Il diritto condizionato alla salute in Palestina

Yara Asi

30 giugno 2019 – Al Shabaka

Nota redazionale: nonostante l’articolo che segue risalga al giugno 2019, riteniamo utile ed interessante proporlo ai lettori in quanto di evidente attualità riguardo all’emergenza sanitaria che si profila a causa dell’epidemia di coronavirus che rischia di espandersi anche nei territori palestinesi e di mettere in crisi un sistema sanitario, ma anche economico, sociale e politico già gravemente segnato all’occupazione e dall’assedio israeliani.

Salute e cure sanitarie nei TPO

L’attuale sistema sanitario dei Territori Palestinesi Occupati (TPO), creato nel 1994 come parte degli accordi di Oslo, è un settore frammentato, formato dal Ministero della Salute palestinese (MdS), da Ong, dall’UNRWA [commissione ONU per i rifugiati palestinesi, ndtr.] e da strutture private. La qualità delle cure sanitarie varia in base alle possibilità della struttura di acquisire risorse ed avere accesso a servizi come elettricità ed acqua. Le differenze nell’accessibilità, esacerbate da ostacoli economici e di altro tipo alle cure come l’ineguale copertura sanitaria e la segregazione geografica, ha segnato per decenni il sistema palestinese delle cure mediche.

Nonostante un carente sistema sanitario, i palestinesi registrano uno dei migliori risultati rispetto ad altri Paesi arabi quanto agli indici di aspettativa di vita e mortalità materna, infantile e minorile. Gli alti livelli di scolarità nei TPO e gli sforzi del MdS, per quanto limitati, per garantire cure fondamentali come le vaccinazioni, sono i probabili fattori che, combinati con la diffusa corruzione del settore sociale e gli scarsi servizi sanitari offerti in tutto il Medio Oriente, spiegano questi risultati. Al contempo i palestinesi vivono in media 10 anni in meno rispetto agli israeliani, compresa la popolazione di coloni che vive nello stesso territorio. I palestinesi registrano una mortalità materna e infantile da quattro a cinque volte superiore a quella degli israeliani, che inoltre ricevono vaccinazioni, ad esempio contro la varicella e la polmonite, a cui i palestinesi generalmente non hanno accesso. Persino i palestinesi cittadini di Israele in genere stanno peggio rispetto alla popolazione ebraica, con un tasso più alto di malattie croniche.

Il blocco di Gaza ha portato a dati sanitari peggiori rispetto alla Cisgiordania, così come a un numero percentualmente minore di letti in ospedale, di infermieri e di medici. A Gaza buona parte delle carenze mediche hanno poco a che fare con la mancanza di risorse a disposizione e sono invece il risultato diretto di fattori politici. Per esempio, a parte una limitata quantità di cibo o di altre necessità umanitarie, Israele in genere non consente l’importazione di cemento o altri materiali necessari per la ricostruzione delle infrastrutture danneggiate e degli edifici sanitari distrutti dagli attacchi israeliani. Persino l’importazione delle attrezzature necessarie è difficile, soprattutto per prodotti considerati da Israele potenzialmente pericolosi nelle mani di Hamas, come le attrezzature radiologiche o le batterie utilizzate per supportare i generatori degli ospedali durante le interruzioni di elettricità.

La carenza di batterie, insieme alla scarsità di combustibile e alle limitazioni imposte alla sua importazione, comporta anche il fatto che il personale ospedaliero debba fare molta attenzione nell’uso dell’energia. Nel settembre 2018 il direttore generale del complesso ospedaliero Al-Shifa a Gaza City ha segnalato che la mancanza di elettricità stava esaurendo le riserve di combustibile che l’ospedale usava per i generatori di energia per i pazienti in dialisi, con necessità di interventi chirurgici o che avevano bisogno di trattamenti intensivi. È frequente vedere presso l’unità di terapia intensiva neonatale (UTIN) di Al-Shifa diversi neonati raggruppati in incubatrici che dovrebbero ospitarne uno solo. I medici di Gaza raccontano che a volte non sono neanche in grado di lavarsi le mani per la mancanza di acqua o di elettricità.

Nel 2018 l’ospedale Durrah di Gaza City è stato obbligato a chiudere il servizio di rianimazione e i reparti ad esso collegati per massimizzare l’accesso all’elettricità, che a un certo punto era di sole quattro ore al giorno. Altre 19 strutture sanitarie a Gaza hanno dovuto chiudere a causa della mancanza di elettricità e della scarsità di combustibile per i generatori.

A Gaza le scorte e le medicine fondamentali necessarie a qualunque normale struttura sanitaria sono carenti, soprattutto con l’incremento di pazienti con traumi dovuti alla Grande Marcia del Ritorno. In tutti i TPO i medici avvertono che a causa della carenza di medicine sono possibili conseguenze catastrofiche, tra cui lo scoppio di “supervirus” resistenti agli antibiotici, in particolare quando siano accompagnati dalla mancanza di guanti, camici e pastiglie disinfettanti al cloro. A Gaza nei soli primi due mesi del 2018, a causa della mancanza di farmaci per le vie respiratorie, sono morti sei neonati.

Persino quando ci sono i fondi per una struttura di alto livello, gli ostacoli politici restano. Recentemente i donatori hanno raccolto milioni di dollari per l’ospedale universitario nazionale An-Najah a Nablus, il primo e unico ospedale universitario nei TPO, che dispone di una delle dotazioni di apparecchiature mediche più avanzate. Tuttavia Israele ha bloccato l’importazione di uno degli impianti per la TAC utilizzato per diagnosticare i tumori, per il quale erano già stati raccolti i fondi, sostenendo che ci fosse il rischio di un “uso improprio” da parte dei palestinesi. Inoltre l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), che avrebbe dovuto pagare i costi operativi dell’ospedale, a causa della mancanza di fondi è in debito dei soldi del progetto. Con l’appoggio della Turchia, avrebbe dovuto essere costruito l’ospedale Al-Sadaqa come parte dell’università islamica di Gaza, ma è stato rimandato per anni a causa del blocco israeliano.

Mentre le strutture private specializzate spesso riescono ad importare apparecchiature avanzate per le diagnosi, molti palestinesi non possono permettersi di pagare quei servizi, oppure i macchinari non funzionano a causa della manutenzione carente e della difficoltà di ottenere permessi per i pezzi di ricambio. Gli ospedali governativi possono offrire servizi a più cittadini, ma mancano comunque delle risorse per conservare o rinnovare la tecnologia che importano. Uno studio del 2018 degli ospedali pubblici di Gaza ha rilevato che dei sette apparecchi per la Tac a disposizione nel territorio assediato molti erano regolarmente fuori servizio e solo due ospedali avevano ricevuto il permesso da Israele di ricevere le apparecchiature. Un rapporto del 2018 di Medici per i Diritti Umani sostiene che questa mancanza di manutenzione trasforma gli ospedali in semplici “stazioni di transito per il trasferimento in altri ospedali”.

La mancanza di personale addestrato, soprattutto di specialisti, contribuisce significativamente alla scarsità di cure mediche e di risultati nei TPO, dove ci sono solo quattro scuole di medicina. Con una popolazione di tre milioni di abitanti, sei oncologi, più altri sette a Gerusalemme est, hanno in carico tutta la Cisgiordania. A Gaza ce ne sono tre. Lo scarso numero di oncologi nei TPO si traduce in una media di 250 nuovi casi di tumore per oncologo. Con meno del doppio della popolazione dei TPO, Israele conta 250 oncologi, con 116 nuovi casi di tumore per oncologo. Stati con una popolazione di dimensioni simili a quella dei TPO, come l’Irlanda, con 113 casi per oncologo, registrano tassi comparabili a quelli di Israele. 1

Le politiche dell’occupazione rendono difficile ai palestinesi esercitare la professione di medico. Per esempio, la divisione dell’università di Al Quds tra i campus di Abu Dis e Gerusalemme est ha portato ad una annosa battaglia amministrativa tra l’università e gli organismi israeliani di certificazione riguardo al riconoscimento delle lauree in medicina. Benché la questione sia alla fine stata risolta in tribunale, nel solo 2016 30 laureati in scienze infermieristiche hanno presentato un ricorso alla procura generale dello Stato in quanto il ministero dell’Educazione israeliano aveva rifiutato di riconoscere la loro laurea.

Anche la separazione tra Cisgiordania e Striscia di Gaza ha ridotto le possibilità di formazione medica. Nel 1999 l’università di Al-Azhar a Gaza ha creato un dipartimento di studi medici come sede staccata dell’università di Al-Quds a Gerusalemme est. Quando durante la Seconda Intifada il passaggio sicuro tra i due territori è stato bloccato, è finita anche la collaborazione tra le università.

Queste difficoltà portano ad una fuga di cervelli, in quanto i medici palestinesi emigrano per avere una formazione migliore o migliori opportunità di carriera. I dottori giovani a Gaza devono lavorare 70 ore alla settimana per guadagnare solo 280 dollari al mese, e il personale medico e gli addetti alla manutenzione non possono andare a fare corsi di aggiornamento per le nuove tecnologie sanitarie o per altre opportunità professionali. Dottori affermati ricevono meno di metà del loro salario a causa delle sanzioni dell’ANP. Quando, dopo due anni senza percepire lo stipendio, il famoso cardiochirurgo Marwan Sadeq è emigrato per lavorare in una clinica universitaria austriaca, ha affermato: “Se volessi stare a Gaza, mi trasformerei … da cardiochirurgo a uno che si preoccupa solo di come dar da mangiare ai propri figli.” Nel 2018 fonti locali a Gaza hanno stimato che se ne siano andati tra 100 e 160 medici e docenti di medicina; molti di questi non torneranno. Una ricerca del 2008 in tutti i TPO sui professionisti dell’educazione superiore e della salute ha rilevato che circa il 30% desiderava emigrare, principalmente a causa della situazione politica e della sicurezza.

In Cisgiordania le ambulanze devono fare i conti con i posti di blocco militari israeliani e altre interruzioni delle strade e con le limitazioni agli spostamenti. Uno studio del 2011 ha scoperto che ogni anno dal 2000 al 2007 il 10% delle donne incinta è stato bloccato al checkpoint, provocando nei posti di blocco 69 nascite, 35 bambini morti e cinque decessi in conseguenza del parto. I media e le ong hanno reso pubblici i dati di pazienti morti in seguito a ritardi o blocchi nell’attraversamento dei checkpoint. I pazienti della Cisgiordania che abbiano bisogno di cure a Gerusalemme est devono prendere un’ambulanza palestinese a uno dei posti di controllo e poi essere trasferiti su un’ambulanza israeliana per continuare il viaggio, e anche i pazienti palestinesi che muoiono negli ospedali israeliani devono essere spostati da un’ambulanza all’altra durante il viaggio per tornare ed essere sepolti in Cisgiordania. Questo procedimento è noto come trasferimento “consecutivo”, e al 90% delle ambulanze [palestinesi] che sono entrate a Gerusalemme est nel 2017 veniva richiesto di seguire questa procedura.

La procedura richiesta per ottenere un permesso per ragioni di salute e ricevere cure specializzate in Israele o in uno Stato limitrofo è complessa ed arbitraria. A Gaza un medico manda ogni paziente che necessiti di queste cure all’Unità per l’Ottenimento di un Servizio, dove inizia il procedimento di presentazione delle domande per un permesso di ingresso in Israele. Esso può essere negato in qualunque momento senza spiegazione, e, anche se viene approvato, i membri della famiglia del paziente, in alcuni casi i genitori di minorenni malati, potrebbero non ricevere il permesso per accompagnarli. I pazienti devono rifare tutta la procedura per le visite di controllo. Nel 2017 l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) ha scoperto che solo il 54% delle richieste dei pazienti da Gaza è stato approvato, il livello più basso da quando nel 2011 l’organizzazione ha iniziato a raccogliere i dati. Quell’anno cinquantaquattro pazienti, principalmente bisognosi di cure per tumori, sono morti in attesa di un permesso di sicurezza.

I pazienti della Cisgiordania che hanno necessità di cure in Israele devono superare un procedimento simile, che richiede il rinvio allo specialista da parte del MdS insieme a un permesso di viaggio. I pazienti devono anche attraversare vari checkpoint e cambiare veicolo per completare il viaggio. Questi permessi sono concessi molto più spesso che a Gaza, ma non sono garantiti. Nel 2016 il 20% dei palestinesi della Cisgiordania che hanno fatto richiesta di un permesso per accedere agli ospedali a Gerusalemme est o in Israele è stato respinto. L’ANP ha anche rilasciato un numero inferiore rispetto agli anni precedenti di voucher per il rimborso delle cure a quei pazienti, una condizione indispensabile per fare richiesta di rilascio di un visto di viaggio da parte di Israele. Tredici pazienti, sei dei quali minorenni, sono morti nel 2017 in attesa dell’approvazione dei loro voucher.

Recentemente l’ANP ha detto che non invierà più pazienti palestinesi negli ospedali israeliani, accusando Israele di far pagare cifre maggiorate per le cure mediche e di dedurre quei fondi dalle tasse che raccoglie per conto dell’ANP. L’ANP ha sottolineato che continuerà ad inviare i pazienti della Cisgiordania agli ospedali di Gerusalemme est e lavorerà anche per mandarne altri agli ospedali negli Stati vicini, come Giordania ed Egitto.

Benché la legge umanitaria internazionale preveda notevoli garanzie per le cure sanitarie in zone di conflitto, nei TPO le forze israeliane continuano ad attaccare ospedali, ambulanze ed equipe mediche. La comunità internazionale non è riuscita ad impedire tali aggressioni.

Poche azioni concrete hanno fatto seguito alle ripetute risoluzioni ONU e agli appelli per l’assistenza da parte dei presidenti di organizzazioni come Medici senza Frontiere o della Commissione Internazionale della Croce Rossa. Nel 2017 i TPO hanno subito 93 attacchi al sistema sanitario, secondi solo alla Siria. In quasi tutti gli esempi la risposta dell’esercito israeliano è stata che l’episodio è stato accidentale o giustificato da attività terroristiche.

Casi particolarmente gravi come quello di Razan Al-Najjar [giovane paramedica palestinese uccisa da un cecchino israeliano nel giugno 2018 a Gaza, ndtr.] e di Tarek Loubani, medico canadese-palestinese che le forze israeliane hanno colpito a una gamba nel maggio 2018 sul confine di Gaza, hanno riportato questi problemi all’attenzione dell’opinione pubblica. Recentemente anche alcuni gruppi per i diritti umani hanno documentato molteplici casi di violenze contro ambulanze e personale medico, così come irruzioni in strutture sanitarie.

Durante i periodi di particolare violenza, come nella guerra del 2014 a Gaza, gli ospedali sono stati direttamente colpiti. Dopo il bombardamento dell’ospedale Shuhada al-Aqsa di Gaza, in cui cinque persone, fra cui tre minorenni, sono rimasti uccisi, le autorità israeliane hanno giustificato l’attacco sostenendo che c’erano munizioni sospette “immagazzinate nelle immediate vicinanze dell’ospedale”. Nella stessa guerra l’ospedale El-Wafa, dove si trovava l’unico centro di riabilitazione di Gaza, è stato totalmente raso al suolo. A causa delle restrizioni all’importazione di materiale da costruzione, l’ospedale rimane distrutto e il personale dell’ospedale ha fornito le cure condividendo lo spazio con un ospedale geriatrico.

Il ruolo del governo locale

La principale ragione delle disastrose condizioni delle cure mediche per i palestinesi nei TPO è l’occupazione israeliana. Tuttavia anche il governo palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza svolge un ruolo [nella situazione].

Nel 2017 le difficoltà finanziarie hanno portato il governo palestinese a tagli ad un programma che dal 2000 forniva l’assicurazione sanitaria ai cittadini disoccupati. Con un tasso di disoccupazione intorno al 30% nei TPO, una cifra stimata di 250.000 persone beneficiava del programma. A Gaza anche famiglie che solitamente erano in grado di pagare per essere curate in strutture private o per l’assicurazione sanitaria pubblica hanno fatto ricorso alla richiesta di esenzione dal pagamento dell’assicurazione sanitaria, che a una famiglia di 4 persone costa meno di 300 dollari all’anno. A partire dal febbraio 2018 sono state esaminate circa 70.000 richieste del genere. I dati di quell’anno mostrano che circa il 40% dei finanziamenti per la salute nei TPO è pagato di tasca propria. Con l’aumento della povertà e della disoccupazione, soprattutto a Gaza, e con l’ANP che deve fare i conti con la continua riduzione degli aiuti e con lo strangolamento dello sviluppo, la crisi del sistema dell’assicurazione sanitaria aumenterà.

Il taglio degli aiuti USA ha esacerbato la situazione. Soggetti coinvolti come OMS e Medical Aid for Palestinians hanno affermato che si faranno carico di alcune delle carenze determinate dai tagli USA, ma, se i benefici degli aiuti devono arrivare al suo popolo, l’ANP deve cambiare il proprio modo di pensare riguardo alle priorità.

Dei 5 miliardi del bilancio dell’ANP approvato nel 2018 il 30-35% è andato al settore della sicurezza, mentre soltanto il 9% è stato destinato alla salute. Del bilancio totale, 775 milioni di dollari (il 15,5%) era previsto arrivassero da aiuti dall’estero, in genere divisi tra il sostegno alla sicurezza, finanziamenti per l’UNRWA e denaro per progetti di USAID [agenzia governativa USA per aiuti all’estero, ndtr.]. Benché gli USA abbiano fatto drastici tagli agli aiuti, che colpiscono le possibilità per milioni di palestinesi di avere accesso a cure mediche, educazione e cibo, politici israeliani ed USA si sono affannati a garantire una parte del pacchetto di aiuti: quella per la sicurezza. Ciò che era iniziato come un accordo “prima di tutto la sicurezza” si è trasformato in una strategia “solo la sicurezza”.

L’ANP sta anche affrontando una crescente crisi di legittimità, con l’80% dei palestinesi nei TPO recentemente interpellati convinto che le istituzioni dell’ANP siano corrotte e più di metà (il 53%) secondo cui l’ANP è diventata un peso per il popolo palestinese. Scarsi controlli, tangenti, malversazioni, nepotismo e altre forme di corruzione sono in crescita nei servizi sociali, come nel servizio sanitario. Questa corruzione non si limita al livello statale. Per esempio, è ben noto che le bustarelle agevolano autorizzazioni per permessi sanitari, soprattutto nella Striscia di Gaza.

Anche la lotta interna tra Hamas e l’ANP ha portato a ridurre le risorse per la salute. Mentre l’ANP accusa Israele di fare leva sui servizi sociali palestinesi per imporre negoziati, a Gaza è l’ANP che utilizza la sua posizione contro Hamas. Nel gennaio 2018 a Gaza era esaurito il 40% dei farmaci essenziali, un approvvigionamento della cui gestione è responsabile l’ANP. Nello stesso anno il ministero della Salute a Gaza, insieme alle associazioni palestinesi per i diritti umani, ha avvertito che la carenza di medicine aveva raggiunto un livello pericoloso ed ha sollecitato il MdS dell’ANP a “garantire l’afflusso libero e sicuro” a Gaza dei beni sanitari necessari. In risposta, l’ANP ha mandato 38 camion con 4 milioni di prodotti. Tuttavia l’assistenza sporadica non può sopperire a un sistema sanitario che da molto tempo è stato indebolito dalla mancanza di personale e di prodotti.

Mentre Israele controlla il valico di Erez sul confine settentrionale di Gaza, l’Egitto controlla quello di Rafah a sud. Da quando è iniziato il blocco anche l’Egitto ha ridotto in modo significativo a persone o cose l’autorizzazione a entrare. Mentre per casi umanitari è possibile chiedere un permesso per attraversarlo, in pratica per molti anni il valico è stato chiuso praticamente ogni giorno, persino per ragioni di salute. Per esempio, nel 2017 in totale Rafah è stato aperto per 36 giorni, permettendo solo a 1.400 pazienti di attraversarlo. Nonostante dal 2018 l’apertura del confine sia più frequente, rimane una lista d’attesa di decine di migliaia di persone che sperano di uscire. Benché non controlli alcun valico, anche Hamas ha sfruttato il proprio potere, vietando pure l’ingresso di beni inviati dall’esercito israeliano, come flebo, disinfettanti e carburante, con l’accusa che Israele stesse “cercando di migliorare la sua immagine negativa”.

Strategie per migliorare il sistema sanitario

Con un margine ridotto come non mai nei decenni per un processo di pace realistico e giusto, i palestinesi non possono attendere un accordo politico per avere l’accesso garantito a cure mediche sicure, di alta qualità e affidabili. Ci sono una serie di settori in cui si può agire nell’immediato per sostenere questo accesso.

1. L’ANP deve rifiutare di concentrarsi sul finanziamento della sicurezza per dare fondi alla salute, destinando più risorse al sistema sanitario. Il suo dialogo con i donatori deve essere strategico e dovrebbe includere: 1) particolare attenzione per le principali priorità condivise dalle parti interessate; 2) una particolare attenzione alla costruzione e conservazione di risorse interne; 3) un approccio che riduca le inefficienze e le diseguaglianze del sistema. In questo modo la necessità più urgente – garantire la solidità delle strutture mediche esistenti e incoraggiarne l’ampliamento – diventerà una priorità. Queste strategie possono anche contribuire a far sì che il sistema vada oltre la sua attuale capacità di rispondere solo alle emergenze, cosa che gli impedisce di essere in grado di migliorare la salute della popolazione al di là di ferimenti e rischi di morte legati a traumi.

2. L’ONU e altre organizzazioni umanitarie devono chiedere l’accesso totale e concreto ai beni umanitari per i palestinesi. L’ANP deve anche far prevalere la vita dei palestinesi rispetto alle manovre politiche e garantire che ai cittadini, soprattutto a Gaza, vengano forniti medicinali ed altri prodotti necessari a garantirne la salute. Per esempio l’ANP può lavorare per esentare i beni sanitari dal protocollo di Parigi, che rallenta per mesi l’importazione di forniture mediche, dato che l’importazione dipende da permessi e altre forme di autorizzazione.

3. Dovrebbe essere formata un’agenzia autonoma che controlli le attività dell’ANP e chiami a rispondere i singoli, compreso il MdS, delle pratiche corruttive. Anche la società civile, i media e i gruppi di sostegno locali ed internazionali dovrebbero fare pressione sulle istituzioni dell’ANP perché forniscano risultati tangibili, come conservare scorte di farmaci essenziali e intervenire per ridurre l’uso di trasferimenti “consecutivi” in ambulanza per i pazienti che devono entrare a Gerusalemme est o in Israele.

4. Sono fondamentali strategie per ridurre al minimo la necessità per i pazienti di uscire dal Paese per aver accesso alle cure. La formazione sanitaria all’interno dei TPO può ridurre la carenza di medici ed infermieri, con una particolare attenzione a programmi per palestinesi che intendano rimanere a lavorare all’interno dei territori. Il MdS, insieme ad organizzazioni come l’International Medical Education Trust [Ong inglese che si occupa della formazione di personale sanitario nelle zone di crisi, ndtr.], ha sviluppato opportunità di formazione a distanza, telemedicina e addestramento di specialisti per superare le limitazioni agli spostamenti. In alcune facoltà di medicina i piani di studio hanno incluso innovazioni tecnologiche, come simulazioni cliniche, consulenze via computer e video conferenze per mettere in contatto tra loro e con colleghi di altre parti del mondo gli studenti palestinesi di corsi di carattere sanitario. Queste iniziative dovrebbero essere ulteriormente sviluppate. Anche i palestinesi della diaspora potrebbero essere incoraggiati a fornire formazione o a fare tirocinio nei TPO per contribuire a ricostituire una comunità funzionante di personale medico palestinese.

5. Gli attori internazionali dovrebbero intraprendere una campagna di pressione perché Israele riveda il suo sistema poco trasparente di permessi per ragioni di salute. Le autorità israeliane dovrebbero motivare il rifiuto del permesso, e dare anche ai pazienti la possibilità di presentare ricorso. Anche i permessi dovrebbero essere controllati in modo efficiente. All’inizio del 2019 le organizzazioni israeliane per i diritti umani Gisha, Physicians for Human Rights e HaMoked hanno chiesto che Israele approvi più rapidamente le richieste di permessi per ragioni di salute, ma l’Alta Corte di Giustizia [israeliana, ndtr.] ha bocciato la richiesta. Questo tipo di tentativi dovrebbe continuare in linea con la posizione dell’OMS, secondo cui Israele è obbligato a “consentire l’accesso immediato per 24 ore al giorno e sette giorni su sette ai pazienti palestinesi che richiedono cure specialistiche.” Anche l’Egitto dovrebbe consentire più ingressi umanitari dal confine di Rafah con Gaza.

6. Le autorità israeliane devono giustificare ogni caso di pazienti palestinesi o ambulanze a cui venga negato il passaggio a un checkpoint con un sistema trasparente monitorato da un controllore esterno. Un ritardo o un rifiuto a un posto di blocco che abbia come conseguenza la morte o danni permanenti dovrebbe essere investigato e considerato una possibile violazione delle leggi umanitarie e dei diritti umani internazionali, non un problema logistico.

7. Tutte le parti, dalle organizzazioni umanitarie agli Stati che hanno relazioni con Israele, devono chiedere indagini approfondite ed indipendenti sugli attacchi contro l’assistenza sanitaria non gestita dalle autorità israeliane. Mentre attacchi contro strutture sanitarie non sono una caratteristica esclusiva dei TPO, è significativo che la frequenza sia così alta in una situazione che non è caratterizzata da violenza attiva, come in Siria, e il cui principale responsabile è uno Stato riconosciuto dalla comunità internazionale. Ciò potrebbe permettere di esercitare una forte pressione su Israele per evitare simili episodi. Oltretutto dovrebbero essere imposte sanzioni a quanti violino la protezione garantita alle strutture e al personale sanitario.

Anche se queste misure indubbiamente aiuterebbero a sostenere il sistema sanitario palestinese e i suoi risultati, l’ANP deve fondamentalmente impegnarsi ad affrontare le cause politiche sottostanti che limitano l’accesso dei palestinesi a un adeguato sistema sanitario. Un sistema sanitario non dovrebbe essere in balia di un occupante militare o dipendere dall’aiuto estero e dalle mutevoli motivazioni e priorità dei donatori. Finché esisterà il modello palestinese di “quasi Stato”, continuerà anche la dipendenza dei servizi sociali dagli aiuti. Questo è un modello insostenibile e ingiusto per un sistema sanitario. Solo affrontando le ingiustizie fondamentali e la violenza quotidiana dell’occupazione israeliana il sistema sanitario palestinese e l’accesso ad esso possono veramente migliorare.

Nota

1. Il cancro è la seconda causa principale di morte nei TPO e molti più casi probabilmente non sono diagnosticati a causa della mancanza di laboratori specializzati in oncologia, così come del limitato numero di strutture diagnostiche e radiologiche, soprattutto per i palestinesi che non possono ricevere un permesso medico per essere curati altrove. Solo sei ospedali pubblici, sparsi tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, sono attrezzati per trattare i pazienti oncologici.

Yara Asi

Componente della direzione di Al-Shabaka, Yara Asi ha conseguito un dottorato in Politiche Pubbliche all’università della Florida centrale, con particolare attenzione a ricerche e gestione del sistema sanitario. La sua tesi di dottorato ha esaminato le misure per la qualità della vita in Cisgiordania e in Giordania. Il lavoro di Yara prende in considerazione principalmente la salute, l’educazione e lo sviluppo in popolazioni colpite dalla guerra, anche se ha tenuto conferenze e scritto articoli anche su altri argomenti, come sicurezza e sovranità alimentare nei territori palestinesi, ruolo delle donne nelle crisi umanitarie e politiche di aiuto dall’estero in Stati vulnerabili. Ha anche lavorato su ricerca e divulgazione con Amnesty International USA e con il Palestinian American Research Center [Centro Palestinese Americano di Ricerca].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)