [21] Lo stato occupante israeliano è un esempio scandaloso di complicità e impunità assoluta per gli autori dei crimini di tortura e maltrattamenti.

Conclusione: impunità per un crimine di guerra

Questa occupazione illegale israeliana ha violato tutti gli elementi legali di un’occupazione ai sensi del diritto internazionale. Il sistema e le pratiche legali israeliane sono solo un esempio di questa violazione che mira a sopprimere e dominare la popolazione protetta palestinese. I crimini di tortura e la negazione di un giusto processo per i detenuti palestinesi non si limitano a un solo autore. Di fatto, le agenzie complici di questi crimini includono l’agenzia di intelligence, il tribunale militare, i procedimenti giudiziari, l’Hight Court e persino il personale medico che è stato coinvolto nel fornire assistenza medica e valutazione per i detenuti sottoposti a tortura e maltrattamenti

Secondo varie organizzazioni per i diritti umani che lottano contro i crimini dell’occupazione, non esistono meccanismi nazionali efficaci di responsabilità per i crimini di tortura, maltrattamenti e privazione di un processo equo. In effetti, Addameer, negli ultimi dieci anni, ha presentato ogni anno decine di denunce di tortura e solo una di esse, un caso di molestie sessuali, ha avuto accesso alle indagini. Tuttavia, piuttosto che premere un elenco di accuse contro gli autori, in questo caso, è stato chiuso senza accusa. Inoltre, secondo il comitato pubblico contro la tortura in Israele (PCATI), dal 2001 sono state presentate circa 1.200 denunce di tortura durante gli interrogatori israeliani. Tutti i casi sono stati chiusi senza una singola accusa [22].

Infine, Addameer afferma che lo stato occupante israeliano con tutte le sue agenzie continua a commettere crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Secondo lo statuto di Roma, la negazione di un processo equo e regolare è un crimine di guerra (articolo 8, paragrafo 2, lettera a), punto vi)). Inoltre, la tortura è un crimine di guerra (articolo 8, paragrafo 2, lettera a), punto ii)) e se commesso in un approccio sistematico e su vasta scala equivale anche a un crimine contro l’umanità (articolo 7, paragrafo 1, lettera f)). [23]

Addameer invita la comunità internazionale a ritenere Israele responsabile del suo crimine di guerra e dei suoi crimini contro l’umanità e a porre fine alla sua impunità assoluta.

[1] Le mani e le gambe di quei detenuti hanno subito gravi ferite principalmente a causa dei polsini usati per incatenarli per lunghe ore.

[2] La posizione della banana è una posizione in cui le gambe del detenuto sono legate alla parte inferiore di una sedia (la parte posteriore della sedia è posizionata lateralmente) e le sue mani sono legate l’una all’altra e pressate dagli interrogatori nella parte inferiore della sedia. Questa posizione significherebbe che il corpo del detenuto formerebbe un arco. Di solito, quando il detenuto viene costretto in questa posizione, gli interrogatori picchiano duramente il detenuto sul petto e sullo stomaco. Gli interrogatori mettono una coperta o un cuscino sul pavimento dietro la sedia, poiché i detenuti di solito cadono con la sedia a terra, a causa dell’intensità dell’esposizione.

[3] Per ulteriori informazioni consultare l’articolo scritto su https://www.theguardian.com/world/2003/nov/14/israel2

[4] Prima convenzione di Ginevra, articolo 49; Seconda convenzione di Ginevra, articolo 50; Terza Convenzione di Ginevra, articoli 102-108; Quarta convenzione di Ginevra, articoli 5 e 66–75; Protocollo aggiuntivo I, articolo 75, paragrafo 4; Protocollo aggiuntivo II, articolo 6, paragrafo 2. Il principio del diritto a un processo equo è previsto anche dall’articolo 17, paragrafo 2, del secondo protocollo della convenzione dell’Aia per la protezione dei beni culturali.

[5] Terza convenzione di Ginevra, articolo 130; Quarta convenzione di Ginevra, articolo 147; Protocollo aggiuntivo I, articolo 85, paragrafo 4, lettera e).

[6] Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, articolo 14, paragrafo 1 (ibid., § 2796); Convenzione sui diritti dell’infanzia, art. 40 (2) (b) (iii) (ibid., § 2802); Convenzione europea dei diritti dell’uomo, art. 6 (1) (ibid., § 2795); Convenzione americana sui diritti umani, articolo 8 (1) (ibid., § 2797); Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, articolo 7 (ibid., § 2801).

[7] Comitato delle Nazioni Unite per i diritti umani, Commento generale n. 29 (Articolo 4 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici) (ibid., § 2998).

[8] Per ulteriori informazioni, consultare la regola 100 del diritto internazionale consuetudinario all’indirizzo: https://ihl-database.icrc.org/customary-ihl/eng/docs/v1_rul_rule100

[9] Terza convenzione di Ginevra, articolo 105; Quarta convenzione di Ginevra, articolo 74; Protocollo aggiuntivo I, articolo 75, paragrafo 4, lettera i); Statuto ICC, articolo 64, paragrafo 7; Statuto ICTY, articolo 20, paragrafo 4; Statuto ICTR, articolo 19, paragrafo 4; Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, articolo 14, paragrafo 1.

[10] Prima convenzione di Ginevra, articolo 49; Seconda convenzione di Ginevra, articolo 50; Terza convenzione di Ginevra, articolo 84 e articolo 96; Quarta convenzione di Ginevra, articolo 72 e articolo 123; Protocollo aggiuntivo I, articolo 75, paragrafo 4, lettera a); Protocollo aggiuntivo II, articolo 6, paragrafo 2, lettera a). Inoltre, Patto internazionale sui diritti civili e politici, articolo 14, paragrafo 3.

[11] Terza convenzione di Ginevra, articolo 96 e articolo 105; Quarta convenzione di Ginevra, articolo 71 e articolo 123; Protocollo aggiuntivo I, articolo 75, paragrafo 4, lettera a); Protocollo aggiuntivo II, articolo 6, paragrafo 2, lettera a). Inoltre, Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, articolo 14, paragrafo 3, lettera a); Convenzione sui diritti dell’infanzia, articolo 40, paragrafo 2, lettera b), ii).

[12] Terza convenzione di Ginevra, articolo 84; Protocollo aggiuntivo II, articolo 6, paragrafo 2; Protocollo aggiuntivo I, articolo 75, paragrafo 4; Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, articolo 14, paragrafo 1; Convenzione europea dei diritti dell’uomo, articolo 6, paragrafo 1.

[13] Terza convenzione di Ginevra, articolo 99; Protocollo aggiuntivo I, articolo 75, paragrafo 4, lettera f); Protocollo aggiuntivo II, articolo 6, paragrafo 2, lettera f); Statuto ICC, articolo 55, paragrafo 1, lettera a); Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, articolo 14, paragrafo 3, lettera g); Convenzione contro la tortura, articolo 15

[15] Per ulteriori dettagli, consultare la regola 90 all’indirizzo: https://ihl-database.icrc.org/customary-ihl/eng/docs/v1_cha_chapter32_rule90

[16] HCJ 5100/94, Comitato pubblico contro la tortura in Israele e altri. v. Government of Israel et al., Judgment. Una traduzione inglese della decisione della Corte è disponibile all’indirizzo: http://www.hamoked.org/files/2012/264_eng.pdf [consultato il 5 dicembre 2019].

[17] HCJ 9018/17, Firas Tbeish et al. v. Il procuratore generale. Una traduzione inglese della decisione della Corte è disponibile all’indirizzo: http://stoptorture.org.il/wp-content/uploads/2017/02/F.-Tbeish-Ruling-Nov.-2018.ENG_.pdf [accesso 22 dicembre 2019].

[18] Relazione congiunta: B’Tselem e HAMOKED (2010): Impunità: politica militare israeliana di non indagare sull’uccisione di palestinesi da parte dei soldati https://www.btselem.org/download/201010_kept_in_the_dark_eng.pdf

[19] Linee guida sui diritti umani e la lotta al terrorismo adottate dal Comitato dei Ministri l’11 luglio 2002 in occasione della 804a riunione dei delegati dei Ministri

[20] Miles, Tom. “U.N. L’esperto afferma che la tortura persiste nella baia di Guantanamo; Stati Uniti Nega. ”Reuters, Thomson Reuters, 13 dicembre 2017, www.reuters.com/article/us-usa-guantanamo-torture/u-n-expert-says-tortur ….

[21] Ibid.

[22] Comitato pubblico contro la tortura in Israele, tortura in Israele 2019: rapporto sulla situazione, può essere trovato qui: rapporto sulla situazione 2019.

[23] Per ulteriori informazioni, consultare lo Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale all’indirizzo: https://www.ohchr.org/EN/ProfessionalInterest/Pages/InternationalCriminalCourt.aspx

A cura di Rete italiana ISM




Israele ha partecipato alla decisione degli USA di assassinare il generale iraniano

Philip Weiss

4 gennaio 2020 – Mondoweiss

La giustificazione di Trump per l’assassinio del capo militare iraniano Qasim Suleimani il 2 gennaio sono state le presunte minacce di Suleimani a diplomatici e soldati americani in Iraq. E persino il New York Times ha citato la sua responsabilità per “l’ondata di attacchi di miliziani contro Israele,” e un attacco contro l’Arabia Saudita come ragioni dell’uccisione.

Molti articoli suggeriscono che nella decisione di Trump siano stati considerati gli interessi israeliani. Sul LA Times [Los Angeles Times, quarto quotidiano più venduto negli USA, ndtr.] Noga Tarnopolsky ha riferito che i politici israeliani sono stati informati in anticipo:

Israele è stato informato preventivamente del piano USA…hanno riferito analisti militari e diplomatici israeliani venerdì notte, evitando di fornire ulteriori dettagli data la pesante censura militare.

La nostra opinione è che gli Stati Uniti abbiano informato Israele su questa operazione in Iraq, probabilmente qualche giorno fa,” ha detto a Channel 13 [canale televisivo israeliano, ndtr.] Barak Ravid, giornalista e opinionista con fonti molto addentro al sistema di sicurezza israeliano.

L’amministrazione Trump si è consultata con l’Arabia Saudita, gli Emirati e Israele prima dell’attacco, ma non con gli alleati europei, afferma Negar Mortazavi dell’Indipendent [giornale inglese di centro sinistra, ndtr.]. “(Mike) Pompeo ha chiamato Netanyahu, MBS (Mohammed bin Salman [reggente dell’Arabia Saudita, ndtr.]) e MBZ [lo sceicco Mohammed bin Zayed [generale e politico degli Emirati, ndtr.] più di una volta negli ultimi giorni per discutere di Iran, attraverso il Dipartimento di Stato [il ministero degli Esteri USA, ndtr.].” Mortavazi nota che i comunicati di ieri del Dipartimento di Stato dimostrano che Pompeo ha chiamato i ministri degli Esteri di GB e Germania dopo il fatto.

Sana Saeed di AjPlus [canale di notizie di Al Jazeera, ndtr.] osserva:

Il Congresso non sapeva della decisione di assassinare Suleimani, ma indovinate chi lo sapeva? Israele.

Jeff Morley riferisce che lo scorso anno dei funzionari degli apparati di sicurezza israeliani hanno caldeggiato l’assassinio di Suleimani: “Il Mossad ha preso di mira Suleimani, Trump ha premuto il grilletto.” Lo scorso ottobre Morley affermava che Israele sembrava aver messo Suleimani nel mirino:

Lo scorso ottobre Yossi Cohen, capo del Mossad israeliano, ha parlato apertamente dell’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani, il capo della forza scelta Quds del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica iraniana.

Sa molto bene che il suo assassinio non è impossibile,” ha detto Cohen in un’intervista. Suleimani si era vantato che Israele cercò di ucciderlo nel 2006 e non ci riuscì.

Trump ha ora soddisfatto i desideri del Mossad,” conclude Morley. “Dopo aver dichiarato la propria intenzione di porre fine alle ‘stupide e infinite guerra’ dell’America, il presidente ha di fatto dichiarato guerra al più grande Paese della regione per solidarietà con Israele, il Paese più impopolare del Medio Oriente.”

Il New York Times informa che dei funzionari israeliani avevano in precedenza promosso l’idea di uccidere Suleimani, ma dirigenti in Israele e negli USA avevano opposto resistenza, per timore che l’omicidio scatenasse una guerra con l’Iran:

Almeno una volta, tuttavia, dei funzionari israeliani hanno prospettato la possibilità di attaccarlo con le loro strutture di controllo. Secondo importanti funzionari dell’intelligence americana e israeliana, ciò avveniva nel febbraio 2008, mentre operatori delle intelligence israeliana e americana stavano inseguendo Mugniyah, il comandante di Hezbollah, nella speranza di ucciderlo, (Imad Mugniyah venne assassinato da Israele in Siria nel 2008).

Jonathan Ofir scrive su Facebook:

Il concetto secondo cui gli USA hanno agito da soli, senza rapporti con Israele, è solo un’affermazione a vantaggio della propaganda israeliana.

MJ Rosenberg ha twittato che la complicità di Israele nell’attacco non sarà mai presa in considerazione dal Congresso:

Il Congresso non avvierà mai un’inchiesta sul ruolo di Israele nell’attacco all’Iran e su tutto quello che ne conseguirà perché entrambi i partiti [del Congresso] sono controllati dall’AIPAC [la Commissione Americana per gli Affari Pubblici di Israele, ndtr], controllata da Netanyahu.

Parliamo dell’AIPAC. Ieri l’associazione di punta della lobby filo-israeliana ha lodato la decisione di Trump e ha paragonato Suleimani a Osama bin Laden:

La decisiva azione del presidente ha fatto giustizia di uno dei più pericolosi terroristi al mondo, responsabile della morte di oltre 600 militari USA.

In quanto comandante della forza IRGC-Quds iraniana, Qasem Suleimani ha spietatamente portato avanti le ambizioni rivoluzionarie del regime, causando morte e distruzione in Medio Oriente e mettendo in pericolo i nostri alleati e interessi …

L’AIPAC sembra fare eco al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ieri ha elogiato Trump: “Il presidente Trump merita tutto il plauso per aver agito in modo rapido, energico e deciso. Israele sta con gli Stati Uniti nella sua giusta lotta per la pace, la sicurezza e l’autodifesa.

Altrettanto importante dell’AIPAC è la Fondazione per la Difesa delle Democrazie (FDD), un gruppo di esperti pro-Israele che ha fornito molti analisti politici all’amministrazione Trump.

Uno dei falchi di Trump, Richard Goldberg, ha lasciato ieri il suo lavoro come consigliere capo per la sicurezza nazionale alla Casa Bianca; ma Bloomberg riferisce che lo stipendio di Goldberg è stato pagato da FDD. “Goldberg tornerà a FDD, che ha continuato a pagare il suo stipendio durante il suo periodo al Consiglio Nazionale di Sicurezza.”

Un ex funzionario di Obama, Ned Price, è turbato dal resoconto: “Se fosse vero, è un monito di come la corruzione e i conflitti di interesse facciano sempre parte dell’equazione, anche quando la posta in gioco non potrebbe essere più alta”.

Il giornalista Nick Wadhams spiega l’influenza di FDD:

L’ex consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton ha espressamente creato un lavoro per Goldberg – direttore per la lotta contro le armi di distruzione di massa dell’Iran. L’obiettivo era contrastare ciò che Bolton vedeva come un desiderio nei ministeri di Stato e del Tesoro di indebolire la campagna di “massima pressione” contro l’Iran …

Quella lotta è stata solo una delle battaglie legate all’Iran interne all’amministrazione e ha sottolineato l’influenza esercitata dalla Fondazione per la Difesa delle Democrazie, il think tank in cui Goldberg aveva precedentemente lavorato, nello spingere per una linea più dura contro l’Iran.

Nel suo articolo sull’assassinio, il New York Times ha dato ampio spazio all’amministratore delegato di FDD, Mark Dubowitz, nel giustificare l’assassinio di Suleimani. Eli Clifton del Quincy Institute punta il dito sul finanziamento di FDD:

E’ importante rivelare ai lettori del New York Times che il maggior finanziatore di FDD è il super-finanziatore di Trump, Bernie Marcus, che afferma “L’Iran è il diavolo”?

Si sta letteralmente citando qualcuno che sostiene le decisioni di Trump sulla politica estera che viene finanziato da uno dei maggiori finanziatori di Trump.

Marcus è il fondatore di Home Depot (impresa di prodotti domestici, ndtr.) e il secondo maggior finanziatore di Trump dopo Sheldon Adelson. Di gran lunga il più grande sostenitore di Trump, Adelson ha affermato di aver desiderato di prestare servizio nell’esercito israeliano e non nell’esercito americano. Una volta ha esortato il presidente Obama a colpire l’Iran con armi atomiche.

Eli Clifton ha riferito due anni fa che Marcus e Adelson e un terzo donatore miliardario filo-israeliano hanno spianato la strada a Trump perché si ritirasse dall’accordo con l’Iran.

Marcus ha definito l’accordo con l’Iran un “trattato mortalmente mortale”, riferisce Militarist Monitor (pubblicazione indipendente online, ndtr.). E Marcus ha finanziato molti gruppi filo israeliani di destra:

Secondo i documenti fiscali, la suddetta fondazione di Marcus da cui prende il nome ha finanziato gruppi di falchi e neoconservatori come “American Enterprise Institute”, “Christian United for Israel”, “Friends of IDF” [l’esercito israeliano], “Hoover Institution”, “Hudson Institute”, “Israel Project”, “Jewish Institute for National Security Affairs”, “Manhattan Institute” e “Middle East Media Research Institute”, così come altri gruppi conservatori come “Judicial Watch” e “Philanthropy Roundtable”. Fa anche parte del consiglio di amministrazione della Coalizione Repubblicana Ebraica.

Colin Powell [politico americano, generale a quattro stelle in pensione] una volta accusò il “Jewish Institute for National Security Affairs” per il piano di invasione dell’Iraq, che lui stesso sostenne. L’idea che Israele abbia avuto un ruolo di spicco nella decisione dei politici statunitensi di invadere l’Iraq è ampiamente accettata ma anche dibattuta. Spesso si dice che questa idea sia faziosa, e questa è una delle ragioni per cui la stampa più importante evita la prospettiva israeliana, allora e adesso.

Ringraziamenti a Scott Roth e James North.

Philip Weiss è caporedattore di Mondoweiss.net e ha fondato il sito nel 2005-06

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi e Luciana Galliano)




Uno studio rivela che gli israeliani non si sentono più sicuri nonostante i letali attacchi contro Gaza

5 Gennaio 2020 PALESTINE CHRONICLE

Uno studio accademico ha recentemente rivelato che, nonostante il letale attacco israeliano dello scorso novembre alla Striscia di Gaza assediata, la maggioranza degli israeliani nel sud del Paese non si sente assolutamente più al sicuro.

Due settimane dopo la fine della campagna, i ricercatori del College Tel Hai e dell’università di Tel Aviv hanno svolto uno studio per misurare la resilienza degli israeliani che vivono nelle comunità del sud”, ha riferito il quotidiano israeliano Haaretz.

Lo studio prende in esame le opinioni di 503 residenti ebrei che vivono entro un raggio di 40 km. da Gaza. La principale domanda loro posta è in che modo abbia influito sul loro senso di sicurezza l’attacco israeliano contro la Striscia del 12 novembre, che ha ucciso 34 palestinesi e ferito altre decine.

Il 63% degli intervistati ha risposto che non si sentono più sicuri dopo l’operazione, mentre il 27% ha risposto che si sentono meno sicuri di prima. Solo il 10% ha risposto di essersi sentiti più al sicuro in conseguenza dell’attacco militare contro Gaza.

L’attacco israeliano a Gaza è iniziato con l’assassinio di Bahaa Abu Al Ata, un alto ufficiale della Jihad islamica. E’ proseguito per diversi giorni, con una serie di attacchi aerei mortali su varie aree dell’assediata e impoverita Striscia di Gaza.

Il documento israeliano rivela anche che gli abitanti del sud di Israele, che spesso chiedono più azioni militari contro Gaza, “si sentono cittadini di seconda classe rispetto agli israeliani che vivono più a nord, dicendo che l’IDF (l’esercito israeliano) risponde più duramente ai razzi sparati sulla più grande area di Tel Aviv.”

Gaza è stata l’obbiettivo di molte campagne militari israeliane, comprese parecchie importanti guerre che hanno provocato l’uccisione ed il ferimento di decine di migliaia di palestinesi.

Non è la prima volta che gli abitanti e i coloni del sud di Israele esprimono il loro disappunto riguardo a ciò che considerano “uno status di seconda classe”. Nel novembre 2018 centinaia di coloni hanno organizzato una protesta per chiedere maggiore sostegno del governo nel proteggerli dai lanci di razzi provenienti da Gaza.

All’epoca il redattore di Palestine Chronicle Ramzy Baroud ha sottolineato che “nonostante le loro continue lamentele, le comunità del sud di Israele hanno visto un costante incremento delle opportunità economiche e quindi della popolazione. Questo ha posto queste zone al centro dell’attenzione dei politici israeliani, tutti alla ricerca del consenso dei leader locali e del sostegno dei loro settori economici in forte espansione.”

Il recente impegno elettorale ha fatto delle richieste e delle aspettative dei leader delle comunità israeliane del sud un elemento centrale nelle principali politiche israeliane”, ha aggiunto.

(The Palestine Chronicle)

 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Sostenere la Palestina: come combattere l’uso improprio di “anti-semitismo” da parte di Israele

Ramzy Baroud

1 gennaio 2020 – Middle East Monitor

In un discorso tenuto nel nord dell’Inghilterra nel marzo 2018, ho proposto che la migliore risposta alle false accuse di antisemitismo, che spesso vengono scagliate contro comunità e intellettuali pro-palestinesi di tutto il mondo, fosse quella di avvicinarsi ancora di più alla narrazione palestinese.

In effetti, la mia proposta non voleva essere in alcun modo una risposta dettata dal sentimento.

“La rivendicazione della narrazione palestinese” è stato negli ultimi anni il filo conduttore nella maggior parte dei miei discorsi pubblici e dei miei scritti. Tutti i miei libri e gran parte dei miei studi e delle ricerche accademiche si sono fortemente concentrati sulle posizioni del popolo palestinese – i suoi diritti, la storia, la cultura e le aspirazioni politiche – al centro di ogni vera comprensione della lotta palestinese contro il colonialismo e l’apartheid israeliani.

È vero, non c’era nulla di particolarmente originale nel mio discorso nell’Inghilterra settentrionale. Avevo già tenuto una versione di quel discorso in altre parti del Regno Unito, in Europa e altrove. Ma ciò che ha reso memorabile quell’evento è una conversazione che ho avuto con un appassionato attivista, che si è presentato come consigliere dell’ufficio del capo del Partito laburista britannico, Jeremy Corbyn.

Sebbene l’attivista fosse d’accordo con me sulla necessità di sostenere la narrazione palestinese, ha insistito sul fatto che il modo migliore per Corbyn di allontanare le accuse antisemite, che hanno perseguitato la sua leadership fin dal primo giorno, è che il partito Laburista emettesse una condanna radicale e decisiva dell’antisemitismo, in modo che Corbyn potesse mettere a tacere i suoi critici e fosse finalmente in grado di concentrarsi sul tema impellente dei diritti dei palestinesi.

Io ero dubbioso. Ho spiegato all’acceso attivista molto sicuro di sé che la manipolazione sionista e l’uso improprio dell’antisemitismo sono dei fenomeni che hanno preceduto Corbyn di molti decenni e che saranno sempre presenti finché il governo israeliano avrà la necessità di distogliere l’attenzione dai suoi crimini di guerra contro i palestinesi e di reprimere la solidarietà filo-palestinese in tutto il mondo.

Gli ho spiegato che, mentre il razzismo anti-ebraico è un fenomeno reale che deve essere affrontato, l’ “antisemitismo”, come definito da Israele e dai suoi alleati sionisti, non è una questione morale che debba essere risolta con un comunicato stampa, non importa quanto incisivo. Piuttosto è una cortina di fumo, con l’obiettivo finale di distrarre dalla vera questione, che è il crimine dell’ occupazione militare, del razzismo e dell’apartheid in Palestina.

In altre parole, nessuna mole di parole, discussioni o autodifese può verosimilmente convincere i sionisti che le richieste della fine dell’occupazione militare israeliana in Palestina o dello smantellamento del regime di apartheid israeliano o qualsiasi critica aperta alle politiche del governo della destra israeliana non siano, in effetti, atti di antisemitismo.

Ahimè, l’attivista insisteva sul fatto che una solida dichiarazione che chiarisse la posizione del partito Laburista sull’antisemitismo avrebbe finalmente assolto Corbyn e protetto la sua eredità contro la macchia immeritata.

Il resto è storia. Il partito Laburista è andato a caccia delle streghe per individuare i “veri” antisemiti tra i suoi membri. L’ epurazione senza precedenti ha colpito molte brave persone che hanno dedicato anni al servizio delle loro comunità e alla difesa dei diritti umani in Palestina e altrove.

La dichiarazione per porre fine a tutte le dichiarazioni è stata seguita da molte altre. Numerosi articoli sono stati scritti e discussioni sono state fatte in difesa di Corbyn – senza risultati. Solo pochi giorni prima che i laburisti perdessero le elezioni generali a dicembre il Simon Wiesenthal Centre [Centro Simon Wiestenthal, ONG con sede a Los Angeles intitolata al famoso cacciatore di nazisti. Fondata nel 1977 per combattere l’antisemitismo, si propone di difendere i diritti umani “affrontando l’antisemitismo, l’odio e il terrorismo, promuovendo i diritti umani e la dignità, stando a fianco di Israele, difendendo gli ebrei in tutto il mondo e insegnando le lezioni dell’Olocausto per le future generazioni”, ndtr.] ha proclamato Corbyn, uno dei leader più sinceri e ben intenzionati della Gran Bretagna nell’era contemporanea, il “maggiore antisemita del 2019″. Questo a proposito dell’impegno dei sionisti.

Non importa se il partito di Corbyn abbia perso le elezioni in parte a causa delle diffamazioni sioniste e accuse infondate di antisemitismo. Ciò che conta davvero per me come intellettuale palestinese che ha sperato che la leadership di Corbyn potesse costituire un cambiamento di paradigma riguardo l’atteggiamento del paese nei confronti di Israele e Palestina, è il fatto che i sionisti siano effettivamente riusciti a mantenere il dibattito focalizzato sulle priorità israeliane e sulle sensibilità sioniste. Mi rattrista il fatto che, mentre la Palestina avrebbe dovuto occupare il centro della scena, almeno durante gli anni della leadership di Corbyn, sia rimasta in realtà marginale, denotando ancora una volta come la solidarietà con la Palestina sia diventata un ostacolo politico per chiunque speri di vincere un’elezione – nel Regno Unito e ovunque in Occidente.

Trovo sconcertante, anzi inquietante, che Israele, direttamente o meno, sia in grado di determinare la natura di qualsiasi discussione sulla Palestina in Occidente, non solo all’interno delle tipiche piattaforme tradizionali, ma anche dei circoli filo-palestinesi. Ad esempio, ho ascoltato ripetutamente attivisti che si chiedevano se la soluzione dello Stato unico fosse mai possibile, per il fatto che “Israele semplicemente non l’accetterebbe mai”.

Sfido spesso il mio pubblico a fondare la loro solidarietà con la Palestina sull’ amore, sul sostegno e sull’ammirazione reali per il popolo palestinese, per la sua storia, per la sua lotta anti-colonialista e per le migliaia di eroi ed eroine che hanno sacrificato la propria vita perché il loro popolo possa vivere in libertà.

Quanti di noi sanno fare i nomi dei migliori poeti, artisti, femministe, calciatori, cantanti e storici della Palestina? Che reale familiarità possediamo con la geografia palestinese, con le complessità della sua politica e con la ricchezza della sua cultura?

Anche all’interno di piattaforme che sono solidali con la lotta palestinese, c’è una paura intrinseca che tale simpatia possa essere fraintesa come antisemitismo, fino al punto che le voci palestinesi vengono spesso trascurate, se non completamente sostituite da voci ebraiche antisioniste. Vedo che ciò accade abbastanza spesso anche nei media mediorientali che si presume sostengano la causa palestinese.

Questo fenomeno è in gran parte collegato alla Palestina e solo alla Palestina. Mentre la lotta anti-apartheid in Sudafrica e la lotta per i diritti civili negli Stati Uniti – come nel caso di molti autentici movimenti di liberazione anti-coloniale nel mondo – hanno utilizzato strategicamente l’intersezionalità per collegarsi con altri gruppi, a livello locale, nazionale o internazionale, i movimenti in sé si reggevano su voci nere come realmente rappresentative delle lotte dei loro popoli.

Storicamente i palestinesi non sono sempre stati emarginati all’interno del loro stesso discorso. Una volta l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) [Fondata a Gerusalemme nel 1964 con l’obiettivo di liberare la Palestina, nel 1993 ha riconosciuto lo Stato di Israele. Attualmente gode dello status permanente di “osservatore” presso l’Assemblea generale dell’ONU, ndtr.] nonostante le sue numerose carenze, indicava una posizione politica unitaria palestinese che serviva da cartina di tornasole per qualsiasi individuo, gruppo o governo in merito alla sua posizione sui diritti e sulla libertà dei palestinesi.

Gli accordi di Oslo hanno posto fine a tutto ciò – hanno frammentato il discorso palestinese così come hanno diviso il popolo palestinese. Da allora, il messaggio proveniente dalla Palestina è diventato confuso, frazionato e spesso autolesionistico. Il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) ha fatto un lavoro straordinario nel portare un po’ di chiarezza nel tentativo di articolare un discorso palestinese universale.

Tuttavia, il BDS deve ancora proporre una strategia politica centralizzata che venga trasmessa attraverso un organo palestinese eletto democraticamente. Finché l’OLP persisterà nella sua inerzia e con l’assenza di un’alternativa veramente democratica, è probabile che la crisi del discorso politico palestinese continui.

Allo stesso tempo, ai sionisti non deve essere permesso di determinare la natura della nostra solidarietà con il popolo palestinese. Mentre la vera solidarietà palestinese richiede il completo rifiuto di tutte le forme di razzismo, incluso l’antisemitismo, il campo filoisraeliano deve essere completamente escluso da qualsiasi conversazione relativa ai valori e alla moralità di ciò che significa essere “pro-Palestina”.

L’ essere anti-sionisti non è sempre lo stesso dell’essere pro-Palestina, in quanto il primo [atteggiamento] deriva dal rifiuto delle idee razziste e sioniste e il secondo implica una reale connessione e un legame con la Palestina e il suo popolo.

Essere pro-Palestina significa anche rispettare la centralità della voce palestinese, perché senza la narrazione palestinese non può esserci solidarietà reale e significativa, e anche perché, alla fine, saranno palestinesi stessi a liberarsi.

“Non sono un liberatore”, ha detto il leggendario rivoluzionario sudamericano Ernesto Che Guevara. “I liberatori non esistono. Le persone si liberano da sole”.

Perché i palestinesi “si liberino” dovranno rivendicare la loro centralità nella lotta per i diritti dei palestinesi ovunque, per esprimere chiaramente il proprio discorso e per essere i fautori della propria libertà. Nient’altro sarà sufficiente.

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Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Le Nazioni Unite hanno previsto che Gaza sarebbe stata invivibile entro il 2020. Avevano ragione.

Tania Hary

31 dicembre 2019  + 972

Israele sta cercando di mantenere la “calma” a Gaza applicando nuove misure in modo da permettervi la sopravvivenza – senza consentire alle persone di vivere davvero.

Mentre i festaioli di tutto il mondo stanno facendo i nuovi propositi per il 2020, nella Striscia di Gaza è in corso un diverso tipo di valutazione, con i palestinesi che cercano di stabilire se o come sopravviveranno nei prossimi 10 anni. Nel 2012, le Nazioni Unite hanno pubblicato un rapporto il cui titolo poneva una domanda sconcertante: “Gaza nel 2020: un luogo vivibile?” Il rapporto ipotizzava che senza cambiamenti fondamentali e sforzi collettivi, la Striscia sarebbe diventata “invivibile” in soli otto anni.

Il rapporto è stato pubblicato pochi mesi prima della seconda delle tre operazioni militari israeliane che sarebbero state condotte a Gaza nel corso di sei anni. In seguito alla terza operazione, Protection Edge nel 2014, con il suo enorme tributo in vite umane e il vasto danno alle infrastrutture civili [Margine Protettivo è il nome della operazione militare effettuata dalle Forze Israeliane sulla Striscia di Gaza, iniziata l’8 luglio del 2014 e cessata il 26 agosto successivo che ebbe come esito la uccisione di migliaia di palestinesi tra cui moltissimi bambini e l’estesa devastazione di case e ospedali, ndtr.], i funzionari delle Nazioni Unite hanno successivamente avvertito che la Striscia sarebbe diventata davvero invivibile entro il 2018. Le previsioni del rapporto su Gaza 2020 non avevano preso in considerazione operazioni militari di tale portata.

Tuttavia, alla vigilia del 2020, le persone si chiedono che fine abbiano fatto le previsioni delle Nazioni Unite – come se allo scoccare della mezzanotte, lo spettro dell’invivibilità potesse o meno realizzarsi. Tuttavia, a detta di tutti, e secondo gli indicatori scelti dalle Nazioni Unite, la vita a Gaza è palesemente peggiore ora rispetto al 2012. Ad esempio, il tasso di disoccupazione è passato dal 29% di quando il rapporto è stato scritto al 45% di oggi, con un tasso di oltre il 60% tra i giovani palestinesi.

Purtroppo la capacità di produzione di energia elettrica nella Striscia è rimasta invariata negli ultimi otto anni, nonostante l’aumento della domanda essendo la popolazione cresciuta da 1,6 a quasi due milioni. La fornitura di energia elettrica è persino peggiorata, dal momento che le reti egiziane sono fuori servizio dall’inizio del 2018. L’energia è disponibile solo per mezza giornata – un miglioramento rispetto alcuni periodi, ma neanche minimamente concepibile per il 2020. L’acqua delle falde acquifere non è potabile al 96%, come previsto. Le famiglie spendono entrate preziose per l’acquisto di acqua potabile, che non sempre lo è. Dato che molte famiglie non possono permettersi di acquistare l’acqua, le malattie trasmesse attraverso l’acqua, specialmente tra i bambini, sono molto diffuse.

Israele, attraverso il controllo sui movimenti, ha svolto un ruolo centrale e intenzionale in questo declino. Ai cittadini israeliani viene detto che è “tutta colpa di Hamas”, il che può aiutarli a dormire meglio la notte, ma travisa la verità storica. Gaza è stata gradualmente tagliata fuori e isolata da parte di Israele nel corso dei decenni, e nel 2007, quando Hamas ha preso il potere nella Striscia, Israele ha sigillato il territorio in modo quasi ermetico.

I funzionari israeliani hanno fatto il calcolo – letteralmente – che esercitare pressioni avrebbe aiutato a raggiungere degli obiettivi politici a Gaza. Nei fatti, Israele ha limitato l’ingresso di cibo e, negli ultimi 12 anni, ha preso di mira settori dell’economia con politiche quali limiti arbitrari sulla pesca e sull’accesso ai terreni agricoli, sull’ingresso di energia per la produzione e sulla commercializzazione e l’esportazione di merci. Dopo diverse operazioni militari, tuttavia, alcuni funzionari israeliani hanno riconosciuto che il loro “obiettivo” era molto lontano. In particolare, successivamente a Margine Protettivo, molti hanno notato come il deterioramento della situazione umanitaria sul terreno fosse in realtà un ostacolo per Israele.

Il capo dell’intelligence dell’esercito ha persino citato il rapporto Gaza 2020 delle Nazioni Unite in un’audizione del Comitato della Knesset all’inizio del 2016, dicendo ai membri della Knesset che era necessario un intervento economico per contrastare la previsione delle Nazioni Unite che la Striscia sarebbe diventata invivibile entro il 2020. Egli definiva l’intervento economico come “il fattore di contenimento più importante”e affermava che senza un miglioramento delle condizioni sul terreno, Israele sarebbe stato il primo ad accusarne il contraccolpo. Questo tipo di logica fu condivisa tra i funzionari israeliani, dal ministero della difesa allo stesso primo ministro, anche se questi individui avevano attivamente sovrainteso a politiche progettate per fare esattamente il contrario.

Questa logica si è tradotta in modesti cambiamenti di politica. Nel 2012, il limite della pesca era di sole tre miglia nautiche dalla costa [cinque chilometri e mezzo], poi è salito a sei miglia nel 2015, e oggi a 15 miglia [circa 28 chilometri] in alcune zone. A differenza del 2012, quando nessuna merce era autorizzata ad uscire da Gaza per essere venduta nei mercati tradizionali in Cisgiordania e Israele, oggi una serie di merci può essere inviata in Cisgiordania e alcuni prodotti possono essere venduti anche in Israele. Nel 2012, una media di soli 22 camion di merci usciva da Gaza, mentre nel 2019 era più di 10 volte tanto, cioè 240 camion al mese. Nel 2012, l’ingresso dei materiali da costruzione era a malapena autorizzato alle organizzazioni internazionali, mentre oggi i materiali possono entrare per il settore privato nell’ambito del Meccanismo di Ricostruzione di Gaza [il GRM, Gaza Reconstruction Mechanism, è un temporaneo accordo tra Autorità Palestinese, Israele e le Nazioni Unite, stipulato nel 2014 al fine dichiarato di una ricostruzione della Striscia di Gaza dopo le distruzioni dovute all’operazione Margine Protettivo, ndtr.]

Tuttavia mentre questi micro cambiamenti hanno dato un po’ di sollievo ai palestinesi di Gaza, non hanno invertito il macro deterioramento della Striscia. Invece di tentare di trasformare la situazione, Israele e altri attori regionali sono semplicemente alla ricerca di nuove misure per raggiungere un “equilibrio” consentendo a Gaza di sopravvivere.

In linea con questo obiettivo, l’Egitto ha iniziato a gestire regolarmente l’attraversamento del valico di Rafah con Gaza nel 2018, dopo averlo tenuto per lo più chiuso per cinque anni. Il Qatar si è anche fatto avanti con un massiccio sostegno finanziario nel 2018 e nel 2019, pagando il carburante per la produzione di elettricità nell’unica centrale elettrica della Striscia, sostenendo progetti di costruzione e offrendo somme in contanti alle famiglie povere. Altri donatori – Paesi europei, Stati del Golfo e altri – hanno continuato a finanziare considerevolmente l’UNRWA e dozzine di altre organizzazioni internazionali e locali, fornendo aiuti essenziali e colmando le lacune causate dai tagli dei finanziamenti statunitensi.

È questo il grande sforzo previsto dalle Nazioni Unite per cambiare rotta e rendere vivibile Gaza? Lungi da ciò. È il minimo indispensabile per mantenere la testa delle persone appena a galla, senza un vero sviluppo economico, prospettive di crescita futura o un impegno sui diritti umani.

I cambiamenti della politica israeliana, l’aumento dei camion e gli aiuti in denaro sono andati tutti per mantenere le cose ad un livello sufficiente per evitare una forte diffusione di malattie e per calmare una potenziale rivolta da parte di coloro che hanno sete di acqua. Nessuno dovrebbe tirare un sospiro di sollievo, tuttavia, poiché una “quiete” non può cancellare la fame provata da migliaia di famiglie palestinesi che soffrono per l’insicurezza alimentare. E non maschera la disperazione dei giovani che fuggono dalla Striscia in cerca di una vita migliore.

È illusorio pensare che questa situazione sia gestibile. Nessuno dovrebbe dormire sonni tranquilli fino a quando non si verificherà un cambiamento significativo dell’approccio, tale che i civili non siano tenuti in ostaggio dalle azioni del loro governo di fatto e non siano trasformati in carne da macello per le campagne elettorali di politici israeliani sulla via del fallimento. Ci sono stati sforzi sostanziali da parte della comunità internazionale e persino alcuni cambiamenti politici da parte di Israele, ma non c’è mai stata una decisione di fondo da parte di Israele per consentire che a Gaza le persone vivano realmente, piuttosto che sopravvivere.

Gli esseri umani non sono macchine e molti degli indicatori che rendono la vita degna di essere vissuta non possono trovarsi in un rapporto delle Nazioni Unite. Sì, le persone hanno bisogno di acqua, elettricità, lavoro e assistenza sanitaria per cavarsela – ma che dire delle cose che sono più difficili da misurare? Il bisogno di libertà, la capacità di pianificare la propria vita, di essere fiduciosi sulle prospettive per i propri figli e di sentirsi al sicuro nella propria casa?

In tal senso il rapporto di Gaza 2020 e i funzionari israeliani che hanno cercato di seguirne le prescrizioni non sono stati all’altezza. Ma i funzionari delle Nazioni Unite che hanno avvertito che Gaza sarebbe diventata invivibile entro il 2018 avevano scoperto qualcosa. Nel 2018, i cancelli della disperazione a Gaza sono stati aperti mentre la gente si rendeva conto che il piano era quello di preservare il loro isolamento senza la prospettiva di una soluzione al conflitto. Attraverso le loro proteste nella Grande Marcia del Ritorno [i palestinesi della Striscia di Gaza hanno lanciato la Grande Marcia del Ritorno il 30 marzo 2018 per difendere il diritto dei rifugiati al ritorno e chiedere la fine del blocco di 13 anni sull’enclave costiera. Dall’inizio delle proteste le forze di occupazione israeliane hanno ucciso centinaia di palestinesi ferendone, anche in modo grave, migliaia, ndtr.], i giovani palestinesi di Gaza, la stragrande maggioranza della popolazione, hanno mostrato al mondo che non è solo di cibo e acqua che hanno necessità per sopravvivere. Hanno bisogno di libertà, dignità e speranza.

Tania Hary è il direttore esecutivo di Gisha, una ONG israeliana fondata nel 2005, il cui obiettivo è proteggere la libertà di movimento dei palestinesi, in particolare i residenti di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’antisemitismo è stato utilizzato per calunniare la sinistra, mentre la destra prende di mira gli ebrei

Jonathan Cook

30 dicembre 2019 – Middle East Eye

Israele potrebbe uscire rafforzato usando politicamente l’antisemitismo, ma non senza gravi conseguenze per gli ebrei dell’Occidente.

L’anno è finito con due terribili battute d’arresto per quanti chiedono giustizia per il popolo palestinese. Una è stata la sconfitta nelle elezioni politiche britanniche di Jeremy Corbyn – il leader europeo più solidale con i palestinesi. Ha subito le conseguenze di quattro anni di continui insulti da parte dei media, che hanno ridefinito il suo attivismo come prova di antisemitismo.

L’antisemitismo è una calunnia estremamente difficile da controbattere

Il crollo elettorale del partito Laburista non è direttamente attribuibile alle calunnie di antisemitismo. Riguarda piuttosto principalmente l’incertezza del partito nel formulare una risposta convincente alla Brexit. Ma le accuse di antisemitismo sono riuscite ad alimentare profonde divisioni all’interno del partito di Corbyn, facendolo sembrare debole e, per la prima volta, ambiguo. Ha scorrettamente seminato dubbi persino tra i suoi sostenitori: se non è stato in grado di risolvere quel problema nel suo partito, come avrebbe potuto guidare il Paese?

Qualunque futuro leader politico, in Gran Bretagna o altrove, che prenda in considerazione una posizione filo-palestinese – o un programma economico radicale in contrasto con i principali mezzi di comunicazione – ne dovrà tener conto. L’antisemitismo è una calunnia estremamente difficile da controbattere.

Definire l’antisemitismo

La seconda sconfitta è stata il nuovo decreto esecutivo emanato dal presidente USA Donald Trump, che ha accolto una nuova e controversa definizione di antisemitismo, che intende assimilare le critiche a Israele, l’attivismo filopalestinese e la difesa delle leggi internazionali all’odio nei confronti degli ebrei.

La lezione su dove ciò intenda portare è stata evidenziata dall’esperienza di Corbyn. Prima il suo partito è stato obbligato ad accettare la stessa definizione formulata dalla International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organizzazione internazionale a cui aderisce una trentina di Paesi, ndtr.] (IHRA), nel tentativo di placare le critiche. Invece ha scoperto che questo ha fornito ancora più armi per attaccarlo.

Il decreto esecutivo di Trump intende bloccare il dibattito nei campus, uno dei pochi spazi pubblici rimasti negli USA in cui le voci dei palestinesi possono ancora farsi sentire. Ciò viola in modo palese il Primo Emendamento, che protegge il diritto di parola. Il governo federale ora si è schierato con i 27 Stati in cui i lobbysti di Israele sono riusciti a far passare leggi che penalizzano quanti sostengono i diritti dei palestinesi.

Tali iniziative sono state replicate altrove. Questo mese il parlamento francese ha dichiarato che l’antisionismo – o l’opposizione a Israele come Stato ebraico che nega uguali diritti ai palestinesi – equivale all’antisemitismo. 

E ancor prima il parlamento tedesco aveva approvato una risoluzione che dichiara antisemita l’appoggio al crescente movimento internazionale che sollecita il boicottaggio di Israele, sul modello delle iniziative che hanno posto fine all’apartheid in Sud Africa. I parlamentari tedeschi hanno persino equiparato gli slogan del movimento per il boicottaggio alla propaganda nazista.

All’orizzonte ci sono molte altre limitazioni alle libertà fondamentali, tutte in appoggio a Israele.

Far tacere le critiche

Il primo ministro inglese, il conservatore Boris Johnson, ha promesso di impedire alle autorità locali di appoggiare il boicottaggio di Israele, mentre John Mann, suo cosiddetto zar dell’antisemitismo, sta minacciando di far tacere i media in rete che criticano Israele, di nuovo con il pretesto dell’antisemitismo. Sono gli stessi media che avevano appoggiato Corbyn, l’avversario politico di Johnson.

Ironicamente tutte queste leggi, decreti e risoluzioni, emanate apparentemente in nome dei diritti umani, stanno soffocando il lavoro concreto delle organizzazioni per i diritti umani. In assenza di un processo di pace, devono scontrarsi con il carattere ideologico di Israele in maniera inedita.

Mentre Trump, Johnson ed altri erano impegnati a ridefinire l’antisemitismo per aiutare Israele, questo mese Human Rights Watch (HRW) ha reso pubblico un rapporto che rivela che Israele – lo Stato che sostiene di rappresentare tutti gli ebrei – per più di 50 anni ha utilizzato gli ordini militari per violare i più basilari diritti dei palestinesi. Nella Cisgiordania occupata, ai palestinesi vengono negate “libertà basilari come sventolare bandiere, protestare pacificamente contro l’occupazione, unirsi ai principali movimenti politici e diffondere materiale politico.”

Al contempo la Commissione ONU per l’Eliminazione delle Discriminazioni Razziali è andata anche oltre, condannando Israele per i suoi soprusi verso tutti i palestinesi sottoposti al suo potere, senza distinguere tra quelli sotto occupazione e quelli con una cittadinanza di serie B all’interno di Israele.

Il gruppo di esperti giuridici sui diritti ha di fatto riconosciuto che le violazioni di Israele a danno dei palestinesi sono insite nell’ideologia sionista dello Stato, e non sono una caratteristica dell’occupazione. È stato un modo tutt’altro che velato di dichiarare che uno Stato che privilegia strutturalmente gli ebrei e opprime sistematicamente i palestinesi ha un “comportamento razzista” – una formulazione ora ridicolmente definita dall’IHRA come prova di antisemitismo.

Clamoroso fallimento

Nell’ultimo rapporto di HRW la direttrice per il Medio Oriente Sarah Elah Whitson ha osservato: “I tentativi di Israele di giustificare la privazione dei diritti civili fondamentali per i palestinesi per più di 50 anni in base delle esigenze di un’eterna occupazione militare ormai non funzionano più.”

Ma è proprio quello che la nuova ondata di leggi e di decreti è destinata a garantire. Mettendo a tacere le critiche contro le violazioni israeliane contro i diritti dei palestinesi con il pretesto che tali critiche siano antisemitismo mascherato, alcuni governi occidentali possono sostenere che queste violazioni non stanno avvenendo.

Di fatto ci sono due raggruppamenti politici molto diversi che sostengono l’attuale repressione di ogni solidarietà verso i palestinesi – e per ragioni molto diverse. Nessuno dei due si preoccupa della protezione degli ebrei. Una fazione include i partiti di centro dell’Occidente che avrebbero dovuto controllare per un quarto di secolo il processo di pace in Medio Oriente. Essi vogliono impedire ogni critica che osi considerarli responsabili del loro clamoroso fallimento – un fallimento ancora più evidente ora che Israele non è più disposto a sostenere di essere interessato alla pace e cerca invece di annettere il territorio palestinese.

Non è fallita, come era destinata a essere, solo la versione della pace molto limitata e focalizzata su Israele dei centristi, ma si è ottenuto l’esatto contrario dell’obiettivo dichiarato. Israele ha sfruttato la passività e l’indulgenza occidentali per rafforzare ed estendere l’occupazione, così come per intensificare le leggi razziste all’interno di Israele.

Ciò si è materializzato nel 2018 con l’approvazione da parte del governo del primo ministro Benjamin Netanyahu della legge sullo Stato-Nazione, che dichiara non solo lo Stato di Israele, ma un’indefinitamente estesa “Terra di Israele” come la patria storica di tutto il popolo ebraico.

Smascherare l’ipocrisia

Ora, i centristi sono determinati a schiacciare quanti desiderano evidenziare la loro ipocrisia e la loro costante alleanza con uno Stato apertamente razzista e risolutamente contrario all’autodeterminazione del popolo palestinese.

Quindi hanno utilizzato l’antisemitismo come arma con tale successo che la scorsa settimana studiosi dei diritti umani hanno accusato la Corte Penale Internazionale dell’Aia – che dovrebbe difendere le leggi internazionali – di tirarla per le lunghe indefinitamente per evitare di aprire un’inchiesta equa sui crimini di guerra di Israele. I procuratori della CPI sembrano timorosi di finire loro stessi sotto accusa.

L’altra componente dietro la repressione delle critiche contro Israele sono le rinascenti destra ed estrema destra razziste, che hanno sempre più successo nello sconfiggere i centristi screditati nella politica di USA ed Europa.

Amano Israele perché offre un alibi al loro nazionalismo bianco. Difendendo Israele dalle critiche – definendole antisemitismo – cercano una patina di moralità per il proprio suprematismo bianco.

Se gli ebrei sostengono legittimamente di essere il popolo eletto in Israele, perché i bianchi non possono affermare altrettanto di se stessi negli USA e in Europa? Se Israele tratta i palestinesi non come nativi ma come immigrati intrusi in terra ebraica, perché Trump o Johnson non possono allo stesso modo definire i non bianchi come infiltrati ed usurpatori di terra bianca?

Più la destra esalta il nazionalismo bianco, il fervore contro gli immigrati, più è in grado di minare le soluzioni politiche offerte dai suoi oppositori di centro e di sinistra.

Avventato errore di valutazione

Cosa ancora più sorprendente, buona parte dei dirigenti ebrei negli USA e in Europa ha attivamente aiutato la destra in questo progetto politico, tanto sono accecati dal loro impegno nei confronti di Israele come Stato ebraico.

Quindi, dove va a parare questa politica dell’Occidente? I centristi hanno fatto uscire dalla lampada il genio dell’antisemitismo per danneggiare la sinistra, ma è la destra populista che ora si attiva per perfezionarne l’uso come arma e promuovere i propri fini. Alimenteranno paura e odio contro le minoranze, compresi palestinesi, arabi e musulmani, tutto a beneficio dell’ideologia di Israele.

Tuttavia anche gli ebrei dell’Occidente ne pagheranno il prezzo. I discorsi di Trump hanno ripetutamente imputato agli ebrei americani motivazioni malvage, avidità e doppia lealtà. Tuttavia, di fronte al tenace sostegno di Trump nei confronti di Israele, negli USA i dirigenti ebrei conservatori hanno preferito rimanere quasi totalmente in silenzio riguardo al fatto che il presidente alimenti sentimenti nativisti.

Si tratta di un avventato errore di valutazione. La finta battaglia per combattere un presunto antisemitismo di sinistra ha già distratto l’attenzione e le energie dalla lotta contro la concretissima rinascita dell’antisemitismo di destra.

Israele potrebbe uscire rafforzato usando a scopo politico l’antisemitismo, ma in conseguenza di ciò gli ebrei dell’Occidente si potrebbero trovare esposti all’odio più che in qualunque altro periodo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo il suo autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. Ha scritto tre libri sul conflitto israelo-palestinese. Ha vinto il Martha Gellhorn Special Prize for Journalism [il premio speciale Martha Gellhorn per il giornalismo].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Recensione di Stone Men – the Palestinians who built Israel [Uomini di pietra: i palestinesi che hanno costruito Israele] di Andrew Ross (Verso, 2019)

Ben Ehrenreich

mercoledì 1 maggio 2019 – The Guardian

Un segreto di cui nessuno vuole parlare: come le colonie in Cisgiordania vengono costruite da palestinesi espulsi dalla loro terra.

Non lontano dall’orrendo posto di controllo di Qalandia – la principale porta d’entrata attraverso la quale l’esercito israeliano controlla il passaggio di esseri umani tra Ramallah e Gerusalemme – c’è un piccolo laboratorio all’aperto di tagliatori di pietre, uno delle centinaia sparsi in tutta la Cisgiordania. Qualunque cosa accada al checkpoint, in genere si può vedere almeno un lavoratore nel cortile dove vengono tagliate le pietre, con il volto, i capelli e i vestiti incrostati della stessa polvere bianca che copre l’alto muro di cemento e la torre di guardia, dove si mescola con il fumo e il carbone neri dei pneumatici bruciati e delle bottiglie molotov che i giovani del posto, in giornate particolarmente brutte, lanciano contro il posto di controllo e le barriere che li rinchiudono.

Quando chi va a visitare la regione scrive di pietre, tende a concentrarsi su quelle che i giovani palestinesi lanciano contro soldati armati e blindati. E sui molto più letali proiettili che i soldati gli sparano contro. È facile perdersi in quel parapiglia. Andrew Ross non è né distratto né affascinato da tali scene emblematiche. È più interessato al tagliatore di pietre che in genere rimane fuori dall’inquadratura. Attraverso lui ed altri come lui, Ross esamina le strutture non visibili dell’espropriazione e dello sfruttamento che stanno alla base dell’occupazione altrettanto concretamente quanto tutti quei muri e fucili.

Stone Men” può essere asciutto, persino aspro, ma fornisce in modo coerente la comprensione dei rapporti travagliati e inquietanti tra israeliani e palestinesi che è difficile trovare altrove. Questa è soprattutto una storia di lavoro. La Palestina si trova su riserve di pietra calcarea di alta qualità valutate 20 miliardi di dollari [18 miliardi di euro], e in Cisgiordania l’attività economica per estrarla, tagliarla e lavorarla fornisce più lavoro nel settore privato di qualunque altra industria. Dato che sia i palestinesi che gli israeliani attribuiscono un’importanza mitica alla terra, concentrarsi sulla pietra che da essa viene estratta – e sulle relazioni di potere in gioco quando viene trasformata in case da entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra Israele e Cisgiordania, ndtr.] – consente a Ross di demistificare il conflitto mettendo al contempo in evidenza le basi profondamente inique su cui è stato costruito Israele. Il fatto che la maggior parte di quel Paese, le colonie in Cisgiordania e persino la stessa barriera di sicurezza [il Muro di Separazione, ndtr.] è stato costruito da palestinesi, e con materiali estratti dalla stessa ossatura della terra che hanno perduto è un segreto di cui nessuno vuole parlare.

Ross inizia dai primi anni del Mandato britannico, con la spinta sionista – attraverso il boicottaggio, i soprusi e la violenza – per creare un’economia autosufficiente libera dal “lavoro arabo”. Questa strategia avrebbe modellato persino l’architettura. Le cave erano di proprietà di palestinesi, e gli immigrati ebrei appena arrivati dall’Europa non erano esperti nella lavorazione della pietra locale. La maggior parte di Tel Aviv venne costruita in cemento e blocchi di silicato, che permisero ai costruttori ebrei di evitare di dipendere dai lavoratori palestinesi. Questi materiali avrebbero anche consentito loro di costruire una città modernista nuova di zecca, diversa – e segregata – dalla sua antica vicina, la palestinese Jaffa, che era stata costruita con pietra erosa. Nel 1948 Jaffa sarebbe stata svuotata del 97% della sua popolazione araba. Interi quartieri vennero in seguito distrutti con i bolldozer.

Il famoso centro di Tel Aviv in stile Bauhaus sarebbe in seguito stato chiamato la “Città Bianca” – il nome si riferiva al colore dei mattoni di silicato e del cemento stuccato con cui era stata costruita. Nei decenni seguenti la fondazione di Israele il lavoro arabo avrebbe cessato di essere visto come una minaccia per l’autonomia ebraica. Molte migliaia di case dovevano essere costruite sul territorio appena conquistato. I suoi precedenti abitanti sarebbero stati impiegati, con salari a buon mercato, per costruire il nuovo Stato. Ingabbiati da restrizioni negli spostamenti ed esclusi dalla maggior parte delle altre occupazioni, avevano poche alternative:

I palestinesi in Israele vennero sottoposti alla legge marziale fino al 1966. Condizioni simili avrebbero creato una classe di lavoratori da sfruttare nelle terre occupate prima della guerra del 1967. Da allora il calcare – denominato “pietra di Gerusalemme”, benché la maggior parte di essa venga estratta dalle colline della Cisgiordania – sarebbe diventato il materiale predominante utilizzato per costruire le comunità israeliane, con una funzione sia ideologica che pratica, trasmettendo un’immagine di omogeneità e di antichi legami con la terra.”

Ross non risparmia l’élite palestinese. Include un capitolo tra i più completi e approfonditi che abbia letto sull’area residenziale di Rawabi, nella zona di Ramallah. Messa in vendita per i ricchi professionisti palestinesi, Rawabi è stata costruita in collaborazione con impresari israeliani su terreni confiscati a contadini del posto dall’Autorità Nazionale Palestinese. Il discorso di Ross gli consente di tracciare la rete di complicità che ha consentito a un piccolo gruppo di ricchi palestinesi di approfittare della spoliazione dei loro compatrioti.

Le parti più tristi di “Stone Men” – e quelle in cui avrei voluto che si fosse soffermato di più e avesse consentito ai suoi interlocutori di apparire con maggiori sfumature e dettagli – si basa sulle sue interviste a lavoratori palestinesi. Uno di loro costruisce case in una colonia edificata su terreni sottratti al villaggio in cui vive. È stato in grado di sopportare le provocazioni razziste dei coloni, dice a Ross, ma quando un colono ha cercato di assumerlo per costruire una casa su un terreno di proprietà della sua stessa famiglia per lui è stato troppo. “Non l’ho potuto fare,” dice. Un’altra delle fonti di Ross, che egli identifica solo come Samir, aveva lavorato per anni in cantieri in Israele, risparmiando per costruirsi una casa, solo per vederla demolire dai soldati israeliani che hanno spianato la strada per il percorso della barriera di sicurezza. In seguito, incapace di trovare un altro impiego, ha accettato un lavoro per la costruzione della barriera. Amici d’infanzia gli hanno tirato pietre mentre stava lavorando.

Storie come questa e gli altri racconti di umiliazione e resistenza che Ross narra valgono più di intere biblioteche di discussioni astratte. Eppure, egli propone ripetutamente la tesi secondo cui, in ogni futuro accordo per uno “status finale”, il lavoro che i palestinesi hanno fatto per costruire Israele debba essere preso in considerazione, “in quanto i palestinesi si sono meritati diritti civili e politici attraverso il loro lavoro complessivo.” È un’argomentazione infelice, che segue una logica che Ross riconosce essere stata utilizzata frequentemente da “colonialisti d’insediamento…per giustificare l’espropriazione di terre dei popoli indigeni,” secondo cui il diritto sulla terra si conquista solo con il suo “miglioramento”. Condizionato dalla negazione della validità di ogni presenza palestinese nella regione prima del sionismo, ciò ripete la cancellazione storica che Ross, in tutti tranne che in pochi punti del suo libro, documenta con notevole competenza ed impegno.

– The Way to the Spring: Life and Death in Palestine [La via verso la sorgente: vita e morte in Palestina] di Ben Ehrenreich è pubblicato da Granta.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)