Gli studenti beduini con cittadinanza israeliana trascurati durante il coronavirus

Danny Zaken

9 aprile 2020 – Al-Monitor

La pandemia da coronavirus in Israele sta colpendo tutti – ricchi e poveri, ebrei e arabi – ma le comunità più povere devono affrontare difficoltà molto maggiori nel gestirne le conseguenze, anche nel settore educativo. Quando tutto il sistema dell’istruzione in Israele – dall’asilo alle superiori, fino all’educazione universitaria – è passato all’insegnamento a distanza attraverso internet, la differenza tra ricchi e poveri è notevolmente aumentata a causa del fatto che questi ultimi non hanno accesso a questa tecnologia. Questo fenomeno è particolarmente evidente nella popolazione arabo-beduina in Israele.

La maggior parte dei beduini, circa 250.000 (dati del 2017), vive nel sud del Paese. Un quinto di essi vive in villaggi non riconosciuti, senza infrastrutture. Sono il gruppo più povero della società israeliana e, in seguito a ciò, il loro rendimento scolastico è particolarmente basso. Secondo i dati del Consiglio Superiore dell’Educazione pubblicati nel febbraio 2019, relativi all’anno scolastico iniziato nel 2017, la percentuale dei beduini che avevano iniziato a studiare all’università è solo del 14% rispetto al 46% degli ebrei. La percentuale di studenti beduini tra gli studenti arabi quell’anno è stata solo del 28%. Benché questo sia un notevole incremento rispetto al decennio precedente, è ancora un tasso estremamente basso. Secondo i dati della Knesset, la percentuale di immatricolazioni tra gli studenti beduini è del 32%, rispetto al 68% tra la popolazione totale (esclusi i beduini e gli ebrei ultraortodossi).

Negli ultimi anni c’è stato un incremento nel numero di studenti beduini che hanno conseguito la maturità, così come nel numero di studenti beduini nell’educazione superiore, ma sono ancora indietro rispetto al resto della popolazione. Uno dei problemi principali del sistema educativo nella società dei beduini israeliani è la mancanza di infrastrutture in generale e di tecnologia in particolare. Nei villaggi più remoti, soprattutto in quelli non riconosciuti, la rete internet è vecchia e quindi molto lenta. Internet è fornita solo attraverso le linee dei cellulari, e difficilmente nelle case degli abitanti ci sono computer e tablet.

Secondo dati dell’organizzazione non governativa “Abraham Initiative” [Iniziativa di Abramo, associazione che intende promuovere l’uguaglianza tra cittadini ebrei e arabi di Israele, ndtr.], nel Negev ci sono circa 102.000 bambini in età scolare. Di questi 36.000 vivono in villaggi non riconosciuti o nei villaggi dei consigli regionali di Neve Midbar o Al-Kasum, che non hanno reti internet o altre infrastrutture. Ventimila studenti vivono nelle cittadine limitrofe, anche loro senza infrastrutture. Trentamila allievi vivono in quartieri con infrastrutture, ma fanno di famiglie con almeno otto figli e solo un computer in casa. Da ciò si ricava che metà degli studenti beduini del Negev non ha accesso a una rete internet.

Il 12 marzo, a causa della crisi del coronavirus, si è deciso di bloccare del tutto il sistema educativo per almeno cinque settimane, fin dopo le vacanze di Pasqua. Istituzioni scolastiche e accademiche sono passate all’insegnamento a distanza, basandosi su programmi e applicazioni come Zoom. Questi programmi, che integrano il video con materiale didattico inviato in rete, richiedono connessioni internet potenti e affidabili – esattamente quello che manca ai villaggi beduini del Negev. In seguito a ciò molti alunni beduini sono praticamente rimasti tagliati fuori dalle loro scuole, mentre i loro pari in tutto il resto del Paese continuano a studiare. “Abraham Initiative” ha detto ad Al-Monitor che a causa della crisi del coronavirus il ministero dell’Educazione ha aperto un portale educativo completo per studenti in lingua ebraica, ma ha prodotto molto meno materiale disponibile in arabo.

Nell’educazione superiore sono stati fatti molti più tentativi di risolvere il problema. Marah Agbaria, che si occupa degli studenti arabi nell’Unione degli Studenti dell’università Ben Gurion del Negev, ha detto ad Al-Monitor che l’università ha preparato speciali stanze con computer per gli studenti beduini, in modo che possano partecipare alle lezioni. Ma poi ci sono state le restrizioni agli spostamenti a causa del coronavirus, e questi studenti hanno dovuto rimanere a casa. Secondo Agbaria, l’Unione ha avuto modem cellulari per alcuni di loro che consentono l’educazione a distanza, ma il numero non è sufficiente. E non ci sono soluzioni per studenti che non hanno il computer.

Nel Negev centinaia di studenti beduini studiano anche al Sapir College. Riguardo all’insegnamento a distanza, Haytham al-Nabari —  studente di lavoro sociale che vive a Tel Arad – ha detto a Hasin Aldada, corrispondente del sito per gli studenti del Sapir “Spirala”: “Ciò richiede un internet veloce e non abbiamo infrastrutture internet come in altri luoghi. Se frequento una lezione online con un docente, lo faccio attraverso il telefonino. Ma internet è debole o non funziona.”

Rafif Abu Hajaj, uno studente di amministrazione pubblica che vive nel villaggio di Al-Furah, ha detto a “Spirala” che “le case nei villaggi beduini si basano [per la corrente elettrica] sull’energia solare, che dipende dal sole. Ma da quando il clima negli ultimi giorni è stato freddo e piovoso e non c’è stato molto sole, non abbiamo avuto elettricità per vari giorni.”

Il “Centro Mossawa” (il Centro per il Sostegno ai Cittadini Arabi in Israele) in una lettera al ministro delle Comunicazioni David Amsalem ha sollevato la questione del sovraccarico della rete dei cellulari. Secondo un rapporto del gennaio 2018 di Asmaa Genaim per conto dell’Associazione Internet di Israele, circa il 90% dei cittadini arabi del Paese utilizza internet attraverso il cellulare. Ora, quando la maggioranza dei cittadini del Paese rimane a casa propria, c’è un grande uso di internet, che sovraccarica reti, che nelle cittadine e nei villaggi arabi sono già deboli. Nella lettera il Centro chiede che il ministero delle Comunicazioni agisca immediatamente per rafforzare ed ampliare internet e reti per i cellulari nei villaggi arabi, e soprattutto in quelli non riconosciuti del Negev, chiedendo ai gestori delle linee dei media, dei cellulari e di internet di rafforzare le proprie reti in questi luoghi.

Adalah”, il Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba in Israele, ha annunciato il 12 marzo che, insieme alla Commissione di Monitoraggio sull’Educazione Araba e ad altre organizzazioni, presenterà una petizione alla Corte Suprema per chiedere che i servizi di internet e l’insegnamento a distanza vengano resi disponibili ai villaggi beduini del Negev. In una dichiarazione poco prima che venisse presentata la petizione, l’associazione ha scritto: “La difficile situazione ora evidente in questo periodo d’emergenza è un risultato della sistematica negligenza da parte dello Stato riguardo alle necessità fondamentali in tempi normali dei villaggi non riconosciuti. Nel campo dell’educazione, la discriminazione si manifesta negli scarsi risultati degli studenti, come si ricava dai dati desolanti che sono ben noti ai decisori politici. Nonostante le nostre richieste, non abbiamo ricevuto alcun segnale che le autorità stiano facendo qualcosa per trovare soluzioni per supplire alla chiusura del sistema educativo, che dovrebbe seguire i minori di questi villaggi, e pare che lo Stato li stia semplicemente abbandonando. Quindi ci rivolgiamo ai tribunali.”

Gli uffici pubblici che si occupano di questi problemi hanno risposto con lentezza a queste richieste. Il ministero dell’Educazione ha aumentato la quantità di materiali educativi in arabo, ma non ha trovato un’immediata soluzione al problema degli studenti del Negev. Il ministero della Comunicazione ha affermato che il problema delle infrastrutture non può essere risolto in poco tempo.

Morale della favola: circa 100.000 studenti beduini in età scolare e circa 2.000 studenti universitari beduini del Negev probabilmente perderanno metà dell’anno scolastico e la differenza tra loro e gli altri studenti israeliani non farà che aumentare.

Per correttezza: l’autore è docente al Sapir College, citato nell’articolo.

Danny Zaken è un giornalista che lavora per la stazione della radio pubblica israeliana Kol Israel. Zaken si è occupato di questioni militari e della sicurezza, dei coloni in Cisgiordania e di argomenti riguardanti i palestinesi. Ha ricevuto il premio Knight Wallace presso l’università del Michigan ed ha terminato il programma accademico di giornalismo della BBC. Zaken insegna media e giornalismo all’università Ebraica, alla Mandel School e al Centro Interdisciplinare di Herzliya. È stato il presidente dell’Associazione dei Giornalisti di Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Hamas rifiuta le condizioni israeliane per gli aiuti a Gaza contro il coronavirus

Adnan Abu Amer

10 aprile 2020 Middle East Monitor

Nei giorni scorsi, Hamas e Israele hanno avuto un evidente scontro sulla fornitura di assistenza medica alla Striscia di Gaza per contrastare il coronavirus, poiché come condizione dell’assistenza medica Israele ha posto il ritorno dei suoi soldati catturati nella guerra del 2014. I media israeliani hanno chiesto a Hamas di liberare i soldati in cambio degli aiuti per combattere il coronavirus.

Da parte sua, Hamas ha annunciato tramite il suo leader a Gaza, Yahya Al-Sinwar, che otterrà quanto serve alle necessità umanitarie con la forza, minacciando che “sei milioni di israeliani potrebbero smettere di respirare” se Israele non sarà disposto a rifornire la Striscia di Gaza dei respiratori necessari ai pazienti con coronavirus.

Al-Sinwar ha lasciato anche intendere che Hamas potrebbe fare una concessione in merito all’accordo di scambio se sarà permesso l’ingresso di forniture per migliorare le condizioni di vita e l’assistenza medica a Gaza nonché il rilascio dei prigionieri palestinesi anziani, malati, minori e donne. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha risposto incaricando Yaron Bloom, coordinatore israeliano dei prigionieri di guerra e prigionieri israeliani MIA [missing in action, dispersi durante una azione, ndtr], di avviare i colloqui necessari per riprendere il negoziato di scambio di prigionieri con Hamas.

Questo tira e molla significa che sarà possibile un incremento di violenza tra Hamas e Israele, perché le fazioni palestinesi cercheranno di fare pressione su Israele affinché conceda l’ingresso di forniture mediche e assistenza sanitaria a Gaza per combattere il coronavirus. Alcuni giorni fa sono stati lanciati dei missili da Gaza contro Israele e questo solleva degli interrogativi, se entrambe le parti si indirizzeranno ad un’escalation militare o se raggiungeranno un accordo di scambio. Assisteremo a uno scontro militare non voluto durante questa disastrosa situazione sanitaria a Gaza e in Israele, o alla fine avranno luogo negoziati per raggiungere un nuovo accordo di scambio di prigionieri tra le parti?

Alcuni giorni fa l’esercito israeliano ha annunciato di aver bombardato le postazioni di Hamas nella Striscia di Gaza, in risposta a un missile sparato contro gli insediamenti intorno a Gaza. Migliaia di israeliani si sono precipitati nei rifugi, anche se era la prima aggressione dall’inizio dell’emergenza coronavirus a febbraio, con palestinesi e israeliani chiusi nelle loro case per fermarne la diffusione.

Nessuna delle fazioni palestinesi ha rivendicato il lancio di missili, ma il bombardamento israeliano delle postazioni di Hamas è per via del controllo di Hamas su Gaza. Le fazioni palestinesi hanno affermato che Israele stesse approfittando della preoccupazione del mondo nella lotta al coronavirus per intensificare il blocco su Gaza.

L’atmosfera nella Striscia di Gaza segnala che la crisi sanitaria, dopo l’individuazione di numerosi casi di coronavirus, potrebbe spingere Hamas a fare pressione su Israele perché allenti il blocco su Gaza. Alcuni gruppi israeliani hanno profilato un cupo scenario simile al Giorno del Giudizio, con Gaza che esplode in faccia a Israele un diffuso contagio di coronavirus.

Hamas ha ripetutamente affermato che sotto il blocco israeliano Gaza vive in condizioni catastrofiche e che solo Israele è responsabile del suo prolungamento. Hamas è in contatto con dei mediatori per costringere Israele a revocare il blocco su Gaza, alla luce della pandemia di coronavirus che aggrava la situazione – segnalando che il lungo blocco di Gaza non favorisce il mantenimento della calma nei sistemi di vigilanza. Hamas non ha esplicitamente ammesso la sua responsabilità nel lancio di missili contro Israele, ma non ha negato, ammantando la questione di mistero e ambiguità.

La Commissione di Monitoraggio del governo guidato da Hamas nella Striscia di Gaza ha dichiarato che le autorità governative di Gaza hanno bisogno di supporto dall’interno e dall’esterno per affrontare il virus. Ha annunciato la distribuzione di un milione di dollari in fondi di emergenza urgenti a 10.000 famiglie a basso reddito colpite dai provvedimenti, e l’assunzione di 300 nuovi membri del personale per il Ministero della Sanità di Gaza. Il leader di Hamas Ismail Haniyeh ha discusso con alcuni partiti palestinesi, regionali e internazionali, gli effetti della diffusione del coronavirus in Palestina.

La posizione palestinese ammette che Hamas e Israele non hanno interesse a un’escalation militare sotto il coronavirus, e il lancio del missile da Gaza potrebbe far parte del caos nella sicurezza creato dai militanti armati che Hamas sta cercando di controllare. Inoltre, Israele teme la diffusione del virus a Gaza per paura che la comunità internazionale lo ritenga responsabile di Gaza; potrebbe quindi concedere alcune agevolazioni, come consentire l’ingresso di attrezzature sanitarie e forniture mediche di prevenzione, nonché mobilitarsi per un sostegno finanziario alla paralisi economica di Gaza a seguito allo scoppio della pandemia.

Le principali richieste di Gaza per affrontare il coronavirus sono forniture mediche: respiratori, kit per testare il virus, provviste alimentari e aiuti per gli abitanti di Gaza che soffrono i provvedimenti presi per combattere la pandemia.

Vale la pena notare che Gaza è in grado di gestire solo 100-150 casi di coronavirus, perché il suo sistema sanitario è fragile e non può prendere in carico grandi numeri. Ha uno scarso numero di ventilatori e letti per terapia intensiva, nonché una carenza di farmaci del 39%.

Anche se la recente escalation a Gaza potrebbe non essere collegata a una specifica organizzazione palestinese, potrebbe essere un messaggio che segnala che Israele ha la responsabilità di affrontare esaustivamente la situazione sanitaria a Gaza, dove ci sarebbe una grande catastrofe se il coronavirus si diffondesse tra la gente. Chiunque abbia lanciato i missili, sembra aver chiesto a Israele di revocare il blocco su Gaza. Israele è interessato a soddisfare il bisogno di salute e di vita di Gaza, perché se la pandemia si diffonde tra i palestinesi, li spingerà a lanciare e far scoppiare decine, se non centinaia, di missili. Potrebbero anche affollarsi al confine Israele-Gaza per salvarsi dalla pandemia.

Con il mantenimento delle prescrizioni per affrontare il coronavirus a Gaza, le autorità governative di Gaza affiliate ad Hamas stanno, tra le altre misure, sottoponendo i viaggiatori che ritornano a Gaza attraverso il valico di Rafah con l’Egitto e il valico di Beit Hanoun con Israele ad una quarantena obbligatoria di 21 giorni. Hanno anche chiuso tutte le moschee, università, scuole, mercati, sale per matrimoni e ristoranti fino a nuovo avviso. Stanno anche studiando la possibilità di imporre un coprifuoco completo, oltre a chiedere ai palestinesi di rimanere sempre in casa.

Tutte queste misure hanno contribuito alla crescente sofferenza di gruppi vulnerabili come autisti, impiegati di sale per matrimoni, ristoranti e bar. Forse la sovvenzione mensile del Qatar di 100 dollari distribuita a 100.000 famiglie bisognose a Gaza riduce relativamente l’effetto dell’assedio israeliano e allevia il deterioramento della situazione economica di Gaza; la sovvenzione del Qatar faceva parte degli accordi umanitari concordati tra Hamas e Israele nell’ottobre 2018.

In questi giorni, il Qatar ha annunciato che avrebbe fornito 150 milioni di dollari in sostegno finanziario alla Striscia di Gaza per un periodo di sei mesi, per alleviare le sofferenze dei palestinesi e per aiutare a combattere il coronavirus, senza chiarire la natura della distribuzione della sovvenzione né i beneficiari.

Nel frattempo, il Ministero dello Sviluppo Sociale di Gaza ha fornito tutti i pasti a coloro che sono stati messi in quarantena nei centri sanitari, per un totale di 6.000 pasti al giorno. Il Ministero fornisce anche le risorse necessarie ai soggetti in quarantena, come frigoriferi, elettrodomestici e utensili per la casa. Il Ministero ha anche registrato il numero di famiglie colpite dallo stato di emergenza imposto dal coronavirus; queste famiglie saranno raggiunte e aiutate.

Tutto ciò conferma peraltro che le condizioni sanitarie ed economiche a Gaza sono disastrose, le necessità fondamentali dei palestinesi non sono coperte e ciò che le agenzie internazionali e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) forniscono è solo una piccola parte del necessario. Le agenzie governative di Gaza forniscono cibo e bevande a 1.600 palestinesi in centri di quarantena; queste agenzie soffrono da tempo di un grave deficit economico, che richiede un’urgente iniezione di finanze.

Il lancio di un missile da Gaza verso Israele potrebbe essere il messaggio palestinese a Israele che le condizioni a Gaza non sono accettabili e che qualsiasi tentativo israeliano di esimersi dal provvedere alle richieste umanitarie e sanitarie di Gaza potrebbe significare che nel prossimo futuro i missili aumenteranno. Tuttavia, è improbabile che si arrivi ad uno scontro a pieno titolo tra Hamas e Israele, piuttosto ad un processo di progressiva intensità, per diversi giorni, se il virus si diffondesse tragicamente a Gaza.

Middle East Monitor ha appreso da fonti palestinesi che Hamas ha inviato un messaggio a Israele attraverso dei mediatori regionali e internazionali: “Hamas considera Israele direttamente responsabile del deterioramento delle condizioni di vita e salute a Gaza e non rimarrà inerte di fronte alla diffusione del coronavirus, perché Hamas crede che Israele sia tenuto a agire per impedire il collasso del sistema sanitario, con aiuti diretti o attraverso l’ANP o le agenzie internazionali “.

Hamas non ha rivendicato il lancio di missili contro Israele e potrebbe non essere nel suo interesse impegnarsi in un esteso confronto militare. Tuttavia, l’attuale peggioramento delle condizioni nella Striscia di Gaza, l’aumento dei casi di coronavirus, la mancanza di attrezzature mediche sufficienti per esaminare i pazienti e la mancanza di supporto finanziario necessario per aiutare coloro che non possono lavorare in quanto costretti a rimanere a casa, possono intensificare l’effetto a catena. Hamas potrebbe decidere un incremento di violenza contro Israele per costringerlo a fornire le scorte insufficienti a Gaza. Hamas pensa che Israele corrisponderà alle sue richieste, per essere libero di affrontare la diffusione su larga scala del coronavirus tra gli israeliani.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




Un gruppo di pressione democratico filo-israeliano si attribuisce i meriti del ritiro di Sanders e della raccolta fondi per mantenere la piattaforma democratica favorevole a Israele

Michael Arria 

9 aprile, 2020 – Mondoweiss

Il gruppo di pressione Democratic Majority for Israel [Maggioranza Democratica Per Israele] (DMFI) stamattina ha inviato un’email in cui festeggia il ritiro di Bernie Sanders dalla corsa per le presidenziali e prepara i propri sostenitori alla battaglia per mantenere la piattaforma dei Democratici su posizioni pro-israeliane.

L’email, scritta da Mark Mellman, il presidente DMFI, si attribuisce in parte il merito per il ritiro di Sanders. “Bernie Sanders ha sospeso la sua campagna per la presidenza” ha scritto Mellman. “Questa è una grande vittoria a cui voi avete contribuito.”

Prima del caucus in Iowa a gennaio, il DMFI aveva condotto nello Stato una campagna pubblicitaria anti-Sanders, ma il senatore del Vermont aveva comunque vinto nel voto popolare. Il gruppo aveva speso più di 800.000 dollari in annunci pubblicitari e con ciò aveva aiutato Sanders a raccogliere 1,3 milioni di dollari in un solo giorno.

Mellman dichiara che la prossima battaglia della lobby riguarderà le linee programmatiche dei Democratici. “Gruppi estremisti allineati con Sanders, così come alcuni dei suoi principali surrogati, comprese le congressiste Rashida Tlaib e Ilhan Omar, hanno dichiarato pubblicamente il loro tentativo di spostare la piattaforma su posizioni anti-Israele” scrive. Mellman fa notare che, mentre alcuni sminuiscono l’importanza delle linee programmatiche di partito, il GOP (Grand Old Party = partito repubblicano) è diventato effettivamente un partito anti-aborto dopo la modifica della sua piattaforma nel 1976. “Da politico di carriera vi dico che se quest’anno i Democratici adottano una piattaforma anti-israeliana, il vocabolario, i punti di vista e i voti dei politici si sposteranno drammaticamente contro di noi” scrive Mellman. “Semplicemente non possiamo permetterci di perdere questa battaglia.”

Nel 2016, i membri della campagna a favore di Sanders hanno insistito perché si menzionasse la richiesta di porre fine all’occupazione e all’espansione degli insediamenti. Tale tentativo venne alla fine respinto dal comitato incaricato di redigere la piattaforma con un voto di 8 a 5. Comunque, la piattaforma ha incluso espressioni relative allo Stato palestinese.

Il DMFI è stato fondato nel 2019 con donazioni di Democratici e insider per contrastare una crescente simpatia dentro il partito verso i palestinesi. Il luglio scorso hanno mandato una lista di punti di discussione a favore di Israele per i candidati Democratici da usare se, durante le tappe della campagna, avessero dovuto affrontare attivisti anti-occupazione. Il gruppo ha più volte affermato che senatori come Sanders e Omar sono estranei alle opinioni più diffuse sull’argomento, ma ci sono molti sondaggi che indicano che i votanti democratici sono più a sinistra del proprio partito sul tema Israele/Palestina. Infatti un recente sondaggio dell’Università del Maryland mostra che quasi la metà dei votanti democratici a conoscenza del movimento del BDS [Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele] lo sostiene.

Michael Arria

Michael Arria è il corrispondente di Mondoweiss dagli Stati Uniti.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




I cittadini palestinesi di Israele: il perfetto capro espiatorio del coronavirus

Lana Tatour

8 aprile 2020 Middle East Eye

Mentre Netanyahu prosegue con le invettive razziste contro i cittadini arabi, le forze di sicurezza israeliane stanno scatenando la violenza sulle comunità palestinesi

In un recente incontro sul Covid-19 con una delegazione di medici cittadini palestinesi di Israele, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato: “Sfortunatamente nel settore arabo le disposizioni non vengono rispettate rigorosamente … Chiedo la cooperazione di tutti i cittadini arabi di Israele. Vi chiedo, per il vostro bene e per il bene del nostro futuro condiviso, per favore seguite gli ordini, [altrimenti] molte persone moriranno e queste morti potrebbero essere prevenute con il vostro aiuto.”

Chiaramente il controllo della diffusione del coronavirus dipende dall’impegno delle persone a realizzare l’autoisolamento, ma non è quello che intendeva Netanyahu. Piuttosto, nell’insinuare che le morti sarebbero una “vostra” responsabilità, stava reiterando le sue invettive razziste contro i cittadini palestinesi.

Dipinti come una minaccia

I cittadini palestinesi costituiscono il perfetto capro espiatorio a cui addossare la colpa per la diffusione del Covid-19 in Israele. I cittadini palestinesi di Israele vengono descritti come una minaccia per la salute e per la vita dei cittadini ebrei, prosecuzione del discorso di lunga data che li ritrae come una quinta colonna e cittadini illegittimi.

Con un discorso che ripropone il classico copione antisemita europeo dell’ “ebreo diffusore di malattie”, Netanyahu sta preparando il terreno per incolpare i palestinesi della diffusione del coronavirus nel caso fallissero i tentativi di contenimento. Sta facendo ciò che sa fare meglio: lanciare invettive contro i cittadini palestinesi onde evitare il controllo sulla propria gestione della crisi e spostare l’attenzione dalle accuse penali in sospeso nei suoi confronti.

Se esiste un settore in cui i palestinesi all’interno dei confini del ’48 [cittadini palestinesi israeliani, ndtr.] hanno una rappresentanza relativamente elevata, è il settore sanitario (anche se, all’interno di questo sistema, devono ancora affrontare discriminazioni e razzismo). Il 17% dei medici israeliani sono cittadini palestinesi. Ci sono anche molte infermiere, farmacisti, tecnici e operatori sanitari palestinesi in prima linea nella battaglia contro il coronavirus.

Mentre mettono a rischio la loro vita per proteggere tutte le vite, senza discriminazioni, le loro stesse comunità e famiglie affrontano l’abbandono da parte dello Stato israeliano.

A dimostrazione di quanto le vite ebraiche siano favorite rispetto a quelle palestinesi, benché i palestinesi rappresentino un quinto della popolazione è stato loro assegnato solo il 5% dei test per il Covid-19. Fino alla scorsa domenica, sono stati effettuati solo 6.479 test tra i palestinesi entro i confini del ’48, una cifra approssimativamente equivalente alla media dei test giornalieri per gli ebrei.

Misure preventive

Ad oggi circa 193 cittadini palestinesi in Israele sono risultati positivi, meno del 2 % dei malati. Queste cifre basse, tuttavia, sono tutt’altro che promettenti. Secondo le stime dell’esperta di salute pubblica Nihaya Daoud nelle comunità palestinesi ci sono probabilmente migliaia di malati e portatori. Senza un’adeguata somministrazione di test è probabile che i numeri aumentino rapidamente.

Mentre lo Stato ha promosso misure di prevenzione a favore della popolazione ebraica, non ha compiuto analoghi sforzi nei confronti della sua componente palestinese. Il materiale informativo non è stato tradotto in arabo per settimane e non sono stati fatti investimenti per rafforzare le infrastrutture sanitarie nelle città e nei villaggi palestinesi.

I cittadini palestinesi, come altre comunità autoctone e oggetto di razzismo, sono strutturalmente svantaggiati quando si tratta di salute e di accesso ai servizi sanitari. In concomitanza con una pandemia mortale, i risultati possono essere devastanti.

La distanza media delle località palestinesi dagli ospedali più vicini è quasi doppia rispetto a quella delle città ebraiche nelle stesse aree, e la qualità dei servizi medici nelle località palestinesi è scarsa. I cittadini palestinesi soffrono anche di alti tassi di patologie croniche come diabete, ipertensione e patologie cardiache, che pongono molti di loro tra le categorie ad alto rischio.

Per i beduini palestinesi del Naqab, la minaccia del coronavirus è ancora maggiore. Un 150.000 beduini vivono in circa 40 villaggi ritenuti illegali dallo Stato. Pertanto, a questi villaggi viene negato l’accesso all’acqua, ai servizi di raccolta dei rifiuti e ai servizi sanitari.

Nonostante i ripetuti appelli delle organizzazioni beduine della società civile, lo Stato ha rifiutato l’adozione di misure adeguate, come test e costruzione di strutture per l’autoisolamento o l’accesso a cliniche e ospedali. Ha continuato invece nel suo massiccio impegno di demolizione delle case beduine.

Logica sbagliata

Sono cresciute le critiche verso la negligenza israeliana nei confronti dei cittadini palestinesi, ulteriore testimonianza delle politiche discriminatorie di Israele.

La risposta di Israele alla pandemia da Covid-19 rivela il suo deliberato disprezzo per le vite dei palestinesi, basato su una gerarchia razziale tra ebrei e palestinesi. Sono importanti solo le vite ebraiche, mentre quelle palestinesi sono usa e getta.

In tempi di pandemia, questa logica è, ovviamente, sbagliata. Se la pandemia colpisce i palestinesi entro i confini del ’48 minaccia inevitabilmente anche i cittadini ebrei. Una conclusione logica sarebbe quella di dedicare sufficiente attenzione, budget, personale e attrezzature sanitarie alle aree palestinesi, poiché le nostre vite dipendono letteralmente l’una dall’altra – ma a quanto pare, il desiderio di vedere i palestinesi scomparire è più forte di qualsiasi calcolo razionale.

Inoltre una diffusione del coronavirus tra i cittadini palestinesi potrebbe offrire a Israele l’opportunità di rafforzare il proprio controllo ed isolarli ulteriormente, sia politicamente che fisicamente.

Abbiamo assistito ad un’evoluzione di questa dinamica nei giorni scorsi a Giaffa, dove la polizia israeliana ha provocato e attaccato violentemente gli abitanti palestinesi per presunta violazione delle direttive sul blocco. Quando i palestinesi hanno protestato, la polizia israeliana ha risposto con una violenza eccessiva, compreso l’uso delle granate stordenti.

Questo potrebbe essere solo l’inizio. Se la pandemia colpisse città e villaggi palestinesi, l’argomento della protezione della salute pubblica potrebbe essere usato come giustificazione per un’ulteriore militarizzazione contro i cittadini palestinesi.

Associando il coronavirus ai cittadini palestinesi, come ha iniziato a fare Netanyahu, è probabile che vengano loro imposte misure come coprifuoco, barriere, controlli a tappeto nei villaggi e un regime di permessi. Tali misure di emergenza potrebbero diventare la nuova normalità, rendendo la popolazione più controllata ed emarginata di Israele ancora più soggetta, punita e controllata.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Lana Tatour è borsista con post-dottorato Ibrahim Abu-Lughod presso il Center for Palestine Studies della Columbia University.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




No, la chiusura di Israele per Passover, non è pari al blocco dell’occupazione

Orly Noy*

8 aprile 2020   +972 Magazine

11 aprile 2020 Cultura è Libertà

E’ duro per gli ebrei israeliani essere separati dai propri cari a causa del coronavirus. Ma per loro la chiusura è temporanea, mentre per i palestinesi è senza fine

Questa sera, saremo seduti, milioni di ebrei in Israele e nel mondo per un triste Seder di Passover, forse il più strano che molti di noi hanno vissuto in tutta la loro vita. I più fortunati tra noi saranno seduti con i membri della propria famiglia, altri, compresi molti anziani, si siederanno da soli o dovranno affrontare un Seder virtuale.

Stasera canteremo le canzoni di Passover. Canteremo Ma Nishtana e le quattro domande e desidereremo il familiare chiasso di cui ci lamentavamo spesso. Avremo nostalgia dello zio con le sue vecchie battute, quello che insiste a recitare l’ Hagaddah dall’inizio alla fine senza saltare una sola parola. E naturalmente ci mancheranno le infinite discussioni politiche senza costrutto.

Un’auto della polizia è rimasta ferma sulla strada di fronte a casa mia dalla notte di lunedì. I poliziotti controllano i documenti d’ identità alle poche auto che passano sulla strada. La chiusura che imponiamo ai palestinesi in occasione di ogni vacanza ebraica improvvisamente ha un nuovo significato: anche noi siamo chiusi dentro. E’ una cosa sorprendente per noi cittadini ebrei di Israele. La parola “chiusura” sembra emergere da un altro universo semantico, del tutto estranea a noi, per definizione. Ma per altri, il cui destino è rimanere chiusi dietro cancelli, privati della libertà di movimento, la chiusura è semplicemente parte del loro ordine naturale.

Improvvisamente ci troviamo tutti, Ebrei e Palestinesi, a condividere lo stesso destino. Il coronavirus è diventato un grande livellatore, costringendo l’occupante e l’occupato a vivere chiusi nelle loro case. L’eguaglianza si è fatta strada in questa terra, anche se per poco tempo, con l’aiuto di una furiosa pandemia e ora ci troviamo tutti nella stessa barca. Ma è proprio vero?

E’ facile farsi prendere da questa versione dei fatti – una narrazione che non deriva necessariamente da insensibilità, ma da un profondo desiderio di esprimere solidarietà per i Palestinesi e di vedere un legame tra le difficoltà che affrontiamo. Si dovrebbe sperare che la schadenfreude ( il gioire della disgrazia altrui: “finalmente gli ebrei israeliani assaggiano un po’ della loro stessa medicina”) non entri in gioco, ma che si tratti piuttosto del bisogno di vedere la nostra impotenza riflessa nella loro.

E’ importante chiarire questo punto non solo perché non metto in dubbio questa sensazione di un destino comune e neppure sottovaluto il peso del disagio che stiamo affrontando in questa settimana: chiarire cioè che non c’è nessuna somiglianza tra la chiusura che noi ebrei israeliani stiamo affrontando questa settimana di Passover e le ripetute serrate imposte ai Palestinesi nei territori occupati.

Quando ci sediamo a tavola stasera, saremo chiusi nelle nostre case da una chiusura che è stata decisa prima di tutto per la salvaguardia della nostra salute. Non si tratta di una misura punitiva e arbitraria e, anche se abbiamo riserve circa il grado di necessità che l’ha giustificata, sappiamo che è stata decisa da un governo che il pubblico, di cui noi siamo parte, ha eletto. Anche i più radicali di sinistra tra di noi godono del privilegio di un dibattito pubblico e possono usufruire di istituzioni statali.

Un Palestinese, dall’altro lato, non potrà uscire di casa stasera a causa di una serrata imposta da un esercito di occupazione e da un governo ostile sul quale non hanno alcun modo di esercitare una qualche influenza. Devono starsene chiusi in casa perché non hanno altra scelta che quella di obbedire anche ai più stravaganti e arbitrari ordini di questo esercito che è insediato su quei territori con il compito di rendere penosa la vita ai palestinesi.

Quando ce ne stiamo a casa per via della chiusura, lo facciamo non perché ci è stato imposto come cittadini, ma come un atto di solidarietà con la nostra comunità – soprattutto con i più vulnerabili tra di noi. La maggior parte di noi non se la prenderà se gli agenti di polizia impongono di starcene a casa e ci impediscono di passare la serata con i nostri cari. Se dovessimo essere costretti a lasciare le nostre case per una emergenza, ci aspettiamo che gli agenti siano di aiuto e persino che si prendano cura di noi. Nel peggiore dei casi, potremmo ricevere dei rimproveri o una multa.

Dall’altra parte, un palestinese che viola la chiusura nei territori occupati, rischia la vita. I soldati, all’entrata di un villaggio o di una città palestinese non saranno gentili e non staranno a sentire le ragioni di un palestinese prima di premere il grilletto. Il palestinese sa che, diversamente da quel che accade a un ebreo israeliano, nessuno se ne accorgerà se saranno uccisi da un soldato o da un agente di polizia. E’ altamente improbabile che qualcuno in Israele venga anche a sapere dell’incidente.

Noi ebrei israeliani stasera staremo a casa per una chiusura che ha una data di scadenza. I nostri vicini palestinesi staranno sotto una chiusura che è solo una di un’ infinita serie di chiusure. Mentre noi stanotte celebreremo la nostra liberazione, sappiamo che la nostra reale libertà non è minacciata in nessun modo. Quando i Palestinesi staranno a casa stasera, la libertà rimarrà per loro un’ idea molto lontana.

Non accade spesso che lo stesso concetto possa descrivere due situazioni tanto distanti tra loro nella loro essenza. Questo è proprio quello che succederà stasera. E così, nonostante i nostri sentimenti soggettivi, è importante non cadere nella tentazione, anche in situazioni come questa, di depoliticizzare la nostra realtà. I cittadini israeliani dovranno sopportare per la serata di rimanere chiusi in casa. La chiusura di milioni di Palestinesi, dall’altro lato, deve ancora essere sconfitta.

Traduzione Gabriella Rossetti

Orly Noy è redattrice di Local Call, attivista politica, trduttrice di poesia e prosa farsi. Fa parte dell’Esecutivo di B’Tselem’s executive ed è attivista del partito Balad. Scrive sulle linee di intersezione e definizione della sua identità, come Mizrahi, donna di sinistra, migrante temporanea che vive all’interno d una migrante perpetua e nel costante dialogo tra le due.




Israele trasforma in propaganda il plauso dell’ONU

Tamara Nassar

2 aprile 2020 – Electronic Intifada

Alcuni funzionari dell’ONU stanno elogiando Israele nonostante il modo in cui tiene i palestinesi in condizioni di scarsità di servizi sanitari basilari mentre affrontano la pandemia di COVID 19. António Guterres, segretario generale dell’ONU, si è persino rallegrato della cooperazione tra l’occupazione israeliana e l’Autorità Nazionale Palestinese nell’arginare la minaccia del nuovo coronavirus.

Come prevedibile, Il suo elogio è stato sfruttato per scopi propagandistici dal ministero degli Esteri israeliano.

Nikolay Mladenov, l’inviato ONU per il Medio Oriente, ha descritto il coordinamento come “eccellente”.

Il coordinatore per gli aiuti umanitari dell’ONU Jamie McGoldrick ha fatto eco alle lodi del suo collega.

Foglia di fico

Non solo l’ONU plaude al cosiddetto coordinamento per la sicurezza tra l’esercito israeliano e l’ANP, ma fornisce anche una foglia di fico a Israele per nascondere i suoi continui attacchi contro il diritto alla salute dei palestinesi.

Israele ha il dovere giuridico di garantire questo diritto. In quanto potenza occupante, in base al diritto internazionale Israele è obbligato a garantire ai palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza le infrastrutture necessarie.

Invece per più di un decennio Israele ha ripetutamente compromesso e danneggiato il sistema sanitario di Gaza, riducendo sistematicamente la fornitura di cibo, carburante, medicinali e materiale da costruzione alla Striscia al punto da calcolare persino il numero minimo di calorie che ogni persona potrebbe consumare per non morire di fame.

Oltre ad imporre un assedio devastante, Israele ha scatenato tre gravi attacchi, spianando interi quartieri e uccidendo migliaia di palestinesi. Dopo ogni invasione ha gravemente intralciato la ricostruzione.

“Le restrizioni al movimento e all’accesso, e ora uno stato d’emergenza imposto a livello mondiale dalla pandemia, sono stati la situazione quotidiana per i palestinesi di Gaza da circa 13 anni,” ha affermato questa settimana Al Mezan, un’associazione per i diritti umani di Gaza.

In Cisgiordania Israele ha continuato ad aggredire le comunità palestinesi, ha sequestrato attrezzature per la costruzione di ospedali da campo, ha confiscato pacchi di alimenti per famiglie in quarantena, ha fatto incursioni in casa nel cuore della notte ed ha continuato con gli arresti arbitrari di minorenni.

Tutte queste attività espongono le comunità palestinesi a un maggior rischio di contrarre il virus.

Hanan Ashrawi, membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha commentato uno di questi raid nella città della Cisgiordania occupata di Ramallah, sede dell’Autorità Nazionale Palestinese, paragonando le forze israeliane ad “alieni ostili senza alcun rapporto con l’umanità.”

Tuttavia Ashrawi non ha fatto alcuna menzione a come normalmente l’Autorità Nazionale Palestinese collabora con l’occupazione militare israeliana.

L’apparato statale di polizia dell’ANP gioca un ruolo molto importante nel reprimere il dissenso palestinese per conto dell’esercito israeliano, arrestando frequentemente attivisti e condividendo informazioni con gli investigatori israeliani.

Ora Israele si congratula con se stesso in quanto si è guadagnato le lodi delle Nazioni Unite per aver fornito il minimo indispensabile alle persone che sottopone all’occupazione e all’assedio.

La propaganda dell’occupazione

Il COGAT, l’organo burocratico dell’occupazione militare israeliana che sovrintende alla punizione collettiva dei due milioni di abitanti di Gaza, spesso usa Twitter per vantarsi di aver inviato alla Striscia kit di analisi ed altre apparecchiature. Questi invii vengono presentati come gesti di buona volontà.

Tuttavia consentire a qualche prodotto di arrivare ai palestinesi non è molto, dato che il COGAT controlla tutto il movimento dei beni dentro e fuori la Striscia di Gaza.

Anche l’OCHA, agenzia di monitoraggio dell’ONU, ha rilevato la “stretta collaborazione senza precedenti” tra le autorità palestinesi ed israeliana dall’inizio dell’attuale crisi sanitaria.

L’organizzazione ha riconsociuto ad Israele di aver agevolato l’Autorità Nazionale Palestinese nell’ importazione di 10.000 kit di analisi e di aver tenuto una formazione per equipe mediche nell’ospedale al-Makassed della Gerusalemme est occupata.

Questi presunti esempi di generosità hanno fornito materiale bell’e pronto al COGAT da sfruttare a fini di propaganda.

Il COGAT ha anche limitato gli spostamenti di milioni di palestinesi nella Cisgiordania occupata con posti di controllo militari.

I checkpoint provocano quotidiane sofferenze ai palestinesi. Eppure il COGAT ha esaltato come il loro incremento “migliorerà la qualità di vita della popolazione della regione.”

Nel contempo un rapporto stilato da associazioni per i diritti umani ha evidenziato l’“impunità cronica” di Israele riguardo all’uccisione e alla mutilazione di personale medico palestinese.

Il rapporto è stato firmato da Al Mezan di Gaza e dalle associazioni benefiche con sede nel Regno Unito “Medical Aid for Palestinians” [Soccorso Medico per i Palestinesi] e “Lawyers for Palestinian Human Rights” [Avvocati per i Diritti Umani dei Palestinesi].

Vi si afferma che l’impunità cronica “rende più probabile che ciò si ripeta.”

Israele ha anche metodicamente negato o ritardato la concessione di permessi di viaggio per i palestinesi che necessitano di cure mediche fuori da Gaza.

Quindi perché le Nazioni Unite stanno lodando Israele perché fa il minimo possibile per la popolazione che aggredisce ed opprime?

Come scrisse il famoso scrittore palestinese Ghassan Kanafani: “Ci rubano il pane, ce ne danno una briciola, poi ci chiedono di ringraziarli della loro generosità…Che sfacciataggine!”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




In Israele Netanyahu e Gantz si mettono d’accordo su un piano per annettere parti della Cisgiordania

Redazione di MEE

6 aprile 2020 – Middle East Eye

Secondo Haaretz, i due leader israeliani potrebbero presentare quest’estate un piano per il governo

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo rivale politico Benny Gantz hanno raggiunto un accordo per annettere parti della Cisgiordania, spianando la strada a un governo di unità dopo mesi di stallo e tre tornate elettorali inconcludenti.

Secondo Haaretz, lunedì, dopo un incontro, i leader israeliani si sono accordati su un piano per iniziare quest’estate un processo formale e reclamare alcune zone dei territori palestinesi occupati come parte di Israele.

Se Washington sarà d’accordo, il progetto verrà presentato al governo, riferisce il quotidiano israeliano. Dopo l’approvazione del gabinetto, il piano richiederà l’approvazione della Knesset, il parlamento israeliano. 

Gli Stati Uniti hanno già espresso la propria disponibilità all’annessione di insediamenti israeliani e della Valle del Giordano in Cisgiordania. 

Accordo del secolo’

A gennaio, il presidente Donald Trump aveva svelato il cosiddetto “accordo del secolo” per risolvere il conflitto, con cui si permetterebbe a Israele di annettere vaste zone della Cisgiordania in cambio del riconoscimento di uno Stato palestinese frammentato, senza controllo delle proprie frontiere o dello spazio aereo.

La maggioranza dei palestinesi ha respinto la proposta.

Sia Netanyahu, che guida il Likud, di destra, che Gantz, il capo del blocco di centro Blu e Bianco, si sono impegnati ad annettere parti della Cisgiordania.

Facendo seguito a tre elezioni che non hanno prodotto un chiaro vincitore, Gantz e Netanyahu sono impegnati in colloqui per formare un governo di unità dopo l’ultima tornata elettorale del 3 marzo.

Dopo segnali iniziali che un accordo avrebbe posto termine all’impasse, Blu e Bianco di Gantz ha dichiarato che i colloqui si erano bloccati sulle nomine dei magistrati.

“Dopo aver raggiunto un accordo su tutti i punti, il Likud ha chiesto di riaprire la questione della Commissione di selezione dei magistrati ” ha detto il partito in una dichiarazione.

“In seguito a ciò i negoziati si sono interrotti: non permetteremo alcun cambiamento nel ruolo della Commissione di selezione della magistratura o un danno per la alla democrazia.” 

Illegale

Gli esperti di diritto internazionale dicono che annettere i territori palestinesi sarebbe illegale.

Israele ha formalmente annesso Gerusalemme Est nel 1980 e le Alture del Golan siriane un anno dopo. Ma la comunità internazionale, compresa Washington, non ha riconosciuto il possesso di Israele di queste zone. Tuttavia alla fine del 2017 Trump ha dichiarato Gerusalemme capitale di Israele e l’anno scorso ha riconosciuto la sovranità di Israele sulle Alture del Golan. 

All’inizio di quest’anno, dopo che Trump ha annunciato il piano per porre fine al conflitto, l’avvocato dei diritti umani Jonathan Kuttab ha detto a MEE che il divieto di acquisire territori con la forza è un principio fondamentale del diritto internazionale.

Dalla Seconda Guerra Mondiale ci sono stati tre tentativi di annessione: l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1990; l’annessione russa della Crimea a danni dell’Ucraina nel 2014 e l’acquisizione di Israele dei territori arabi a partire dal 1967.

“Per 70 anni, l’intero ordine internazionale è stato costruito sul principio che non ci si può impossessare della terra altrui con la forza e annetterla” ha detto Kuttab.

“Fino a quando è arrivato Israele e ha detto: ‘Noi possiamo farlo’. Nessuno era d’accordo con loro fino a quando è arrivato Trump.”

Ha aggiunto che il riconoscimento della sovranità israeliana sulle Alture del Golan da

parte di Washington stabilisce un “pericoloso” precedente che non ha incontrato l’opposizione della maggioranza dei Paesi arabi.

“Secondo la legge internazionale è chiaro come il sole che l’annessione è illegale. Non si tratta di una questione che si presti a interpretazioni.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Nel pieno dell’epidemia da coronavirus i soldati israeliani gettano immondizia e sputano sui veicoli palestinesi in Cisgiordania

6 aprile 2020 – Palestine Chronicle

Secondo l’agenzia di stampa palestinese WAFA, mentre i palestinesi cercano di combattere la diffusione della letale pandemia da coronavirus, oggi nella città della Cisgiordania meridionale di Beit Ummar soldati israeliani hanno scaricato rifiuti contaminati ed hanno sputato sulle portiere di veicoli e sulle porte delle case.

L’attivista locale Muhammad Awad ha detto alla WAFA che un folto gruppo di soldati israeliani ha fatto irruzione in una zona di Beit Ummar – situata vicino al blocco di colonie illegali di Gush Etzion – ed ha gettato in mezzo alle case del villaggio vetri contaminati con una sostanza sconosciuta, nonché rifiuti, siringhe e guanti usati.

I soldati israeliani hanno anche sputato sulle macchine e sulle porte delle case ed insultato gli abitanti con termini razzisti, ha detto Awad, sollevando il sospetto che i soldati vogliano intenzionalmente diffondere il coronavirus tra i civili palestinesi di quella zona.

Dopo che i soldati se ne sono andati dalla città, i volontari locali del Comitato di Emergenza di Beit Ummar hanno sterilizzato le due zone e distrutto e bruciato tutto ciò che i soldati avevano gettato.

Il 31 marzo l’Euro-Med Monitor [organizzazione indipendente per la protezione dei diritti umani, ndtr.] con sede a Ginevra ha chiesto alla comunità internazionale di proteggere i palestinesi e costringere i soldati israeliani a porre fine alle incursioni nelle città e cittadine, che mettono a rischio le misure preventive messe in atto dall’Autorità Nazionale Palestinese per controllare l’epidemia da coronavirus.

Ha chiesto inoltre di indagare sul comportamento sospetto di molti soldati e coloni israeliani, che sembra essere un tentativo di diffondere il contagio, e di far sì che quanti ne sono stati responsabili rispondano dei loro atti.

Secondo il Ministero della Sanità palestinese stamattina sono stati confermati 15 nuovi casi di coronavirus in Cisgiordania, che hanno portato il totale in Palestina a 252.

(Palestine Chronicle, WAFA, reti sociali)




La battaglia dell’acqua in Palestina ( II Parte)

Francesca Merz

25 marzo 2020 Nena News

(per la leggere la prima parte clicca qui)

Fin dal 1936 era stata proposta una «Jordan Valley Authority » posta sotto controllo internazionale. In gran parte, questa idea fu ripresa per la valle del Giordano dal Piano Johnston, dal nome di un inviato del Presidente americano Eisenhower, con l’intento di creare tra il 1954-1955 un’autorità regionale, fondata su una cooperazione fra gli Stati bagnati dal Giordano, allo scopo di attribuire e gestire al meglio le risorse d’acqua. Anche in questo caso Israele non fu d’accordo, e nel 1959, per tutta risposta, approvò una legge secondo la quale rendeva le risorse idriche «una proprietà pubblica (…) sottoposta all’autorità dello Stato». Con questa legge vede di fatto la nascita un sistema che impedisce ai Palestinesi di disporre liberamente delle loro risorse idriche.

E’ il 1967, e subito dopo le invasioni di Gaza e Cisgiordania, le prime due disposizioni introdotte, riguardano proprio l’argomento acqua: la prima è la proibizione alla costruzione di qualsiasi nuova infrastruttura idrica, di perforazione e di nuovi pozzi, senza autorizzazione; la seconda è la confisca delle risorse idriche, che vengono dichiarate proprietà dello Stato, in conformità alla legislazione israeliana sull’acqua. La quantità d’acqua a disposizione degli agricoltori della Cisgiordania è congelata proprio a quel 1967: il plafond è fissato a 90-100 milioni di metri cubi all’anno, per 400 villaggi, assai diversa la quantità d’acqua messa a disposizione delle colonie ebraiche, che è aumentata del 100% nel corso degli anni Ottanta. A questo si aggiunga la perquisizione degli antichi pozzi palestinesi in ottemperanza alla famosa «legge sulla proprietà degli assenti ». Non è questa la sede poi per approfondire la quantità di limitazioni imposte da Israele in Cisgiordania, regioni sottoposte a razionamento, distretti di drenaggio, aree di sicurezza militare, come nel caso di una striscia di terra lungo il Giordano, dichiarata «zona militare », che i Palestinesi utilizzavano a scopo di irrigazione. Nella Striscia di Gaza, prima del 1967, non esisteva alcun sistema di permessi e l’utilizzazione dell’acqua dipendeva dal diritto consuetudinario. In seguito, attraverso le ordinanze militari n° 450 e 451 del 1971, il diritto di concedere licenze di utilizzazione dell’acqua, prerogativa del Direttore del catasto giordano, veniva trasferito alle autorità israeliane. Secondo diverse fonti, dopo il 1967, sono stati concessi dai 5 ai 10 permessi. Allo stesso modo, come in ogni colonizzazione che si rispetti, anche il rifacimento e la manutenzione dei pozzi sono sottoposti ad autorizzazioni israeliane, mai accordate.

La finalità, anche questa tipica del colonialismo, come ci ricorda già il sempre illuminante Neve Gordon, nel suo testo “L’occupazione israeliana”, era quella di porre i Territori palestinesi in una situazione di dipendenza giuridica, amministrativa ed economica. A partire dal 1967, la Mekorot, l’azienda israeliana che controlla i rifornimenti d’acqua sul territorio, ha sviluppato reti di distribuzione in favore di un profitto quasi esclusivo per le colonie, mentre nei settori palestinesi serviti dalla Mekorot, lo stato di manutenzione è tale che fino al 40% dell’acqua trasportata in Cisgiordania è persa in rete. A Gaza, la situazione è ancora più drammatica, dato che la falda acquifera costiera super sfruttata viene infiltrata attualmente dall’acqua del mare. Le distruzioni delle reti idriche e delle riserve obbligano a far arrivare l’acqua tramite camion-cisterna, facendone rincarare il prezzo, che può arrivare fino a 40 NIS/metro cubo (più di 8 euro), vale a dire un prezzo quasi 10 volte più alto di quello inizialmente richiesto dalle municipalità. Se gli Israeliani beneficiano dell’acqua corrente tutto l’anno, i Palestinesi sono vittime di interruzioni arbitrarie, in particolar modo durante l’estate. Per quel che riguarda il prezzo pagato da un consumatore palestinese, l’acqua è fortemente sovvenzionata per le colonie ebraiche, mentre un Palestinese deve pagarla 4 volte più cara di un colono per accedervi. D’altra parte l’acqua e la sua riduzione fa ridurre drasticamente anche la già scarsissima possibilità che aveva l’agricoltura palestinese di poter competere in un mercato fatto di mille restrizioni alla circolazione dei beni. In aggiunta, il 75 % delle acque del Giordano sono deviate da Israele prima che queste bagnino i Territori.

A Gaza, proprio ai margini della Striscia, il governo israeliano ha costruito delle pompe che seccano in buona parte i pozzi palestinesi, la cui acqua disponibile risulta salmastra e oramai inquinata. Non esistono corsi d’acqua nella striscia di Gaza, ma un Wadi che raccoglie le acque di molti wadi della regione. Gli Israeliani hanno disposto piccoli sbarramenti su questi wadi e la sola acqua che scorre ormai nel Wadi Gaza è quella già usata e non ritrattata della città di Gaza.

Dulcis in fundo, come se ci fosse qualcosa di non amaro in tutto questo, come già detto, i Palestinesi non hanno il diritto di perforare pozzi, mentre i coloni lo possono fare e sempre più a grandi profondità (dai 300 ai 500 metri) non solo infatti viene proibito ai Palestinesi di perforare dei nuovi pozzi senza l’autorizzazione militare israeliana, ma soprattutto i loro pozzi non possono arrivare oltre i 140 metri di profondità, mentre quelli dei coloni hanno la potenzialità di arrivare oltre gli 800 metri. Un rapporto dell’ONU indica che fra la firma degli accordi di Oslo del 1993 e del 1999, sono stati distrutti 780 pozzi che fornivano acqua per uso domestico e per l’irrigazione. Nel marzo 2003, ed in seguito all’inizio della Seconda Intifada, i danni procurati nei Territori occupati potevano enumerarsi come segue : 151 pozzi, 153 sorgenti, 447 cisterne, 52 cisterne mobili (tankers), 9.128 serbatoi da abitazione, 14 bacini di riserva, 150 km di condutture e canalizzazioni che collegavano più di 78.000 abitazioni. Come ho già avuto modo di spiegare in un precedente articolo, dal titolo “i fiori del deserto”, la nascita di questa leggenda che pone Israele, come unico Stato capace di far fiorire il deserto, ha purtroppo un’origine macabra, quei fiori fondano la loro crescita su un sistema che non solo, come abbiamo brevemente analizzato, non rispetta la scarsità delle risorse, oggettiva a tutto il territorio, ma distrugge al contempo un fragilissimo ecosistema, schiacciando giornalmente i più basilari diritti umani.

Per sostenere questo sistema di fioritura Israele sta da anni affrontando una delle crisi più ampie sul rifornimento di acqua, il lago di Tiberiade, che era stata la principale fonte d’acqua potabile per Israele, si sta prosciugando. Da un paio di decenni, resisi conto che il problema stava divenendo assai importante per tutta l’economia dello Stato, le autorità israeliane hanno avviato un piano di desalinizzazione dell’acqua di mare riuscendo a ridurre la quantità di acqua che veniva estratta dal lago per irrigare le vaste coltivazioni del deserto. Tiberiade rimane però in condizioni sempre sotto soglia. Il governo israeliano era arrivato a prendere 400 milioni di metri cubi all’anno di acqua, per poter gestire la sempre maggiore richiesta idrica per coltivazioni, allevamenti e colonie con esigenze ben lontane da quel calibrato uso delle risorse che era stato attuato per secoli dalle comunità storiche. È il motivo per cui Israele aveva deciso di investire circa 250 milioni di euro per pompare nel lago acqua presa dal Mediterraneo, che dista circa 50 chilometri, e in seguito desalinizzarla. È risultata però un’impresa complicata, perché mai nella storia un lago di acqua dolce è stato ri-riempito in questo modo, una volta installate tutte le pompe, ci si aspettava di stabilizzare il livello del lago entro il 2020, obiettivo che appare quanto mai lontano. I lavori fanno parte di un ancora più grande piano del Ministro dell’Energia Yuval Steinitz, che vuole raddoppiare la quantità d’acqua che Israele desalinizza ogni anno, e che al momento è pari a circa 600 milioni di metri cubi.

Il problema dell’acqua, abbiamo visto, è stato vivo sin dall’inizio dell’occupazione: la crescente quantità di popolazione, e le necessità di una popolazione con abitudini occidentali, hanno comportato fin dall’inizio la necessità di controllare le risorse idriche del territorio. Il 90 per cento dell’acqua del Giordano viene portata al Negev per il progetto sul deserto, non solo bypassando tutte le necessità dei palestinesi sulla strada, ma sballando completamente tutti gli equilibri naturali. Assolutamente esemplare è l’esempio della valle di Gerico, in cui sono sorte 33 colonie, per la maggior parte specializzate in monocolture molto richieste dal mercato interno e internazionale, come il caffè e il the, piantagioni tipicamente inadatte al luogo, e che tendono ad inaridire terreni, che avrebbero necessità di colture a rotazione. Parallelamente, proseguendo nella valle, le intense monocolture sono invece di ananas, banane, palma da dattero, manghi, avocados. Coltivazioni non endemiche, disadatte alla ciclicità e al naturale rinnovamento del terreno; in tutta la valle di Gerico e non solo, sono completamente scomparsi gli alberi più caratteristici del territorio, ovvero gli alberi di arance, il commercio delle arance, come tristemente ci racconta anche l’esperienza economica siciliana, era troppo poco redditizio rispetto a datteri, manghi o avocados, cibi che oramai con la nuova cultura alimentare sono molto più richiesti e vengono pagati maggiormente.

La gestione di questo modello economico, e i progetti di immensa portata, che prevedono la costruzione di pompe idrauliche e la desalinizzazione progressiva delle acque pompate dal mare, sono salutati dalla comunità internazionale con l’afflato salvifico che fa come sempre di Israele il salvatore di un territorio arido, senza invece capire minimamente che questa immensa opera è pensata per arginare i danni irreversibili di uno sviluppo economico insostenibile sul piano ambientale, prosciugando il lago di Tiberiade, il Giordano e conseguentemente il Mar Morto, a causa di una politica dello spreco senza precedenti. Il medesimo discorso fatto per Tiberiade vale ovviamente per il Mar Morto, il calo dei livelli di acqua non è il solo risultato dei cambiamenti climatici, ma è dovuto all’aumentato uso delle acque degli immissari che dovrebbero rifornire il lago per l’irrigazione, e allo sfruttamento per l’estrazione di minerali. Il bacino è alimentato principalmente dal fiume Giordano, che si immette nel lago a nord, ma il Giordano non ha emissari, dunque modificando il suo corso prelevando una ingente parte delle sue acque per l’agricoltura e le colonie, il contraccolpo non solo sul fiume stesso ma anche sul mar Morto è risultato insostenibile: il ritiro dell’acqua ha lasciato intere sezioni del lago completamente secche, e questa rapida diminuzione del livello del Mar Morto ha una serie di conseguenze dannose, che vanno dai più elevati costi di pompaggio per le fabbriche che utilizzano il Mar Morto per estrarre il cloruro di potassio, magnesio e sale, ad un accelerato deflusso delle acque dolci sotterrane e circostanti dalle falde acquifere, inoltre, sempre per portare i famosi “fiori nel deserto”, il Giordano da circa cinquanta anni viene sfruttato per irrigazione su larga scala sottraendo gran parte dell’acqua che da sempre alimenta il lago.

Buona giornata dell’acqua, a chi può considerarla un bene non in discussione, ma soprattutto, a chi non ha questa fortuna.




Cadere tra le crepe a Gerusalemme

J. Ahmad

30 marzo 2020 – The Electronic Intifada

In questa parte del nostro mondo malato, come dovunque, mentre continua a crescere il numero di contagiati con il nuovo coronavirus, che provoca la patologia respiratoria COVID-19, palestinesi e israeliani contano i propri infettati.

Ma non è affatto chiaro quali statistiche andrei ad ingrossare se dovessi essere così sfortunata da contrarre il virus.

Perché? Sono una palestinese con uno status indefinito che vive nella Gerusalemme est occupata.

Come chiunque altro su questo pianeta ora, sto cercando di uscire da questa epidemia nel modo più sicuro possibile per me e per la mia famiglia.

Eppure, mentre seguo tutte le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Salute, dei Centri per il Controllo delle Malattie e dei governi (sia israeliano che palestinese) di lavarmi le mani, isolarmi fisicamente e lavorare da casa, la mia situazione è straordinariamente precaria.

Faccio tutto ciò dalla mia piccola casa nella Città Vecchia di Gerusalemme, confortevolmente nascosta nel cuore del quartiere musulmano. E, benché mi senta a volte come se fossi l’unica in questa situazione, sono sicura che non sia così. Ci sono decine di migliaia di persone come me.

Ecco il nostro problema: senza permessi delle autorità israeliane per rimanere a Gerusalemme – dove abbiamo famiglia, o proprietà, o lavoro, o di cui siamo originari – non abbiamo copertura sanitaria e rischiamo di essere “riportati” in Cisgiordania.

Ora, io sono cittadina sia palestinese che statunitense. Tuttavia, ai fini di questo articolo, ignorerò la mia identità statunitense dato che non mi offre assolutamente alcuna protezione contro i capricci delle autorità militari israeliane.

Ho vissuto per oltre vent’anni in questa Città Vecchia con mio marito e due figli, ma non ho alcun diritto alla residenza. Per i primi 11 anni ho vissuto qui a Gerusalemme “illegalmente” a causa del ritardo del trattamento delle domande di ricongiungimento familiare di palestinesi a Gerusalemme da parte di Israele.

Permessi e controllo della popolazione

Negli ultimi 10 anni il ministero dell’Interno israeliano mi ha rilasciato un permesso – rinnovato annualmente e subordinato a una pletora di documenti che dimostrano il mio luogo di residenza – tale per cui possa vivere in casa mia senza timore di essere arrestata o deportata.

A parte la burocrazia kafkiana, in questi 10 anni ho iniziato a sentirmi a mio agio con il mio status a Gerusalemme. Non ero cittadina di Israele, neppure residente permanente della città come mio marito e i miei figli, ma almeno ero, per così dire, una specie di inquilina legalmente riconosciuta.

Potevo viaggiare in autobus (anche se non guidare un qualunque mezzo), attraversare i posti di blocco e di fatto dormire nel mio letto senza temere che un poliziotto israeliano bussasse alla porta e mi informasse che sarei stata deportata in Cisgiordania perché vivevo “illegalmente” in città.

Tuttavia di recente sono involontariamente finita in un limbo. Cioè, non mi è stato negato un permesso di ricongiungimento familiare in senso stretto, ma non mi è stato neppure rinnovato, a quanto pare in attesa dell’approvazione da parte della polizia –e ora della giustizia – israeliana.

Quello che ciò significa in termini concreti è che il permesso che mi consente di viaggiare all’interno di Gerusalemme e dentro e fuori dalla Cisgiordania non mi è stato rilasciato. E, ciò che è più grave e più preoccupante date le circostanze, la mia copertura sanitaria israeliana mi è stata revocata. Da qui la precarietà della mia attuale situazione.

Mettiamo il caso che io contragga il nuovo coronavirus e mi ammali gravemente di CODIV-19. Come autorità occupante di Gerusalemme, Israele controlla i servizi medici della città. Quindi, se dovessi andare in un ospedale israeliano, dovrei mostrare la mia carta d’identità e – se non volessi pagare un occhio della testa – la mia tessera sanitaria.

Permettetemi solo di aggiungere: Israele ha uno dei migliori sistemi sanitari al mondo. Non mento, ho goduto di una sensazione di sicurezza durante questi pochi anni in cui ho avuto l’assicurazione.

Beh, non più, e non avrebbe potuto succedere in tempi peggiori. Dato che la mia carta d’identità è rilasciata in Cisgiordania, ciò di fatto mi esclude da ogni diritto a Gerusalemme.

Non solo rischierei di essere mandata via da un ospedale israeliano, ma aprirei un vaso di Pandora di guai amministrativi/punitivi con le autorità israeliane – che non si vergognano di continuare con le loro misure oppressive contro i palestinesi durante questa pandemia – sul perché non sono tornata in Cisgiordania, benché il mio caso sia ancora in sospeso.

Perché non andare in Cisgiordania? In primo luogo lì non ho la copertura sanitaria. Ma, cosa molto più importante, la mia famiglia non sta lì. Una volta in Cisgiordania non potrei vederli. Cosa succederebbe se uno di loro contraesse il virus e finisse in ospedale? Come potrei raggiungerli?

Timore e contagio

Quindi, adottando la filosofia del “minore dei mali”, ho deciso di restarne fuori a Gerusalemme, nei confini della mia casa e sperando che tutto il mio rigoroso lavarmi le mani, disinfettare e mantenere la distanza sociale alla fine diano risultati ed io e la mia famiglia ne usciamo relativamente indenni.

Quando mi avventuro fuori lo faccio solo per comprare alimenti e porto sempre con me di scorta mio marito “legalmente residente”, solo nel caso veniamo fermati e interrogati. In questi giorni la polizia israeliana sta pattugliando le strade più del solito, alla ricerca di cittadini con la febbre o di persone indisciplinate che sfidano la quarantena.

La mia è un’esistenza inquietante. Sono caduta nelle crepe di un sistema discriminatorio e segregazionista. Ma non sono affatto un’anomalia. Essere un abitante palestinese di Gerusalemme – “legale” o “illegale” – di per sé ti relega in uno status di seconda classe, anche nella disponibilità di cure mediche.

In questo nuovo mondo pandemico in cui viviamo, i gerosolimitani palestinesi, oltre alle preoccupazioni per l’epidemia da coronavirus nella loro comunità, devono ancora affrontare le incursioni della polizia e dell’esercito, gli arresti e i soprusi.

Proprio la notte scorsa la polizia israeliana ha fatto irruzione nel nostro quartiere, ha arrestato un giovane in casa sua e ci ha spruzzato tutti con spray al peperoncino.

Gli abitanti del quartiere sono usciti per liberare l’uomo, scontrandosi con la polizia, spingendo, tirando e gridando. Questo tipo di incursioni è già abbastanza traumatico in tempi normali, figuriamoci ora che aleggia su di noi la minaccia di un virus letale.

Inutile dirlo, quella notte non c’è stata nessuna distanza fisica, con la famiglia, gli amici e i vicini del giovane, tutti che cercavano di salvarlo dalle grinfie di poliziotti israeliani senza guanti e senza mascherine, che brandivano spray al peperoncino, fucili e manganelli sui nostri volti, anch’essi senza mascherine.

Pertanto la mia ultima preoccupazione è che una o più persone spinte quella notte una contro l’altra da entrambe le parti dello scontro politico siano portatrici del virus (che lo sappiano o meno) e che di conseguenza un numero imprecisato di noi lo abbia contratto.

Ho coperto bocca e naso sia dallo spruzzo di spray al peperoncino che da ogni particella di carica virale che si possa essere librata nell’aria. Solo i prossimi giorni diranno se è stato sufficiente.

J. Ahmad vive a Gerusalemme. Ha scritto sotto pseudonimo.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)