Duro colpo per la censura filoisraeliana – Le voci a favore della Palestina non saranno messe a tacere

Nada Elia

27 febbraio 2020 – Middle East Eye

Con la pubblicazione di un parere legale sulla Harvard Law Review [rivista indipendente pubblicata dagli studenti della facoltà di Legge dell’Università di Harvard, ndt], cresce l’opposizione contro la censura ai discorsi pro-Palestina, sia nel mondo accademico che nella società in generale.

Per gli attivisti per i diritti della Palestina, l’editoriale del comitato di redazione della Harvard Law Review secondo cui il BDS [Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, campagna globale di boicottaggio contro Israele, ndt] non costituisce una pratica discriminatoria e non dovrebbe pertanto essere vietato, giunge come un balsamo lenitivo su una ferita aperta.

L’Università di Harvard è una delle più prestigiose istituzioni accademiche del mondo, e il comunicato pubblicato dalla redazione della Law Review è ampiamente documentato, motivato e assertivo. “Questa Nota smonta l’accusa secondo cui il BDS costituirebbe una fattispecie di discriminazione,” scrive la redazione nel commento introduttivo, aggiungendo che “le leggi anti BDS non poggiano su un ragionevole interesse anti-discriminatorio.”

Si può solo sperare che questa dichiarazione metterà fine al bavaglio imposto ai discorsi antisionisti e pro-BDS, nonostante due precedenti episodi che nel 2020, poco prima che uscisse il comunicato, hanno fatto notizia.

Il primo è stato il licenziamento di un’insegnante americana in base ad alcune [sue] dichiarazioni sui social media: il secondo, l’allontanamento di una giornalista da una conferenza dopo che questa aveva rifiutato di firmare un impegno anti BDS.

JB Brager, una queer [si definisce queer una persona che non vuole identificarsi come gay, etero o altri generi o orientamenti sessuali, ndt] ebrea insegnante di storia all’ Ethical Culture Fieldston, scuola d’élite della città di New York, è stata licenziata due settimane fa dopo aver pubblicato commenti antisionisti su Twitter.

E alla giornalista e regista Abby Martin è stato impedito di tenere un discorso ad una conferenza stampa dopo che ha rifiutato di firmare l’impegno a non boicottare Israele. La Martin ha appena diretto il documentario “Gaza Fights for Freedom” [“Gaza lotta per la libertà”, ndt], con riprese di soldati israeliani che sparano a manifestanti disarmati durante la Grande Marcia del Ritorno.

Antisemitismo versus antisionismo

Questi due episodi – e l’energica risposta contro il bavaglio ai discorsi antisionisti – dimostrano quanto stia crescendo la lotta contro la censura, ma anche quanto stiano diventando profonde le divisioni all’interno delle comunità ebraiche sul sostenere il sionismo in modo incondizionato o criticarlo.

All’amministrazione della Fieldston è stata spedita una lettera a sostegno di Brager, firmata da centinaia di ex allievi, queer, ebrei e simpatizzanti, in cui si esprime indignazione per il licenziamento e si chiede il reintegro della Brager.

La lettera afferma che la stessa comunità di Fieldston è divisa sul sostegno a Israele, con “un gruppetto di genitori conservatori” che cerca di mettere a tacere le voci progressiste, e [la lettera, ndt.] critica la scuola per essersi allineata alla parte sbagliata nel licenziare Brager.

Alla lettera ha fatto seguito un’altra lettera di sostegno, firmata da decine di leader spirituali e insegnanti ebrei, che fanno appello all’amministrazione di Fieldston perché reintegri Brager, presenti pubbliche scuse e chiarisca la differenza tra antisemitismo e antisionismo.

Secondo la lettera, “licenziando la Prof. Brager, state mandando un messaggio forte ai vostri studenti: che bisogna temere il dissenso, che il manifestare il proprio diritto alla libertà di parola ha delle limitazioni, che opinioni diverse non verranno tollerate, che esiste una sola versione autorizzata della storia e che c’è solo un tipo di ebreo.” Nel momento in cui scrivo, tuttavia, la Brager non è stata riassunta a scuola.

Nel frattempo, secondo la Martin, in Georgia la controversia sulla sua esclusione dalla Critical Media Literacy Conference, e il supporto da parte dei colleghi al diritto di parola della giornalista nonostante la legge georgiana anti-BDS, ha portato alla cancellazione dell’intera conferenza.

Mentre la censura in sé, come il dissenso verso di essa espresso con petizioni e lettere, non è una novità, l’opposizione sta assumendo una nuova dimensione, da quando una manciata di professori è andata all’attacco denunciando che le istituzioni li stavano imbavagliando. Questi professori stanno lottando per conservare il proprio diritto di parola, sia nelle istituzioni accademiche che sui social media.

Ambiente ostile

L’anno scorso, la Prof. Rabab Abdulhadi ha denunciato la San Francisco State University, in cui è titolare del programma formativo Arab and Muslim Ethnicities and Diasporas [Etnie arabo-musulmane e Diaspora], perché avrebbe creato un ambiente ostile che le ha impedito di portare a termine il proprio programma accademico, tra cui gruppi di ricerca in Palestina.

Nella querela, la Abdulhadi chiede un’ingiunzione per finanziare il programma, come previsto dal contratto, e per implementare le misure istituzionali contro l’islamofobia, il razzismo antiarabo e antipalestinese, oltre ai danni patrimoniali. Per ora non è stata fissata alcuna udienza.

In seguito, sempre l’anno scorso, Rima Najjar, docente in pensione, ha querelato Quora, una piattaforma social di “domanda-e-risposta” da cui era stata bannata definitivamente perché aveva espresso critiche contro il sionismo, cosa che Quora ha considerato una violazione delle sue linee guida riguardo all’“essere gentili e rispettosi”.

Najjar chiede la riattivazione del proprio account e una diffida a Quora affinché la smetta di discriminare gli utenti di origine palestinese o di opinioni antisioniste. Il legale della prof.ssa Najjar dice che non si aspettano una risposta prima dell’inizio di marzo.

MEE ha parlato con Najjar, che ha spiegato che aveva deciso di iniziare a scrivere nel forum quando aveva notato che le risposte date dal sito apparivano in evidenza nelle ricerche di notizie in rete su Palestina e Israele, ma spesso contenevano informazioni non corrette. Nel tentativo di rimediare a questa tendenziosità, ha iniziato a pubblicare sul sito, diventando una prolifica partecipante dal 2016 alla metà del 2019, quando è stata bannata definitivamente e sono state cancellate tutte le sue risposte ben approfondite e ben documentate.

I social media possono sembrare lontani anni luce dal mondo accademico, ma per molti professori sono semplicemente un’altra tribuna educativa, in grado di raggiungere molte migliaia di persone in più rispetto alla ventina di studenti che hanno in aula. Come ha dichiarato Najjal a MEE: “I social media sono importanti perché hanno il potere di influenzare l’opinione pubblica e, di conseguenza, i movimenti sociali e politici e le politiche.”


Sanzioni a chi critica Israele

Ha fatto riferimento alla campagna israeliana di influenza globale, che “da anni utilizza i social media per sfornare una narrativa che ritrae, in modo falso, il sionismo come forma di resistenza antirazzista e giustizia per gli ebrei in tutto il mondo, mentre nega l’identità nazionale palestinese. Questa attività è accompagnata, nel mio caso, da una vasta campagna di vessazione e censura da parte di sionisti e israeliani.”

L’impatto dei social media sul dibattito pubblico su Israele e Palestina è riconosciuto dagli amministratori scolastici e dell’università, che sanzionano il corpo docente per quel che pubblica online.

Brager è stata licenziata dalla Fieldston in seguito ai post su Twitter più che per qualsiasi altra cosa che possa aver detto in classe. Gli amministratori scolastici utilizzano l’accusa di antisemitismo, o di mancanza di “garbo”, come un’arma per censurare e sanzionare le critiche contro Israele.

Ma la discussione non si può chiudere qui, e non c’è modo di nascondere il senso di estraneità che un numero sempre maggiore di ebrei progressisti sente relativamente a Israele e al sionismo. La voglia degli ebrei progressisti di dissociarsi apertamente dal sionismo, e di manifestare il proprio sostegno per i diritti dei palestinesi, diventa sempre più evidente ad ogni nuova norma contro il BDS e ad ogni tentativo di censura del discorso critico verso Israele.

Sempre più determinazione

Il pullman Palestinian Freedom 2020, che trasporta un gruppo di studenti organizzati da Jewish Voice for Peace Action [Voce Ebraica per la Pace-Azione, gruppo di ebrei antisionisti, ndtr.], sta attualmente facendo il giro del Paese al seguito dei candidati presidenziali democratici, con il messaggio che una massa critica di ebrei sostiene i diritti dei palestinesi. Come ha twittato Brager: “Rifiuto di ‘riaffermare il valore’ del colonialismo etno-nazionalista dei coloni, io sostengo il BDS e la sovranità palestinese e lo farò per tutto il resto della mia vita.”

Invece di zittire le critiche contro Israele, il bavaglio alla libertà di parola ha catalizzato e fatto aumentare la determinazione – da parte dei palestinesi, degli ebrei e dei simpatizzanti tra il corpo docente e gli studenti che sostengono i diritti dei palestinesi – a non essere messi a tacere, e a condannare in modo più categorico la legislazione che difende il sionismo e criminalizza la solidarietà con gli oppressi. E con il sostegno legale fornito da gruppi come Palestine Legal e il Center for Constitutional Rights, quest’anno possiamo aspettarci più denunce contro la censura.


Il punto di vista espresso in questo articolo appartiene all’autore e non rispecchia necessariamente la linea editoriale di Middle Eas Eye.

Nada Elia
Nada Elia è una scrittrice palestinese della diaspora e una commentatrice politica. Attualmente sta lavorando al suo secondo libro, “Who You Callin’ ‘Demographic Threat’?, Notes from the Global Intifada.” [“Minaccia demografica a chi? Appunti dall’Intifada mondiale”, ndt.]. Docente (in pensione) di Gender e Global Studies, è membro della Comitato Direttivo USACBI – US Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel [Campagna USA per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele, ndt].

(traduzione dall’inglese di Elena Bellini)




Israele sta cercando di “spezzare” questo sobborgo di Gerusalemme est – con esiti brutali

Judith Sudilovsky

25 febbraio 2020 – +972

Malek è l’ultimo minore di Issawiya sotto occupazione a perdere un occhio a causa di un proiettile di gomma mentre la polizia israeliana intensifica la repressione dei residenti palestinesi.

Per più di una settimana, da quando il loro figlio di nove anni Malek è stato colpito all’occhio da un proiettile di gomma, Wael e Sawsan Issa hanno vegliato su di lui insieme ad amici e parenti all’ospedale Hadassah di Gerusalemme, prima in terapia intensiva e poi nel reparto pediatrico.

Nonostante diversi interventi chirurgici, i medici non sono stati in grado di salvare l’occhio sinistro di Malek e quindi hanno dovuto rimuoverlo. Dopo essere stata rimandata a casa lunedì, la famiglia è tornata all’ Hadassah poche ore dopo a causa del dolore che tormentava il ragazzo.

Le preoccupazioni che Malek potesse aver subito un danno cerebrale sono state fugate e, riferisce suo padre Wael Issa, [Malek] ha parlato. “Sta dormendo. Non vuole parlare con nessuno. Gli fa male e vuole stare tranquillo. Ci vorrà del tempo.”

Il proiettile che ha colpito al capo Malek è stato sparato da un agente di polizia israeliano il 15 febbraio, durante un’incursione per un arresto da parte delle forze israeliane nel villaggio palestinese di Issawiya, a Gerusalemme est. Secondo i resoconti della stampa, il poliziotto ha affermato di aver sparato il proiettile contro un muro per aggiustare la mira.

La polizia ha anche affermato di aver risposto alle proteste incontrate durante l’arresto; tuttavia, le riprese video dell’incidente mostravano nella zona il solito normale traffico stradale.

“Sappiamo che il ragazzo è stato ferito nella parte superiore del corpo mentre la polizia era di pattuglia nella zona”, ha detto il portavoce della polizia Micky Rosenfeld a +972. “Per quanto ne sappiamo, – dice – l’incidente è sotto inchiesta da parte del Ministero della Giustizia”, come da protocollo nel caso in cui dei civili vengano feriti da un agente di polizia.

Issa denuncia che il proiettile fosse diretto proprio al centro della fronte di suo figlio.

Anche dei testimoni oculari, tra cui il cugino di 10 anni di Malek che era insieme a lui e alle sue due sorelle mentre erano fermi presso un chiosco per comprare un panino, dicono che nella strada non c’erano disordini.

Il cugino, la cui madre ha chiesto di non citare il suo nome, ha spiegato che Malek non ha sentito le sue sorelle mentre gli dicevano di aspettare perché c’erano dei soldati per strada ed è corso via prima di loro. “Poi è caduto a terra”, ha detto il cugino.

Per la zia [di Malek], questo incidente è una storia ricorrente a Issawiya. “La polizia – dice – viene a fare gli arresti mentre i ragazzi escono da scuola”. Dopo la sparatoria suo figlio “a casa è molto nervoso. È come se avessero ferito anche mio figlio.” Ha aggiunto che un assistente sociale e uno psicologo dovevano incontrare i compagni di classe di Malek per aiutarli a gestire il trauma legato all’evento.

La sparatoria non è stata un incidente isolato. Il padre, che ha lasciato il lavoro presso un ristorante di Tel Aviv per stare con suo figlio durante la convalescenza, dice che Malek è l’undicesimo minore di Issawiya a perdere un occhio a causa di un proiettile di gomma. Sua moglie e le sue figlie hanno chiesto un aiuto terapeutico, osserva, ma lui ne sta facendo a meno.

Dalla scorsa estate Issawiya è il luogo con più pattugliamenti di polizia e con più arresti, con oltre 700 persone arrestate e un giovane ucciso. I residenti si sono lamentati delle continue molestie da parte delle autorità israeliane, e i genitori hanno paura per l’incolumità pubblica dei loro figli.

“Non permetto ai miei figli di uscire e di giocare ovunque”, afferma Issa. “Ho sempre paura. Ma erano tornati da scuola e la madre aveva detto loro che era una bella giornata e che potevano tornare a casa dal punto in cui l’autobus li aveva lasciati. Si sono fermati per un minuto a comprare dei dolci e, nonostante tutte le mie precauzioni, Malek è stato colpito.”

Un giro per il villaggio rivela molti condomini dotati di tapparelle nuove, non per motivi estetici o perché le persone hanno soldi da spendere, ma per proteggersi dai proiettili vaganti, afferma il leader della comunità Mohammed Abu-Hummos.

“È una cosa quotidiana”, dice Hashem Ashahab, un altro residente del villaggio, che ha cinque figli. “La polizia viene per creare tensione. C’era un accordo (con i leader locali) sul fatto che non sarebbero venuti mentre i ragazzi escono da scuola, ma hanno infranto l’accordo … Perché la polizia sceglie sempre di venire a fare i suoi arresti e i controlli nei momenti di maggior traffico? Ho cinque figli, tre dei quali vanno a scuola, e ho sempre paura che succeda loro qualcosa. [Ma] non posso non mandare i miei figli a scuola”.

Salendo su un pulmino utilizzato per il trasporto locale a Issawiya una donna di 35 anni, che ha rifiutato di dare il suo nome, afferma che gli incidenti tra la polizia e i giovani possono scoppiare in qualsiasi momento, e gli abitanti devono sempre stare in allerta.

Aviv Tatarsky, un assistente ricercatore di Ir Amim [Ong che opera a Gerusalemme est, ndtr.] che segue la situazione di Issawiya in collaborazione con residenti palestinesi locali, spiega che dal giugno 2019 nel villaggio si assiste a “uno sconvolgimento piuttosto grave, provocato dalla polizia, della libertà di movimento e della sicurezza degli abitanti”.

Sebbene per ora l’intensità delle incursioni sia diminuita rispetto all’estate, queste si ripetono tuttora, afferma Tatarsky. Nonostante il dialogo tra la polizia e i leader locali sotto l’egida del Comune di Gerusalemme, aggiunge, la polizia ha ignorato gli accordi raggiunti, come denuncia anche l’abitante Ashahab.

I tribunali municipali di Gerusalemme e il Ministero delle Politiche Sociali israeliano non sono stati abbastanza espliciti contro le incursioni della polizia che sconvolgono la vita degli abitanti del villaggio, continua Tatarsky, sebbene i membri del consiglio Laura Wharton e Yossi Chaviliao, insieme a un gruppo di 40 presidi scolastici, abbiano fatto un appello al sindaco di Gerusalemme Moshe Lion sulla situazione. “Forse alcune cose si dicono a porte chiuse – dice -, ma certamente non in pubblico”.

Tatarsky ha affermato che un funzionario di alto livello del dipartimento dell’istruzione del Comune ha cercato di offrirsi come mediatore tra gli abitanti e la polizia. “Ma senza il benestare del sindaco non hanno il potere di fermare la polizia”.

Il portavoce della polizia Rosenfeld ha detto a +972 che le pattuglie di polizia vengono inviate in tutti i villaggi di Gerusalemme est per prevenire atti di violenza e farvi fronte quando si verifichino.

Egli afferma che negli ultimi mesi si sarebbero verificati nel quartiere “gravi incidenti”, tra cui bottiglie molotov e pietre lanciate contro auto della polizia e auto che percorrono l’autostrada Gerusalemme-Ma’aleh Adumim [grande colonia adiacente a Gerusalemme, ndtr.] (Statale 1), situata sotto il villaggio. Ad ottobre, ha aggiunto, il veicolo di un abitante del luogo è stato colpito da una bottiglia molotov destinata ad un’auto della polizia. “Sfortunatamente – afferma Rosenfeld – in quel sobborgo ci sono molti più incidenti che in altri villaggi”.

“I nostri agenti di polizia sono in contatto con i leader della comunità per cercare di evitare che si verifichino incidenti”, continua. “Il nostro messaggio per la comunità è di prevenire incidenti prima che si verifichino. La polizia continuerà a pattugliare l’area giorno e notte al fine di prevenire incidenti violenti sia all’interno che nei dintorni del villaggio.”

Tatarsky sostiene che l’immagine di Issawiya come focolaio di violenza è più frutto dell’immaginazione israeliana che altro. “Se si cercano attacchi o gruppi attivi ad Issawiya, non se ne trova nessuno. È molto indicativo che la polizia non sia stata in grado di evidenziare alcun singolo evento o serie di eventi che avessero provocato i suoi attacchi.”

Tatarsky collega l’accresciuta presenza della polizia al nuovo capo della polizia di Gerusalemme, il generale maggiore Doron Yadid, che ha sostituito Yoram Halevi nel febbraio 2019. Secondo Tatarsky, le incursioni hanno cominciato a intensificarsi pochi mesi dopo che è subentrato Yadid.

“Ha apportato alcune modifiche nella vigilanza su Gerusalemme Est – spiega -, nel senso di una maggiore aggressività”. Ad esempio, Yadid ha reintrodotto nei quartieri palestinesi l’uso della polizia di frontiera al posto delle normali pattuglie di polizia di comunità utilizzate dal suo predecessore.

Ma la tattica dura di Yadid per sconvolgere la vita quotidiana anche attraverso punizioni collettive rivolte a “spezzare” gli abitanti di Issawiya rappresenta un “grave errore”, avverte Tatarsky. “Ha ottenuto il contrario: resistenza e opposizione. L’opposizione alla presenza militare nel quartiere è … più intensa di quanto non lo fosse con il suo predecessore. La polizia di frontiera non è benvenuta a Issawiya.”

Inoltre, secondo Tatarsky, su circa 700 arresti effettuati dalla polizia, sono stati emessi solo 20 atti d’accusa, e anche in questo caso per azioni commesse solo in seguito all’arrivo della polizia nel quartiere.

Si terrorizzano i giovani, i quali ora dimostrano ogni tipo di disturbo psicologico e rabbia. Ciò ha determinato un danno maggiore e – afferma Tatarsky – (il capo della polizia) non è in grado di mostrare di aver effettivamente raggiunto alcun risultato “.

“Ciò che sta accadendo a Issawiya non ha precedenti”, aggiunge. “Non abbiamo mai subito una campagna così intensa, violenta e dirompente senza alcuna vera ragione e per così tanto tempo.”

Judith Sudilovsky è una giornalista freelance che scrive su Israele e i territori palestinesi da oltre 25 anni.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Una settimana prima delle elezioni Netanyahu autorizza nuove unità abitative delle colonie nella E1

Yumna Patel

26 febbraio 2020 – Mondoweiss

Solo una settimana prima delle elezioni il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato l’autorizzazione a 3.500 nuove abitazioni illegali per i coloni nella contestatissima zona “E1”, nella parte centrale della Cisgiordania occupata.

Ho dato istruzioni di rendere immediatamente pubblica la presentazione del piano per la costruzione di 3.500 unità abitative nella E-1,” ha detto martedì Netanyahu in un discorso, aggiungendo che i progetti “sono stati ritardati per sei o sette anni.”

I piani di Israele per il corridoio E1, a cui si sta lavorando dal 1995, sono stati considerevolmente ritardati a causa delle pressioni da parte della comunità internazionale, comprese l’UE e l’ex-amministrazione USA.

Il progetto per la E1 intende creare un blocco di colonie che unisca il grande insediamento di Ma’ale Adumim a Gerusalemme, tagliando di fatto la Cisgiordania in due, separando il nord dal sud.

Le conseguenze del piano sono apparse evidenti negli ultimi anni attraverso la lotta per salvare dall’espulsione forzata la comunità beduina di Khan al-Ahmar, che si trova proprio in mezzo al corridoio E1.

La comunità sarebbe una delle decine di enclave beduine del corridoio che, se i progetti venissero portati a termine, verrebbero espulse a forza dalle proprie case.

L’annuncio è arrivato appena una settimana prima che gli israeliani si rechino ai seggi per la terza volta in un anno per eleggere il primo ministro, dopo due falliti tentativi da parte di Netanyahu e del suo rivale Benny Gantz di formare una coalizione di governo.

Nelle ultime due elezioni il governo di destra di Netanyahu si è basato sull’appoggio dei coloni e ha utilizzato promesse politiche simili per garantirsi il loro sostegno.

Nel primo turno delle elezioni nell’aprile dello scorso anno egli si impegnò ad annettere centinaia di colonie nella Cisgiordania occupata e prima delle elezioni di settembre è andato oltre quella promessa giurando che avrebbe esteso la sovranità israeliana alla valle del Giordano, che comprende un terzo di tutta la Cisgiordania.

I leader palestinesi hanno duramente attaccato Netanyahu per il suo annuncio e hanno chiesto agli Stati membri dell’UE di intervenire e di impedire l’attività edilizia israeliana nella zona.

Criticando il piano come un “progetto colonialista”, il capo negoziatore dell’OLP Saeb Erekat ha emanato un comunicato di condanna degli USA per il loro consenso perché Israele vada avanti con tali piani.

In accordo con i progetti concordati tra le delegazioni di USA e Israele, – ha detto Erekat – Israele ora continua a imporre sul terreno nuovi fatti illegali che violano sistematicamente le leggi internazionali e i diritti umani, annullano i diritti inalienabili del popolo palestinese, e minacciano la stessa pace e sicurezza dell’intera regione”.

Ora è chiaro alla comunità internazionale che questo quadro di annessione intende solo seppellire le prospettive di una soluzione negoziata,” ha continuato, chiedendo che la comunità internazionale imponga sanzioni contro Israele per le sue violazioni delle leggi internazionali nei territori occupati.

L’associazione [israeliana] di monitoraggio delle colonie Peace Now ha criticato duramente la decisione, affermando che “costruire nella E1 interromperebbe questa continuità territoriale, silurando la possibilità di uno Stato palestinese praticabile nel caso in cui Israele continui a conservare per sé la terra.”

L’organizzazione ha affermato: “Israele sta ufficialmente scegliendo di rischiare un conflitto permanente invece di risolverlo. Non è niente di meno di un disastro nazionale che deve essere fermato prima che sia troppo tardi.”

Yumna Patel è la corrispondente dalla Palestina per Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Scienza, guerra, società. Secondo incontro. 5 febbraio, incontro con Jeff Halper

13 febbraio 2020 – Scienceground

Genova, 5 febbraio 2020. Incontro con Jeff Halper, antropologo e attivista pacifista [americano che vive] in Israele, autore di “War against the people” Pluto press, 2015 [“La guerra contro il popolo”, trad. it. Ester Garau, Ed. Epoké, 2017, ndt]

La guerra come questione internazionale

Questo libro deriva dal mio lavoro su Palestina e Israele. Sono un attivista da molti anni. Sono il presidente di un’organizzazione chiamata Israeli Committee Against House Demolitions [Comitato israeliano contro la demolizione delle case, ndt]. Cerchiamo di combattere la politica israeliana di demolizione delle case palestinesi. E la domanda che sorge spontanea ogni volta è: come fa Israele a passarla liscia? Perché il mondo permette a Israele di mantenere l’occupazione da oltre cinquant’anni, di violare il diritto internazionale, di reprimere un intero popolo? Non solo [il mondo] glielo permette, ma Israele ottiene sempre più sostegno internazionale, il suo status è in costante miglioramento all’interno della comunità internazionale.

La gente si dà ogni tipo di spiegazione, per esempio la potente lobby ebraica negli Stati Uniti. Ma questo non spiega il sostegno italiano a Israele. E non spiega il sostegno a Israele da parte di Paesi in cui non ci sono ebrei: oggi India e Cina sono due tra i più forti sostenitori di Israele nella comunità internazionale.

C’è poi l’idea del senso di colpa per l’Olocausto. Questo può avere forse un peso, fino a un certo punto, in Germania, o in Polonia e negli Stati Uniti, ma non in America Latina, dove Israele oggi ha un sostegno enorme: è il primo Paese non latinoamericano a far parte del mercato latinoamericano. Un’altra spiegazione potrebbe essere costituita dai fondamentalisti cristiani: gli evangelici, i cristiani di destra: di nuovo, è un elemento importante negli Stati Uniti, ma non ha molta importanza in altri Paesi che continuano a sostenere Israele. Quindi era un aspetto difficile da spiegare. Secondo me, per trovare il bandolo della matassa bisogna focalizzarsi sulla domanda: qual è il ruolo di Israele nel mondo? In altre parole, noi consideriamo sempre Israele per ciò che sta facendo ai palestinesi: le demolizioni, il muro, le colonie, ecc. Non capita spesso di analizzare il suo ruolo internazionale.

Appena ho iniziato a farlo, è apparso molto chiaro che Israele ha un ruolo chiave nelle funzioni di polizia militare di sicurezza del sistema mondiale.

È interessante notare che non esistono molti studi sul ruolo della guerra e della sicurezza nelle questioni internazionali, mentre ce ne sono molti sulle ragioni della guerra e sulla storia della guerra. Ci sono studi sulle tecnologie militari. Ma quale ruolo giochi la guerra – e non solo la guerra, ma anche la sicurezza – nella politica internazionale non è sufficientemente approfondito. Per esempio, Marx quasi non nomina neppure la guerra. Immanuel Wallerstein, nella sua teoria del moderno sistema-mondo, non sfiora nemmeno il tema della guerra. La guerra è vista come disgregante, come una brutta cosa, ma mai come parte integrante del modo in cui gira il mondo.

Quindi ho voluto vedere qual è il ruolo della guerra e della sicurezza nel mondo moderno. Ho provato a inserire il mio lavoro nella cornice del capitalismo transnazionale perché per la prima volta, forse dagli anni ‘70 del 1800, si inizia ad avere un sistema mondiale. In particolare con la fine della Guerra Fredda e con la nascita del neoliberismo e del capitalismo mondiale. E di sicuro, come ben sappiamo, il capitalismo globale è un bene per pochi, ma non per tutti.


Umanità eccedente e risorse

C’è questo concetto dell’eccesso, o eccedenza, di umanità. Risulta che l’80% della popolazione mondiale è umanità in eccesso. Il sistema capitalista non ha bisogno di questa gente. Non saranno mai consumatori in modo significativo. Non saranno mai davvero istruiti o produttivi nel senso capitalista di produttività. Sono superflui, sono in eccesso. L’80% della popolazione mondiale vive con meno di 10 dollari al giorno. Il 50% della popolazione mondiale vive con meno di 2 dollari al giorno. La stragrande maggioranza della popolazione non è in grado di provvedere al proprio sostentamento.

Il sistema [capitalista] non va molto d’accordo con questa gente, ma si tratta pur sempre dell’80% della popolazione, bisogna controllarla in qualche modo. Per esempio, sappiamo che l’economia mondiale è per lo più concentrata nelle mani di specifiche imprese e società e gente ricca, circa 147 aziende – ce n’è anche qualcuna italiana, da qualche parte – che controllano il 40% dell’economia mondiale.

Oggi abbiamo quelle che vengono definite “guerre per le risorse”. Le guerre oggi sono meno guerre per l‘ideologia e più guerre per le risorse, perché le risorse sono sempre più scarse – e ovviamente la maggior parte delle risorse mondiali confluiscono nel Nord del mondo – ed ecco il motivo di lotte tremende: acqua, minerali, legno e, ovviamente, petrolio. Secondo Michael Klare [professore di studi universitari sulla pace e sulla sicurezza del Five College, corrispondente della difesa della rivista The Nation, ndt] c’è una fascia lungo l’Equatore in cui si trovano alcune delle più importanti risorse del mondo. In altre parole, i più poveri del mondo vivono dove sono concentrate le risorse più preziose. Il sistema mondiale è in gran parte basato sulla sottrazione di tali risorse a quei popoli, e conosciamo i conflitti che ne derivano in quell’area.

Il sistema capitalista quindi ha un problema, e il problema è che solo una piccola percentuale dell’umanità ne trae beneficio, mentre la maggioranza è esclusa. Il che comprende anche la classe media, come in Italia e in Europa. I giovani della classe media del Nord del mondo stanno diventando sempre più marginali per il mercato del lavoro: i sindacati si stanno indebolendo, c’è il modello economico di McDonald, in cui la gente viene assunta solo temporaneamente, i giovani non guadagnano abbastanza per vivere, non riescono a trovare una casa, ecc. Quindi non è solo una questione di “Terzo mondo” o di Sud del mondo, ma è qualcosa che sta succedendo in realtà anche nel Nord del mondo.


Guerre securocratiche esterne


E qui il problema diventa: in che modo il sistema capitalista si garantisce l’egemonia?

Perché c’è un’egemonia sul sistema mondiale. Non è che possiamo controllare tutto, non è che andiamo lì e conquistiamo. Non come Hitler, che voleva conquistare qualsiasi cosa per controllarla. Qui non c’è da conquistare: bisogna aumentare la propria egemonia sul mondo in un modo più politico, economico e culturale, per avere il controllo. Ma il problema è che la gente che viene esclusa dal sistema resiste sempre di più.

Quindi quel che abbiamo è ciò che io chiamo una guerra contro il popolo. Da altri è stata chiamata “guerra quotidiana” o “guerra permanente”. Di sicuro è una guerra securocratica, questo è il termine che uso io. È una guerra per la sicurezza.

Non mi riferisco, in realtà, alla guerra come siamo abituati a immaginarla. Le guerre tra potenze, di solito condotte con eserciti che combattono battaglie e una parte vince. Le guerre convenzionali tra Stati appartengono al passato. L’ultima grande guerra tra Stati nella quale due o più grandi potenze si sono combattute è stata la Seconda Guerra Mondiale. Forse la [guerra di] Corea, in un certo senso. Ma tutte le altre guerre tra Stati, anche se hanno avuto un numero di morti non certo esiguo, sono state “piccole” in quanto a episodi. Erano circoscritte: la guerra Iran-Iraq, le Falklands, le guerre arabo-israeliane, quelle tra la Georgia e la Russia, o con l’Ucraina.

È successo qualcosa tra gli Stati? Per prima cosa, le guerre di questo tipo non coinvolgono solo due superpotenze. A volte c’è una superpotenza e un Paese più piccolo, come ad esempio gli Stati Uniti e l’Iraq o gli Stati Uniti in Afghanistan. E, secondo, sono molto circoscritte.

Quindi non sto parlando esattamente delle guerre convenzionali. Ma la guerra cronica per la sicurezza si realizza principalmente in due modi.

Primo: le guerre si combattono altrove, fuori dal proprio Paese. Ci sono molte definizioni: “guerre asimmetriche”, “guerre limitate”, “operazioni”. La prima guerra in Iraq è stata chiamata “operazione Desert Storm [Tempesta nel Deserto, ndt]”. Spesso non vengono nemmeno dichiarate. Le guerre vere, o tra Stati, di solito vengono dichiarate. Ci sono delle regole d’ingaggio. Ma oggi le guerre non vengono quasi mai dichiarate. Le “guerre di guerriglia’, “guerre sporche”, “piccole guerre”. A volte sono definite “guerre coloniali”, “conflitto”. O “conflitti a bassa intensità”: ciò significa che ci può essere una guerra senza le regole della guerra, relativamente ai prigionieri, per esempio. Non si è limitati dalle regole del diritto internazionale. “Operazioni militari”, “contro-insurrezione”, “guerra a bassa intensità”, “antiterrorismo”.

Tutte queste sono tipologie di guerra che si combattono fuori dal Primo Mondo, di solito tra grandi potenze in Paesi o aree in cui ci sono le risorse di cui si ha bisogno. E si domano le popolazioni, si creano le condizioni per estrarre le risorse, avendo a disposizione una popolazione schiava per il lavoro a basso costo. Queste sono le guerre securocratiche che rafforzano l’egemonia del capitalismo delle multinazionali in tutto il mondo.

Oggi abbiamo a disposizione tipologie di armi che sono immediate, siano esse droni o altri tipi di robot, hanno la capacità di risposta immediata ovunque nel mondo. Le definisco securocratiche perché l’idea non è di vincere, né di colpire l’altra parte. Non c’è nessuna ideologia qui. L’idea è di creare le condizioni di controllo ed egemonia, per sempre. A tempo indefinito.


Guerre securocratiche interne

Il secondo tipo di guerra si svolge all’interno, come qui in Italia. Una volta, nel Nord del mondo, esisteva una separazione tra le istituzioni militari e quelle di sicurezza interna, per esempio le forze di polizia. L’esercito all’esterno e le forze nazionali all’interno, e non si parlavano molto tra loro. Questo deriva dall’idea di Stato in Occidente: bisogna stare alla larga dagli affari interni di altri Paesi. Per esempio, negli Stati Uniti, la CIA non è autorizzata a parlare con l’FBI, se non attraverso determinati canali. Non ci si aspetta che le forze militari interagiscano con le forze di polizia, ma di sicuro, dopo l’11 settembre, queste differenze hanno iniziato ad essere meno nitide, e l’esercito, la sicurezza interna e la polizia sono diventate una cosa sola.

Quindi quello che succede oggi nelle guerre securocratiche è che i militari stanno diventando come le forze di polizia. I militari americani in Iraq o Afghanistan non stanno più, in realtà, combattendo battaglie. Sono forze di polizia. Si tratta, in parte, di addestramento, in parte mantengono l’ordine e in parte portano avanti operazioni di peacekeeping, che è un’altra forma securitaria dell’ONU. Quindi l’esercito si sta “poliziottizzando”: agisce come una forza di polizia.

Ma nello stesso tempo le forze di polizia del vostro Paese si stanno militarizzando. Stanno iniziando ad indossare divise e a portare armi e a fare cose che, solo una generazione fa, non erano considerate di competenza della polizia.

Quindi sta avvenendo la militarizzazione della polizia e la poliziottizzazione dell’esercito. Ecco che tutto inizia a quadrare. La guerra securocratica interna ha a che fare con la sicurezza interna: antiterrorismo, di nuovo. Pensate alla “guerra alla droga”. Alla “lotta al crimine”. Al “contrasto all’immigrazione”. Queste metafore vengono utilizzate perché queste cose minacciano il controllo interno delle multinazionali su un Paese. E quindi si arriva a cose come la disciplina, le prigioni, a quello che viene definito complesso dell’industria carceraria.

Cosa si fa in un Paese come l’Italia, in cui molti giovani – non solo immigrati – non hanno un futuro assicurato? O in Europa in generale?

Questa è la guerra securocratica per rafforzare l’egemonia nel sistema capitalistico in cui la maggior parte delle persone sono escluse. Questo è il ruolo della guerra oggi. La chiamo guerra contro il popolo. Diversa da una guerra come la Seconda Guerra mondiale. È così che l’ho concettualizzata.

Tecnologia bellica

In tutto ciò, Israele ha un ruolo chiave. Non affronterò l’argomento Israele. Ma Israele ha un ruolo chiave in tutto questo. Perché Israele è un Paese che ricopre una posizione fondamentale. Israele sta combattendo una guerra contro il popolo palestinese da cent’anni. Quindi ha più esperienza.

L’Europa ha combattuto le guerre coloniali. Cosa che è finita molto tempo fa, forse 60-70 anni fa, o più. L’Italia è stata in Etiopia e in Libia per un po’. Ma l’Europa non ha tutta quell’esperienza. E neanche gli Stati Uniti ce l’hanno. L’ultima volta che gli Stati Uniti hanno avuto a che fare con quel genere di guerra è stato in Vietnam, e non è andata molto bene. E nemmeno oggi sta andando molto bene in Afghanistan.

Israele ha l’esperienza di una guerra interna, contro un altro popolo, ma contemporaneamente ha un’altissima capacità tecnologica. È in grado di sviluppare sistemi d’armi e di sicurezza, nonché tattiche e strategie, che altri Paesi trovano utili.

Ed è qui che trovo la risposta: come fa Israele a farla franca? Perché altri Paesi usano queste tecnologie!

Inclusa la Cina, dove la tecnologia israeliana viene impiegata contro gli uiguri [minoranza di religione musulmana che vive nella regione dello Kinjiang, nel nord ovest della Cina, ndt]. Israele ha uno strettissimo legame con la Cina in tema di sicurezza. Dopo la Russia, Israele è il secondo fornitore di armi alla Cina. O l’India, che è oggi il più grande compratore di armi da Israele. È sorprendente, perché Israele non vende armi costose, carri armati e navi, e aerei da guerra. Non produce quel genere di armamenti, sono troppo costosi per Israele. Produce radar, sistemi di sicurezza e sorveglianza. E componenti per tali sistemi (se prendete i sistemi più piccoli, in quello Israele è il numero due dopo la Cina). Potete immaginare quanto è profonda l’infiltrazione della tecnologia israeliana nell’esercito cinese, nella sicurezza cinese, nella polizia cinese. Dopo la Russia, Israele è il secondo fornitore di armamenti all’India.

Così, la “piccola Israele” è il secondo fornitore di due delle più grandi Nazioni militarizzate del mondo. Specialmente per quanto riguarda i sistemi di sorveglianza con riconoscimento fisico e facciale. In Israele, c’è un’azienda che si chiama Nice Systems [Bei sistemi, ndt] – che nome! – che produce una tecnologia digitale in grado di captare chiunque attraverso le sole telecamere. Tutti hanno qualcosa di speciale. Altezza, peso, fisionomia, tutto. Alcuni sbattono le palpebre, o camminano zoppicando, o hanno un tic. Qualunque cosa sia (e il sistema si accorge di tutto!), con questo tipo di tecnologia digitale non è necessario riavvolgere e rivedere i filmati di milioni di individui. Si rilevano le caratteristiche e si identificano immediatamente le persone. Sono sistemi davvero sofisticati.

Israele esporta praticamente in ogni parte del mondo. Anche in Paesi con cui non intercorrono relazioni diplomatiche. Per esempio, Israele e Arabia Saudita. Di fatto, era nei notiziari proprio la settimana scorsa, il telefono usato da bin Salman per scovare Kashoggi a Istambul era dotato di sistemi di sorveglianza israeliani e di NSO [compagnia israeliana di cyber-sicurezza, i cui prodotti consentono – tra le altre cose – la sorveglianza remota degli smartphone, ndt]. Ha semplicemente usato quello stesso sistema per entrare nel telefono di Jeff Bezos [CEO di Amazon] e trovare i dati sulla sua vita sentimentale. Jeff Bezos ha divorziato, e le informazioni sulla relazione che stava portando avanti con quella donna sono uscite dal suo telefono, collegato a quello di bin Salman in Arabia Saudita attraverso una società israeliana.

Ci sono davvero di mezzo società israeliane. Non parlerò adesso di tutto questo, però commerciano con quasi tutti i Paesi del mondo. Ma in cosa è specializzato Israele, in particolare?

Una cosa sono i droni. Il 60% dei droni nel mondo sono israeliani. Infatti, la tecnologia per i droni prodotta in Europa e negli Stati Uniti è israeliana. Il drone Watchkeeper, che si sta sviluppando in Europa, è per il 51% di una società israeliana, la Elbit Systems. Una parte di esso viene dal Technion, il politecnico considerato il laboratorio dell’esercito israeliano e dell’industria della difesa.

È interessante capire come il concetto di guerra influisca sugli armamenti. La tecnologia dei droni è conosciuta da anni. C’erano perfino droni rudimentali nella Seconda Guerra Mondiale. Ma l’Europa e specialmente gli Stati Uniti avevano deciso che non avrebbero continuato a sviluppare i droni, perché questi sono molto vulnerabili. Cos’è un drone? È un aereo che sta fermo in un posto. Per giorni e settimane sorveglia semplicemente cosa succede. Questa è la sua funzione principale. In inglese, lo chiamiamo “facile preda”. È molto semplice per l’aviazione, o anche per l’artiglieria, abbattere un drone. Gli Stati Uniti direbbero “Perché dovremmo avere uno stupido aereo che costa un miliardo di dollari se lo si può abbattere?”

Quindi non hanno mai approfondito questo tipo di tecnologia. Ma Israele sta combattendo una guerra diversa. Israele combatte una guerra contro i palestinesi, che non hanno un’aviazione e quindi non possono abbattere un drone israeliano. Per Israele i droni sono stati molto utili per quel tipo di guerriglia in cui si cerca di mantenere il controllo su tutti i movimenti e su tutto quel che succede. Ecco perché Israele ha conquistato quel mercato: perché per le guerre contro il popolo queste sono armi eccezionali. Per le guerre convenzionali sono pessime, perché basta abbatterli. Il Pentagono si prepara ancora a combattere guerre convenzionali contro la Cina, contro l’Unione Sovietica. Stanno ancora sviluppando armamenti che sono inutili in un sistema di guerra asimmetrica. L’F-35, ultimo modello di stealth americano [velivolo invisibile ai radar, ndt], è inutile.

Un altro tipo di prodotto israeliano sono i muri e le barriere: stupidi muri ciechi di confine, ma anche muri intelligenti con sensori. Potete trovare muri israeliani in tutta Europa, per lo più contro gli immigrati. La maggior parte dei muri in Europa viene realizzata con tecnologia israeliana. C’è anche il muro sul confine tra Messico e Stati Uniti, che stanno costruendo insieme la Boeing e la Elbit Systems. Questa è un’intera tecnologia che Israele sta vendendo all’Europa e in altri luoghi, basata su sensori più che su muri fisici. Fuoco automatizzato, ma non ne parlerò.


La responsabilità dello scienziato

Sistemi di sorveglianza. La sorveglianza urbana è un’altra grande industria in Israele. Il concetto è che il più grande pericolo che minaccia lo Stato di polizia è il cosiddetto spazio di anonimato. Quando lo Stato non sa dove sei, non sa con chi stai parlando, con chi sei.

Sono cose molto pericolose. L’idea del sistema di sicurezza israeliano è di sapere tutto. Quindi Israele non solo esporta tecnologie per la guerra contro il popolo, ma anche sistemi di sorveglianza. Ce ne sono di tutti i tipi. Non parlerò adesso di tutti, ma ci sono i mini droni, che sembrano insetti o uccelli. Si trasformano in armi insetti veri. O si costruisce un insetto – che te ne pare come drone?!

Non solo, ma Israele è anche uno dei leader mondiali, con l’Italia, nel campo delle nanotecnologie. L’Italia è uno dei leader mondiali nelle nanotecnologie a scopo medico. Anche Grenoble e altri centri europei. Israele è uno dei leader mondiali in campo militare. Così ora hanno aperto un centro italo-israeliano di ricerca in nanotecnologie a Firenze. Non sono sicuro di tutto perché è tutto molto segreto. Questo è un drone [mostra l’immagine], una piccola zanzara. Queste sono le telecamere. La Elbit Systems produce obiettivi che vengono utilizzati nei satelliti, in grado di mostrarvi, dallo spazio, cosa c’è su questo tavolo.

Sono molto bravi in questo. Ma ecco quel che chiamiamo un becher con un ago. Con le nanotecnologie possiamo prendere una malattia come l’antrace, che non ha antidoto, che non può essere curata, e in questo piccolo contenitore possiamo metterne abbastanza da ammazzare oltre centinaia di migliaia di persone. Si potrebbe metterla nella rete idrica, o nelle persone, in modo da creare un virus contagioso come quello che c’è oggi in Cina. “Nano” è un miliardesimo di metro, la dimensione di una molecola. Oggi potete immaginare armi della dimensione di una molecola. Ecco il punto d’incontro con la prospettiva biomedica. Perché nano è così importante in medicina?

Non ho intenzione di tenere una lezione di medicina, ma il punto è che le nanotecnologie sono così piccole da poter essere introdotte nel sistema circolatorio e monitorare l’afflusso di sangue senza interferire con esso. Bene, oggi è possibile armarle, con malattie o spray. Abbiamo il sospetto, ma non possiamo provarlo, che Israele abbia usato queste armi a Gaza. Si può caricare il DNA di qualcuno. Mettiamo che tu stia cercando qualcuno a Gaza. È come inserire questa informazione nel pulviscolo o nel vapore, e poi spruzzarla con l’aereo su Gaza. Quando [il pulviscolo o il vapore, ndt] tocca terra, la persona che ha quel DNA apparirà a chi sta facendo il monitoraggio. Quindi, in altre parole, si può adottare quel sistema e trovare chiunque. Oppure si può modificare il DNA. Si può utilizzare una nano-sostanza che potrebbe provocare amnesia generale, o portare le persone a ridere in modo incontrollato, o avere cose che influenzano la mente o il cervello attraverso una specie di nano-distanza.

È qualcosa contro cui non si può combattere.

Oggi, quella “nano” è la parte più finanziata della ricerca sugli armamenti. In Italia, Israele, Stati Uniti, Cina, Germania, riceve la maggior parte dei fondi rispetto ad ogni altra branca della ricerca per lo sviluppo di armamenti.

In un convegno di ricercatori sponsorizzato dal “Future of Humanity Institute” [Istituto per il Futuro dell’Umanità, centro di ricerca interdisciplinare sull’umanità e sulle sue prospettive, Università di Oxford, ndt] nel 2008, è stato chiesto agli scienziati cosa ne pensassero della probabilità che gli umani si estinguano entro il 2100 e quale sarà la causa di estinzione. Qual è il più grande pericolo per la sopravvivenza umana? Gli scienziati hanno risposto che c’è il 19% di probabilità di estinzione. Non so se è alta o bassa, ma siccome stavano discutendo di come succederà, è interessante scoprire che la ragione principale per cui potremmo estinguerci sono le armi molecolari nanotecnologiche. Questa era la causa più pericolosa. Perché pensiamo sempre alle armi nucleari come a quelle più pericolose. Poi scorri la lista e scopri che c’è anche un’intelligenza artificiale super-intelligente, ma che prima vengono le pandemie studiate a tavolino, il che ci riporta a ciò che stavo dicendo su come si potrebbe utilizzare il DNA per diffondere pandemie. In fondo alla lista, non molto più in là, ci sono gli incidenti nanotecnologici.

In altre parole, le nanotecnologie sono in cima alla lista in termini di rischio piuttosto grande, e noi non ne parliamo. Uno dei motivi per cui ho scritto questo libro, comunque, è che sono di sinistra. La sinistra non sa nulla di queste cose. Io non ne sapevo niente finché non ho scritto il libro. Non conosciamo i sistemi d’arma, non conosciamo queste tecnologie, e sicuramente non conosciamo le nanotecnologie. La maggior parte di noi di sinistra proviene dalle scienze sociali, da discipline umanistiche, e non conosciamo davvero la “vera scienza”. Non sappiamo che cosa bolle in pentola da 25 anni a questa parte nei laboratori scientifici, e nello stesso tempo spesso gli scienziati non vengono posti di fronte alle più grandi questioni di etica, storia e politica. Loro se ne stanno nei loro laboratori, a fare le loro cose, e non capiscono veramente le implicazioni di tutto questo. Penso che sia un aspetto veramente importante.


Esportazione dello Stato di polizia

E veniamo alla militarizzazione della polizia, a cui ho accennato prima. Israele, per esempio – ma non solo Israele – sta sviluppando armi che una volta erano armi militari e che oggi sono fatte per la polizia. Così per esempio il più famoso mitra israeliano è l’Uzi – la mafia lo ama, tutti amano l’Uzi. È una piccola mitragliatrice. Adesso la stanno facendo a forma di pistola, una pistola a mano. Così un poliziotto potrà portarla nella fondina e tirarla fuori così. Ma è un mitra, non spara solo un colpo alla volta. Stiamo iniziando ad avere sempre più armi da guerra nelle forze di polizia.

Torniamo indietro un secondo. Israele non esporta solo tecnologia per la guerra securocratica, nella quale è particolarmente bravo perché ha a disposizione un laboratorio: la Cisgiordania e Gaza. Milioni di persone su cui poter fare esperimenti. Nel mio libro, mostro tutte le armi che sono state usate per la prima volta a Gaza, nelle diverse operazioni. C’è un’intera popolazione e nessun controllo, ci puoi fare quello che vuoi, con loro.

Ma non è solo questo: Israele ha una concezione di Stato di sicurezza che sta esportando. Non solo la tecnologia di sicurezza, ma il concetto di Stato di sicurezza, nel quale fondamentalmente la sicurezza diventa l’elemento centrale. Si può anche avere una democrazia, ma la democrazia viene dopo la sicurezza. Tutto viene dopo la sicurezza. Ne risente l’equità dei processi, ne risentono le leggi, e ne risentono i diritti umani. Il punto è che la sicurezza diventa la cosa principale. Vedete come Israele si sta comportando in Europa, per esempio.

Quando, un paio di anni fa, c’è stato l’attentato a Bruxelles, all’aeroporto e poi in città, Israele ha detto ai belgi: “Smettetela di mangiare cioccolato e unitevi al mondo”. E ha aggiunto: “Avete un problema con il terrorismo. Tutti voi europei avete un problema con il terrorismo. E non lo state affrontando molto bene. Criticate Israele per l’occupazione. Non dovreste criticare Israele.

Dovreste prendere esempio da Israele. Dovreste fare quello che fa Israele, perché, sapete, avete un quartiere di musulmani a Bruxelles che fa del terrorismo. Noi abbiamo una Nazione tra il Mediterraneo e il fiume Giordano, abbiamo una democrazia – l’unica democrazia in Medio Oriente, giusto? -, abbiamo una fiorente economia, la nostra gente prova davvero una sensazione di sicurezza e incolumità. In un Paese in cui metà della popolazione è terrorista! Se stabilisci che i palestinesi siano terroristi per definizione… Possiamo creare sicurezza in un Paese in cui metà della popolazione è terrorista, immaginate cosa potrebbe fare il nostro modello per voi a Bruxelles, o in Francia, o in qualsiasi altro posto.”

Israele sta davvero lavorando con le destre in tutto il mondo. Israele collabora con la destra italiana, ovviamente. Con Orban, e tutto l’est Europa, la Polonia e anche con la destra austriaca, gli ungheresi, e così via. Israele lavora a strettissimo contatto con la destra britannica, negli Stati Uniti con Trump naturalmente, e Bolsonaro è uno dei suoi migliori amici, lui ama Netanyahu! Quindi le cose stanno così: esiste il reale pericolo di una sorta di aggregazione delle ideologie nazionaliste di destra, che iniziano ad avere un concetto [univoco] di Stato di sicurezza che li guida. Non è solo un manipolo di gente di destra che non vuole l’immigrazione – e di questo c’è una versione francese, una polacca, una italiana – ma di persone che iniziano ad adottare la stessa ideologia, lo stesso progetto di Stato di sicurezza e le tecnologie che Israele sta sviluppando. Non è solo Israele che sta sviluppando un complesso globale securocratico: e capite che questo diventa un pericolo reale per tutti noi.

La guerra contro il popolo non è solo un piccolo ramo della politica internazionale. È il modo in cui il capitalismo delle multinazionali rafforza la sua egemonia. Ne è parte integrante. Non è solo un elemento collaterale: e su questo non ci si sofferma molto nella ricerca, né nell’agenda politica di sinistra. Non stiamo capendo il significato di tutto questo a livello internazionale.

(Traduzione dall’inglese di Elena Bellini)




Nel suo nuovo libro Khalidi affronta la “narrazione egemonica” del nazionalismo ebraico

Steve France

17 febbraio 2020 – MondoWeiss

Cover of The Hundred Years War on Palestine: A History of Settler Colonialism and Resistance, 1917–2017

C’era del fervore in Rashid Khalidi quando il 10 febbraio il decano degli storici palestinesi-americani si è rivolto ad una folla gremita nella prestigiosa libreria Politics & Prose di Washington DC. Ci ha detto che nel suo nuovo libro, “La guerra dei cent’anni contro la Palestina”, si è sfilato i guanti dell’accademico. “Questo libro è più personale”, ha affermato. Si basa sull’esperienza più che centenaria della sua illustre famiglia che ha assistito, opponendovisi apertamente, all'”invasione coloniale” del suo Paese, e continua tuttora attraverso il suo impegno di studioso che dice la verità.

Qualcuno è intervenuto per contestare a Khalidi il fatto che non fosse rimasto fedele al dovere di “obiettività” dello storico. Lui ha risposto: “Il fatto è che esiste una narrazione egemonica su Israele e la Palestina che assume la prospettiva occidentale e filo-sionista. L’ottanta percento di ciò che si dice sul’argomento negli Stati Uniti è collegato alla narrazione egemonica. Non è mio compito riproporre quella narrazione. Inoltre gli storici, appunto, di solito propongono un discorso o una tesi. Non dicono semplicemente: ‘Da un lato e dall’altro.’ “

Khalidi ha affermato che il libro si rivolge deliberatamente ai “comuni lettori americani”, che spesso non sanno quasi nulla su Palestina-Israele e, nella migliore delle ipotesi, vedono il conflitto come una tragedia di due popoli che lottano per il loro legittimo destino nazionale. Ma, sostiene, la vera storia è quella di una “conquista coloniale” da parte dell’Occidente nei confronti della piccola terra della Palestina – e una successiva repressione senza fine della resistenza palestinese. “I palestinesi sono David; Israele è Golia, con i suoi sostenitori esterni. ” Dal 1917, tra i sostenitori ci sono sempre state le potenze egemoni del mondo: la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica (nel periodo della competizione per l’egemonia) e la Francia (negli anni ’50). Altrettanto essenziale è stato il sostegno materiale e politico di vaste reti etniche e religiose di sionisti (si pensi ai sionisti cristiani).

Le persone devono comprendere che Israele è uno Stato colonialista, ha detto Khalidi, ma peculiare. I coloni ebrei europei – che si definivano letteralmente colonizzatori prima che il colonialismo cadesse in discredito dopo la seconda guerra mondiale – non provenivano da una “madre patria” e non facevano parte di un’altra Nazione, come la Gran Bretagna. Piuttosto, venivano da molti Paesi e facevano parte di un “movimento nazionale del tutto moderno”. La storia degli ebrei iniziò in Palestina ai tempi biblici, ma prima dell’invenzione del sionismo alla fine del 1800 “realizzare uno Stato Nazione non era ciò che gli ebrei avevano mai voluto”.

Nel 1899 lo zio trisavolo di Khalidi, Yusuf Diya al-Din Pasha al-Khalidi, comprese i motivi e gli obiettivi dei primi coloni sionisti. Ex sindaco di Gerusalemme, con ottima padronanza di turco, tedesco, francese e inglese, conosceva l’antisemitismo europeo e gli scritti del fondatore del sionismo, Theodor Herzl, in cui veniva chiesta la creazione di uno Stato ebraico. Mandò una lunga lettera in francese al rabbino capo francese perché fosse consegnata a Herzl, che aveva vissuto a lungo a Parigi. Esprimeva simpatia e comprensione per le aspirazioni sioniste. Ma avvertiva che sarebbe stata “una follia” cercare di imporre uno Stato ebraico ai palestinesi, che abitavano a pieno titolo la Palestina. Implorava Herzl di abbandonare tali intenzioni. Sottolineava che una tale mossa avrebbe compromesso le vaste comunità ebraiche che esistevano da tempo in tutto il Medio Oriente. La risposta di Herzl fu educata, ha detto Khalidi al suo pubblico, ma “semplicemente ignorò” il punto fondamentale di Yusuf Diya secondo il quale la Palestina era già abitata da persone che non volevano essere soppiantate.

E così ebbe origine l’atteggiamento persistente dei sionisti e degli Stati loro sostenitori, che ignorano i palestinesi ritenendoli insignificanti se non inesistenti. Su questo aspetto Khalidi ha citato come punti di riferimento la Dichiarazione Balfour del 1917 [lettera scritta dall’allora ministro degli esteri inglese Arthur Balfour con la quale il governo britannico si impegnava a favorire la costituzione di un “focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina, ndtr.]; il mandato della Società delle Nazioni al Regno Unito perché governasse la Palestina; la Risoluzione delle Nazioni Unite del 1947 che fu “stravolta nell’ambito dell’Assemblea Generale dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica”[la risoluzione 181 del 29 novembre 1947 venne stravolta dalle due grandi potenze a favore dei sionisti, ndtr.]; il via libera degli Stati Uniti a Israele nel 1967 per la conquista della Cisgiordania, di Gaza e delle alture del Golan dai vicini Stati arabi; la risposta delle Nazioni Unite a tale aggressione nella risoluzione 242; fino al “piano di pace” appena comunicato dal presidente Trump.

In conclusione, Khalidi ha affermato che “tutti i nazionalismi costruiscono una storia per darsi una giustificazione”. Ma la cosa “particolare e peculiare” nel caso di Israele è che “le sofferenze e le idee che hanno generato il colonialismo ebraico hanno tutte avuto luogo in Europa, ma sono state trasferite in Palestina”. In altre parole, per più di 100 anni il popolo palestinese ha avuto a che fare con un sogno nazionalista da parte degli ebrei, coltivato fuori dalla propria terra, [che consisteva] nel sottrarre le loro proprietà ed i loro diritti, la loro dignità e la loro vita.

All’inizio c’era la Palestina. Trasformarla nella “Terra di Israele” ha significato ignorare i palestinesi che lì vivevano, farli “scomparire” fisicamente quando possibile, e nel frattempo delegittimare la loro storia. Khalidi, erede di una famiglia antica e onorata, spezza l’incantesimo del sogno nazionalista ponendoci davanti all’esistenza del popolo palestinese, allora e adesso, e raccontando la sua storia agrodolce.

Steve France

Steve France è un giornalista e avvocato in pensione della zona di Washington DC. Attivista per i diritti dei palestinesi, è membro della Episcopal Peace Fellowship Palestine-Israel Network [Fratellanza episcopale per la pace – Rete Palestina-Israele] e altri gruppi cristiani di solidarietà con i palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)

 




La vita culturale e educativa dei prigionieri politici palestinesi nelle carceri israeliane

Addameer

14 febbraio 2020 – Palestine Chronicle

La sistematica violazione dei diritti umani più basilari dei prigionieri e detenuti palestinesi da parte dell’occupazione israeliana ha modellato la continua lotta che essi conducono nelle prigioni israeliane.

Durante tutti questi decenni sono stati sistematicamente e deliberatamente privati di uno specifico diritto – quello all’educazione. Per avere accesso all’educazione, e anche per poter disporre di penne e carta entro le mura del carcere, i prigionieri palestinesi hanno dovuto ricorrere, tra le altre forme di resistenza, a scioperi della fame collettivi. Nel 1992, in seguito ad uno dei più importanti e famosi scioperi della fame di quell’anno, i prigionieri hanno ottenuto il diritto di usufruire dell’insegnamento secondario e superiore.

Ciò ha comportato un cambio di paradigma nel processo educativo ed ha consentito ai prigionieri di iscriversi ad istituti di insegnamento, cosa cruciale per loro, dato il numero crescente di prigionieri che volevano intraprendere un percorso universitario. Tuttavia il servizio penitenziario israeliano – sostenuto dall’Alta Corte israeliana – ha continuato a limitare il diritto all’educazione dei prigionieri. Ecco qui di seguito una sintesi della storia della lotta dei prigionieri politici palestinesi per il loro diritto all’educazione.

Al momento degli accordi di Oslo nel 1993, le le continue lotte e iniziative dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane avevano consentito loro di conquistare il diritto ad avere dei libri e delle biblioteche in carcere. I prigionieri organizzavano dibattiti educativi e culturali su diverse questioni legate ai diritti dei prigionieri e alla resistenza palestinese.

Nel quadro degli accordi di Oslo vennero liberati migliaia di prigionieri politici palestinesi arrestati durante l’Intifada. Benché un esorbitante numero di prigionieri sia tuttora in carcere, questo cambiamento indebolì la lotta dei prigionieri, cosa che a sua volta influenzò la situazione culturale creata all’epoca dai prigionieri. Le animate discussioni culturali divennero meno frequenti e il loro scopo si modificò, come anche la capacità dei prigionieri di organizzare scioperi della fame ed altre forme di azione collettiva per ottenere il rispetto dei loro diritti.

Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR), che aveva precedentemente svolto un ruolo essenziale fornendo libri, materiale educativo e test sul quoziente di intelligenza nelle carceri, soprattutto per i bambini detenuti, a metà anni ’90 iniziò a farsi da parte, fino a scomparire del tutto da alcune carceri.

A metà degli anni ’90, in seguito all’evoluzione del movimento dei prigionieri e all’abbandono da parte della CICR, i prigionieri si riorganizzarono per dare priorità all’accesso all’educazione come richiesta collettiva. Lo sciopero della fame del 1992, a cui parteciparono migliaia di prigionieri e che durò 19 giorni, ottenne parecchie vittorie. Anzitutto per la prima volta i prigionieri furono autorizzati a presentarsi all’esame di maturità, noto con il nome di “tawjihi”, per ottenere il diploma di studi secondari.

Questa vittoria, molto importante per quei prigionieri i cui studi erano stati interrotti per decenni, era tuttavia incompleta perché si limitava alle discipline umanistiche, in quanto l’occupazione israeliana continuava a rifiutare l’accesso ai diplomi di scienze o di matematica.

Inoltre i prigionieri avevano accesso solo ad un numero limitato di programmi accademici all’università aperta israeliana, come teologia, sociologia, finanza e amministrazione, psicologia e scienze politiche. Ancora, i prigionieri dovettero condurre una difficile battaglia per costringere il servizio penitenziario israeliano (SPI), incaricato di agevolare il percorso, a rispettare l’accordo invece di ostacolare deliberatamente la sua applicazione in tutti i modi. Per esempio lo SPI, che doveva approvare l’iscrizione ad un programma di studi, spesso rifiutava di farlo con il pretesto della sicurezza, del fatto che si era raggiunto il numero masssimo di iscritti al programma o di altri motivi tanto fittizi quanto arbitrari.

Inoltre non forniva per tempo il materiale didattico ai prigionieri, cosa che impediva loro di seguire i corsi, oppure li trasferiva continuamente da un carcere all’altro durante il trimestre universitario o nei periodi degli esami, costringendo molti di loro a ripeterli.

Le restrizioni relative all’educazione dei prigionieri si sono aggravate nel tempo, soprattutto nel 2006, quando Israele ha applicato una punizione collettiva che comprendeva la soppressione del diritto all’educazione di parecchi prigionieri perché il soldato israeliano Gilad Shalit era stato catturato durante un’incursione militare israeliana a Gaza. Le restrizioni sono ulteriormente peggiorate nel 2011, dopo che il Primo Ministro israeliano dell’epoca, Benjamin Netanyahu, ha annunciato che nessun prigioniero palestinese sarebbe più stato autorizzato ad ottenere il diploma di laurea o di dottorato in carcere, affermando che per i prigionieri politici “la festa è finita”.

Il discorso di Netanyahu ha comportato il divieto totale di studio dei prigionieri nelle carceri ed ha posto fine all’esame di tawjihi e ai programmi di studio dell’Università aperta israeliana, per i quali i prigionieri si erano duramente battuti. Alcuni prigionieri che stavano per ottenere il diploma hanno invano presentato denunce all’Alta Corte israeliana, perché l’Alta Corte ha giudicato il divieto legale ed ammissibile. Nella sua decisione, la Corte ha sottolineato che l’educazione dei prigionieri è un privilegio che può essere revocato se lo SPI lo decide.

Tuttavia va notato che, se il discorso di Netanyahu è stato un annuncio pubblico della soppressione dei diritti dei prigionieri, lo SPI nel 2008 aveva già annullato i programmi educativi nella maggior parte delle carceri. Netanyahu non ha fatto che ratificare quanto era già in atto.

I prigionieri palestinesi ai quali sono state vietate le vie ufficiali di accesso all’educazione hanno continuato a battersi con ogni mezzo per il diritto all’educazione. Hanno cercato di colmare le lacune organizzando dibattiti culturali, corsi di alfabetizzazione e seminari educativi, creando delle biblioteche all’interno delle carceri e procurandosi giornali e riviste per i prigionieri. Molte di queste strade alternative non erano nuove, ma hanno acquisito importanza quando per i prigionieri è diventato impossibile iscriversi all’Università aperta israeliana.

Inoltre gli stessi detenuti hanno svolto un ruolo chiave nel processo educativo insegnandosi reciprocamente le lingue ed altre conoscenze.

Nel 2013 i prigionieri hanno lavorato con i ministeri competenti palestinesi per poter sostenere l’esame di tawjihi in prigione. Inoltre hanno instaurato dei legami con alcune università palestinesi ed hanno sviluppato dei programmi di laurea e di dottorato che hanno permesso a decine di prigionieri di conseguire il diploma nel corso degli anni.

Le autorità israeliane trovano continuamente nuovi modi per impedire ai prigionieri di studiare, senza contare che da anni ormai vietano i testi didattici in carcere e confiscano regolarmente i libri ed altro materiale educativo che i prigionieri riescono a fare entrare in carcere. Nel 2018 lo SPI ha confiscato circa 2.000 libri nella prigione di Hadarim, distruggendo la biblioteca che ci erano voluti anni a creare. Inoltre lo SPI punisce i prigionieri che cercano di proseguire i propri studi al di fuori delle mura carcerarie, trasferendoli in altre carceri o in altre celle.

Le donne e i minori detenuti subiscono le stesse restrizioni. Anche se nel 1997 i tribunali israeliani hanno stabilito che i minori prigionieri potevano proseguire la loro educazione secondo il programma palestinese, questo è molto lontano dalla realtà. Lo SPI autorizza gli insegnanti del ministero dell’Educazione israeliano ad insegnare solo due materie (arabo e matematica), cosa che ostacola gravemente lo sviluppo del minore. Il limitato numero di materie e l’irregolarità dei corsi compromettono enormemente i loro studi.

Le restrizioni continue e sistematiche imposte da Israele sono una violazione del diritto all’istruzione garantito da molte convenzioni internazionali, in particolare la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il Patto Internazionale sui diritti civili e politici, il Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia.

Il diritto all’educazione è garantito anche dal diritto internazionale umanitario. L’articolo 94 della Quarta Convenzione di Ginevra stabilisce che “la potenza occupante deve incoraggiare le attività intellettuali, educative e ricreative, sportive e ludiche tra i reclusi, pur lasciandoli liberi di parteciparvi o meno. Deve prendere tutte le misure possibili per garantire il loro esercizio, in particolare mettendo a disposizione dei prigionieri locali adeguati. Devono essere messi a disposizione dei prigionieri tutti gli strumenti necessari a permettere loro di seguire i propri studi o di iscriversi a nuove discipline. L’educazione dei bambini e dei ragazzi deve essere garantita; essi devono essere autorizzati a frequentare la scuola in carcere o all’esterno. I prigionieri devono avere la possibilità di fare ginnastica, praticare sport e giochi all’aria aperta. A questo scopo, in tutti i luoghi di detenzione devono esserci sufficienti spazi all’aria aperta. Ai bambini e agli adolescenti devono essere riservate aree speciali per il gioco.”

Inoltre l’articolo 77 delle Norme standard minime per il trattamento dei detenuti delle Nazioni Unite stabilisce che: “Devono essere prese misure per garantire la formazione continua di tutti i detenuti in grado di trarne profitto, compresa l’istruzione religiosa nei Paesi dove questo sia possibile. L’educazione degli analfabeti e dei giovani detenuti è obbligatoria e le deve essere dedicata particolare attenzione da parte dell’amministrazione. Per quanto possibile, l’educazione dei detenuti deve essere integrata al sistema d’insegnamento del Paese, in modo che essi, dopo la scarcerazione, possano proseguire gli studi senza difficoltà. In tutte le strutture penitenziarie devono essere offerte attività ricreative e culturali per mantenere la salute mentale e fisica dei detenuti.”

Non solo la potenza occupante vieta ai prigionieri palestinesi di usufruire del diritto all’educazione, ma continua a prendere di mira e ad arrestare deliberatamente gli studenti palestinesi. Solo nel 2019 il numero di studenti palestinesi incarcerati è salito a circa 250-300. Nel 2019 circa 75 studenti della sola università di Birzeit sono stati arrestati perché erano membri attivi di associazioni di studenti.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Raid e spari israeliani tra Gaza e Siria: tre membri del Jihad islamico uccisi

Redazione Nena News

Tensione alta nella Striscia dove ieri mattina i militari di Tel Aviv hanno ucciso e poi sollevato con un bulldozer un giovane militante della fazione palestinese. “Piantava un esplosivo al confine” afferma l’esercito. Razzi del Jihad verso il sud d’Israele. Nella notte la risposta dei jet israeliani: diversi feriti nell’enclave palestinese, 2 le vittime nell’area di Damasco

24 febbraio 2020 Nena News

Giornata ad altissima tensione quella vissuta ieri a confine tra la Striscia di Gaza e, nella notte, in Siria (a sud di Damasco) dove l’aviazione israeliana ha fatto sapere di aver colpito “decine di obiettivi” della fazione palestinese del Jihad Islamico in risposta ai suoi razzi lanciati nel pomeriggio di ieri verso il territorio israeliano.

L’esercito ha riferito di aver colpito nell’area di al-Adleyeh (Damasco) la principale base siriana del Jihad dove si sviluppano razzi. In questa zona, afferma Tel Aviv, avvengono anche le esercitazioni militari dei membri dell’organizzazione palestinese provenienti sia dalla Striscia di Gaza che da Libano e Siria. In un comunicato il Jihad Islamico ha riconosciuto l’uccisione di due suoi combattenti, Salim Salim (24 anni) e Ziad Mansour (23), e ha promesso che si vendicherà.

Israele ha inoltre fatto sapere che ieri pomeriggio il Jihad ha lanciato dalla Striscia di Gaza verso la parte meridionale del suo territorio circa 30 razzi e colpi di mortaio, gran parte dei quali stata intercettata dal sistema difensivo Iron Dome. Il lancio dei razzi era stata una risposta a quanto avvenuto ieri mattina al confine tra Gaza e Israele dove l’esercito ha ammesso di aver ucciso un membro del Jihad mentre “era intento a piantare un esplosivo lungo il confine”. “L’esercito risponderà in modo aggressivo alle attività terroristiche del Jihad islamico che mettono in pericolo i cittadini d’Israele e danneggiano la sua sovranità” si legge in una nota ufficiale dell’esercito. Quanto accaduto ad est di Khan Yunis (a sud della Striscia, assediata da oltre 10 anni dallo stato ebraico) però non può essere ridotto a questo scarno comunicato. In un video che ha fatto ben presto il giro della rete, infatti, si vede chiaramente come un bulldozer dell’esercito trascini e poi sollevi il corpo della vittima, Mohammad Ali al-Naim (27 anni). Una scena orribile che era stata preceduta poco prima dagli spari dei soldati israeliani verso almeno due palestinesi (rimasti feriti) che provavano a recuperare il corpo ormai senza vita di an-Naim.

L’esercito si è difeso: “Abbiamo notato due terroristi avvicinarsi alla barriera di sicurezza e che piazzavano una bomba lì vicino e pertanto i soldati hanno aperto il fuoco verso di loro”. Il Jihad, di cui an-Naim era membro, ha fatto sapere che “il sangue dei martiri non sarà vano”. Duro è stato il commento anche di Hamas che governa la Striscia da oltre 10 anni. Il suo portavoce Fawzi Barhoum ha detto che “il maltrattamento” del cadavere è “un altro odioso crimine che si aggiunge ai tanti orrendi crimini compiuti [da Israele] al popolo palestinese”. Il recupero del corpo senza vita di an-Naim rientra nel piano del ministro della Difesa israeliano Bennet di usare i corpi senza vita dei combattenti palestinesi come pedine di scambio nei negoziati per il rilascio di due israeliani e per riavere indietro i resti di due soldati israeliani che sono tenuti da Hamas. Come segno di vendetta per l’uccisione di an-Naim e per il barbaro trattamento del suo cadavere, il Jihad ha rivendicato gli attacchi di ieri verso il sud d’Israele (il primo lancio di razzi è avvenuto ieri verso le 17:30 ora locale, il secondo verso le 20, qualche altro razzo è stato poi sparato dopo le 21).

Nel pomeriggio della serata di ieri la tensione è salita alle stelle quando l’aviazione di Tel Aviv ha risposto ai razzi del Jihad colpendo più punti della Striscia di Gaza. I militari hanno detto che uno dei target era un sito dove i membri del Jihad si stavano preparando a lanciare razzi verso il territorio israeliano (il ministero della Salute di Gaza parla di 4 feriti nel raid). Secondo Israele, tra gli altri obiettivi colpiti ci sarebbero anche basi militari e depositi di armi del Jihad situati a Beit Lahiya (presa di mira la base di Hittin), Rafah (qui si riportano altri due feriti) e Khan Yunis.

La tensione resta alta al confine tra Gaza e il confine meridionale d’Israele al punto che l’esercito ha ordinato oggi la chiusura delle scuole nelle comunità israeliane vicino alla Striscia e nelle città di Ashkelon, Sderot e Netivot. Vietati anche raduni pubblici. Alla popolazione è permesso andare a lavorare solo se si trovano in prossimità di un rifugio anti-missile.

Gli attacchi di ieri dalla Striscia non hanno provocato feriti (solo qualche leggerissimo danno) perché la maggior parte di loro è stata intercettata dall’Iron Dome o è caduta in aree non abitate. Sirene di emergenza sono suonate diverse volte nell’area vicina al confine o non troppo lontana dalla Striscia. Migliaia di israeliani che vivono nella zona interessata si sono recati nei rifugi.

Il premier israeliano Netanyahu, il ministro della difesa Bennet e diversi membri dei servizi di sicurezza si sono incontrati nel quartier generale dell’esercito a Tel Aviv ieri notte per fare il punto della situazione e per programmare eventualmente un attacco di più ampia portata.

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Aggiungiamo come redazione di Zeitun  da Ruptly  il video del bulldozer che con la benna trascina il corpo del palestinese ucciso.




“Il Donald Trump che conosco”: il discorso di Abbas alle Nazioni Unite e la crisi della politica palestinese

Ramzy Baroud

21 febbraio 2020  – palestinechronicle.

Ha sprecato un momento prezioso, il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas, l’11 febbraio scorso quando avrebbe avuto la possibilità di correggere un errore storico e ribadire le priorità nazionali palestinesi al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con un discorso politico che fosse del tutto indipendente da Washington e dai suoi alleati.

Per molto tempo Abbas è stato ostaggio dello stesso discorso che definiva lui e la sua autorità come “moderati” agli occhi di Israele e dell’Occidente. Nonostante l’esplicito rifiuto da parte del leader palestinese dell’ “accordo del secolo” statunitense – che praticamente dichiara nulle le aspirazioni nazionali palestinesi – Abbas è ansioso di mantenere le su credenziali “moderate” il più a lungo possibile.

Certamente Abbas in passato ha tenuto molti discorsi alle Nazioni Unite e non è mai riuscito a impressionare i palestinesi. Questa volta, tuttavia, le cose avrebbero dovuto essere diverse. Washington non ha solo totalmente disconosciuto Abbas e l’ANP, ha anche rottamato il suo discorso politico sulla pace e sulla soluzione di due Stati. Inoltre, l’amministrazione Trump dà ufficialmente la sua benedizione a Israele perché annetta quasi un terzo della Cisgiordania, escluda Gerusalemme dalla trattativa ed elimini il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Invece di parlare subito con i leader dei vari partiti politici palestinesi e fare passi concreti per riattivare istituzioni politiche centrali ma inattive come il Consiglio Nazionale Palestinese (PNC) e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), Abbas ha preferito incontrare a New York l‘ex primo ministro della destra israeliana Ehud Olmert, e continuare a ripetere a pappagallo la sua dedizione nei confronti di un’epoca ormai passata.

Nel suo discorso alle Nazioni Unite, Abbas non ha detto nulla di nuovo – il che, in questo caso, è peggio che non dire nulla.

“Questo è l’esito del progetto che ci è stato presentato”, ha detto Abbas tenendo in mano la mappa di come sarebbe lo Stato palestinese secondo l’“accordo del secolo” di Donald Trump. “E questo è lo Stato che ci stanno dando”, ha aggiunto Abbas, definendo il futuro Stato “gruviera”, ovvero uno Stato frammentato da insediamenti ebraici, tangenziali e zone militari israeliane.

Perfino l’espressione “gruviera”, riportata da alcuni media come fosse una nuova frase in quel discorso assolutamente ridondante, è una vecchia definizione ripetutamente utilizzata dalla stessa leadership palestinese a partire dall’inizio del cosiddetto processo di pace, un quarto di secolo fa.

Abbas si è sforzato di apparire eccezionalmente risoluto, sottolineando alcune parole, come quando ha equiparato l’occupazione israeliana ad un sistema di apartheid. Il suo discorso, tuttavia, appariva poco convincente, carente e, a volte, senza senso.

Abbas ha parlato della sua grande “sorpresa” quando Washington dichiarò Gerusalemme capitale indivisa di Israele, trasferendo successivamente l’ambasciata nella città occupata, come se non ce ne fossero stati chiari segnali e in realtà la mossa dell’ambasciata non fosse uno dei principali impegni di Trump con Israele anche prima della sua inaugurazione nel gennaio 2017.

“E poi hanno tagliato gli aiuti finanziari che ci davano”, ha detto Abbas con voce lamentosa, riferendosi alla decisione nell’agosto 2018 degli Stati Uniti di tagliare i suoi aiuti all’ANP. “Ci sono stati tagliati 840 milioni di dollari”, ha detto. “Non so chi stia dando a Trump un consiglio così orribile. Trump non è così. Il Trump che conosco non è così,” ha detto con una singolare esclamazione Abbas, come per inviare un messaggio all’amministrazione Trump che l’Autorità Nazionale Palestinese ha ancora fiducia nell’opinione del Presidente degli Stati Uniti.

“Vorrei ricordare a tutti che abbiamo partecipato alla conferenza di pace di Madrid, ai negoziati di Washington e all’accordo di Oslo e al vertice di Annapolis sulla base del diritto internazionale”, ha raccontato Abbas, manifestando un rinnovato impegno in quella stessa agenda politica che non ha raccolto alcun risultato per il popolo palestinese.

Abbas ha poi continuato dipingendo una realtà immaginaria, dove la sua Autorità starebbe costruendo le “istituzioni nazionali di uno Stato rispettoso della legge, moderno e democratico, fondato sui valori internazionali, basato su trasparenza, responsabilità e lotta alla corruzione “.

“Sì”, ha sottolineato Abbas guardando il suo pubblico con serietà teatrale, “Siamo uno dei più importanti Paesi (al mondo) che sta combattendo la corruzione”. Il leader dell’ANP, quindi, ha invitato il Consiglio di Sicurezza a inviare una commissione per indagare sulle accuse di corruzione all’interno dell’ANP, un invito sconcertante e inutile, considerando che è la leadership palestinese che dovrebbe far appello alla comunità internazionale perché collabori a far rispettare le leggi internazionali e a por fine all’occupazione israeliana.

Si è proseguito così, con Abbas indeciso tra la lettura di note pre-scritte che non propongono nuove idee o strategie, e invettive inutili che riflettono il fallimento politico dell’ANP e la mancanza di immaginazione di Abbas.

Il presidente dell’ANP, ovviamente, si è premurato di offrire la sua abituale condanna del “terrorismo” palestinese promettendo che i palestinesi non faranno “ricorso alla violenza e al terrorismo indipendentemente dall’atto di aggressione contro di noi”. Ha assicurato al suo pubblico che la sua Autorità crede nella “pace e nella lotta alla violenza”. Senza pensarci, Abbas ha dichiarato la sua intenzione di proseguire sulla strada di una “resistenza popolare e pacifica” che, di fatto, non esiste da nessuna parte.

Questa volta il discorso di Abbas alle Nazioni Unite è stato particolarmente inappropriato. In effetti, è stato un fallimento sotto ogni aspetto. Il minimo che il leader palestinese avrebbe potuto fare sarebbe stato articolare un discorso politico palestinese potente e collettivo. Invece, le sue affermazioni sono state semplicemente un triste omaggio alla sua stessa eredità, piena di delusioni e inettitudine.

Presumibilmente, Abbas è tornato a Ramallah per salutare ancora una volta i suoi fan, sempre pronti e impazienti di sollevare manifesti del leader che invecchia, come se il suo discorso alle Nazioni Unite fosse riuscito a spostare fondamentalmente la dinamica politica internazionale a favore dei palestinesi.

Bisogna dire che il vero pericolo dell’ “accordo del secolo” non sono le effettive clausole di quel piano sinistro, ma il fatto che la leadership palestinese probabilmente troverà modo di coesistere con esso, a spese del popolo palestinese oppresso, finché i soldi dei donatori continueranno a fluire e finché Abbas continuerà a chiamarsi presidente.

– Ramzy Baroud è giornalista e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons” [Queste catene saranno rotte: storie palestinesi di lotta e ribellione nelle carceri israeliane], (Clarity Press, Atlanta). Il dr. Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), Istanbul Zaim University (IZU).

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Decenni dopo l’uccisione in California di un attivista palestinese americano, due sospettati del suo omicidio vivono tranquillamente in Israele

David Sheen

6 febbraio 2020 –The Intercept

Alex Odeh nacque nel 1944 nella Palestina del Mandato britannico da una famiglia del villaggio cisgiordano di Jifna, nei pressi di Ramallah, solo quattro anni prima della fondazione di Israele. Nel 1972 emigrò negli Stati Uniti, dove divenne portavoce della comunità araba americana, contestando l’immagine negativa di mediorientali e musulmani, che all’epoca era un luogo comune almeno quanto lo è oggi.

Odeh, direttore per la California meridionale dell’Arab-American Anti-Discrimination Committee [Comitato contro la Discriminazione degli Arabi Americani], o ADC, era noto per i suoi tentativi di creare ponti tra ebrei e arabi, ma il suo slancio era duramente osteggiato dai nazionalisti della comunità ebraica, che lo vedevano come una nascente minaccia.

Quando iniziò a sfidare il consenso a favore di Israele negli USA, organizzando manifestazioni contro l’invasione del Libano da parte di Israele nel 1982, l’ADC divenne un bersaglio per la destra ebraica. Nel 1984 membri dell’ADC ricevettero in continuazione telefonate minatorie da parte di una o più persone che si presentavano come leader della Jewish Defense League [Lega per la Difesa Ebraica], un movimento antiarabo guidato dal rabbino Meir Kahane. L’anno successivo, dopo che l’ADC pubblicò sul Washington Post annunci con cui tentava di convincere elettori e politici americani che Israele non avrebbe più dovuto ricevere le assegnazioni annuali di milioni di dollari in aiuti statunitensi all’estero, iniziarono aggressioni fisiche.

L’11 ottobre 1985 Odeh avrebbe dovuto parlare alla congregazione B’nai Tzedek, una sinagoga riformata [corrente progressista dell’ebraismo, nata in Germania nel XIX secolo, ndtr.]. Tuttavia quella mattina, quando entrò nell’ufficio dell’ADC a Santa Ana, in California, scoppiò una bomba. Morì in sala operatoria due ore dopo. Fu il secondo attacco dinamitardo contro l’ADC in soli due mesi.

Ore dopo l’uccisione di Odeh, l’omicidio venne giustificato dalla Jewish Defense League: “Non piango per il signor Odeh,” disse Irv Rubin, allora presidente nazionale della JDL. “Ha semplicemente avuto quello che meritava.”

Non venne effettuato alcun arresto. Nell’aprile 1994, quando Odeh avrebbe festeggiato il suo cinquantesimo compleanno, la città di Santa Ana gli eresse una statua per commemorare la sua vita e il suo lavoro. Due anni dopo la statua venne sfigurata e pochi mesi dopo fu di nuovo profanata da vandali che la cosparsero di secchiate di pittura rosso sangue.

Lo stesso anno l’FBI offrì una ricompensa di 1 milione di dollari per informazioni che portassero all’arresto e alla condanna degli assassini di Odeh. Finora non è stato rivendicato.

Sottrarsi alla giustizia

Baruch Ben-Yosef, che ha 60 anni, vive in una colonia per soli ebrei a sud di Betlemme. Ha fatto l’avvocato come membro dell’ordine degli avvocati israeliano per un quarto di secolo, sommando in quarant’anni comparizioni a due cifre di fronte alla Corte Suprema israeliana – come cliente, avvocato, querelante e difensore. In quel tempo ha anche presentato una denuncia contro molti primi ministri israeliani, compreso quello in carica, Benjamin Netanyahu.

Dopo aver terminato la scuola superiore nel Bronx ed essere emigrato subito in Israele, Ben-Yosef fu tra i primi ebrei a colonizzare i territori palestinesi che Israele occupò nel giugno 1967. Mesi dopo il suo arrivo, Ben-Yosef si arruolò nelle forze armate israeliane, prestando servizio nell’ormai disciolta unità commando Sayeret Shaked [unità delle forze speciali che dipendeva dal comando Sud dell’esercito israeliano, ndtr.], e continuò a far parte nella riserva fin oltre i trent’anni. Tuttavia, dopo che nel 1993 Israele firmò gli accordi di Oslo con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Ben-Yosef rifiutò di presentarsi per il servizio militare nella riserva.

Ben-Yosef è anche uno dei padri fondatori dell’attuale movimento israeliano ‘dominionista’ per il Tempio, che intende sostituire la Cupola della Roccia di Gerusalemme – uno storico santuario venerato dai musulmani e tra gli edifici più belli del Paese – con un tempio ebraico.

Negli Stati Uniti, dove Ben-Yosef è cresciuto ed è tornato a vivere all’inizio degli anni ’80, ha fatto parte della Jewish Defense League, il gruppo razzista e violento fondato da Kahane. Ben-Yosef è stato attivo nel movimento di Kahane anche in Israele, per cui è stato uno dei pochissimi cittadini ebrei sottoposti dallo Stato israeliano a detenzione amministrativa, una misura draconiana che praticamente viene applicata quasi unicamente ai palestinesi. Per aver progettato di far saltare in aria la Cupola della Roccia nel 1980 è stato in prigione per sei mesi con lo stesso Kahane. Ben-Yosef è stato incarcerato per altri sei mesi nel 1994, insieme agli altri dirigenti del movimento ultranazionalista Kach, un partito politico fondato da Kahane, dopo che il governo israeliano ha messo fuorilegge l’adesione a gruppi kahanisti.

Un altro membro della Jewish Defense League è stato Keith Israel Fuchs, cresciuto a Brooklyn, New York, prima di spostarsi a Santa Monica, California. Dopo le scuole superiori Fuchs è emigrato nella colonia di Kiryat Arba in Cisgiordania, dove il rabbino Kahane e i suoi seguaci avevano creato una comunità all’interno di un’altra comunità.

Nel febbraio 1983, durante la festa ebraica di Purim, Fuchs sparò con un Kalashnikov contro un’auto palestinese in transito sulla strada fuori da Kiryat Arba. Il New York Times scrisse che Fuchs venne arrestato per “aver sparato contro un’automobile araba che lo aveva bagnato passando in una pozzanghera.”

Un rapporto della vice procuratrice generale israeliana Yehudit Karp pubblicato l’anno precedente evidenziò che i coloni ebrei avevano pepetrato a lungo e senza conseguenze violenze contro i palestinesi del posto, ma gli attacchi compiuti da Fuchs e da altri coloni quella stessa settimana preoccuparono importanti dirigenti israeliani perché avevano comportato l’uso di armi da fuoco.

In seguito a ciò il nuovo ministro della Difesa Moshe Arens ordinò la demolizione del nuovo quartiere kahanista, e Fuchs venne condannato a 39 mesi di carcere, che secondo una notizia giornalistica era fino a quel momento “la più lunga condanna di sempre per un vigilante ebreo.” La sua carcerazione venne alla fine ridotta a 22 mesi, a condizione che passasse fuori da Israele il tempo rimanente della sua pena originaria.

Come previsto dalla sua libertà vigilata, nel dicembre 1984 Fuchs tornò negli Stati Uniti. Vi rimase fino al settembre 1986, più o meno un anno dopo l’assassinio di Odeh.

Circa 35 anni dopo né lui né Ben-Yosef sono stati imputati per il delitto che almeno tre ufficiali di polizia sospettano essi abbiano commesso negli Stati Uniti: l’assassinio di Alex Odeh.

Doppia identità

Ben-Yosef era nato negli Stati Uniti come Andy Green, e venne a lungo ricercato dall’FBI per essere interrogato riguardo all’uccisione di Odeh.

Secondo tre ufficiali di polizia in pensione che si occuparono del caso e sono stati intervistati da The Intercept, e da allora anche da molti altri servizi giornalistici, Ben-Yosef e Fuchs (che in Israele è noto con il suo nome ebraico, Israel) furono identificati come sospetti subito dopo l’assassinio di Odeh. Gli ufficiali di polizia – della polizia locale, due dei quali hanno prestato servizio nell’unità operativa speciale congiunta contro il terrorismo dell’FBI – hanno parlato a The Intercept in forma anonima perché l’inchiesta rimane aperta.

È un caso aperto. Abbiamo parecchi casi di omicidio aperti e cose del genere. Ma questo era frustrante perché avevamo nomi di sospetti,” ha detto a The Intercept un ufficiale di polizia in pensione che lavorò al caso di Odeh per più di un decennio, citando Ben-Yosef come sospetto, insieme ad altri due seguaci di Kahane: Keith Israel Fuchs e Robert Manning. “Sappiamo chi lo ha fatto. Sappiamo dove vivono. Sappiamo perché l’hanno fatto e come.”

Nei decenni seguiti all’uccisione di Odeh, sono emerse molte prove di dominio pubblico che Andy Green, nato negli Stati Uniti, è la stessa persona del cittadino israeliano Baruch Ben-Yosef. Quattro giornali israeliani che hanno informato sulla sua incarcerazione nel 1980 hanno fatto riferimento a lui come a Baruch Green Ben-Yosef. Viene citato con entrambi i nomi nei documenti del 1994 della Knesset e del Senato USA. Un articolo del “Wall Street Journal” pubblicato il 18 maggio 1994 e inserito nella documentazione del Volume 140, numero 62 del Congresso, include un rapporto sulle attività del movimento del Tempio di Keith Fuchs e di “Baruch Ben-Yosef, nato Andy Green.” Il Wall Street Journal racconta anche che Fuchs era stato “indagato ma mai imputato dal Federal Bureau of Investigation [FBI] in rapporto con una serie di attentati dinamitardi negli USA, compresa la morte di un attivista arabo statunitense e di un sospetto criminale di guerra nazista.” Negli articoli americani e israeliani sugli stessi avvenimenti, come il suo arresto del 1983 in Israele e l’assassinio di Odeh, Fuchs è stato identificato come Keith Fuchs, Israel “Keith” Fuchs, Yisrael Fuchs e Israel Fox.

Nel gennaio 1993 il Jerusalem Post [giornale israeliano di destra, ndtr.] scrisse che venticinque anni fa, durante un incontro di sostenitori delle colonie, lo stesso Ben-Yosef ammise si essere ricercato dall’FBI in relazione con l’assassinio di Alex Odeh. Secondo il Post, Ben-Yosef disse che l’FBI aveva scorrettamente dato la caccia a Manning per l’uccisione nel 1985 di Odeh e di un presunto criminale di guerra nazista, e Ben-Yosef sostenne l’innocenza di Manning. L’articolo prosegue: “Ben-Yosef affermò di essere anche lui ricercato dall’FBI” riguardo a quegli omicidi e di essere stato “maltrattato” negli USA da un agente dell’FBI. Il Post notò anche che Ben Yosef era “noto negli USA come Andy Green.”

Secondo un articolo della “Jewish Telegraphic Agency” [agenzia di stampa USA che si rivolge ai mezzi di comunicazione ebraici nel mondo, ndtr.] pubblicato lo stesso anno, Ben-Yosef riconobbe pubblicamente di essere ricercato dalla polizia USA, benché le sue affermazioni non facessero esplicito riferimento all’uccisione di Odeh.

Ben Yosef, direttore esecutivo della yeshiva [scuola religiosa, ndtr.] Monte del Tempio e figura centrale nell’organizzazione “Kach”, ha ammesso di essere ricercato dall’FBI negli Stati Uniti per il suo coinvolgimento nella milizia “Jewish Defense League” negli anni ’70 e ’80,” informò la JTA nel 1993, dopo che Ben-Yosef e Fuchs vennero arrestati in Israele con il sospetto di aver progettato attacchi contro palestinesi.

Ben-Yosef/Green, Fuchs e Manning nel 1988 vennero identificati come sospettati per l’omicidio di Odeh dal giornalista Robert Friedman, che scriveva per il “Village Voice” [storico settimanale newyorkese di tendenza progressista, ndtr.] e per il “Los Angeles Times” nel 1990. Un ritratto approfondito di Ben-Yosef pubblicato dal “Jerusalem Post” [quarto quotidiano più venduto negli USA, ndtr.] nel 1994 ribadì le accuse contro di lui.

Secondo l’articolo di Friedman sul Los Angeles Times, L’FBI identificò Fuchs, Ben-Yosef/Green e Manning come i principali sospettati nell’uccisione di Odeh prima ancora che le rovine contorte degli uffici dell’ADC venissero portate via. “I nomi di Fuchs, Green e Manning vennero citati come gli attentatori mentre eravamo ancora davanti dall’edificio fatto esplodere con la dinamite,” disse un ufficiale della polizia californiana al L.A. Times nel 1990.

Manning venne estradato negli Stati Uniti nel 1994 per un altro omicidio, non in rapporto diretto con attività di estrema destra o con le politiche di potere ebraiche e attualmente sta scontando un ergastolo per quel crimine in un penitenziario federale dell’Arizona. Fuchs invece ha mantenuto un profilo basso negli ultimi 25 anni, ma The Intercept ha accertato che vive in una piccola colonia a sud di Betlemme, continuando a partecipare a incontri politici privati dell’estrema destra israeliana. La strada in cui vive è l’unica del Paese che prende il nome dal villaggio di Jifna, in cui nacque e visse Alex Odeh.

Si ritiene che i responsabili siano scappati in Israele”

Nel 1986 Ben-Yosef e Fuchs lasciarono gli Stati Uniti per andare in Israele e l’anno seguente il ministero della Giustizia [USA] chiese al governo israeliano di aiutarlo nell’inchiesta sull’uccisione di Odeh. Venti anni dopo la morte di Odeh, il ministero della Giustizia continua a cercare indizi. Nel 2006 l’allora procuratore generale USA Alberto Gonzales si recò a Tel Aviv e chiese alla sua controparte israeliana, l’allora ministro della Giustizia Haim Ramon, di aiutarlo in questo caso.

Si ritiene che i responsabili siano scappati in Israele. Una richiesta di assistenza legale reciproca” – una procedura che consente uno scambio di informazioni nel corso di un’inchiesta penale – “è stata presentata al GOI (governo di Israele), e la mancanza di risposta rimane una questione che preoccupa l’FBI,” sottolineò un telegramma diplomatico due giorni dopo l’incontro del 28 giugno.

Il telegramma, pubblicato da WikiLeaks nel 2011, nota che Ramon si impegnò “ad occuparsi del caso di Alex Odeh.” Ramon diede le dimissioni dal suo incarico circa due mesi dopo il suo incontro con Gonzales e non è chiaro cosa sia successo poi con l’inchiesta in Israele. In una recente intervista, Ramon ha detto a The Interceptor di non ricordare niente riguardo al caso di Odeh. “È una delle questioni in cui non fui molto coinvolto,” ha affermato, “e non posso rispondere, non so cosa sia successo con questo caso.” Gonzales si è rifiutato di fare dichiarazioni.

Anche le stesse affermazioni di Ben-Yosef in video caricati su YouTube da un attivista kahanista negli ultimi anni indicano che egli è Andy Green. Il racconto di Ben-Yosef del suo arresto corrispondono al racconto di Robert Friedman dello stesso incidente, attribuita ad Andy Green nella biografia su Kahane “The False Prophet” [Il falso profeta] scritta da Friedman.

Un portavoce del dipartimento di polizia di Santa Ana ha detto a The Intercept che la documentazione del dipartimento sul caso ancora aperto è stata trasferita all’FBI, che è l’ente che se ne occupa. L’FBI non risponde alle richieste di commentare la situazione dell’indagine sull’uccisione di Odeh. Alla richiesta di commentare i risultati dell’inchiesta di The Intercept, Ben-Yosef ha dichiarato: “Nego categoricamente ogni rapporto con gli argomenti citati nella sua lettera,” e non ha risposto ad altre domande. Interpellato per telefono per commentare, Fuchs ha detto a The Intercept che non rilascia interviste. In seguito ha confermato di aver ricevuto una richiesta dettagliata inviata con WhatsApp, ma non ha risposto alle domande.

Nonostante la consistente documentazione apparsa nella stampa israeliana, uno degli apparati di intelligence più avanzati del mondo ha consentito a Ben-Yosef e a Fuchs di rimanere a piede libero, sfuggendo alle autorità USA.

La nostra politica è di collaborare totalmente con gli assassini”

Negli anni immediatamente successivi alla morte di Odeh, i continui appelli del governo USA alle forze dell’ordine israeliane perché contribuissero a risolvere il caso sono stati vani. Secondo un articolo pubblicato quell’anno dal Washington Post, nel 1987 l’allora vicedirettore dell’FBI Floyd Clarke inviò una memoria interna all’allora vicedirettore esecutivo dell’ufficio Oliver Revell, lamentando il fatto che i suoi ripetuti tentativi di conoscere cosa Israele sapesse dei sospetti attentatori non fossero approdati a nulla.

Attraverso l’FBIHQ [quartier generale dell’FBI, ndtr.] sono stati trasmessi al Servizio Segreto israeliano (ISIS) a Washington DC numerosi indizi,” scrisse Clark a Revell nella sua memoria, stralci della quale vennero pubblicati sul Village Voice. “La sezione terrorismo ha avuto numerosi incontri con rappresentanti (israeliani) a Washington, durante i quali sono state sollevate le nostre preoccupazioni relative alla loro gestione delle nostre richieste. Benché queste discussioni a volte abbiano sortito un provvisorio “fervore” di attività da parte loro, non si è concretizzato nessun miglioramento sostanziale nel flusso di informazioni.”

Durante una visita di stato ufficiale a Washington D.C., dieci anni dopo, a Netanyahu venne fatta una domanda diretta riguardo al caso di Odeh. Durante un incontro del 21 gennaio 1998 al National Press Club [sede dell’associazione dei giornalisti USA, ndtr.] Netanyahu – allora al suo primo mandato come capo del governo israeliano – affermò che Israele non aveva ricevuto nessuna richiesta ufficiale da parte delle autorità USA per indagare sull’argomento.

Non sono al corrente di richieste di estradizione riguardanti l’uccisione di Alex Odeh. Sono sicuro che, se mi fossero state presentate, le avrei prese in considerazione,” disse Netanyahu. Inquadrando la sua risposta nei termini di una richiesta di estradizione, Netanyahu equiparò scorrettamente la partecipazione a un’indagine condividendo informazioni alla consegna di sospetti agli Stati Uniti per un processo, una cosa che i poliziotti probabilmente non avevano abbastanza prove per fare.

A quanto pare Keith Fuchs e Andy Green sono ancora a Kiryat Arba,” replicò Sam Husseini di ADC, in riferimento alla colonia cisgiordana, covo delle attività dei kahanisti, della zona di Hebron. “E ci è stato detto– dato che siamo l’organizzazione coinvolta –che il ministero della Giustizia non ha affatto ricevuto una piena collaborazione da parte del governo israeliano a questo proposito.”

Con quello che potrebbe essere una sorta di lapsus freudiano, Netanyahu stranamente disse ad Husseini: “Le assicuro che la nostra politica è di collaborare totalmente con gli assassini.”

Il primo ministro israeliano si corresse subito facendo assicurazioni di prammatica che i funzionari di polizia israeliani avrebbero preso in carico il caso senza alcun pregiudizio antipalestinese.

Nelle settimane immediatamente precedenti l’apparizione di Netanyahu al National Press Club, Baruch Ben-Yosef era comparso parecchie volte di fronte alla Corte Suprema di Israele. Ancora una volta nel novembre 1998, dieci mesi dopo la conferenza stampa di Netanyahu a Washington, Ben-Yosef rappresentò la spia [israeliana] Jonathan Pollard incarcerata negli USA in un’azione legale davanti alla Corte Suprema contro lo stesso Netanyahu, allora ancora primo ministro.

Essendo uno dei più reazionari militanti ebrei di Israele, le attività di Ben-Yosef su entrambe le coste dell’Atlantico erano probabilmente ben note ai capi dello Shin Bet e del Mossad, i servizi di sicurezza israeliani interno ed estero, che informavano entrambi direttamente Netanyahu.

Anche due dei parlamentari compagni di partito di Netanyahu nel Likud dell’epoca, Limor Livnat e Uzi Landau – allora rispettivamente ministro delle Comunicazioni e capo della commissione Affari Esteri e Difesa – avrebbero dovuto essere al corrente della doppia identità di Ben-Yosef e di dove egli si trovasse. Durante un dibattito alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] il 26 aprile 1994 sulla detenzione amministrativa applicata contro Ben-Yosef, così come contro il resto della dirigenza kahanista, l’allora ministro degli Interni di Israele Moshe Shahal disse a Livnat e a Landau che la misura era di fatto già stata presa nei confronti di Ben-Yosef più di un decennio prima. Disse che era stato fatto da un governo guidato dal loro stesso partito, il Likud: “Nel 1980, contro il rabbino Kahane, contro il rabbino Baruch Ben Yosef Green.”

L’ufficio di Netanyahu non ha risposto ad una richiesta di commento.

Colono all’avanguardia, militante antiarabo e avvocato di estrema destra

Negli ultimi anni Fuchs, che lavora come guardia di sicurezza nelle colonie, è stato coinvolto in tentativi di creare leggi di destra. Nel 2013, insieme a parecchi affiliati a Komemiut, un gruppo di estrema destra legato agli insegnamenti di Meir Kahane, ha co-fondato l’influente Ong Meshilut, il Movimento per il Governo e la Democrazia. Meshilut ha stilato varie leggi che sono state presentate da deputati del governo israeliano. Nel 2015 Fuchs, insieme al direttore e al consulente giuridico di Meshilut, ha partecipato a un incontro della Commissione Interni del parlamento israeliano.

Meshilut sostiene di voler riformare la burocrazia del Paese e renderla più sensibile ai desideri dei cittadini israeliani. Tuttavia i critici chiedono se Meshilut, come lo stesso Kahane e il gruppo Komemiut a cui è stata affiliata metà dei fondatori di Meshilut, stia cercando di indebolire il potere giudiziario israeliano, in modo che il suo regime prevalentemente laico possa essere trasformato in rigidamente religioso.

Nel frattempo Ben-Yosef lavora ancora per rimpiazzare il santuario religioso musulmano al centro della Città Vecchia con uno ebraico, ma ora lo fa come avvocato-attivista.

Fin da quando si è laureato in legge all’università Bar Ilan all’inizio degli anni ’90, Ben-Yosef ha rappresentato se stesso e altri seguaci di Kahane nei tribunali israeliani, difendendoli da varie accuse penali e portando in giudizio lo Stato per rivendicare i diritti degli ebrei sulla Spianata delle Moschee, compreso il diritto di sacrificarvi animali.

Noto agli ebrei come il Monte del Tempio, il sito nel lontano passato era sede di templi ebrei, l’ultimo dei quali venne distrutto dall’esercito romano circa 2.000 anni fa. Seicento anno dopo nello stesso posto venne costruito il Qubbat al-Sakhrah con la cupola d’oro, o Cupola della Roccia, e pochi anni dopo venne aggiunta la vicina moschea di Al-Aqsa, il terzo luogo più sacro per i musulmani. I due edifici e il complesso di Al-Aqsa, circa 14 ettari, che li contiene sono un potente simbolo del nazionalismo palestinese.

Ben-Yosef ha lavorato nel gruppo di difesa legale di altri seguaci di Meir Kahane nati negli Stati Uniti, che pianificarono attacchi armati sulla Spianata delle Moschee: Yoel Lerner e Alan Goodman. Nel 1975, nel 1978 e nel 1982 i piani di Yoel Lerner per far esplodere la Cupola della Roccia vennero bloccati in tempo dalla polizia israeliana. Ma in seguito, nel 1982, Alan Goodman cercò di farsi largo nel luogo sacro e di farvi irruzione con la sua mitragliatrice dell’esercito israeliano. La sua furia lasciò due palestinesi uccisi e 11 feriti. (Ben-Yosef difese Goodman nel tentativo riuscito di ridurre la sua condanna riguardo a queste uccisioni. Difese Lerner in un caso non correlato).

Lerner venne condannato a due anni e mezzo di carcere per il suo tentato attacco del 1982, e Goodman venne condannato all’ergastolo, ma la sua condanna venne in seguito commutata in 15 anni di prigione.

In conferenze caricate negli ultimi anni su un canale kahanista di Youtube prima che venisse chiuso a dicembre, Ben-Yosef ha continuato a chiedere che una manifestazione di massa di ebrei prenda il controllo del Monte del Tempio, cacci i musulmani e demolisca le loro moschee.

Parlando a seguaci di Meir Kahane nel 2015, nel venticinquesimo anniversario dell’uccisione di Kahane, Ben-Yosef tenne una conferenza presso la yeshiva dell’Idea Ebraica, il seminario fondato da Kahane a Gerusalemme: “Tutta la questione si riduce a una sola cosa, che si chiama Monte del Tempio, HAR HABAYIT. L’AM HA’HAMOR, la Nazione di asini che vi si trova, capisce che è entrata in ebollizione,” ha detto Ben-Yosef del popolo palestinese. “Quindi tutto quello che il governo, la polizia e chiunque altro stanno cercando di fare è di calmare la cosa, non è quello che vogliamo. Qui non vogliamo niente che calmi la situazione! Proprio il contrario!”

In un’altra conferenza di Ben-Yosef postata su YouTube, approfondisce lo stesso tema: “Come dimostriamo la nostra fede in Hashem (dio)? Come santifichiamo il suo nome e dimostriamo la nostra fede? B’GERUSH HA’ARAVIM – espellendo gli arabi – e TIHUR HAR HABAYIT – purificando il Monte del Tempio! Eliminando le moschee dal Monte del Tempio! Se credete veramente in Hashem, questo è quello che dovete fare!”

Oggi Ben-Yosef continua ad esercitare come avvocato, lavorando in un ufficio nel centro di Gerusalemme e fa regolarmente pellegrinaggio all’Haram al-Sharif, o Monte del Tempio, il centro dei suoi obiettivi politici e religiosi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 4 – 17 febbraio 2020

Il 6 febbraio, in tre distinti attacchi e presunti attacchi palestinesi, due palestinesi sono stati uccisi e 14 soldati israeliani sono rimasti feriti

[segue dettaglio]. Nella Città Vecchia di Gerusalemme, un palestinese 45enne, cittadino israeliano, dopo aver aperto il fuoco ed aver ferito un agente di polizia di frontiera, è stato ucciso dalle forze di polizia israeliane. A Gerusalemme Ovest, un palestinese ha investito con la sua auto un gruppo di soldati israeliani, ferendone 12; l’uomo è stato successivamente arrestato al bivio di Gush Etzion (Hebron). Nello stesso giorno, il 6 febbraio, nei pressi del villaggio di Deir Ibzi (Ramallah), palestinesi, secondo quanto riferito, hanno sparato contro soldati israeliani, ferendone uno; il 17 febbraio, l’esercito israeliano ha comunicato di aver trovato il corpo di un presunto attentatore: l’uomo sarebbe morto per le ferite riportate durante lo scontro a fuoco con i soldati israeliani. In un ulteriore episodio, accaduto il 17 febbraio nella città di Hebron, ad un checkpoint nell’area controllata da Israele, un palestinese ha tentato di pugnalare dei soldati israeliani ed è stato arrestato; non sono stati segnalati feriti.

Il 6 febbraio, in scontri scoppiati durante una demolizione “punitiva” nella città di Jenin, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo due palestinesi e ferendone altri nove. Una delle vittime è un 19enne e l’altra un poliziotto palestinese che, secondo quanto riferito, al momento degli scontri si trovava all’interno della stazione di polizia. Secondo fonti israeliane, durante gli scontri in questione, palestinesi hanno sparato e lanciato due ordigni esplosivi contro i soldati; non sono stati segnalati ferimenti di israeliani.

In Cisgiordania, durante molteplici scontri scoppiati in risposta al piano americano per il Medio Oriente, annunciato il 28 gennaio, sono stati uccisi dalle forze israeliane altri due palestinesi e oltre 100 sono rimasti feriti. Le due vittime sono un minore di 17 anni, ucciso nella città di Hebron il 5 febbraio, e un 19enne, ucciso il 7 febbraio vicino a un cancello della Barriera, nei pressi del villaggio di Qaffin (Tulkarm). Altri scontri, con gran numero di feriti, sono stati registrati vicino al checkpoint di Beit El / DCO (Ramallah), all’ingresso della città di Gerico, nel villaggio di Beita (Nablus), e nelle città di Al ‘Eizariya e Abu Dis (governatorato di Gerusalemme). Tra i feriti ci sono 21 minori. Oltre il 70% dei feriti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeno, il 24% è stato colpito da proiettili di gomma e il 2% da proiettili di arma da fuoco.

In altri scontri, registrati durante il periodo di riferimento, altri 138 palestinesi, tra cui sette minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. Oltre il 60% di questi feriti (88) si sono avuti durante scontri scoppiati nel contesto di tre operazioni di ricerca-arresto condotte a Beit Jala (Betlemme) a seguito del presunto investimento volontario del 6 febbraio [vedi 1° paragrafo]. Il 24% [dei 138 feriti] sono stati registrati durante le proteste settimanali nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya) ed i rimanenti in altri scontri; tra cui [quello avvenuto durante] il funerale del poliziotto ucciso nella città di Jenin [vedi 2° paragrafo]. Questi episodi portano a sei il numero di palestinesi uccisi da forze israeliane in Cisgiordania e Israele ed a 623 il numero di feriti dall’inizio del 2020.

Il 15 febbraio, nel quartiere di Al Isawiya a Gerusalemme Est, mentre stava tornando a casa da scuola, un ragazzo palestinese di 9 anni è stato colpito ad un occhio da un proiettile di gomma sparato da un poliziotto israeliano. Il ragazzo è rimasto ferito in modo grave ed ha perso l’uso dell’occhio. Al momento dell’accaduto non risulta fossero in corso scontri. Le autorità israeliane hanno annunciato l’apertura di un’indagine penale. Dalla metà del 2019, ad Al Isawiya sono in corso consistenti operazioni di polizia che, per almeno 18.000 residenti, sono causa di tensioni e disagi quotidiani.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 135 operazioni di ricerca-arresto, arrestando 132 palestinesi, tra cui otto minori. La maggior parte delle operazioni sono state effettuate nel Governatorato di Ramallah (34), seguito dai Governatorati di Hebron (30) e Gerusalemme (26).

È proseguito, da Gaza verso Israele, il lancio di proiettili, nonché di fasci di palloncini recanti esplosivo; sia i proiettili che i palloncini sono atterrati in aree aperte all’interno di Israele, o sono stati intercettati in aria. Nella città di Netivot, due israeliani sono rimasti feriti mentre correvano verso un rifugio. Questi episodi sono stati seguiti da attacchi aerei israeliani contro strutture militari di Gaza; non sono state segnalate vittime, ma nel Campo Profughi Beach è stata danneggiata una conduttura per lo scarico in mare dell’acqua piovana.

In almeno 53 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti in aree [di Gaza] adiacenti alla recinzione perimetrale israeliana ed al largo della costa di Gaza [cioé, in “Aree ad Accesso Riservato”, vietate ai palestinesi]; un pescatore palestinese è rimasto ferito e due barche sono state danneggiate dalle forze navali israeliane. In tre occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza (a Beit Lahia, al Campo di Al Maghazi e Khan Younis) ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o costretto i palestinesi a demolire 24 strutture, sfollando 23 persone e causando ripercussioni su altre altre 88 [segue dettaglio]. Tredici delle strutture demolite, di cui tre precedentemente fornite come aiuto umanitario, erano situate in Area C. Tra i casi più rilevanti, due si sono verificati vicino alla città di Hebron (Al Hijra) ed a Deir Qaddis (Ramallah), dove sono state demolite tre strutture di sostentamento, due locali ad uso agricolo e due latrine. Sempre in Area C, nella città di Hebron, le autorità israeliane hanno demolito una abitazione ed una latrina fornite come assistenza umanitaria, sfollando una famiglia di sette persone. Le restanti undici strutture colpite si trovavano a Gerusalemme Est; cinque di queste sono state demolite dai proprietari, a seguito degli ordini di demolizione.

Il 6 febbraio, nella città di Jenin, per la seconda volta le autorità israeliane hanno demolito una casa per motivi “punitivi”, sfollando sette persone, tra cui due minori. La casa apparteneva alla famiglia di un palestinese, attualmente in carcere, che, nel gennaio 2018, partecipò ad un attacco in cui fu ucciso un colono israeliano. Dopo la prima demolizione, avvenuta il 23 aprile 2018, la casa era stata ricostruita.

Cinque attacchi, attribuiti a coloni israeliani, hanno provocato il ferimento di tre palestinesi e danni a proprietà palestinesi [segue dettaglio]. Il 16 febbraio, coloni israeliani armati hanno fatto irruzione nel villaggio di Ein ar Rashash (Ramallah), dove hanno aggredito e ferito tre residenti palestinesi ed hanno danneggiato la loro casa. Secondo fonti locali palestinesi, in due episodi separati, coloni israeliani hanno vandalizzato almeno 5 ettari di coltivazioni nel villaggio di Iskaka (Salfit), colpendo i mezzi di sussistenza di sette famiglie, mentre, nel villaggio di Beitillu (Ramallah), hanno vandalizzato 30 ulivi. Nei villaggi di Deir Dibwan e Beitin (entrambi a Ramallah), coloni israeliani hanno vandalizzato 15 veicoli di proprietà palestinese e due case.

Secondo fonti israeliane, a seguito di lanci di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro auto percorrenti strade della Cisgiordania, tre israeliane (una ragazza e due donne) sono rimaste ferite e almeno 12 veicoli israeliani sono stati danneggiati.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Secondo quanto riferito, in risposta alla recente diminuzione del lancio di razzi e palloni incendiari da Gaza, il 18 febbraio le autorità israeliane hanno ampliato da 10 a 15 miglia nautiche la zona di pesca consentita [ai pescatori palestinesi] al largo della costa meridionale; hanno inoltre riattivato 500 permessi di uscita per le persone classificate come “uomini d’affari”.

Il 19 febbraio, il Comune di Gerusalemme ha annunciato che fermerà per sei mesi la demolizione di case nel quartiere di Al Isawiya, nella parte orientale di Gerusalemme. Dall’agosto 2019, ad Al Isawiya sono state demolite tredici strutture, di cui sette abitative, e per decine di altre sono in corso ordini di demolizione.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali. Il neretto è di OCHAoPt.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it