Rapporto OCHA del periodo 31 marzo – 13 aprile 2020

Il 1° aprile, un palestinese di 22 anni è morto per le ferite riportate l’11 marzo scorso, quando venne colpito dalle forze israeliane durante una manifestazione nel villaggio di Beita, a sud di Nablus [vedere Rapporto precedente].

In questo villaggio [situato in Area B], da fine febbraio sono in corso manifestazioni contro ripetuti tentativi, da parte di coloni israeliani, di appropriarsi di una vicina collina. Alle manifestazioni di protesta hanno fatto seguito intensi scontri con le forze israeliane che [ad oggi] hanno provocato due vittime palestinesi, tra cui un minore, e oltre 380 feriti. Non è stato segnalato alcun ferito israeliano.

In Cisgiordania, in scontri con forze israeliane, sono rimasti feriti dodici palestinesi, tra cui quattro minori [segue dettaglio]. Otto [dei 12] feriti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeno, due sono stati colpiti con proiettili di arma da fuoco e due sono stati aggrediti fisicamente. Cinque di questi feriti (tra cui un bimbo piccolo e un bambino di tre anni, che hanno inalato gas lacrimogeno) sono stati registrati nel quartiere di Silwan a Gerusalemme Est, nel corso di due distinti episodi: durante un’operazione di ricerca-arresto e durante un’azione della polizia finalizzata ad imporre le restrizioni di movimento legate al COVID-19. Altri sei palestinesi sono rimasti feriti nel villaggio di Burin (Nablus), durante scontri con le forze israeliane in pattugliamento e a Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante le manifestazioni settimanali contro l’espansione degli insediamenti [colonici] e contro le restrizioni di accesso. Dall’inizio di marzo, la frequenza degli scontri e dei relativi ferimenti è fortemente diminuita, come conseguenza delle restrizioni ai movimenti imposte dalle autorità palestinesi per contenere la diffusione di COVID-19 e per la riduzione della frequenza delle operazioni israeliane di ricerca-arresto.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno effettuato 53 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 45 palestinesi. La metà di queste operazioni, e circa il 60% degli arresti, sono stati registrati a Gerusalemme Est, dieci in Hebron, nell’area controllata da Israele (H2) e nove nel governatorato di Ramallah. Ciò rappresenta un calo di oltre il 50%, rispetto alla media quindicinale di tali operazioni registrata nel primo trimestre di quest’anno.

Al fine di far rispettare le restrizioni di accesso alle aree [di Gaza] prossime alla recinzione perimetrale israeliana e al largo della costa di Gaza, in almeno 56 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento: tre pescatori palestinesi sono rimasti feriti e una barca da pesca è stata danneggiata. In cinque occasioni, le forze israeliane sono entrate in Gaza, nei pressi di Khan Younis e nelle aree settentrionali, ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale. Nel contesto della crisi COVID-19, sono state annullate le dimostrazioni, previste [nella Striscia di Gaza] per il 31 marzo, in commemorazione del secondo anniversario della “Grande Marcia del Ritorno” e della “Giornata della Terra”.

Secondo agricoltori palestinesi, il 6 aprile, ad est della città di Gaza, aerei israeliani hanno irrorato erbicidi su terreni agricoli prossimi alla recinzione perimetrale. È il terzo episodio di questo tipo segnalato quest’anno, con conseguenti danni alle colture.

Per consentire il ritorno di migliaia di palestinesi bloccati in Egitto, dal 13 aprile, per quattro giorni, è stato riaperto (solo verso Gaza) il valico di Rafah, a controllo egiziano. Le autorità di Gaza hanno lanciato una piattaforma online per registrare i palestinesi che intendono rientrare, in modo da poter organizzare la loro sistemazione in centri di quarantena obbligatori. Dal 15 marzo il valico era stato chiuso in entrambe le direzioni per impedire la diffusione del COVID-19. Anche per i titolari di permesso, rimane bloccato l’ingresso in Israele attraverso il valico di Erez (a controllo israeliano); fanno eccezione i casi sanitari urgenti ed i malati di cancro. Decine di palestinesi rientravano quotidianamente in Gaza attraverso questo valico .

Nell’Area C della Cisgiordania, citando la mancanza di permessi di costruzione, sono state demolite, sequestrate o smantellate 18 strutture di proprietà palestinese e 1.200 alberi sono stati sradicati, in quanto piantati su “terra di stato” [segue dettaglio]. In seguito alla epidemia di COVID-19, le autorità israeliane hanno fermato in gran parte la demolizione delle abitazioni, ma hanno continuato a prendere di mira strutture di sostentamento e di servizio. Preoccupa, in modo particolare, il ripetersi di demolizioni di strutture idriche ed igieniche; ciò potrebbe minare gli sforzi per contenere la diffusione del virus. [Infatti,] durante il periodo in esame, le autorità israeliane hanno requisito due latrine mobili ed hanno danneggiato due serbatoi d’acqua nella Comunità di pastori di At Taybe (Hebron), mentre, nel villaggio di Kafr Ni’ma (Ramallah), hanno demolito tre cisterne per la raccolta dell’acqua. Durante quest’ultimo episodio, le forze israeliane hanno anche sradicato circa 1.200 alberi, con la motivazione che erano piantati su terra dichiarata [da Israele] “terra di stato”. Da metà marzo, a Gerusalemme Est, non sono state effettuate demolizioni.

Otto palestinesi sono rimasti feriti e un gran numero di proprietà [palestinesi], tra cui oltre 670 alberi, sono state vandalizzate da aggressori ritenuti coloni israeliani [segue dettaglio]. I ferimenti sono avvenuti in tre distinti episodi: nell’Area H2 della città di Hebron, controllata da Israele, due uomini (uno dei quali disabile mentale) sono stati spruzzati con liquido al peperoncino; vicino al villaggio di Kobar (Ramallah), tre contadini sono stati picchiati con i fucili mentre lavoravano la loro terra; e, infine, nell’insediamento di Ramat Eshkol a Gerusalemme Est, tre lavoratori palestinesi sono stati aggrediti fisicamente e uno di essi è stato accoltellato e ferito gravemente. Altri quattro casi sono avvenuti ad At Tuwani (Hebron), Turmus’ayya (Ramallah) e Al Khader (Betlemme), dove sono stati sradicati o vandalizzati oltre 670 alberelli di ulivo e altri alberi. In quest’ultimo villaggio (Al Khader), dall’inizio dell’anno sono stati vandalizzati circa 1.450 alberi appartenenti ad agricoltori del luogo. I residenti della Comunità di pastori di Umm al Kheir hanno riferito che coloni hanno avvelenato oltre 20 mandorli. Nel villaggio di Ein Qiniya (Ramallah), coloni sono passati con motociclette su terreni coltivati a cetrioli, mentre a Yanun (Nablus) e Al Jab’a (Betlemme), hanno fatto pascolare le loro pecore su coltivazioni, danneggiandole. In altri due casi, coloni hanno fatto irruzione nella periferia dei villaggi di Qusra (Nablus) e Al Mazra’a al Qibliya (Ramallah), vandalizzando proprietà. Dall’inizio di marzo, la media settimanale di aggressioni condotte da coloni verso palestinesi, comportanti ferimenti o danni a loro proprietà (9 casi), risulta aumentata dell’80% rispetto alla media settimanale del periodo gennaio-febbraio (5 casi).

Sono stati segnalati numerosi episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie, ad opera di palestinesi, contro veicoli israeliani che transitavano lungo le strade della Cisgiordania. Non ci sono stati feriti, ma, secondo una ONG israeliana, in Ramallah e nella Valle del Giordano, tre veicoli hanno subìto danni.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali. Il neretto è di OCHAoPt.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Diffondere il virus dell’occupazione: lo sputo come arma nelle mani di Israele coloniale

Ramzy Baroud

14 aprile 2020 – Middle East Monitor

Sputare addosso a qualcuno è un insulto universale. In Israele, tuttavia, sputare sui palestinesi ha una storia completamente diversa.

Ora che sappiamo che il coronavirus mortale può essere trasmesso attraverso goccioline di saliva, i soldati israeliani e i coloni ebrei illegali sono duramente impegnati a sputare addosso al maggior numero di palestinesi, alle loro macchine, maniglie di porte ecc.

Se la cosa ti sembra troppo surreale e ripugnante, allora potrebbe essere che sei meno informato di quanto pensi della particolare natura del colonialismo israeliano.

In tutta onestà, gli israeliani sputano addosso ai palestinesi da molto prima che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ci tenesse lezioni sulla natura elusiva della malattia COVID-19 e sulla necessità cruciale di esercitare il “distanziamento sociale”.

In effetti, se cerchi su Google la frase “sputi israeliani”, verrai inondato dai molti interessanti risultati della ricerca, come “Giudice di Gerusalemme agli ebrei: non sputate sui cristiani”, “I cristiani di Gerusalemme vogliono che gli ebrei smettano di sputare su di loro”, e il più recente,” I coloni israeliani che sputano sulle auto palestinesi sollevano preoccupazioni per il tentativo di diffondere il coronavirus”.

È interessante notare che nel corso degli anni la maggior parte di questa copertura giornalistica è stata fatta dai media israeliani, mentre riceve scarsa attenzione da parte dei media occidentali.

Si potrebbe facilmente classificare tali atti degradanti come un ulteriore esempio del falso senso di superiorità degli israeliani sui palestinesi. Ma il deliberato tentativo di infettare con coronavirus i palestinesi sotto occupazione è ben più che un oltraggio, anche per un regime di insediamento coloniale.

Due particolari elementi di questa storia richiedono un approfondimento.

In primo luogo, l’atto di sputare sui palestinesi e le loro proprietà, sia da parte dei soldati dell’occupazione che dei coloni, è stato ampiamente segnalato in molte parti della Palestina occupata.

Ciò significa che, nel giro di pochi giorni, la cultura dell’esercito e dei coloni israeliani ha rapidamente adattato il razzismo preesistente sino ad usare un virus mortale come strumento finale per soggiogare e nuocere ai palestinesi, sia fisicamente che simbolicamente.

In secondo luogo, [è notevole] il grado di ignoranza e buffoneria che accompagna questi atti razzisti e umilianti.

Il paradigma di potere che ha governato il rapporto tra Israele colonialista e palestinesi colonizzati ha seguito finora un corso tipico, secondo cui le cattive azioni di Israele rimangono per lo più impunite.

Quegli israeliani razzisti che stanno deliberatamente cercando di infettare i palestinesi con il COVID-19 pensano e si comportano non solo da criminali, ma anche incredibilmente da sciocchi.

Quando i soldati israeliani arrestano o picchiano gli attivisti palestinesi, hanno la stessa probabilità di contrarre il coronavirus quanto di trasmetterlo.

Ma, naturalmente, Israele sta facendo molto di più per complicare, se non bloccare del tutto gli sforzi palestinesi per contenere la diffusione del coronavirus.

Il 23 marzo un lavoratore palestinese, Malek Jayousi, è stato espulso dalle autorità israeliane al checkpoint militare di Beit Sira, vicino a Ramallah, perché sospettato di avere il coronavirus.

Un filmato del povero lavoratore rannicchiato vicino al checkpoint, dopo essere stato “scaricato come spazzatura”, è diventato virale sui social media.

Per scioccante che fosse quell’immagine, si è ripetuta in altre parti della Cisgiordania.

Ovviamente i lavoratori palestinesi non erano stati testati per il virus, ma avevano semplicemente manifestato sintomi para-influenzali, abbastanza da far sì che Israele se ne liberasse come se la loro vita non avesse importanza.

Due settimane dopo, il governatore palestinese della città occupata di Qalqiliya, Rafi ‘Rawajbeh, ha detto ai giornalisti che l’esercito israeliano avrebbe aperto diversi tunnel per le acque reflue a nord della città palestinese, pensando di impiegare di nuovo operai palestinesi in Cisgiordania senza previo coordinamento con l’Autorità Nazionale Palestinese.

Senza fare i test a quelle centinaia di lavoratori irregolari, l’Autorità Nazionale Palestinese, che già opera con una capacità limitata nell’affrontare la malattia, si troverà nell’impossibilità di contenere la diffusione del virus.

Le denunce palestinesi del deliberato tentativo di Israele di favorire la diffusione del coronavirus in Palestina sono state ulteriormente confermate da Euro-med Monitor [Ong per la difesa dei diritti umani, ndtr.] di Ginevra, che il 31 marzo ha invitato la comunità internazionale a indagare sul “comportamento sospetto” dei soldati israeliani e dei coloni ebrei.

Durante i raid dell’esercito israeliano contro case palestinesi, i soldati “sputano contro macchine parcheggiate, bancomat e serrature di negozi, il che fa sospettare si tratti di tentativi deliberati di diffondere il virus e causare panico nella società palestinese”, ha dichiarato Euro-Med.

L’articolo 56 della Quarta Convenzione di Ginevra non dice nulla sull’obbligo per i membri della potenza occupante di smettere di sputare sulle comunità occupate e soggiogate; molto probabilmente perché è previsto che un comportamento così sordido sia evidentemente inaccettabile e non richieda uno specifico riferimento testuale.

Tuttavia l’articolo 56, come ha recentemente sottolineato Michael Lynk, relatore speciale delle Nazioni Unite per la situazione dei diritti umani nel territorio palestinese, impone a Israele, potenza occupante, di “garantire che siano utilizzati tutti i mezzi preventivi necessari e disponibili per ‘combattere la diffusione di malattie contagiose ed epidemie.’”

Tuttavia Israele sta drammaticamente venendo meno al suo obbligo giuridico.

Persino il sindaco israeliano di Gerusalemme, Moshe Leon, ha sottolineato la disuguaglianza nella risposta ufficiale israeliana alla diffusione del coronavirus.

Nella sua lettera del 7 aprile al direttore generale del Ministero della Sanità israeliano Moshe Bar Siman Tov, Leon ha messo in guardia contro “la grave carenza di attrezzature mediche negli ospedali (palestinesi) a Gerusalemme est (occupata), in particolare di attrezzature e dispositivi di protezione per condurre i test del coronavirus.

Al di là delle gravi carenze negli ospedali di Gerusalemme est e in Cisgiordania, la situazione nella Striscia di Gaza assediata è semplicemente disastrosa; il Ministero della Sanità di Gaza ha dichiarato il 9 aprile di aver esaurito tutti i kit per il test del coronavirus, che peraltro non erano mai stati più di poche centinaia.

Ciò significa che i numerosi abitanti di Gaza già in quarantena non saranno rilasciati in un prossimo futuro e che i nuovi casi non verranno individuati e tanto meno guariti.

Nelle ultime settimane abbiamo spesso segnalato questo terrificante scenario prossimo venturo, specialmente perché Israele usa il coronavirus come occasione per isolare ulteriormente i palestinesi e barattare potenziali aiuti umanitari con concessioni politiche.

Senza un intervento immediato e sostenibile da parte della comunità internazionale, la Palestina occupata, e specialmente Gaza impoverita e assediata, potrebbero diventare un focolaio di COVID-19 per gli anni a venire.

Israele non cederà mai senza un intervento internazionale. Se non sarà chiamata a risponderne, neppure un virus mortale cambierà mai le abitudini di una vile occupazione militare.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Lo Stato d’Israele contro gli ebrei

Cypel S., L’État d’Israël contre les juifs, La Découverte, Paris, 2020.

Recensione di Amedeo Rossi

16 aprile 2020

Sylvain Cypel è un giornalista ed intellettuale francese, a lungo inviato di Le Monde negli USA ed autore nel 2006 di un altro importante libro sul conflitto israelo-palestinese: “Les emmurés : la société israélienne dans l’impasse” [I murati vivi: la società israeliana nel vicolo cieco], non tradotto in italiano. Attualmente collabora con il sito Orient XXI di Alain Gresh.

Avendo vissuto a lungo durante la giovinezza in Israele e con un padre sionista, l’autore conosce bene la società e la politica di quel Paese. Non a caso il libro inizia con un ricordo familiare: nel 1990 l’ottantenne genitore gli disse: “Vedi, alla fine abbiamo vinto”, riferendosi al sionismo. “Mi ricordo”, scrive Cypel, “di essere rimasto zitto. E di aver tristemente pensato che quella storia non era finita e che dentro di lui mio padre lo sapesse.”

È proprio di questa riflessione iniziale che parla il libro. Chi segue assiduamente le vicende israelo-palestinesi vi troverà spesso cose già note. Molti degli articoli citati si trovano sul sito di Zeitun. Tuttavia, sia per la qualità letteraria che per la profondità di analisi il lettore non rimane deluso. Ogni capitolo è introdotto da un titolo ricavato da una citazione significativa da articoli o interviste che ne sintetizza molto efficacemente il contenuto: dal molto esplicito “Orinare nella piscina dall’alto del trampolino”, per evocare la sfacciataggine di Israele nel violare leggi e regole internazionali, a “Non capiscono che questo Paese appartiene all’uomo bianco”, riguardo al razzismo che domina la politica e l’opinione pubblica israeliane, fino a “Sono stremato da Israele, questo Paese lontano ed estraneo”, in cui l’autore descrive il sentimento di molti ebrei della diaspora nei confronti dello “Stato ebraico”.

Da questi esempi si intuisce che gli argomenti toccati nelle 323 pagine del libro sono molto vari e concorrono ad una descrizione desolante della situazione, sia in Israele che all’estero, ma con qualche spiraglio di speranza.

Cypel denuncia l’incapacità dell’opinione pubblica e ancor più della politica israeliane di invertire la deriva nazionalista e etnocratica del Paese. Ne fanno le spese non solo i palestinesi e gli immigrati africani, stigmatizzati da ministri e politici di ogni colore con epiteti che farebbero impallidire Salvini, ma anche gli stessi ebrei israeliani. Non a caso uno dei capitoli si intitola “Siamo allo Stato dello Shin Bet”, il servizio di intelligence interno. Sono colpiti i dissidenti israeliani, come Ong e giornalisti, le voci che si oppongono alle politiche nei confronti dei palestinesi e delle minoranze in generale, e quelli all’estero, come i sostenitori a vario titolo del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele). Quest’ultimo viene indicato nel libro come una reale ed efficace minaccia allo strapotere internazionale della Destra, termine che include quasi tutto il quadro politico israeliano. Varie leggi proibiscono l’ingresso e cercano di impedire il finanziamento di queste voci dissidenti, mentre Israele promuove anche i gruppi più esplicitamente violenti e razzisti, tanto che Cypel parla di un “Ku Klux Klan” ebraico. A proposito di un episodio di censura a danno di B’Tselem da parte della ministra della Cultura Miri Regev, l’autore cita la presa di posizione critica persino dell’ex-capo dello Shin Bet Ami Ayalon: “La tirannia progressiva è un processo nel quale uno vive in democrazia e, un giorno, constata che non è più una democrazia.”

Ciò non intacca minimamente l’incondizionato sostegno degli USA di Trump come quello, anche se meno esplicito, dell’UE. Questa corsa verso l’estrema destra è dimostrata anche dagli ottimi rapporti tra il governo israeliano e gli esponenti più in vista del cosiddetto “sovranismo”: oltre a Trump, il libro cita altri presidenti delle ormai molte “democrazie autoritarie” in tutto il mondo. Ancora peggio avviene in Europa, dove i migliori amici di Netanyahu sono anche esplicitamente antisemiti: Orban in Ungheria e il governo polacco, persino Alternative für Deutchland, partito tedesco con tendenze esplicitamente nazistoidi, oltre a Salvini e all’estrema destra francese, hanno ottimi rapporti con i governanti israeliani. Questi personaggi sono stati accolti al Museo dell’Olocausto per mondarsi dall’accusa di antisemitismo e poter continuare a sostenere posizioni xenofobe e razziste. Non è solo l’islamofobia a cementare questa alleanza. È il comune richiamo al suprematismo etnico-religioso che fa di Israele un modello per questi movimenti di estrema destra, ed al contempo lo “Stato ebraico” ne rappresenta la legittimazione: se può disumanizzare palestinesi e immigrati e può opprimerli impunemente, violando le norme internazionali che dovrebbero impedirlo, perché non potremmo fare altrettanto in Europa e altrove contro immigrati, musulmani, nativi? Riguardo alle giustificazioni di questa imbarazzante alleanza, Cypel cita quanto affermato da una deputata del Likud: “Forse sono antisemiti, ma stanno dalla nostra parte.” “Ovviamente”, aggiunge l’autore, costei è “una militante attiva della campagna per rendere reato l’antisionismo come la forma contemporanea dell’antisemitismo.”

A queste posizioni si adeguano le comunità ebraiche europee, in particolare in Francia, Paese in cui risiede la comunità della diaspora ebraica più numerosa dopo quella statunitense. Il Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche di Francia (CRIF) “formalmente rappresenta l’ebraismo francese; de facto, è in primo luogo il gruppo lobbysta di uno Stato estero e si vive come tale,” afferma il libro. Cypel attribuisce questo fenomeno alla mediocrità della vita culturale ebraica in Francia ed alla tendenza a rinchiudersi in quartieri ghetto, sfuggendo alla convivenza con le altre componenti della popolazione. Inoltre la tendenza al conformismo deriva anche dalla paura di venire isolati dal resto della comunità: “Le persone preferiscono non esprimere il proprio disaccordo, per timore di essere accusate di tradimento.” L’autore cita vari episodi di censura, persino il tentativo fallito da parte dell’ambasciata israeliana a Parigi e del CRIF di impedire la messa in onda su una rete nazionale di un documentario (peraltro senza neppure averlo visto) sui giovani gazawi mutilati dai cecchini israeliani. La motivazione? “Avrebbe potuto alimentare l’antisemitismo,” ha sostenuto l’ambasciata. Purtroppo lo stesso atteggiamento caratterizza le istituzioni della comunità ebraica italiana, o di quella britannica, come dimostrato dalla campagna di diffamazione contro Corbyn. Quindi sembra trattarsi di una posizione che riguarda buona parte dell’ebraismo europeo.

L’unico spiraglio di speranza all’interno del mondo ebraico viene invece dagli USA. Non solo, sostiene Cypel, non vi si è perso il tradizionale progressismo moderato, ma anzi l’occupazione e gli stretti legami tra Trump (legato a suprematisti, razzisti e fanatici religiosi) e Netanyahu hanno allontanato molti ebrei, soprattutto tra i giovani, dal sostegno incondizionato a Israele. Nei campus, afferma l’autore, circa metà dei militanti del BDS sono ebrei. Molti intellettuali ebrei si sono dichiarati contrari alla legge sullo “Stato-Nazione”, e, dopo l’approvazione di una norma che vieta l’ingresso in Israele ai sostenitori del BDS, più di 100 personalità importanti, tra cui alcuni esplicitamente filosionisti, hanno firmato una petizione di denuncia. Questo allontanamento si manifesta anche in un sostanziale disinteresse nei confronti dello “Stato ebraico”, oppure nella dissidenza religiosa da parte degli ebrei riformati, in maggioranza negli USA, secondo i quali il ruolo del popolo ebraico è quello di migliorare il mondo e l’umanità. Un obiettivo ben lontano da quello della supremazia etnico-religiosa rivendicata da ortodossi ed ultraortodossi in Israele.

Nonostante la sua superiorità incontrastata, secondo Cypel la società israeliana è in preda all’inquietudine e al pessimismo rispetto al futuro, all’“impotenza della potenza”. L’ha espressa chiaramente lo storico Benny Morris sostenendo una tesi apparentemente paradossale: “Tra trenta o cinquant’anni [i palestinesi] ci avranno sconfitti.” È la vaga percezione di vivere una situazione segnata dalla mistificazione, che fa provare a molti israeliani un senso di precarietà e di timore per il futuro, che però al momento gioca a favore di una destra sempre più estrema.

Il libro si chiude con un omaggio a Tony Judt, il primo importante intellettuale ebreo americano a sostenere l’opzione di uno Stato unico per ebrei e palestinesi. Nell’ottobre 2003 definì Israele uno Stato anacronistico, nel suo nazionalismo etnico religioso ottocentesco, di fronte alla sfida della mondializzazione.

Cypel conclude con un auspicio che non si può che condividere: “Quello che si può augurare agli ebrei, che siano o meno israeliani, è che prendano coscienza di questa realtà e ne traggano le conseguenze, invece di continuare a nascondere la testa sotto la sabbia.” Questo libro contribuisce a questo svelamento, e c’è da augurarsi che venga pubblicato anche in Italia.

(Le citazioni tratte dal libro sono state tradotte in italiano dal recensore)




L’apartheid al tempo del coronavirus

Yoav Haifawi

13 aprile 2020 – Mondoweiss

Devo dissentire dal dottor Azmi Bishara. Cercando di difendere l’ultima disastrosa risposta degli Stati capitalisti dell’Occidente alla pandemia, egli sostiene su “Arab 48” [app di notizie in arabo, ndtr.] che i governi non dovrebbero essere giudicati in base alla loro condotta durante le emergenze. Trovo che sia proprio il contrario. In molti casi abbiamo visto che in tempi normali un Paese se la può benissimo cavare senza un governo in carica. Ma una gravissima crisi mette brutalmente in evidenza molte cose sulla natura di ogni regime proprio nel momento in cui abbiamo disperatamente bisogno di un buon governo che ci protegga, e tutti ne stiamo prendendo atto.

L’“Economist” [noto settimanale di economia pubblicato a Londra, ndtr.] informa che negli Stati Uniti l’EPP (Equipaggiamento Protettivo Personale), salvavita importato dal governo (attraverso la FEMA [ente federale per la gestione delle emergenze]) è affidato a distributori privati perché ci guadagnino a spese della vita delle équipe mediche in prima linea. Abbiamo visto tutti i Paesi ricchi interrompere l’esportazione di prodotti sanitari essenziali e offrire più degli altri per accaparrarsi qualunque cosa sul mercato. Quando l’Italia era nel momento peggiore della crisi, la Germania ha vietato l’esportazione di forniture mediche, ma quando la Cina ha mandato l’equipaggiamento salvavita necessario i dirigenti dell’UE hanno messo in guardia che la Cina lo stava facendo “per fini propagandistici”.

Leggere le notizie locali sul coronavirus in Israele è una storia ancora diversa. Il regime israeliano di apartheid sta dimostrando di essere assurdamente anormale persino nel più abnorme dei momenti. Qui ci sono alcuni esempi strazianti su com’è l’apartheid ai tempi del coronavirus.

Pronti a morire come Sansone

Ci sono molte notizie su come ogni Stato e ogni istituzione sanitaria oggi stia cercando ogni opportunità per comprare EPP. La Turchia è uno dei principali produttori mondiali e uno dei pochi ancora disposti a venderli, nonostante l’epidemia sia in peggioramento sul fronte interno. Bloomberg [rete televisiva di notizie economiche, ndtr.] ha riferito che la Turchia stava fornendo equipaggiamento di protezione personale a Israele, compresi maschere chirurgiche, camici e guanti sterilizzati.

Giovedì 9 aprile tre aerei israeliani dovevano prelevare le forniture mediche da un aeroporto militare turco. Ma poi pare che la Turchia abbia chiesto che in cambio Israele consentisse il passaggio di pari quantità di aiuti turchi contro il coronavirus ai palestinesi.

Sia secondo “Times of Israel” [quotidiano israeliano in rete, ndtr.] che “Arab 48” pare che venerdì 10 aprile Israele abbia rifiutato di arrendersi al “terrorismo” turco e l’equipaggiamento non è stato fornito. Come disse l’eroico “Sansone”: “Che muoia io con i tutti i palestinesi…”

Poi ieri, 12 aprile, “Haaretz” [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] ha informato in merito a nuovi negoziati tra Israele ed Hamas relativi a uno scambio di prigionieri. Hamas ha affermato di essere pronto ad arrivare a un compromesso rispetto alle sue precedenti condizioni per proteggere prigionieri palestinesi anziani e malati dal pericolo di soccombere al coronavirus in prigione. Ciò che è significativo per il nostro discorso è che, secondo “Haaretz”, i palestinesi intendono che parte dell’accordo sia che Israele fornisca alla Striscia di Gaza, tuttora assediata, un numero non specificato di ventilatori per curare i pazienti di coronavirus. Ciò che è ancora più significativo è che, secondo lo stesso articolo, fonti israeliane hanno negato (a parte ogni dettaglio riportato riguardo al previsto accordo) che potessero essere consegnati ventilatori a Gaza!

Il Mossad ruba EPP?

Molto tempo fa Yeshayahu Leibowitz [eminente intellettuale e religioso israeliano, ndtr.] ammonì che Israele sarebbe diventato uno “Stato dello Shabak” – in riferimento all’onnipotente “servizio della sicurezza generale” (GSS, Shabak [noto anche come Shin Bet, ndtr.]). Un articolo su Maariv [giornale israeliano di centro destra, ndtr.] del 27 luglio 2019 stimava che lo Shabak e il Mossad (il suo gemello, responsabile delle operazioni fuori dai confini nazionali) impieghino ognuno circa 7.000 persone e abbiano un bilancio che supera il miliardo di dollari. Mentre gli investimenti di Israele per la salute sono bassi rispetto ad altri Paesi dell’OCSE, esistono questi due mostri e si è deciso di utilizzarli per lottare contro la pandemia.

Iniziamo con il Mossad. Gli è stato affidato il compito di acquistare equipaggiamento sanitario. Secondo “the Marker” [quotidiano economico in lingua ebraica legato ad Haaretz, ndtr.] avrebbe chiesto una somma di 7 miliardi di shekel [1,8 miliardi di euro], ma per iniziare gliene sono stati dati 2,5 [640 milioni di euro]. Tuttavia non ha competenze professionali in campo medico, né esperienza particolare o infrastrutture tali da operare acquisti su larga scala e gestire procedure di importazione.

Il Mossas si è subito vantato di aver importato 100.000 test virologici da una fonte non specificata, solo per essere redarguito da un funzionario del ministero della Sanità che ha affermato che quelli non erano i test di cui c’era bisogno. Dopo che la critica è stata resa pubblica il funzionario si è affrettato a chiedere scusa, e il Mossad ha promesso di ricontrollare ciò che serve e di continuare la ricerca.

Il 6 aprile “Haaretz” ha riferito che il ministro della “Difesa” di Israele, Naftali Bennett, non ha negato, e di fatto ha implicitamente riconosciuto, che il Mossad ha rubato equipaggiamento medico da altri Paesi. Quando durante un’intervista alla radio militare gli è stato chiesto se il Mossad avesse rubato equipaggiamento sanitario relativo alla pandemia di coronavirus, Bennett ha risposto: “Non risponderò a questa domanda. Stiamo tutti operando in modo aggressivo e astuto.” (È stato riportato in inglese su Middle East Eye).

Non sorprende che il Mossad, specializzato in assassinii, spionaggio e ogni sorta di attività clandestine, faccia ricorso a metodi illegali nel suo nuovo ruolo. Ma ci si potrebbe aspettare che Bennett, che dovrebbe essere un uomo d’affari rispettabile, sia almeno sufficientemente astuto da negarlo. Tuttavia potrebbe avere una buona ragione per far credere all’opinione pubblica israeliana che il Mossad stia rubando per lei. Sulla stampa israeliana alcuni commentatori hanno affermato che dare miliardi di shekel a organismi segreti come il Mossad significa che non c’è alcun controllo su come i soldi vengano spesi. Ora, quando ci fossero delle domande in merito, Bennett potrebbe sussurrare “Shh…” e ammiccare: “Non vuoi mica svelare segreti di Stato.”

Inoltre Israele è abituato ad essere al di sopra delle leggi internazionali per tutti i suoi crimini di guerra, quindi perché dovrebbe temere di rubare equipaggiamento sanitario in giro per il mondo?

Sul ricevitore dello Shabak

Sul fronte interno, allo Shabak è stato assegnato il compito di identificare i percorsi delle persone infettate dal coronavirus e di informare quelli che sono stati in contatto perché si mettano in auto-isolamento. Per la prima volta è diventato di dominio pubblico che lo Shabak può tracciare (ora lo sta facendo in modo ufficiale) l’ubicazione di ogni persona, almeno finché la gente va in giro con il proprio cellulare.

Per i palestinesi, sia in Cisgiordania che all’interno della Linea Verde [cioè in Israele, ndtr.], i continui controlli da parte dello Shabak non sono una novità. Persino ad Haifa, il luogo più pacifico sotto l’apartheid israeliana, qualunque giovane palestinese può essere invitato senza alcuna ragione a “colloqui” indiscreti da parte di ufficiali dello Shabak. Per gli attivisti politici il governatore militare (sì, ci sono governatori militari da entrambi i lati della Linea Verde) può emanare un ordine di detenzione amministrativa in base a “prove” segrete dello Shabak, in modo che al detenuto o al suo avvocato non sia consentito neppure sapere di cosa sia accusato. Funzionari dello Shabak compaiono nei tribunali sotto falso nome e alla difesa non è permesso neppure vederne il volto. Le loro parole in tribunale sono considerate indiscutibili.

Appena lo Shabak ha iniziato a prendere di mira israeliani ebrei, certo senza mandarli in prigione ma solo in auto-isolamento, improvvisamente la stampa si è riempita di articoli sui suoi errori.

Una donna aveva fatto in modo che il marito, tornato dall’estero, stesse in auto-isolamento nella loro casa, mentre lei sarebbe rimasta con i genitori per poter continuare il suo lavoro. Ma dopo essere passata per strada nei pressi della sua casa per salutare il marito che era sul balcone a distanza di sicurezza, è stata messa anche lei in auto-isolamento. Un’altra donna ha preparato una torta per un vicino in isolamento e gliel’ha lasciata vicino alla porta chiusa. Anche lei è caduta nella rete dello Shabak. Altri si sono lamentati di non riuscire a capire perché gli sia stato detto di isolarsi, in quanto non gli è stato detto con chi e quando si sarebbero incontrati.

Persone la cui vita è stata improvvisamente sconvolta senza ragione hanno chiamato il ministero della Sanità e gli è stato risposto che non ne sapevano niente, è competenza dello Shabak. Gli hanno detto che “lo Shabak non sbaglia mai.”

Alcuni hanno tentato di chiamare direttamente lo Shabak ed hanno scoperto che non c’è modo di raggiungere il servizio segreto né di presentare ricorso contro le sue decisioni.

Un caso riportato in dettaglio è quello di un medico che aveva qualche sintomo e gli è stata fatta l’analisi del coronavirus. Il test è risultato negativo (nessun virus), ma a quanto pare è stato inserito un risultato sbagliato nel sistema. Subito tramite un messaggino sul telefono è stato ordinato ai suoi parenti, vicini e colleghi di auto-isolarsi. Persino lui, con rapporti con il sistema sanitario e con il certificato di test negativo in suo possesso, ha avuto molte difficoltà a convincere le autorità a riconsiderare la decisione. Solo dopo che i media hanno messo in evidenza l’assurdità della situazione il ministero della Sanità ha ammesso l’errore.

Ciò farà sì che ogni giudice israeliano ci pensi due volte prima di basarsi sulle “prove” segrete dello Shabak per mandare in galera un palestinese? C’è da dubitarne.

La polizia aggredisce abitanti palestinesi di Giaffa

Per le normali forze di polizia israeliane la dichiarazione del blocco totale del Paese è stata un’ulteriore opportunità per maltrattare i palestinesi. Non posso qui riportare le tante violenze in Cisgiordania, dove aggressioni generalizzate contro i palestinesi da parte di coloni e soldati sono già state riportate qui il 6 aprile. Quello che è meno noto è il grave attacco avvenuto l’1 e il 2 aprile contro i palestinesi di Giaffa, una città araba che è stata annessa a Tel Aviv ed ora è sottoposta a pesanti pressioni per “ebraicizzarla/ gentrizzarla”.

La popolazione araba di Giaffa è per lo più povera e marginalizzata, e i rapporti con la polizia erano tesi anche prima della pandemia. Quando è stato decretato il blocco totale, la polizia di Tel Aviv ha avuto l’opportunità di fare una dimostrazione di forza a Giaffa come non è mai stato fatto in nessun altro quartiere. Ha provocato due giorni di estesi scontri che sono continuati fino a notte inoltrata.

Non ho potuto andare a Giaffa, ma ho parlato per telefono con un attivista del posto ed ho sentito il racconto di prima mano su come tutto è accaduto. Il primo giorno, durante quella che avrebbe dovuto essere la messa in pratica del blocco, la polizia ha iniziato ad arrestare giovani del posto. Per quanto ho sentito, ciò che ha provocato di più gli abitanti è stato il fatto che la stessa polizia non abbia dimostrato alcuna intenzione di seguire le istruzioni contro l’infezione. Si spostavano in gruppi compatti, senza mascherine e colpivano la gente a mani nude. Una donna che ha cercato di proteggere suo figlio è stata gettata a terra, la sua testa ha battuto sull’asfalto ed ha iniziato a sanguinare. Le persone in tutto il quartiere scoppiavano di rabbia, non più disposte a sopportare.

Il secondo pomeriggio alcuni attivisti hanno iniziato una veglia silenziosa contro la violenza della polizia, cercando di mantenere il distanziamento sociale stabilito, rimanendo lontani. Benché l’ordine di chiusura totale consenta specificamente le manifestazioni, la polizia ha chiesto che i dimostranti si disperdessero e subito li ha attaccati. Poi la strada è stata chiusa e gli scontri sono ripresi.

Il terzo giorno è stata la stessa dirigenza locale palestinese che ha fatto di tutto per convincere gli attivisti e la popolazione in generale a rimanere in casa. Il pericolo di infezione era troppo grande, e la violenza della polizia e le proteste contro di essa contineranno probabilmente molto dopo la pandemia.

* * *

L’apartheid ha avvelenato le nostre vite per molti anni. È ancora più pericolosa in questi tempi difficili.

Yoav Haifawi è un attivista antisionista.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il cinema israeliano prova, senza riuscirci, a fare i conti con il terrorismo ebraico

Natasha Roth-Rowland

10 aprile 2020 – +972 Magazine

Quattro film recenti esaminano l’ascesa dell’estrema destra in Israele. Ma, nel dare un’immagine di eccezionalità ai loro personaggi, non riescono ad arrivare alle radici della loro ideologia.

Data l’accelerazione in corso negli ultimi anni in Israele del processo di normalizzazione dell’ideologia religiosa di estrema destra, non sorprende che i cineasti guardino alla storia del fanatismo di destra per cercare di capire come la politica israeliana abbia acquisito le sue attuali tendenze. Quattro film sull’argomento sono usciti in altrettanti anni: “Incitement” [Istigazione,ndtr.], che intraprende un viaggio nel mondo interiore di Yigal Amir, l’uomo che ha assassinato il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin; “The Prophet” [il profeta, ndtr.], che descrive la carriera del rabbino Meir Kahane (rabbino e politico ultranazionalista, ndtr.) mentre reca il suo messaggio di violenza della destra ebraica dalle strade di New York alle aule della Knesset (il parlamento ebraico, ndtr.); “The Settlers” [i coloni, ndtr.], che racconta la storia del movimento dei coloni; e “The Jewish Underground”, sull’omonimo gruppo terroristico.

“Incitement”, diretto da Yaron Zilberman, è una scrupolosa riproposizione dell’atmosfera dell’era di Oslo. Si concentra soprattutto sugli ebrei israeliani che si stavano mobilitando in opposizione ai colloqui e, più minacciosamente, a Rabin. La cinepresa si sofferma sulle immagini anti-Rabin nel campus dell’Università Bar-Ilan, nelle piazze e nelle strade: graffiti che istigano contro il primo ministro; manifesti stile “ricercato”, con un bersaglio sulla sua testa, che lo qualificano “L’Assassino”; e cartelli che nel corso di feroci manifestazioni lo mostrano con indosso una kefiah o un’uniforme delle SS.

Vediamo anche Amir partecipare al funerale di Baruch Goldstein, che uccise 29 palestinesi nella Moschea Ibrahimi di Hebron nel febbraio 1994. Lì sente un rabbino discutere della liceità di un mandato di morte religioso contro Rabin, sulla base del fatto che il primo ministro, con la negoziazione di un compromesso territoriale, ha messo in pericolo gli ebrei. Amir già nelle prime sequenze del film ha assistito ad altre argomentazioni simili. Da ciò siamo portati ad assumere che il passo perché proprio lui esegua quella condanna a morte possa essere breve.

Ci sono altri momenti premonitori. All’inizio, la madre di Amir racconta a una donna che egli ha invitato a casa e a cui è sentimentalmente interessato che il suo nome, Yigal, significa “Egli redimerà” e che lei è convinta che riscatterà “la sua gente”. Suo figlio, dice, è destinato alla grandezza, un messaggio che ripete ad Amir quando la sua possibile fidanzata lo rifiuta. In un’altra scena di famiglia, una delle più intense del film, il padre di Amir, avendo scoperto i piani di suo figlio, gli urla: “Ci vorranno generazioni – generazioni! – per guarire una tale ferita.”

“Incitement” affronta anche il contesto originario di Amir in quanto figlio di immigrati yemeniti in Israele. Una serie di tensioni aggrovigliate tra loro è presente nella sua famiglia: il disprezzo di sua madre per l’elitarismo razzista degli israeliani ashkenaziti [i discendenti delle comunità ebraiche di lingua e cultura yiddish stanziatisi nel medioevo nella valle del Reno, ndtr.]; le discussioni tra lei, un’estremista, e suo padre, che è più fiducioso sugli Accordi di Oslo; l’evidente disagio dell’amica ashkenazita di Amir quando arriva e assiste allo svolgersi di una riunione di famiglia, allusione all’emarginazione di Amir nella società israeliana in quanto ebreo Mizrahi [ebrei orientali, provenienti dai paesi del mondo arabo, ndtr.].

Eppure il film si occupa ben poco di queste dinamiche all’interno del mondo religioso-sionista. Qui, i rabbini istigatori contro Rabin sono invariabilmente Ashkenazi. Nel mondo reale, in seguito all’assassinio, alcuni componenti della classe religioso-sionista cercarono di assolversi dalla responsabilità dell’omicidio indicando la discendenza Mizrahi di Amir come prova del suo status di estraneo.

Il fatto che conosciamo la fine della storia non contribuisce minimamente ad alleviare la tensione nel film. Al contrario, il film prelude all’incombente disastro fin dal primo fotogramma. Il montaggio sulle riprese di un cinegiornale d’archivio nel corso della successione degli eventi accresce il senso di premonizione, anche durante gli ultimi momenti del film, quando vediamo i fotogrammi sgranati del vero Amir, riconoscibile con la sua maglietta blu, in attesa dell’auto di Rabin, intervallati da immagini in primo piano di lui che parla amichevolmente con la scorta di sicurezza di Rabin. Loro credono che sia uno di loro.

Come molti altri film israeliani recenti, “Incitement” allude chiaramente al fatto che l’estremismo abbia messo radici ai vertici della politica israeliana, incarnato nella figura di Benjamin Netanyahu e in quella del gruppo di rabbini religioso-sionisti che hanno posto una taglia religiosa sulla testa di Rabin. Zilberman termina con le riprese della presenza di Netanyahu alle rabbiose proteste anti-Rabin prima dell’assassinio, inclusa la sua famigerata comparsa su un balcone che si affaccia sulla Piazza Sion di Gerusalemme, mentre gli israeliani di destra chiedono urlando la morte di Rabin.

Zilberman ha ragione a stabilire questa connessione, ma dato che si tratta di un film sul nazionalismo religioso estremista e considerando il momento politico in cui il suo lavoro viene presentato, esso appare come un’occasione mancata. Il film evita di interrogarsi sui legami più profondi tra le élite religioso sioniste e quelle politiche in Israele. In maniera ancora più lacunosa, il film si ritrae dall’esame del perché Netanyahu abbia avuto tanto successo e perché, pochi mesi dopo aver contribuito ad istigare all’omicidio di Rabin, sia stato eletto a capo del successivo governo israeliano.

Questa omissione si coniuga in parte coll’assenza quasi totale di palestinesi nel film. È vero che “Incitement” è una storia sul mondo etnicamente isolato della destra religiosa israeliana e sulla follia inesplorata in cui è piombato in occasione degli Accordi di Oslo. Ma il film è inteso come una immersione profonda nell’ideologia di quello stesso gruppo, e quanto può essere efficace un simile intento se non riesce a interagire con l’oggetto della paura e dell’odio di quell’ideologia? Rabin è davvero il principale bersaglio dei protagonisti del film, ma solo nella misura in cui Amir e i suoi coetanei credevano che fosse un fantoccio dei palestinesi, e quindi una minaccia mortale per lo stato ebraico.

Con questa lacuna, il film ha forse detto più di quanto intendesse sul momento attuale: “Incitement” è arrivato nei cinema statunitensi a pochi giorni dall’annuncio del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che ha rivelato il suo “Accordo del Secolo”, una tabella di marcia verso l’annessione che ha stabilito piani dettagliati per il futuro della Palestina senza consultare nessuno di coloro che dovrebbero viverci. Nel film, come nel piano di Trump, i palestinesi sono presenti assenti.

L’ estrema destra israeliana è ugualmente sotto il microscopio in “The Prophet”, del regista Ilan Rubin Fields. Il documentario del 2019 esplora la carriera del rabbino estremista nato a Brooklyn Meir Kahane, che ha fondato a New York negli anni ’60 la Jewish Defense League [Lega di Difesa Ebraica, ritenuta dal FBI un’organizzazione terrorista per i suoi atti di violenza, ndtr.] e, negli anni ’80, è stato presente nel parlamento israeliano come unico rappresentante del suo partito, Kach. Ripercorre alcuni degli atti più noti di Kahane e della JDL, dall’attentato dinamitardo del 1970 negli uffici dell’Aeroflot a New York, alla proposta di Kach di aprire un “ufficio di emigrazione” nella città palestinese settentrionale di Umm al-Fahm, al fine di tentare di incoraggiare i cittadini palestinesi a lasciare il paese.

Nel corso del film Fields intervista i membri di Otmza Yehudit, il partito kahanista che ha partecipato lo scorso anno al triplo round delle elezioni israeliane, i cui leader sono tutti ex accoliti di Kahane. Baruch Marzel, commentando le proposte di Kahane di espellere i palestinesi dalla totalità della biblica “Terra di Israele”, osserva che il suo mentore “ha sottolineato una contraddizione intrinseca tra lo stato ebraico e la democrazia”. Qualsiasi altra opzione è frutto di fantasia, afferma Marzel: “O è democratico o è ebraico. Non può essere entrambi.” Un simile concetto, ribadisce l’esperto di diritto Moshe Negbi, viene affermato nella dichiarazione delle Nazioni Unite del 1975 secondo la quale il sionismo è razzismo.

Questa discussione, condotta attraverso interviste dirette, piuttosto che attraverso dialoghi, rappresenta uno dei due difetti del film. Sembra guardare direttamente negli occhi le contraddizioni tra avere uno Stato etnico particolaristico e una democrazia, per poi distogliere nuovamente lo sguardo, respingendola come semplicemente un’idea inconcepibile espressa da estremisti.

Questo è un peccato, perché il film di Fields va oltre “Incitement” nel sottolineare come nella società e nella politica israeliane si trovino il razzismo sistemico e lo sciovinismo. Verso la conclusione del film rievoca una serie di attacchi terroristici ebraici – il massacro di Goldstein [nel 1994, nella Moschea di Ibrahimi a Hebron, ndtr.], l’omicidio di Muhammad Abu Khdeir [16 enne palestinese sequestrato e ucciso da cittadini israeliani il 2 luglio 2014, ndtr.], il bombardamento della casa dei Dawabshe a Douma [nel Luglio del 2016, in cui morirono 3 membri della famiglia, tra cui un bambino di 18 mesi, ndtr.] – e poi abilmente passa alla Knesset, mostrando i politici del Likud mentre diffamano i palestinesi, prima di terminare con l’approvazione della legge ebraica sullo Stato – Nazione. I fotogrammi finali del film mostrano scene del Giorno dell’Indipendenza di Israele, una festa di bandiere e fuochi d’artificio.

Il messaggio implicito qui è chiaro: una malattia strutturale ha messo radici nello Stato di Israele. E nel 2020, quando il partito Likud, che ha governato il paese per più di 30 anni, ha ripetutamente offerto supporto a Otzma Yehudit [partito politico israeliano di estrema destra, ndtr.] e si è impegnato a conquistarne gli elettori, l’impostazione di Fields appare realisticamente efficace. Ma il documentario, nel suo sviluppo e nel trascurare la storia pre-Kahane, lascia l’impressione che sia un singolo demagogo a produrre il marciume, piuttosto che esporre e discutere la profonda xenofobia e la paranoia razzista che hanno fatto parte delle caratteristiche dello Stato dal primo giorno.

L’altro grande difetto del documentario è l’incapacità di intervistare neppure una donna o un singolo palestinese. (viene mostrata una donna nella veste di intervistata nel filmato di archivio che Rubin include nel film.) Data la centralità delle questioni della purezza etnica e di genere (e le connessioni tra loro) nell’ideologia kahanista – e nell’ideologia israeliana di estrema destra in generale – questo rappresenta un paio di sorprendenti omissioni. Lascia essenzialmente che la storia sia raccontata solo da quelli che si trovano nel suo pieno centro, che sono quasi esclusivamente uomini ashkenaziti, e cancella le voci di chi si trova ai margini dell’estrema destra e delle sue vittime.

Dei quattro film, “The Jewish Underground” è forse quello che riesce meglio a dimostrare che l’acquiescenza nei confronti dei violenti radicali di destra è una caratteristica, e non un errore, del sistema politico israeliano. Anche questo, tuttavia, inciampa a proposito della parità di genere dei suoi intervistati: nella prima ora non riesce a includere nessuna donna tra i personaggi. È significativo che l’unica comparsa di una donna in questa parte risulta sullo sfondo di un’intervista con uno dei leader del gruppo; è una figura sfocata, con le spalle rivolte verso gli spettatori, in piedi in cucina.

Tuttavia, ciascuno di questi quattro film riesce, in qualche modo, a rendere l’eccezionalità dei suoi personaggi. Si concentrano tutti su gruppi o individui che sono in qualche modo ritenuti al di fuori dell’opinione corrente israeliana, e quindi li presentano come aberrazioni, piuttosto che prodotti della società israeliana. Nonostante, con pregi e difetti, venga riportata la visione violenta e sciovinista del mondo da parte di quegli uomini, questo approccio aderisce al modo in cui questi personaggi vengono rappresentati nell’ambito dell’opinione pubblica israeliana: come mostri che aspettano dietro le quinte per poi irrompere sulla scena per tentare di rovinare del tutto Israele.

Attraverso la scelta di esempi del calibro di Kahane, Amir e Jewish Underground, senza affrontare

seriamente le radici ideologiche e storiche della loro politica – ponendo l’origine di tutto nel 1967 e non nel 1948 – questi film smettono di essere quella trasparente resa dei conti che si sforzano di rappresentare. In questo senso, riflettono la specifica odierna focalizzazione su Netanyahu come fonte delle tendenze antidemocratiche nella società israeliana, con un collegamento pressoché nullo riguardo ciò che significava la “democrazia” israeliana prima della sua salita al potere.

Va bene osservare Kahane e i suoi seguaci che urlano “fuori gli Arabi;” osservare Miri Regev sul seggio della Knesset dire alla parlamentare Haneen Zoabi del partito Balad : “Torna a Gaza, traditrice;” osservare le proteste dei parlamentari del partito Lista Unita guidata da palestinesi, i quali vengono espulsi dall’aula plenaria della Knesset, mentre i loro colleghi approvano la legge ebraica sullo Stato Nazione. Ma senza riconoscere che lo Stato sta dicendo, in un modo o nell’altro, “fuori gli Arabi!” dal 1948, i cineasti e gli osservatori in generale non riusciranno mai a capire chi siano questi “mostri”, né respingeranno il caos che essi provocano.

Natasha Roth-Rowland è dottoranda in Storia presso l’Università della Virginia, dove fa ricerca e scrive sull’estrema destra ebraica in Israele-Palestina e negli Stati Uniti. Precedentemente ha trascorso diversi anni come scrittrice, editrice e traduttrice in Israele-Palestina e il suo lavoro è apparso su The Daily Beast, sul London Review of Books Blog, su Haaretz, su The Forward e su Protocols. Scrive sotto il vero cognome della sua famiglia in memoria di suo nonno, Kurt, che fu costretto a cambiare il suo cognome in “Rowland” quando richiese asilo nel Regno Unito durante la seconda guerra mondiale.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Come Israele vede il mondo del dopo coronavirus

Redazione di MEE

14 aprile 2020 – Middle East Eye

La diplomazia israeliana prevede un mondo post-coronavirus in crisi, da cui deriveranno delle opportunità come l’esportazione delle tecnologie di sorveglianza

La pandemia da coronavirus comporterà nel futuro maggiori rischi, più instabilità nella regione mediorientale, un cambiamento nelle regole del commercio mondiale…ma offrirà nuove opportunità a Israele. Queste sono, in sintesi, le previsioni del Ministero israeliano degli Affari Esteri, contenute in un documento elaborato da una ventina di esperti e diplomatici nel febbraio 2020, sotto la direzione di Oren Anolik, capo dell’ufficio di programmazione politica del Ministero, e pubblicato dal giornale israeliano Israel Hayom [quotidiano gratuito israeliano di destra, ndtr.].

Anche se il coordinatore di questo lavoro, Oren Anolik, ammette che “le cose cambiano di giorno in giorno” e che “ci sono più domande che risposte”, non di meno da questo documento interno emergono alcune certezze, come per esempio il fatto che “il villaggio globale di libero scambio non sopravviverà alla pandemia.”

Il mondo va verso una crisi economica che ricorderà la grande depressione (degli anni ’30 del Novecento) e il PIL mondiale è già diminuito del 12%. La crisi economica potrebbe comportare una diminuzione della domanda di gas naturale, il che assesterebbe un grave colpo al settore delle esportazioni sul quale Israele faceva affidamento per i prossimi anni”, vi si legge.

Il commercio internazionale cambierà

In futuro i giacimenti di gas naturale sfruttati da Israele sono destinati a diventare parte essenziale della sua economia, spiegava sulle pagine di Middle East Eye il giornalista e blogger israeliano Dimi Reider.

Inoltre, “secondo gli esperti la crisi economica comporterà una concorrenza più agguerrita tra i Paesi, in particolare per i prodotti legati alle cure sanitarie. La domanda mondiale di dotazioni legate alla cura dovrebbe continuare e potrebbe diventare una fonte di tensioni internazionali”.

I diplomatici e gli esperti israeliani prevedono che “la combinazione di queste tensioni e della crisi economica internazionale, insieme ad un’industria aeronautica paralizzata, creerà nuove regole nel commercio internazionale.”

Secondo il documento degli Affari Esteri israeliani, “il commercio internazionale cambierà, le Nazioni alzeranno i ponti levatoi e ricostituiranno le proprie catene di produzione e di approvvigionamento, soprattutto negli ambiti essenziali alla sicurezza nazionale, nonostante i costi che ne deriveranno.” E questo con una massiccia riduzione o un aumento dei costi delle esportazioni di beni vitali come le apparecchiature sanitarie.

In questo contesto Israele dovrà concentrarsi su questo nuovo dato di fatto: la crisi sanitaria è diventata “un catalizzatore dell’espansione della Cina in quanto potenza mondiale.”

Anche se la Cina ha ‘esportato’ il virus, è stata la prima Nazione che si è ripresa, il che le ha dato un vantaggio sugli Stati Uniti. L’aiuto internazionale che la Cina ha fornito ai Paesi colpiti dall’epidemia del coronavirus, unito alla riluttanza degli Stati Uniti ad agire come gendarme del mondo, sta dando una spinta alla Cina”, afferma il rapporto interno.

L’ossessione iraniana

Gli esperti e i diplomatici israeliani consigliano di proseguire la “relazione speciale” con Washington, “una priorità diplomatica”, secondo loro, pur approfittando delle opportunità, soprattutto economiche, legate a Pechino.

Quanto all’area geostrategica più prossima ad Israele, il rapporto avverte che “i vicini pacifici, come la Giordania o l’Egitto”, che versano già in difficoltà economiche, “potrebbero subire una destabilizzazione”.

Un’altra preoccupazione riguarda l’ossessione israeliana: l’Iran. “Il timore è di vedere che l’Iran, dove il coronavirus sta massacrando ciò che resta dell’economia, possa precipitarsi a costruire armi nucleari per mantenere in piedi il regime.”

L’altra paura degli israeliani, riferita nel rapporto, è che “ la crisi mondiale rafforzi i ranghi di organizzazioni terroristiche come lo Stato islamico o al-Qaida.”

Tuttavia in questo quadro apocalittico ci sarebbero “degli aspetti positivi” dal punto di vista israeliano: “Il Ministero prevede un aumento della domanda mondiale di prodotti di alta tecnologia, soprattutto nell’ambito della gestione e della sorveglianza a distanza. Questo potrebbe essere un affare per Israele, che dispone di un settore di alta tecnologia molto sviluppato.”

Anche la versatilità del mercato israeliano e la sua capacità di adattarsi a situazioni nuove sono state citate come vantaggi. L’utilizzo da parte di Israele di mega dati e della tecnologia per combattere l’epidemia di coronavirus senza gravi violazioni delle libertà individuali potrebbe offrire ad Israele una prospettiva allettante”, conclude il quotidiano Israel Hayom.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Il fango su Ken Loach e Jeremy Corbyn è il volto della nostra nuova politica tossica

Jonathan Cook

9 aprile 2020 Z Net Italy

Ken Loach, uno dei registi britannici più acclamati, ha passato più di mezzo secolo a mettere in scena il calvario dei poveri e dei vulnerabili. I suoi film hanno spesso presentato l’indifferenza casuale o l’attiva ostilità dello stato mentre esercita sulla gente comune un potere non chiamato a rispondere.

Il mese scorso Loach si è trovato gettato in una vicenda feroce che avrebbe potuto essere stata tratta direttamente da uno dei suoi film. Questo cronista veterano dei mali della società è stato costretto a dimettersi da giudice di un concorso scolastico antirazzista, accusato falsamente di razzismo lui stesso e senza mezzi per rimediare.

Voce degli inermi

Dovrebbero esserci pochi dubbi sulle credenziali di Loach sia come antirazzista, sia come caustico difensore degli inermi e dei denigrati.

Nei suoi film ha rivolto il suo sguardo risoluto su alcuni degli episodi più odiosi della repressione e della brutalità dello stato britannico in Irlanda, nonché su lotte storiche contro il fascismo in altre parti del globo, dalla Spagna al Nicaragua.

Ma la sua attenzione critica è stata concentrata principalmente sul vergognoso trattamento della Gran Bretagna dei suoi stessi poveri, delle sue minoranze e dei suoi rifugiati. Nel suo recente film I, Daniel Blake ha esaminato l’insensibilità della burocrazia statale nell’attuare politica di austerità, mentre l’uscita di quest’anno di Sorry We Missed You si è concentrata sulle vite precarie di una forza lavoro a zero ore costretta a scegliere tra la necessità di lavorare e la responsabilità della famiglia.

Inevitabilmente, questi studi aspri della disfunzione sociale e politica britannica – esposta in modo ancor più feroce dall’attuale pandemia del coronavirus – significano che Loach è onorato molto meno in patria che nel resto del mondo, dove i suoi film ricevono regolarmente premi.

Il che può spiegare perché le straordinarie accuse di razzismo contro di lui – o più specificamente di antisemitismo – non sono state più diffusamente denunciate come maligne.

Campagna di denigrazione

Dal momento in cui è stato annunciato a febbraio che Loach e Michael Rosen, un famoso poeta di sinistra per bambini, dovevano giudicare un concorso artistico per le scuole contro il razzismo, la coppia ha subito una campagna di denigrazione incessante e di alto profilo. Ma considerato il fatto che Rosen è ebreo, a fare le spese dell’attacco è stato Loach.

L’organizzazione del premio, ‘Show Racism the Red Card’ [Mostra il cartellino rosso al razzismo], che inizialmente aveva rifiutato di capitolare al bullismo, si è trovata rapidamente a subire minacce al suo status di associazione di beneficenza e alla sua opera di sradicamento del razzismo dal calcio.

In una dichiarazione la società di produzione di Loach, Sixteen Films, ha affermato che Show Racism the Red Card era stata “oggetto di una campagna aggressiva per convincere sindacati, dipartimenti governativi, squadre di calcio e politici a smettere di finanziare o di sostenere in altro modo l’associazione di beneficenza e il suo lavoro”.

“Pressioni dietro le quinte” sono state esercitate dal governo e da squadre di calcio che hanno cominciato a minacciare di tagliare i legami con l’associazione di beneficenza.

Più di duecento figure di spicco dello sport, dell’accademia e delle arti, si erano schierate a difesa di Loach, ha segnalato Sixteen Films, ma era presto in gioco “l’esistenza stessa” dell’associazione di beneficenza. Di fronte a questo continuo attacco Loach ha accettato di dimettersi il 18 marzo.

Questa non è stata una protesta comune, bensì una organizzata con feroce efficienza che ha trovato rapidamente orecchie favorevoli nei corridoi del potere.

Lobby israeliana in stile statunitense

A guidare la campagna contro Loach e Rosen sono stati il Consiglio dei Deputati degli Ebrei Britannici e il Movimento Laburista Ebreo [JLM], due gruppi con cui molti a sinistra hanno familiarità.

Hanno lavorato in precedenza all’interno e all’esterno del Partito Laburista per contribuire a indebolire Jeremy Corbyn, il suo leader eletto. Corbyn si è dimesso questo mese per essere sostituito da Keir Starmer, il suo ex ministro della Brexit, dopo aver perso elezioni generali a dicembre contro il Partito Conservatore al governo.

Sforzi clandestini e di lungo corso del Movimento Laburista Ebreo per deporre Corbyn sono stati rivelati due anni fa in un’inchiesta sotto copertura filmata da Al-Jazeera.

Il JLM è piccolo gruppo lobbistico, fortemente filoisraeliano affiliato al Partito Laburista, mentre il Consiglio dei Deputati afferma falsamente di rappresentare la comunità ebrea britannica quando in realtà opera da lobby per gli elementi più conservatori di essa.

Echeggiando la loro più recente campagna contro Loach, i due gruppi hanno regolarmente accusato Corbyn di antisemitismo e di presiedere quello che hanno definito un Partito Laburista “istituzionalmente antisemita”. Pur attirando molta attenzione mediatica acritica alle loro affermazioni, nessuna delle due organizzazioni ha prodotto una qualsiasi prova se non aneddotica.

Il motivo di queste campagne di denigrazione è stato scarsamente celato. Loach e Corbyn hanno condiviso una lunga storia di difensori appassionati dei diritti dei palestinesi in un tempo in cui Israele sta intensificando gli sforzi per estinguere qualsiasi speranza che i palestinesi ottengano mai la condizione di stato o un diritto all’autodeterminazione.

In anni recenti il Consiglio dei Deputati e il Movimento Laburista Ebreo hanno adottato le tattiche di una lobby in stile statunitense decisi a cancellare le critiche di Israele dalla sfera pubblica. Non per caso, quanto peggiore è cresciuta la violenza di Israele contro i palestinesi, tanto più intensamente questi gruppi hanno reso difficile parlare di giustizia per i palestinesi.

Starmer, il successore di Corbyn, si è scomodato a placare la lobby durante la campagna del mese scorso per la direzione del Partito Laburista, allegramente rendendo una cosa sola la critica di Israele e l’antisemitismo, per evitare uno scontro simile. La sua vittoria è stata apprezzata sia dal Consiglio sia dal JLM.

Diffamazione

Ma il trattamento riservato a Ken Loach dimostra che l’uso dell’antisemitismo come arma è lungi dall’essere terminato, e continuerà contro critici di spicco di Israele. E’ una spada pendente su futuri leader laburisti, che li costringe a sradicare i membri del partito che persistono nell’evidenziare o l’intensificazione israeliana della violenza contro i palestinesi o il ruolo nefasto di gruppi lobbistici filoisraeliani quali il Consiglio e il JLM.

Le basi per le accuse contro Loach erano, al meglio, inconsistenti, radicate in una logica circolare che è divenuta ultimamente la norma nel giudicare presunti esempi di antisemitismo.

Il reato di Loach secondo il Consiglio dei Deputati e il Movimento Laburista Ebreo è consistito nell’aver negato – coerentemente con tutti i dati – che il Partito Laburista sia istituzionalmente antisemita.

La richiesta di prove a sostegno delle affermazioni fatte da questi due organismi che il Partito Laburista abbia una crisi di antisemitismo è ora trattata anch’essa come prova di antisemitismo, trasformandola nell’equivalente della negazione dell’Olocausto.

Ma quando Show Racism the Red Card ha inizialmente mantenuto la posizione contro le calunnie, il Consiglio e il Movimento Laburista Ebreo hanno prodotto un’accusa successiva. L’associazione di beneficenza antirazzista è risultata usarla come pretesto per tirarsi fuori dai guai montanti associati a sostenere Loach.

La nuova affermazione contro Loach è consistita non tanto in una diffamazione quanto in una diffamazione mediante tenue associazione.

Il Consiglio e il Movimento Laburista Ebreo hanno sollevato il fatto irrilevante che un anno fa Loach ha risposto a una e-mail di un membro del sindacato GMB che era stato espulso.

Peter Gregson aveva chiesto la valutazione professionale di Loach di un video in cui accusava il sindacato di averlo perseguitato per la sua opposizione a una nuova definizione consultiva dell’antisemitismo da parte dell’Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto (IHRA) che parifica apertamente l’antisemitismo con la critica di Israele.

La definizione dell’IHRA è stata propinata al Partito Laburista due anni fa dagli stessi gruppi – il Movimento Laburista Ebreo e il Consiglio dei Deputati – in larga misura come modo per isolare Corbyn. C’era stata una gran quantità di opposizione da parte dei membri della base.

Opposizione alla nuova definizione

Al gruppo lobbistico filoisraeliano è piaciuta questa nuova definizione – sette dei suoi esempi di antisemitismo si riferiscono a Israele, non agli ebrei – perché rendeva impossibile a Corbyn e ai suoi sostenitori criticare Israele senza finire sotto la forca mediante affermazioni che erano antisemiti nel farlo.

Loach è stato tra i molti sostenitori di Corbyn a tentare di opporsi all’imposizione della definizione dell’IHRA. Così non è stata certo una sorpresa, considerate le affermazioni di Gregson e i paralleli della sua vicenda con molte altre che Loach ha documentato per decenni, che il regista avesse risposto, offrendo la sua opinione critica del video.

Solo in seguito è stato raccontato a Loach che c’erano problemi separati riguardo al comportamento di Gregson, tra cui un’accusa che si era scontrato con un membro ebreo del sindacato. Loach ha preso le distanze da Gregson e appoggiato la decisione del GMB.

Ciò avrebbe dovuto dire la parola fine alla vicenda. Loach è una figura pubblica che considera parte del suo ruolo coinvolgersi con persone comuni bisognose d’aiuto; nulla di meno, considerate le sue idee politiche, lo renderebbe un ipocrita. Ma non è onnisciente. Non può conoscere il passato di ogni individuo che gli attraversa la strada. Non può controllare ogni persona prima di inviare una e-mail.

Sarebbe sciocco, tuttavia, prendere alla lettera le manifestazioni di preoccupazione a proposito di Loach del Consiglio e del Movimento Laburista Ebreo. Di fatto la loro opposizione a lui è relativa a un dissenso molto più fondamentale circa che cosa possa o non possa essere detto riguardo a Israele, un dissenso su cui la definizione dell’IHRA serve da cruciale campo di battaglia.

Discorso tossico

I loro attacchi evidenziano un discorso sempre più, e intenzionalmente, tossico a proposito dell’antisemitismo che oggi domina la vita pubblica britannica. Attraverso la recente pubblicazione dei suoi cosiddetti dieci impegni, il Consiglio dei Deputati ha richiesto a tutti i futuri leader laburisti di accettare questo stesso discorso tossico o subire il destino di Corbyn.

Non è una coincidenza che il caso di Loach abbia echi così forti della persecuzione pubblica di Corbyn.

Entrambi sono figure pubbliche rare che hanno dedicato per molti decenni il loro tempo e le loro energie a schierarsi dalla parte dei deboli contro i forti, difendendo i meno in grado di difendersi da soli.

Entrambi sono sopravvissuti di una generazione che sta svanendo di attivisti politici e intellettuali che continuano a promuovere la tradizione di una lotta di classe manifesta, basata su diritti universale, anziché sulla politica più alla moda, ma fortemente divisiva, dell’identità e delle guerre culturali.

Loach e Corbyn sono i rimasti di una sinistra britannica postbellica le cui ispirazioni erano molto diversa da quelle del centro e della destra politica, e dalle influenze su molti giovani di oggi.

Lotta contro il fascismo

In patria sono stati ispirati dalle lotte antifasciste dei loro genitori negli anni Trenta con le Camice Brune di Oswald Moseley, quali la Battaglia di Cable Street. E in gioventù sono stati incoraggiati dalla solidarietà di classe che costruì un Servizio Sanitario Nazionale dagli anni Quaranta in poi, che per la prima volta forniva assistenza sanitaria uguale per tutti nel Regno Unito.

All’estero furono galvanizzati dalla lotta popolare, estesa in tutto il pianeta, contro il razzismo istituzionale dell’apartheid in Sudafrica, una lotta che gradualmente erose il sostegno dei governi occidentali al regime bianco. E sono stati in prima linea nell’ultima grande mobilitazione politica di massa contro le menzogne ufficiali che giustificavano la guerra di aggressione di USA-Regno Unito contro l’Iraq nel 2003.

Ma come la maggior parte di questa sinistra morente sono perseguitati dal maggior fallimento della solidarietà internazionale della loro generazione. Le loro proteste non hanno fatto finire i molti decenni di oppressione coloniale sofferti dal popolo palestinese e patrocinati dagli stessi stati occidentali che un tempo erano schierati con il Sudafrica dell’apartheid.

I paralleli tra questi due progetti coloniali d’insediamento appoggiati dall’occidente, in gran parte oscurati da politici e da media britannici, sono estremi e inquietanti per loro.

Purga della politica di classe

La demonizzazione di Loach e Corbyn quali antisemiti – e gli sforzi paralleli attraverso l’Atlantico di zittire Bernie Sanders (resi più complicati dal suo essere ebreo) – sono prova di una purga pubblica finale da parte delle dirigenze politiche e mediatiche occidentali di questo tipo di coscienza di classe della vecchia scuola.

Attivisti come Loach e Corbyn vogliono una resa dei conti storica per l’interferenza coloniale dell’occidente in altre parti del mondo, tra cui l’eredità catastrofica da cui i cosiddetti “migranti” stanno fuggendo oggi.

E’ stato l’occidente che ha saccheggiato per secoli suoli stranieri, poi armato i dittatori che avrebbero portato l’indipendenza a quelle ex colonie e oggi invadono o attaccano quelle stesse società in falsi “interventi umanitari”.

Analogamente la lotta internazionalista, su basi classe, di Loach e Corbyn rigetta una politica identitaria che, anziché riconoscere la lunga storia di crimini commessi dall’occidente contro donne, minoranze e profughi, incanala le energie degli emarginati in una competizione per chi possa avere il permesso di sedere al massimo tavolo con una élite bianca.

E’ precisamente questo genere di falsa coscienza che conduce ai festeggiamenti delle donne quando dirigono il complesso militare-industriale, o all’eccitazione per un nero che diventa presidente degli Stati Uniti sono per usare il suo potere per fissare nuovi record di assassinii extragiudiziali all’estero e di repressione del dissenso politico in patria.

L’attivismo di base di Loach e Corbyn è l’antitesi di una politica moderna in cui le imprese usano la loro enorme ricchezza per condizionare e comprare politici, che a loro volta usano i loro propagandisti per controllare il discorso pubblico attraverso media industriali fortemente di parte e favorevoli.

Preoccupazione ipocrita

Il Consiglio dei Deputati e il Movimento Laburista Ebreo sono fortemente radicati in quest’ultimo tipo di politica, sfruttando un’identità politica per conquistare un posto al massimo tavolo e poi usarlo per il lobbismo a favore della loro causa scelta di Israele.

Se questo sembra scorretto, si ricordi che mentre il Consiglio e il Movimento Laburista Ebreo hanno martellato su una presunta crisi di antisemitismo a sinistra definita principalmente in termini di ostilità a Israele, la destra e l’estrema destra anno ricevuto un lasciapassare per attizzare livelli sempre maggiori di nazionalismo e razzismo bianco contro minoranze.

Queste due organizzazioni hanno non solo deviato lo sguardo dall’ascesa della destra nazionalista – che è ora inserita nel governo britannico – ma si sono schierate dalla sua parte.

In particolare i leader del Consiglio – nonché il rabbino capo Ephraim Mirvis, che ha pubblicamente oltraggiato Corbyn come antisemita giorni prima delle elezioni generali dell’anno scorso – si sono a malapena presi la briga di celare il loro sostegno al governo Conservatore e al primo ministro Boris Johnson.

Le loro manifestazioni di preoccupazione per il razzismo e i loro attacchi allo status di associazione di beneficenza di Show Racism the Red Card sono tanto più ipocrite, considerato i loro precedenti di sostegno del razzismo.

Entrambi i gruppi hanno ripetutamente appoggiato Israele nelle sue violazioni dei diritti umani e nei suoi attacchi contro i palestinesi, compreso l’impiego israeliano di cecchini per abbattere uomini, donne e bambini in protesta contro più di un decennio di strangolamento di Gaza con un blocco.

Le due organizzazioni sono rimaste studiatamente in silenzio riguardo alla politica razzista israeliana di consentire a squadre di calcio degli insediamenti ebrei illegali nella West Bank di partecipare alla lega calcio in violazione delle regole della FIFA.

E hanno appoggiato anche lo status di associazione di beneficenza del Fondo Nazionale Ebreo nel Regno Unito, anche se finanzia progetti razzisti di insediamento e i programmi di rimboschimento che sono mirati a cacciare palestinesi dalla loro terra.

La loro ipocrisia è sconfinata.

La verità capovolta

Il fatto che il Consiglio dei Deputati e il Movimento Laburista Ebreo siano stati in grado di esercitare una simile influenza contro Loach su accuse prive di qualsiasi prova indica quanto entusiasticamente la lobby israeliana sia stata integrata nel sistema britannico e ne serva i propositi.

Israele è un pilastro di un’alleanza militare occidentale informale desiderosa di proiettare il proprio potere nel Medio Oriente ricco di petrolio. Israele esporta la sua tecnologia oppressiva e i suoi sistemi di sorveglianza, affinati nel dominare sui palestinesi, a stati occidentali affamati di sistemi di controllo più sofisticati. E Israele ha contribuito a fare a pezzi le regole internazionali radicando la sua occupazione, oltre che aprendo la strada alla legittimazione della tortura e delle esecuzioni extragiudiziali, oggi perni della politica estera statunitense.

Il posto centrale di Israele in questa matrice di potere è raramente discusso, perché le dirigenze occidentali non hanno interesse a vedere rivelati la loro malafede e i loro doppi metri.

Il Consiglio e il Movimento Laburista Ebreo stanno aiutando a controllare e imporre tale silenzio su Israele, un alleato chiave dell’occidente. In stile realmente orwelliano stanno capovolgendo l’accusa di razzismo, usandola contro i nostri più eminenti e più risoluti antirazzisti.

E meglio ancora per le dirigenze occidentali, figure come Loach e Corbyn  –  veterani della lotta di classe che hanno trascorso decenni immersi nella lotta per costruire una società migliore – sono ora costretti all’oblio sull’incudine della politica identitaria.

Se a questa perversione del nostro discorso democratico sarà consentito di proseguire, le nostre società saranno condannate e divenire luoghi più orrendi, più divisi e divisivi.

Questo articolo è apparso inizialmente sul blog di Jonathan Cook: https://www.jonathan-cook.net/blog/

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale Martha Gellhorn per il Giornalismo. I suoi libri includono: “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” (Pluto Press) e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” (Zed Books). Il suo sito web è www.jonathan-cook.net

 




In mezzo alla pandemia aumentano del 78% le aggressioni dei coloni

Tamara Nassar

11 aprile 2020 electronicintifada

In piena pandemia di COVID-19 nella Cisgiordania occupata si registra un forte aumento della violenza dei coloni israeliani contro i palestinesi.

Anche dopo che il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha chiesto un cessate il fuoco globale per ostacolare la diffusione della pandemia, Israele ha ucciso due palestinesi, incluso un bambino, e incrementato gli attacchi.

Israele ha continuato i suoi “raid militari in Cisgiordania, condotto arresti diffusi e detenzioni amministrative, ha permesso gravi accessi di violenza da parte dei coloni e ha continuato la sua draconiana chiusura della Striscia di Gaza”, ha affermato l’organizzazione per i diritti palestinesi Al Haq.

Nelle ultime due settimane di marzo, il numero di aggressioni dei coloni contro i palestinesi è stato del 78% superiore al solito, secondo il gruppo di monitoraggio dell’ONU OCHA.

Durante questo periodo, “almeno 16 assalti di coloni israeliani hanno ferito cinque palestinesi e causato gravi danni materiali”, ha riferito l’OCHA.

Anche se Mohammad Shtayyeh, primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha ordinato un isolamento di due settimane a tutti i residenti palestinesi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, la sua decisione non ha avuto alcun impatto sui circa 800.000 israeliani che vivono negli insediamenti illegali.

Quei coloni condividono strade, negozi di alimentari e distributori di benzina con i palestinesi, sottoponendoli spesso a molestie verbali, aggressioni fisiche e danni materiali.

Le forze israeliane “non sono intervenute per prevenire i comportamenti illeciti, fornendo invece sostegno e protezione ai coloni, garantendo che tali individui non venissero chiamati a rispondere dei loro atti e consolidando l’attuale regime di impunità”, ha affermato Al Haq.

I coloni godono di un’impunità pressoché totale per le violenze che commettono contro i palestinesi, il che li incoraggia ad aumentare le aggressioni.

Oggetto di continui assalti, i palestinesi si stanno sforzando di prendere tutte le precauzioni sanitarie contro la pandemia di coronavirus. In effetti, i coloni stanno sfruttando l’isolamento per aumentare le loro violenze con poche resistenze da parte dei residenti palestinesi.

Assalto a un cimitero

Giovedì i coloni israeliani hanno vandalizzato le lapidi del cimitero palestinese nel villaggio di Burqa in Cisgiordania.

Ghassan Daghlas, che controlla le attività dei coloni nella Cisgiordania settentrionale, ha riferito all’agenzia di stampa palestinese WAFA che i coloni sono entrati nel villaggio attraverso l’adiacente e già evacuato insediamento israeliano di Homesh.

Homesh è stata liberata dai suoi residenti israeliani nel 2005 come parte del presunto “disimpegno” israeliano a Gaza e in diversi villaggi della Cisgiordania. La terra, che apparteneva al villaggio di Burqa, fu dichiarata zona militare e chiusa negli anni ’70.

Il mese scorso i coloni hanno picchiato e lanciato pietre contro un contadino che lavorava la propria terra nella zona di Homesh.

“Uno di loro aveva in mano una pistola”, ha detto ad Al Haq Ali Mustafa Mohammad Zubi, 55 anni.

“Ogni volta che provavo ad alzarmi e correre via mi buttavano a terra, mi picchiavano e mi aggredivano verbalmente.”

Colpito con un’ascia

Inoltre, un palestinese è stato ricoverato in ospedale dopo che i coloni israeliani lo hanno assalito con un’ascia il 24 marzo nel villaggio cisgiordano di Umm Safa, a ovest di Ramallah.

Un colono stava entrando con una mandria di 50 mucche in un uliveto a ovest del villaggio.

Otto residenti del villaggio, accompagnati dal vice capo del consiglio locale, Naji Tanatrah, sono andati a chiedergli di lasciare il villaggio. Mentre stava per ritirarsi, cinque coloni armati sono arrivati su due veicoli con asce e almeno un fucile e hanno preso ad aggredire Tanatrah, riferisce B’Tselem.

Un colono ha colpito Tanatrah alla testa con l’ascia, facendolo cadere a terra sanguinante. I coloni hanno continuato a picchiare il 45enne che giaceva sanguinante a terra.

Alcuni abitanti sono riusciti a recuperare Tanatrah e spostarlo in un ospedale di Ramallah, dove è stato operato e gli è stata diagnosticata una frattura al cranio.

“Ho trascorso cinque giorni in ospedale e me ne sono andato appena ho potuto, temendo di contrarre il coronavirus” avrebbe detto Tanatrah, come riferisce il quotidiano israeliano Haaretz.

Il giorno successivo, decine di coloni hanno tentato di entrare nel villaggio di Einabus, sempre nella zona di Nablus.

Contemporaneamente i coloni attaccavano un pastore nel villaggio di al-Tuwani, nelle colline a sud di Hebron. Il 27 marzo sei coloni, alcuni armati, hanno attaccato il pastore mentre stava pascolando il suo gregge, riferisce B’Tselem. Uno dei cani dei coloni lo ha morso al braccio e all’addome; è stato portato in una clinica medica dove l’hanno vaccinato contro la rabbia.

Il giorno seguente i coloni hanno lanciato pietre contro tre abitanti che tornavano ad al-Tuwani.

Altri abitanti del villaggio sono arrivati per aiutarli finché sono giunti i militari israeliani e hanno lanciato candelotti di gas lacrimogeno contro gli abitanti del villaggio.

Le forze israeliane hanno arrestato tre abitanti del villaggio, rilasciandone due su cauzione.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Un viaggio nella storia di Vittorio Arrigoni

Chiara Cruciati

15 aprile 2020 Nena News

Quel «ritratto di un utopista» nel libro di Anna Maria Selini per Castelvecchi

A nove anni dalla sua uccisione Vittorio Arrigoni non smette di suggestionare. Con il suo fisico dirompente, le passioni partigiane che lo consumavano, la pipa, la kefiah al collo, il cappello da marinaio, tutto in Vittorio trasudava (trasuda) mito. Un mito mai fasullo né costruito, ma genuino, tangibile.

Il giorno in cui venne battuta la notizia del suo rapimento a Gaza, tanti pensarono fosse un errore. O almeno ci sperarono non era possibile altrimenti. Poi la notizia dell’uccisione, un pugno in faccia che non poneva fine all’incredulità. Sembrava sgretolarsi quel «Restiamo umani» che lo aveva reso celebre, che aveva permesso di segnare (e sognare) un percorso, lento e graduale, verso la fine di ogni ingiustizia.

NOVE ANNI dopo quel «Restiamo umani» è fortissimo, necessario. Per chi non lo ha conosciuto, bussola dentro la sua anima è il libro di Anna Maria Selini, Vittorio Arrigoni. Ritratto di un utopista, edito da Castelvecchi (pp.199, euro 18,50). La giornalista aveva intervistato Vik nel 2009, a lei il giovane di Bulgiaco aveva affidato alcune tra le sue parole più belle.

Il testo è un viaggio nella storia di Vittorio e affatto di riflesso dei luoghi che lo hanno visto camminare. La Palestina su tutti, Gaza è il cuore del racconto, il suo mare in barca con i pescatori e i suoi campi a fianco dei contadini. Ne esce un ritratto che rende Arrigoni ancora più vicino, non solo a chi ha percorso gli stessi spazi e trascorso del tempo con le persone che conosceva: un uomo timido, che scavava, che sentiva letteralmente il peso di ogni ingiustizia sul proprio corpo. Selini ne descrive i travagli, le gioie dopo ogni sbarco nella Striscia, il ruolo imprescindibile che ebbe in quegli anni nel raccontare Gaza e le offensive israeliane e l’assedio che la dilaniavano.

I suoi articoli per il manifesto furono specchio fedele di quel travaglio, pagine scritte con dolore, per nulla scontate né mai mera cronaca. Come scrive sua madre, Egidia Beretta, in Il Viaggio di Vittorio«nei precedenti viaggi aveva incontrato la povertà materiale o morale. In Palestina incontrò l’aspirazione alla libertà».

Selini racconta Vik nelle parole che lui stesso le aveva lasciato in precedenza, per arricchirle con numerose interviste a Egidia, ad amiche e amici palestinesi, italiani, spagnoli, a ex compagne, a giornalisti e attivisti. Completa la figura dell’utopista, ne traccia i lineamenti e la presenza di Vik, scorrendo le pagine, si fa palpabile, quasi leggendaria.

FINO AL RAPIMENTO e all’uccisione: la seconda parte del libro è dedicata alle ore terribili tra il 14 e il 15 aprile 2011 e poi al processo farsa che ne seguì. Del gruppo di salafiti – così vennero definiti vista la richiesta di liberazione di jihadisti detenuti da Hamas – che lo rapì e ammazzò, due furono uccisi pochi giorni dopo dalle forze di sicurezza di Hamas, gli altri vennero messi alla sbarra e condannati, per poi evadere da Gaza o vedersi dimezzata la pena.

Un colpo di spugna, su cui pesa come un macigno l’indifferenza delle istituzioni italiane (eccezione, la Procura di Roma che tentò di indagare nell’assenza totale di aiuto) che mai hanno assistito a un’udienza. Non avevano, dopotutto, nemmeno accolto il feretro all’arrivo in Italia né tantomeno partecipato ai funerali di un uomo che aveva fatto del proprio corpo la sua arma contro l’ingiustizia, la violenza sulla libertà, la negazione dell’umanità di un popolo.

Oggi, scrive Selini, Arrigoni si spenderebbe per i migranti in fuga, sempre dalla parte giusta della storia. A noi ha lasciato un motto che è molto di più di un semplice slogan, «Restiamo umani», un atto di introspezione che deve farsi battaglia collettiva.




Gli israeliani Netanyahu e Gantz “vicini ad un accordo” per porre fine allo stallo politico

14 aprile 2020 – Al Jazeera

I due rivali informano di progressi nei colloqui dopo che il presidente ha esteso di altre 48 ore il termine ultimo di Benny Gantz per formare un governo

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo principale rivale, Benny Gantz, hanno affermato di aver raggiunto “significativi progressi” nella formazione di un governo d’emergenza per affrontare la crisi del coronavirus e porre fine allo stallo politico senza precedenti del Paese.

Il mandato di 28 giorni a Gantz per mettere insieme una coalizione di governo dopo le inconcludenti elezioni dello scorso mese avrebbe dovuto terminare alla mezzanotte di martedì [14 aprile], ma il presidente Reuven Rivlin, che sta supervisionando i colloqui per la coalizione, li ha estesi di due giorni.

Secondo il suo ufficio, Rivlin lo ha fatto “nella consapevolezza che si è molto vicini a raggiungere un accordo.”

Gantz e Netanyahu si sono incontrati durante la notte in un ultimo disperato tentativo di ricomporre le loro divergenze. Poi hanno fatto una dichiarazione congiunta affermando di aver fatto “significativi progressi”. Entrambi hanno stabilito di incontrarsi di nuovo con le rispettive equipe di negoziatori più tardi martedì mattina.

Dalle elezioni del 2 marzo, le terze di Israele in meno di un anno, sono state ripetutamente fatte dichiarazioni riguardo al progresso nei colloqui per una coalizione, ma un accordo è rimasto irraggiungibile. Il blocco ha prospettato la possibilità di una quarta tornata elettorale, complicando ogni piano di rilancio economico una volta che l’epidemia di coronavirus si riduca di intensità.

Nella corsa verso la fine del mandato, Gantz ha sollecitato Netanyahu a siglare un accordo o a rischiare di trascinare il Paese verso elezioni non augurabili in un momento di crisi nazionale.

“Netanyahu, questo è il momento della verità. O un governo nazionale d’emergenza o, dio non voglia, quarte elezioni costose ed inutili durante una crisi. La storia non perdonerà nessuno di noi se fuggiamo dalle nostre responsabilità,” ha detto in un discorso diffuso a livello nazionale dalla televisione.

Poi Netanyahu ha invitato Gantz nella sua residenza ufficiale per colloqui che sono andati oltre la mezzanotte di ieri. Mentre le elezioni dello scorso mese sono finite senza un chiaro vincitore, Gantz è stato appoggiato da una ridottissima maggioranza di parlamentari, portando Rivlin a dargli l’incarico di formare un governo.

Con la sua maggioranza parlamentare, Gantz ha iniziato a portare avanti una legge che avrebbe escluso Netanyahu, imputato di corruzione, dalla possibilità di essere nominato primo ministro in futuro.

In carica dal 2009, Netanyahu è il capo del governo più a lungo in carica nella storia di Israele e il primo ad essere imputato durante il suo mandato. Nega le imputazioni per corruzione, frode e abuso di potere presentate contro di lui in gennaio.

Durante tre durissime campagne elettorali Gantz ha affermato che non avrebbe mai fatto parte di un governo guidato da Netanyahu finché questi avesse dovuto affrontare accuse di corruzione. Ma Gantz ha affermato che la gravità della crisi di coronavirus lo ha convinto a cambiare la sua posizione – una decisione che ha attirato pesanti critiche da parte dei suoi sostenitori e provocato lo sgretolamento della sua alleanza, “Blu e Bianco”.

Se fallissero i negoziati prolungati, la Knesset, o parlamento israeliano, avrà tre settimane per scegliere un candidato a primo ministro tra le sue file. Se fallisse anche questo, ci dovranno essere le elezioni. Ciò significherebbe una lunga crisi politica in un momento in cui il Paese sta affrontando l’epidemia di coronavirus.

Israele ha registrato più di 11.500 casi e almeno 116 morti dovuti alla malattia, che ha paralizzato l’economia e portato la disoccupazione a un livello record.

Lunedì, per contrastare la diffusione del coronavirus, Netanyahu ha disposto un bando sugli spostamenti tra le città per gli ultimi giorni delle feste pasquali di questa settimana.

Le restrizioni già in vigore hanno confinato la maggior parte degli israeliani nelle loro case per settimane, obbligando molte attività economiche a chiudere e portando il tasso di disoccupazione a oltre il 25%.

Netanyahu ha affermato che il suo governo potrebbe formulare una “strategia d’uscita” entro questo fine settimana, ma ha avvertito che le limitazioni all’economia e all’educazione saranno ridotte gradualmente e che non ci sarà un ritorno totale alla normalità prima che venga scoperto un vaccino contro il coronavirus.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)