Il Palestine Chronicle esamina la risposta dei media israeliani alla decisione di Abbas di annullare tutti gli accordi

Redazione di Palestine Chronicle

22 maggio 2020 – Palestine Chronicle

I media israeliani hanno reagito alla decisione del 19 maggio di Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, di annullare tutti gli accordi con Israele, incluso il cosiddetto coordinamento per la sicurezza, con uno “sbadiglio”, oltre alla solita retorica anti-palestinese.

Il Palestine Chronicle ha esaminato le opinioni di quattro commentatori israeliani sulle decisioni di Abbas. Sono quelle di Israel Harel (Haaretz), Ruthie Blum (Jerusalem Post), Avi Issacharoff (The Times of Israel) e Elior Levy (YNet News).

Israel Harel (Haaretz) 

Harel sembra interpretare la decisione di Abbas esclusivamente dalla prospettiva di come ciò potrebbe impattare sulla “sicurezza di Israele”. Per Harel né la pace né la giustizia fanno parte delle sue opinioni politiche. È solo preoccupato che l’interruzione del ‘coordinamento per la sicurezza’ metta in pericolo la sicurezza degli israeliani, inclusi i coloni ebrei illegali. Ma Harel non ne è preoccupato. 

Harel scrive: 

Quello che spaventa gli israeliani più degli attacchi terroristici è che Israele dovrà di nuovo prendersi la responsabilità del benessere e dell’assistenza di 2,5 milioni di palestinesi. A cosa siamo arrivati?

Chi si occupa della situazione dei palestinesi sa che l’ANP non sarà smantellata, che il coordinamento per la sicurezza non cesserà e che i missili puntati da Nablus sull’aeroporto di Ben Gurion non saranno lanciati almeno nell’immediato futuro. Israele ha imparato un paio di cose dalla sua fuga da Gaza (ma non da quella dal Libano). Quando c’è una preoccupazione reale per una bomba che sta per esplodere nell’Area A in Cisgiordania, se ne occupano il servizio di sicurezza Shin Bet e l’esercito, non il ‘coordinamento per la sicurezza.’”

Ruthie Blum (The Jerusalem Post)

Come sempre nei commenti pubblicati dai giornali di destra israeliani, le opinioni di Blum sono sprezzanti verso i palestinesi, prevedibilmente interessate solo a mostrare il senso di autocommiserazione israeliano e vittimizzazione nei suoi riferimenti all’Olocausto e alla presunta cultura ‘anti-semita’ dei palestinesi.

Blum scrive:

Mahmoud Abbas, il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha bisogno di materiale nuovo. Persino le mosche sul muro del suo compound a Ramallah devono aver sbadigliato martedì sera quando ha annunciato, per l’ennesima volta, che l’ANP non è più vincolata dagli accordi precedenti con Israele.

Anche se i grandi capi presenti devono aver dubitato che Abbas stia veramente per mantenere la minaccia di porre fine alla cooperazione economica e sulla sicurezza con lo Stato di Israele, non hanno potuto ammetterlo ad alta voce.

Il che ci porta alla vera ragione di questo suo ultimo concione: ricordare alla cosiddetta comunità internazionale il suo ‘dramma’ e costringere i leader arabi a simpatizzare, almeno formalmente, con le sue ultime rimostranze.

Non che sia roba nuova, naturalmente. No, Abbas ha poche carte da giocare e cerca di darsi importanza fingendo che lo scopo principale della sua vita sia di … ottenere l’indipendenza per il suo popolo e liberare dalla ‘occupazione illegale’ israeliana la Cisgiordania e Gaza.

Tramite mezzi di comunicazione e programmi scolastici rigidamente controllati, egli promuove l’idea che la ‘catastrofe’ della fondazione di Israele nel 1948 sia stata la vera ‘occupazione illegale della Palestina.’ Negazionista dell’Olocausto e allo stesso tempo uno che accusa Israele di crimini simili a quelli dei nazisti, egli incoraggia l’antisemitismo nella sua società.”

Avi Issacharoff (The Times of Israel) 

Anche se Issacharoff ha capito perché i politici israeliani non stiano prendendo sul serio le affermazioni di Abbas, egli avverte che questa volta potrebbe essere diverso. 

Issacharoff scrive:

Gli israeliani, specialmente i politici, tendono a sottovalutare le dichiarazioni altisonanti di Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese. E forse hanno ragione.

Questa volta Abbas ha agito per essere coerente con le sue parole. Dopo aver annunciato all’inizio di questa settimana che l’ANP non era più vincolata agli accordi con Israele a causa dei piani di annettere parti della Cisgiordania, Abbas ha agito per interrompere nei fatti il coordinamento per la sicurezza con Gerusalemme. Nelle ultime 24 ore fonti israeliani hanno confermato che l’ANP ha bloccato tutto il coordinamento.

Questo è un colpo di scena. A molti ‘porre fine a coordinamento’ potrebbe sembrare uno slogan senza senso. Ma un passo simile può avere importanti conseguenze sia per gli israeliani che per i palestinesi.

Per i palestinesi le forze di sicurezza palestinesi per la prevenzione si basano in gran parte su questo coordinamento. Confusioni di questo tipo sono accadute nel passato, ma è solo nelle ultime 24 ore che la polizia palestinese è stata improvvisamente sorpresa da ordini concreti di interrompere certe attività israeliane nell’Area A [sotto totale controllo dell’ANP, ndtr.].

Ignorati e umiliati ripetutamente in anni recenti da Israele e USA, i leader dell’ANP stanno mostrando i muscoli per dimostrare che sono intenzionati a giocarsi tutto, persino a danneggiare concretamente se stessi per provare che non capitoleranno davanti alle pressioni americane e israeliane.”

Elior Levy (Ynet News

Levy, come Issacharoff, ha preso piuttosto seriamente le dichiarazioni del presidente dell’ANP, definendo la sua decisione ‘un’arma apocalittica’. Ha anche analizzato le parole che Abbas ha scelto così attentamente, suggerendo che il leader palestinese ha di proposito lasciato un margine che gli permetterebbe di mantenere il ‘coordinamento per la sicurezza’ anche dopo il suo drammatico annuncio. 

Levy scrive: 

Per quanto riguarda l’ANP, se Israele vuole procedere all’annessione e ritornare ai giorni in cui doveva occuparsi di 2,5 milioni di palestinesi, gestire scuole, sistema sanitario, raccolta rifiuti, economia e sistema fognario, sono i benvenuti. 

Le armi apocalittiche si chiamano così perché si è già visto in precedenza che sono ugualmente distruttive per entrambe le parti.

Lo scioglimento dell’ANP significa anche che centinaia di migliaia di impiegati e burocrati che si sono abituati a una vita piuttosto confortevole sono ora disoccupati e probabilmente non molto contenti di rinunciare al loro stile di vita. 

Inoltre, senza l’ANP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) perderebbe tutta la sua credibilità presso l’opinione pubblica palestinese, aprendo la porta ad Hamas, che potrebbe prendere il controllo totale della Striscia di Gaza e della Cisgiordania. 

Comunque, Abbas ha scelto le sue parole molto attentamente … garantendosi uno spazio di manovra.

Noi non siamo più vincolati dagli accordi che abbiamo firmato in precedenza” ha detto Abbas. Preso letteralmente significa che i palestinesi sono ancora obbligati, ma non ne rispondono più.

Ciò significa che la collaborazione per quanto riguarda la sicurezza è ancora in piedi e che l’OLP sta ancora lavorando con l’intelligence israeliana e la CIA.

Martedì sera i palestinesi hanno lanciato un segnale di avvertimento a Israele … Concludendo, i palestinesi stanno aspettando per vedere come si metteranno le cose. Alcuni di loro credono che tutta la storia dell’annessione andrà ad esaurirsi a causa delle sue ripercussioni sulle relazioni israeliane con la comunità internazionale.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il processo di pace non ha mai inteso dare ai palestinesi uno Stato: rivelazioni dal Council on Foreign Relations

Philip Weiss

22 maggio 2020 – Mondoweiss

Steven Cook, del Council on Foreign Relations [Consiglio sulle Relazioni Internazionali: organizzazione indipendente statunitense fondata nel 1921 che promuove la comprensione delle relazioni internazionali e della politica estera, ndtr], ha pubblicato su Foreign Policy [prestigiosa rivista bimestrale statunitense dedicata alle relazioni Internazionali, ndtr] un articolo che afferma che gli Stati Uniti dovrebbero eliminare gradualmente gli aiuti a Israele e “porre fine rapporto privilegiato [con Israele]” perché il processo di pace ha raggiunto il suo vero obiettivo: Israele è riconosciuto come un Paese sicuro con un tenore di vita alla stregua del Regno Unito e della Francia e senza alcuna reale minaccia militare.

L’articolo è sconvolgente in quanto rivela l’essenza del processo di pace, dicendo esattamente ciò che Edward Said, Rashid Khalidi e Ali Abunimah [autorevoli scrittori e studiosi americani-palestinesi; l’ultimo è uno dei più autorevoli sostenitori della soluzione attraverso uno Stato unico, ndtr.] hanno sostenuto decenni or sono, cioè che fosse destinato a fallire, senza mai condurre ad un’ indipendenza palestinese.

Cook afferma che l'”interesse principale” degli Stati Uniti in Medio Oriente è sempre stato la “sicurezza” di Israele, quindi il processo di pace doveva girare in tondo all’infinito.

I politici statunitensi hanno a lungo creduto che una soluzione con due Stati fosse il modo migliore per garantire la sicurezza di Israele, e i presidenti degli Stati Uniti, da Bill Clinton a Barack Obama allo stesso Donald Trump, hanno ripetutamente perseguito tale obiettivo. Ma il fatto per lo più sconosciuto riguardo all’impasse dei due Stati – e forse il motivo per cui Washington non ha dimostrato la volontà politica di superarlo – è che essa ha consentito agli Stati Uniti di raggiungere uno dei [suoi] interessi fondamentali nella regione: contribuire a garantire la sicurezza di Israele …

La “tragedia” per i palestinesi, spiega Cook, è che si sono fidati degli Stati Uniti e “hanno interpretato erroneamente” gli interessi principali degli Stati Uniti; ma ora saranno costretti a vivere per sempre in Bantustan [denominazione dei territori circoscritti e separati in cui erano costrette a vivere le popolazioni di etnia nera nel Sud Africa al tempo dell’Apartheid, ndtr.].

La tragedia in tutto ciò è costituita dalla spoliazione permanente dei palestinesi, che senza dubbio saranno indignati per il fatto che Washington si stia lavando le mani del conflitto, affidandoli al destino di dover vivere per sempre sotto lo stivale dell’IDF [le forze armate israeliane, ndtr.] o ammassati all’interno di Bantustan. La loro rabbia è giustificabile. Hanno anche frainteso gli interessi fondamentali degli Stati Uniti in Medio Oriente, che in realtà non hanno a che fare con i palestinesi i quali, nonostante ogni prova contraria, si sono fidati degli Stati Uniti.

La prossima volta che qualcuno dirà che gli arabi dicono il falso o che gestiscono la politica estera come un suk, bisognerà ricordargli che persino un esperto del Council on Foreign Relations afferma che gli Stati Uniti hanno ingannato i palestinesi con 25 anni di false promesse.

L’ovvia domanda che si pone è sul perché distruggere i diritti umani palestinesi sia un interesse cruciale degli Stati Uniti – anzi, perché il sionismo sia un interesse cruciale degli Stati Uniti – e sì, in che misura questo rifletta il potere della lobby israeliana nella nostra politica. Per una generazione abbiamo avuto mediatori della Casa Bianca che sono stati definiti “gli avvocati di Israele” o che dicevano al pubblico della sinagoga “dobbiamo essere i sostenitori di Israele”, o che sono passati direttamente dai loro incarichi nella Casa Bianca di Obama a un lavoro a favore di Israele (sia Dan Shapiro [già ambasciatore degli Stati Uniti in Israele durante l’incarico di Obama, ndtr.] che Tamara Cofman Wittes [scrittrice ed esperta di questioni medio-orientali; vice assistente del segretario per gli Affari del Vicino Oriente presso il Dipartimento di Stato dal novembre 2009 al gennaio 2012, ndtr.]).

Nessuno di questi impostori ha mai avuto alcun reale interesse a concedere una qualunque forma di indipendenza ai palestinesi.

E quanto è stata funzionale a quell’interesse “fondamentale” anche l’instabilità dei Paesi vicini? Israele è messo bene, dice Cook, perché “Iraq e Siria sono in rovina”. E il Libano si sta sgretolando.

Dovremmo essere grati a Cook per aver affermato che l’obiettivo del processo di pace fosse il fallimento; e che il fallimento avrebbe salvaguardato unicamente gli interessi di Israele.

L’Israel Policy Forum ha espresso un’ analoga visione quando Netanyahu l’anno scorso ha iniziato a preannunziare l’annessione della Cisgiordania.

[L’annessione] aggraverà le divisioni tra i sostenitori di Israele negli Stati Uniti, alla fine eroderà la sicurezza di Israele, consegnerà una vittoria evitabile e netta al movimento BDS e manderà all’aria decenni di politica attentamente calibrata su Israele.

“Decenni di una politica attentamente calibrata su Israele” significa che i sionisti, progressisti o meno, sostengono a parole uno Stato palestinese ma alla fine non hanno nessun problema riguardo l’occupazione, perché lo status quo è favorevole a Israele – è una prospera democrazia per gli ebrei e l’apartheid per i palestinesi è una tragedia ma non vale la pena perderci il sonno.

E quando emerge un tentativo reale di far pagare a Israele un prezzo per le sue violazioni dei diritti umani, i sionisti progressisti saltano su ad etichettare il BDS come antisemita.

Un ringarziamento a Scott Roth.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Le forze di sicurezza palestinesi si ritirano dalla zona B di Gerusalemme

23 maggio 2020 – Middle East Monitor

L’agenzia Anadolu [agenzia di stampa turca, ndtr.] informa che le forze di sicurezza palestinesi si sono ritirate dai villaggi e dai sobborghi di Gerusalemme classificati come zona B dagli Accordi di Oslo.

Secondo i testimoni le forze palestinesi hanno abbandonato le cittadine nordoccidentali di Iksa, Qatanna e Biddu, e quelle settentrionali di Abu Dis e Izarriya.

Benché l’Accordo di Oslo II, firmato nel 1995 tra l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina ed Israele, designi la zona B come sottoposta al controllo di sicurezza israeliano, Tel Aviv ha permesso alle forze di sicurezza palestinesi di dispiegarvisi a causa della pandemia da coronavirus.

I funzionari palestinesi non hanno ancora chiarito se la misura sia collegata alle recenti affermazioni del presidente Mahmoud Abbas sul ritiro della Palestina dai precedenti accordi con Stati Uniti e Israele, in quanto è previsto che Tel Aviv si annetta vaste aree della Cisgiordania occupata.

Martedì Abbas ha detto che il Paese stava interrompendo tutti gli accordi e le intese firmati con Israele e con gli Stati Uniti, compresi quelli sulla sicurezza.

Ha affermato che la Palestina ritiene l’amministrazione USA responsabile dell’occupazione del popolo palestinese e la considera un complice fondamentale delle azioni e decisioni di Israele contro i diritti dei palestinesi.

Da parte sua, mercoledì il Primo Ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha ordinato di mettere in atto le decisioni di Abbas di troncare i rapporti con Israele e gli USA.

Di conseguenza, nella riunione governativa straordinaria tenutasi nel pomeriggio, Shtayyeh ha ordinato a tutti i ministeri di prendere concrete e urgenti misure relativamente alle decisioni di Abbas.

L’iniziativa è stata presa come protesta per le minacce israeliane di annettere parte dei territori palestinesi occupati nel 1967.

In base all’Accordo di Oslo II i territori palestinesi della Cisgiordania occupata furono divisi in zone A, B e C.

La zona A comprende il 18% della Cisgiordania ed è controllata dall’Autorità Nazionale Palestinese, sia per quanto riguarda la sicurezza che l’amministrazione.

La zona B comprende il 21% della Cisgiordania ed è sottoposta all’amministrazione civile palestinese e alla gestione della sicurezza israeliana.

La zona C comprende il 61% della superficie della Cisgiordania ed è sotto il controllo amministrativo e di sicurezza di Israele, cosa che implica l’approvazione delle autorità israeliane per qualunque progetto o iniziativa palestinese al suo interno.

(Traduzione dallo spagnolo di Cristiana Cavagna)




Il coronavirus è una manna per la tecnologia militare israeliana

Maureen Clare Murphy

20 maggio 2020 – Electronic Intifada

Molta della retorica sulla risposta globale alla pandemia da coronavirus è stata militarizzata, provocando i danni che le metafore belliche della politica del terrore tendono ad evocare.

In Israele questa militarizzazione è stata più che una metafora.

Un nuovo rapporto dell’associazione “Who Profits” [A chi giova], che controlla chi trae profitto dall’occupazione dimostra che il ministero della Difesa e le industrie belliche di Israele, sia private che statali, sono “state in prima linea” nella risposta del Paese al coronavirus.

Ciò “evidenzia la profonda distorsione militarista che sorregge l’economia e il regime politico israeliani e la simbiosi tra la sfera civile e l’apparato militare,” afferma “Who Profits”.

Electronic Intifada ha già informato su come l’israeliano NSO Group, implicato nell’uccisione del giornalista saudita Jamal Khashoggi, stia cercando di esportare il suo sistema di spionaggio per il tracciamento dei contatti durante il coronavirus, visto come un passo fondamentale per porre fine ai blocchi totali generalizzati.

Secondo “Who Profits”, NSO Group collabora con il ministero della Difesa israeliano per “sviluppare, rendere operativo e eventualmente esportare un sistema centralizzato di dati per valutare le probabilità che una persona venga infettata dal virus.”

Deriva pericolosa”

Nel contempo il capo della sua divisione tecnologica ha detto ai media che il Mossad, il servizio di spionaggio israeliano per l’estero tristemente noto per gli assassinii extragiudiziari, ha ottenuto illecitamente equipaggiamento sanitario.

Lo Shin Bet, l’organismo di spionaggio interno di Israele, ha fornito il suo “estesissimo database segreto… che raccoglie continuamente dati in tempo reale su tutti i cittadini israeliani” con il fine di tracciare i contatti.

“Consentire allo Shin Bet di utilizzare i suoi metodi segreti e senza controllo in questioni relative ai civili potrebbe creare una deriva pericolosa che può portare al suo intervento in ulteriori aspetti della vita civile,” ha avvertito Suhad Bishara, avvocatessa di “Adalah”, una associazione per i diritti umani che ha avviato una campagna contro il tracciamento per la sorveglianza.

Due unità di élite dell’intelligence militare israeliana stanno ora conducendo ricerche sanitarie legate al coronavirus.

Queste unità sono la normalmente segretissima Unità 81, che sviluppa tecnologia spionistica avanzata, e l’Unità 8200, generalmente considerata come l’equivalente israeliana della National Security Agency [organismo del ministero della Difesa Usa che si occupa di sicurezza nazionale, ndtr.] degli Stati Uniti.

Nel 2014 riservisti dell’Unità 8200 hanno rivelato che essa utilizza una sorveglianza generalizzata e invasiva per obbligare a collaborare con Israele palestinesi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

Sul pesante coinvolgimento delle agenzie spionistiche israeliane hanno informato in modo acritico, se non elogiativo, i mezzi di comunicazione internazionali, che hanno omesso di menzionare il loro scopo principale: la repressione del popolo palestinese e della sua lotta per la liberazione.

Come nota “Who Profits”, il “nuovo incarico di carattere sanitario non ha distolto l’apparato militare israeliano dalla sua funzione e ragion d’essere principali: il costante controllo militare sulla popolazione civile palestinese.”

Questo rimane “il lavoro ‘essenziale’ dell’esercito,” aggiunge l’organizzazione di controllo.

Dalla repressione militare all’innovazione civile

In precedenza “Who Profits” aveva evidenziato come le competenze sviluppate nel contesto dell’occupazione e applicate a un ‘apparentemente innocua industria civile aiutino le industrie belliche israeliane a promuovere “una versione ripulita delle loro tecnologie repressive.”

Il trasferimento di queste tecnologie all’industria sanitaria per combattere il coronavirus dimostra ancora una volta quanto “l’apparato militare statale funzioni come un laboratorio, un punto di riferimento, un cliente e un incubatore delle innovazioni tecnologiche israeliane.”

Con meno di 50 casi gravi o critici al momento della stesura di questo articolo, Israele sembra essere riuscito ad arginare la diffusione del virus, nonostante il suo trattamento discriminatorio e negligente dei palestinesi.

Le industrie belliche israeliane hanno “nuove prospettive di guadagno materiale e simbolico,” afferma “Who Profits”.

E avendo vinto la guerra – o almeno la prima battaglia – contro il coronavirus “il potenziale per future esportazioni è innegabile.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Furto di terre e deportazioni: ecco cosa prevede per il dopo annessione un importante avvocato israeliano

Meron Rapoport

20 maggio 2020 – Middle East Eye

Nella sua intervista con MEE, Michael Sfard dice che a Israele si è presentata l’occasione del secolo di annettere la Cisgiordania

A quasi 53 anni dall’occupazione della Cisgiordania, Israele è più vicina che mai ad annettere parti del territorio palestinese.

L’articolo 39 del patto di coalizione firmato dal primo ministro Benjamin Netanyahu del Likud e Benny Gantz di Blu e Bianco permette al premier, in accordo con la Casa Bianca, di proporre alla discussione nel governo un disegno di legge per mettere in pratica la sovranità di Israele e per l’approvazione in parlamento entro il primo luglio.

Dato che nella Knesset, il parlamento israeliano, c’è una chiara maggioranza per l’”applicazione della sovranità”, la nuova parola che si usa per ‘annessione’, in teoria, tra appena due mesi e mezzo, Israele potrà annettere parti della Cisgiordania – indubbiamente la mossa più significativa da quando l’ha occupata nel 1967.

Il governo insediatosi domenica metterà l’annessione come primo punto all’ordine del giorno.

Questo “in teoria”, perché con il passar del tempo dalla firma dell’accordo, la pressione su Israele sta salendo.

Solo venerdì Josep Borrrell, l’Alto rappresentante della politica estera dell’Unione europea, ha detto che l’UE userà “tutte le sue capacità diplomatiche ” per fermare l’annessione e il re di Giordania Abdullah ha previsto un “gravissimo conflitto” se si procedesse all’annessione.

Persino l’amministrazione Trump sembra meno entusiasta che alcune settimane fa. L’annessione dovrebbe far “parte di negoziati fra israeliani e palestinesi”, ha detto Morgan Ortagus, portavoce di Mike Pompeo, dopo la visita in Israele del Segretario di Stato della scorsa settimana.

Sebbene nelle ultime elezioni la sinistra israeliana sia stata pesantemente sconfitta, all’interno del Paese c’è ancora opposizione. Una figura prominente è Michael Sfard, avvocato israeliano specializzato in leggi sulla difesa dei diritti umani, consulente legale per organizzazioni di diritti umani in Israele e autore de The Wall and the Gate: Israel, Palestine, and the Legal Battle for Human Rights, [Il muro e la porta: Israele, Palestina e la battaglia legale per i diritti umani ndtr.].

In un’intervista della scorsa settimana Sfard ha messo in guardia contro le disastrose conseguenze per i palestinesi residenti nei territori annessi e per le loro proprietà. Eppure, allo stesso tempo, sostiene che, se l’annessione venisse fermata adesso, scomparirebbe dal dibattito “per cent’anni”.

Middle East Eye: Si è spesso sostenuto, persino da parte dei palestinesi, che sostanzialmente l’annessione sia già avvenuta e quindi un atto formale non farebbe una grande differenza.

Michael Sfard: Questo è un errore molto comune e rivela scarsa comprensione del significato per i singoli individui e per le comunità palestinesi e di quanto profondamente inciderà sulle loro vite e i loro diritti. Quasi sicuramente vorrà dire “nazionalizzazione” della maggior parte del territorio. Grandi porzioni di terra di proprietà di palestinesi che non vivono sul territorio saranno considerate come ‘proprietà di assenti ’.

MEE: Può spiegare meglio?

MS: La Absentee Property Act, la legge sulla proprietà degli assenti del 1950 permette di impossessarsi di proprietà di rifugiati palestinesi che se ne andarono, fuggirono o vennero deportati da ciò che nel 1948 diventò Israele. La legge definisce ‘assente’ un individuo che risiede in un “territorio nemico” o in “qualsiasi parte della Palestina Mandataria che non sia lo Stato di Israele”.

Nel 1967, quando Israele ha applicato questa legge a Gerusalemme Est, molti abitanti della Cisgiordania che avevano là delle proprietà furono definiti ‘assenti’, sebbene non avessero fatto nulla per diventarlo, non se ne erano andati. È una condizione fittizia, ma legale.

MEE: Cosa le fa pensare che ora useranno questa legge?

MS: Per molto tempo [il governo israeliano] non l’ha applicata a Gerusalemme Est, ma negli ultimi 20 anni lo sta facendo. La lobby dei coloni ha persuaso il Procuratore generale a fare eccezioni che sono state approvate dalla Corte Suprema di Israele. Sappiamo per esperienza che ogni eccezione diventa una regola, e quindi c’è l’enorme pericolo che gran parte del territorio venga dichiarato ‘proprietà di assenti’.

Un altro meccanismo con cui Israele esproprierà terre è la confisca per pubblica utilità. In ogni Paese ci sono delle leggi simili, per costruire strade, ecc.

MEE: Al momento ciò non è possibile in Cisgiordania?

MS: Ora no, secondo le leggi dell’occupazione e i principi applicati in questi anni dalla Corte suprema di Israele e dal Ministro della giustizia. Questa è la ragione per cui Israele ha usato ogni stratagemma giuridico, come dichiararle terre pubbliche. Ma una volta che un territorio è annesso, allora il “pubblico” sono gli israeliani e si può espropriare nel loro interesse. È chiaro che è questo che sarà fatto. Ecco il motivo per cui Israele sta annettendo questi territori.

MEE: É questa la ragione? Non è un gesto simbolico e politico?

MS: Naturalmente c’è un aspetto simbolico e di orgoglio nazionale, ma senza impadronirsi delle terre, l’annessione non soddisferebbe le fantasie annessioniste. Già ora i coloni nei loro insediamenti si sentono parte di Israele. L’unica restrizione è lo sviluppo, il fatto che ci sono molte terre agricole intorno ad essi sulle quali è difficile per loro espandersi.

MEE: Quindi il motivo principale è impossessarsi di terre?

MS: Ne è decisamente l’aspetto principale. Il conflitto israelo-palestinese è sostanzialmente per il territorio, non è né religioso né culturale, è territoriale. L’annessione, senza impadronirsi delle terre, non è una vittoria.

Questa è la prima cosa. La seconda è che alcune, probabilmente molte, delle comunità palestinesi che saranno coinvolte dovranno fronteggiare il pericolo della deportazione forzata. Per 53 anni Israele ha avuto il controllo del registro della popolazione palestinese e la sua politica ha impedito ai palestinesi di cambiare l’indirizzo in certe zone, come quelle a sud del Monte Hebron, nella Valle del Giordano e nel cosiddetto ‘Jerusalem Envelope’.

Quindi ci sono molte comunità, la maggior parte piccole e deboli che, se controlli la carta d’identità rilasciata ai loro abitanti dall’amministrazione civile israeliana [l’autorità militare che controlla i territori occupati ndtr.], sono registrate altrove in Cisgiordania. Dopo l’annessione diventeranno stranieri illegali in Israele e a rischio di deportazione. Naturalmente non avverrà il giorno dopo, ma alla lunga questo sarà il loro destino.

MEE: Lei è uno di quelli che da molto tempo ha sostenuto che quello che Israele sta facendo in Cisgiordania sia un tipo di apartheid. L’annessione non la aiuterà a convincere la comunità internazionale che è così? 

MS: L’accusa di apartheid è stata mossa a Israele da molti anni, espressa dagli attivisti dei diritti umani più radicali e politicamente periferici. L’annessione sposterà questo modo di pensare in un campo politico più convenzionale. Se Israele in passato ha sostenuto che non vuole governare i palestinesi e che la situazione presente è temporanea, l’annessione significherà perpetuare il dominio sui palestinesi e la loro oppressione, una situazione che si penserà che sia definitiva. 

MEE: Quindi non aiuterà persone come lei?

MS: Sicuramente rafforzerà questo argomento, ma non voglio barattare la forza del mio ragionamento in cambio dell’occupazione dei territori e della deportazione dei palestinesi. La gente che pensa che questo sia uno sviluppo positivo perché genererà un’opposizione più forte contro le politiche israeliane non valuta o non capisce appieno le conseguenze enormi dell’annessione e probabilmente sopravvaluta l’opposizione internazionale. Israele è uno Stato molto potente e più volte ci sono state cose commesse da Israele che si pensava che la comunità internazionale non avrebbe perdonato – ma l’ha fatto.

MEE: Cosa potrebbe fermare Israele? 

MS: Ci sono tre campi in Israele che voteranno a favore. Uno è quello ideologico, niente cambierà il suo punto di vista. Il secondo lo farà per motivi politici interni. Per loro i costi superano i benefici, potrebbero opporre resistenza. Fra i costi ci sarebbero la sicurezza, costi economici e, più importante di tutti, il danno alla posizione di Israele all’interno della comunità internazionale.

Il terzo gruppo è Netanyahu stesso. Un uomo, una missione. I suoi interessi sono completamente diversi. Non penso che al momento siano ideologici. Il problema principale è la sua sopravvivenza e il ruolo che può giocare l’annessione.

C’è ancora una cosa. Si tratta probabilmente del passo più importante di Israele dalla sua dichiarazione di indipendenza, eppure, per la maggior parte, la decisione non avverrà a Gerusalemme, ma a Washington.

MEE: Molti centri di potere della sicurezza israeliana, al centro e persino a destra, vogliono fermarla per continuare con lo status quo dell’occupazione. Non si sente a disagio a trovarsi insieme a loro? 

MS: Lo chieda a loro, ma io penso che non capiscano che in Medio Oriente lo status quo non esiste. Se si ferma l’annessione, non torneremo alla situazione precedente. In realtà io penso che fermarla sarà il passo più importante per far avanzare una giusta soluzione del conflitto israelo-palestinese.

Molti tasselli del puzzle vanno al loro posto, una situazione che la destra israeliana non avrebbe mai potuto sognarsi: un presidente alla Casa Bianca che non solo sostiene l’annessione, ma anzi ci spinge a farla, un’Europa molto debole, una maggioranza nel parlamento israeliano, l’opinione pubblica israeliana che negli ultimi vent’anni ha virato costantemente a destra e i palestinesi più deboli che mai.

Lo dicono le stelle. Se, in questa situazione che sembra perfetta, si previene l’annessione significherà che i confini di una possibile soluzione al conflitto israelo-palestinese saranno ridefiniti. Se oggi non potessimo annettere, allora probabilmente non succederà nei prossimi cent’anni.

Questo creerà un’enorme frattura nel campo degli annessionisti. Hanno aspettato 2000 anni, il messia è arrivato, si è fermato alla nostra porta, ma non l’ha aperta e se n’è andato.

MEE: Quindi lei è ottimista?

MS: Non sono sicuro che scommetterei che non succeda. Ma credo che ci sia un percorso ragionevole per far sì che non accada e la comunità internazionale gioca un ruolo primario. Il nostro compito è la mobilitazione di quelle forze che lo impediranno.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’opposizione israeliana è disunita quanto la coalizione di governo

Afif Abu Much

19 maggio 2020 – Al Monitor

Il nuovo governo israeliano, il più numeroso di sempre, ha prestato giuramento il 17 maggio. E’ caratterizzato da ogni sorta di ministeri di recente invenzione, come quello per la Valorizzazione e il Progresso della Comunità e quello dell’Istruzione Superiore. Nel frattempo, il partito a favore dei coloni Yamina [alleanza di partiti di destra e di estrema destra, ndtr.], guidato da Naftali Bennett [leader del partito La Casa Ebraica, ndtr.], si è trovato ad occupare i banchi dell’opposizione, un’opposizione straordinariamente diversificata. Questa include tutti, dalla Lista Unita [coalizione di partiti che rappresentano gli arabo-israeliani, ndtr.] e Meretz [partito d’ispirazione laica, sionista e socialdemocratica, ndtr.] a sinistra, Yesh Atid-Telem [partito politico centrista e laico fondato dal giornalista Yair Lapid nel 2012, ndtr.] al centro, fino a Yisrael Beitenu [nazionalista, sionista e laico, marcatamente anticlericale, ndtr.] e Yamina all’estrema destra. Ahmad Tibi, membro della Knesset, ha twittato: “Sto pensando di votare la sfiducia nei confronti dell’opposizione se includesse anche Yamina.”

La situazione solleva nuove domande. Quale sarà il ruolo della Lista Unita nell’opposizione? Ha un peso il numero di seggi alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] conquistati nelle ultime elezioni? Vale la pena ricordare che, con 15 seggi, la Lista Unita è giunta molto vicino a svolgere un ruolo decisivo nel determinare chi avrebbe governato il Paese. Sarebbe successo se il leader del partito Blu e Bianco Benny Gantz avesse formato un governo di minoranza, dopo che la Lista Unita lo aveva appoggiato in occasione delle consultazioni del presidente [della repubblica Reuven Rivlin, ndtr.] .

La Lista Unita ha presentato, per la candidatura a presidente della Knesset, Ahmad Tibi [politico israeliano arabo-musulmano, già consigliere politico del defunto presidente palestinese Yasser Arafat, ndtr.], evidenziando la gravità delle differenze all’interno dell’opposizione. La Lista Unita ha annunciato: “Non esiste un’opposizione omogenea. Insieme al nostro elettorato abbiamo posizioni politiche che ci distinguono e ci differenziano dal resto dei partiti di opposizione”.

Nel frattempo, Yesh Atid-Telem ha proposto per la presidenza alla Knesset un’altra candidata, Karin Elharar. L’opposizione si è ovviamente spaccata, con 20 membri che hanno votato per Tibi mentre altri 23 hanno votato per Elharar. Yariv Levin, della coalizione governativa, ha raccolto i frutti e ha ottenuto la nomina.

Il membro della Knesset Jaber Asaqla, della corrente Hadash [acronimo di una formula la cui traduzione italiana è: Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza] della Lista Unita, ha dichiarato ad Al-Monitor: “Non abbandoneremo i nostri principi. Non lavoreremo fianco a fianco con Yesh Atid-Telem su ogni questione.” Nel discutere gli argomenti all’ordine del giorno della Lista Unita in quanto partito di opposizione, ha affermato: “Il fatto che esista un governo di coalizione con 73 eletti rivela quanto sia pesante il lavoro che ci attende nella prossima Knesset. Il tema caldo che ci sta di fronte è l’ ’accordo del secolo’ del presidente Donald Trump, che include l’annessione di parti della Cisgiordania. Useremo tutti gli strumenti a nostra disposizione per opporci a tale progetto. Ci sono anche questioni interne, come la violenza nella società araba, la brutalità della polizia contro i cittadini arabi, la pianificazione, la realizzazione e l’abrogazione della legge “Kaminitz” [che rende più facile la demolizione di case arabe costruite senza permessi] e la legge sulla nazionalità, anche se, data la composizione dell’attuale Knesset, le possibilità che ciò accada sono scarse. E, naturalmente, non possiamo dimenticare la grave situazione economica, in particolare con la società araba che conta oltre 200.000 cittadini israeliani disoccupati”.

Questa sarà una grande sfida e fonte di notevoli frustrazioni per la Lista Unita. Può aver conquistato un numero record di seggi, ma il suo lavoro quotidiano si concentrerà più sui discorsi e sulle dichiarazioni attraverso i media che sui fatti, in quanto non ha gli strumenti sufficienti per influenzare le decisioni. Tuttavia, i suoi elettori si aspettano che il partito entri a far parte di chi prende le decisioni politiche e riesca a combinare qualcosa.

Tuttavia, non solo l’opposizione è eterogenea; lo è anche la coalizione di governo. E sono le differenze nel governo tra Likud e Blu e Bianco che potrebbero offrire alla Lista Unita alcune opportunità per incidere sul governo, specialmente quando Netanyahu avrà bisogno dei suoi voti su una questione o l’altra. Nel 2019 Netanyahu ha presumibilmente ottenuto dall’ opposizione due voti a favore del suo candidato come Revisore dei Conti dello Stato, Matanyahu Engelman. Il Likud ha affermato che i due candidati della Lista Unita hanno sostenuto tranquillamente Engelman in cambio di finanziamenti a favore di alcune località arabe.

L’opinione pubblica araba potrebbe non opporsi alla cooperazione con il governo in cambio di determinati benefici per la comunità araba. Ad esempio, esiste la risoluzione 922, nota anche come Piano Quinquennale per lo Sviluppo Economico per la Società Araba. Membri della Lista Unita hanno collaborato con i vari ministeri per portare avanti tale piano.

Yoav Stern, giornalista ed ex commentatore sulle questioni arabe per Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.], ha detto ad Al-Monitor che in effetti esiste un’opportunità di collaborazione politica con il governo su ogni sorta di questioni. “Ora ci sono richieste nella società araba per una collaborazione nel processo decisionale. Una parte [della Lista Unita], ma non tutta, può finire per cooperare con il governo e con Netanyahu.” Stern ha aggiunto: “Io sostengo che la Lista Unita e i partiti di centrosinistra non abbiano ancora sfruttato appieno la quantità di preferenze all’interno della società araba, soprattutto in base al fatto che l’opinione pubblica araba vuole integrarsi nella società e influire su di essa “.

Tuttavia, è importante ricordare che Yamina si sta unendo all’opposizione, il che potrebbe cambiare i giochi per quanto riguarda la società araba. L’alleanza del 2013 tra il leader di Yesh Atid Yair Lapid e il leader di Yamina Naftali Bennett, che costrinse Netanyahu a includere entrambi nel suo governo, potrebbe essere ora riproposta, come dimostrato dalla reazione di Lapid a un post di Bennett del 13 maggio su Facebook, che annunciava l’uscita di Yamina dalla coalizione. Lapid ha risposto: “Benvenuto fratello! Il sionismo religioso avrebbe mai dovuto essere innanzitutto un giubbotto antiproiettile per chi fosse sospettato di aver commesso un delitto [in riferimento alle imputazioni per corruzione contro Netanyahu, ndtr.]”. La grande domanda è se a lungo termine Lapid preferirà unire le forze con Bennett o cooperare con la Lista Unita.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Più di 150 personalità arabe chiedono a Israele e al mondo arabo di scarcerare i prigionieri politici

20 maggio 2020 – Middle East Monitor

Oltre 150 note personalità del mondo arabo hanno chiesto la scarcerazione di prigionieri palestinesi dalle prigioni israeliane e di prigionieri politici da quelle negli Stati arabi, definendo la pandemia da coronavirus durante la detenzione una “doppia punizione”.

Tra le personalità arabe figurano diplomatici, giornalisti, artisti, accademici, attivisti per i diritti umani e intellettuali, ciascuno dei quali ha aderito all’appello in un articolo pubblicato ieri sul sito politico in francese Orient XXI.

L’articolo chiede ad Israele e agli Stati arabi che detengono prigionieri di coscienza di rilasciarli immediatamente e senza condizioni, soprattutto in quanto “in presenza della pandemia la detenzione diventa una doppia punizione”.

Tra i firmatari vi sono gli scrittori giordano Ibrahim Nasrallah   ed egiziano   Ahmed Nagy, gli accademici rispettivamente marocchino, palestinese-americano e tunisino Abdellah Hammoudi, Rashid Khalidi and Yadh Ben Achour, il compositore e suonatore di oud tunisino Anouar Brahem e la cantante libanese Omaima El Khalil. Vi sono inoltre l’attore palestinese Saleh Bakri, i giornalisti libanese ed egiziano Pierre Abi Saab e Khaled al-Balshi, i politici palestinesi Hanan Ashrawi e Nabil Shaat e il difensore dei diritti umani palestinese Omar Barghouti e tunisino Mokhtar Trifi.

L’articolo afferma che, nonostante il regime occupante israeliano ed i regimi arabi abbiano risposto a precedenti appelli internazionali per il rilascio di prigionieri e “abbiano annunciato la scarcerazione di prigionieri e ne abbiano effettuato alcune, queste non sono state estese ai prigionieri politici.”

Inoltre sottolinea che non vi è una reale e significativa differenza tra i prigionieri palestinesi in Israele ed i prigionieri politici nel mondo arabo, definendo entrambe le categorie “unite dallo stesso destino”. Una firmataria, l’ex ambasciatrice palestinese per la Francia e l’Unione Europea, Leila Shahid, ha affermato: “La lotta per la libertà, la cittadinanza e i diritti umani non ha nazionalità. In Palestina, in Marocco o in Egitto, la lotta è la stessa e dobbiamo essere tutti uniti.”

Un esempio citato a tal proposito è Ramy Shaath, coordinatore della sezione egiziana del movimento internazionale per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) contro l’occupazione di Israele ed i prodotti da essa sfruttati. Per quasi un anno Shaath è stato incarcerato dalle autorità egiziane, diventando uno dei prigionieri di coscienza di cui l’articolo chiede il rilascio.

Il vice-presidente della Federazione Internazionale per i Diritti Umani [che riunisce 164 organizzazioni nazionali di difesa dei diritti umani in oltre 100 Paesi, ndtr.], Hafidha Chekir, ha affermato: “Il diritto dei popoli all’autodeterminazione è parte integrante del diritto internazionale riguardo ai diritti umani e non può essere soggetto né a deroga né ad esclusione.” Sostenere questo diritto umano e il rilascio dei prigionieri che lo hanno esercitato, ha detto,“è una causa nobile e legittima”, chiedendo “il rilascio immediato e senza condizioni di Ramy, come anche di tutti i prigionieri palestinesi e i detenuti politici nella regione araba.”

Durante l’attuale crisi causata dalla pandemia da coronavirus parecchi Stati del Medio Oriente – come Egitto, Iran, Siria – hanno scarcerato migliaia di prigionieri per il timore del diffondersi del virus nelle prigioni. Tuttavia queste misure in genere hanno permesso la scarcerazione di chi era vicino alla fine della detenzione e non hanno incluso i prigionieri detenuti per motivi politici.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La Corte Penale Internazionale non rappresenta una “minaccia strategica” per Israele

Ramona Wadi

19 maggio 2020. MiddleEastMonitor

Da quando la Corte Penale Internazionale (CPI) ha stabilito che la Palestina è uno Stato in cui svolgere indagini sui crimini di guerra commessi da Israele contro civili palestinesi, una nuova serie di minacce è stata mossa contro l’istituzione. Il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha messo in guardia dalle conseguenze di ciò che il suo governo ritiene costituisca uno Stato palestinese. “Gli Stati Uniti ribadiscono la loro continua obiezione a qualsiasi illegittima indagine della CPI. Se la Corte continuerà per la strada presa ne trarremo le dovute conseguenze” ha detto Pompeo.

L’opposizione degli Stati Uniti a uno Stato palestinese è stata ulteriormente ribadita dal cosiddetto “accordo del secolo”, che finge di sostenere uno Stato palestinese dando invece priorità all’agenda coloniale di Israele – in cui non cè spazio per la formazione di uno Stato palestinese. L’opposizione degli Stati Uniti alle indagini della CPI, dunque, è continua e convinta.

Intanto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha bollato le possibili inchieste sui crimini di guerra come “minaccia strategica”. Intervenendo durante la prima riunione del governo e sostenendo di usare raramente l’aggettivo “strategico” che invece è la normale definizione quando si tratti dell’Iran o del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), Netanyahu ha dichiarato: “Questa è una minaccia strategica per lo Stato di Israele – ai soldati dell’esercito, ai comandanti, ai ministri, ai governi, a tutto.”

Israele ha a lungo approfittato delle eccezioni per mantenere la sua colonizzazione della Palestina e rafforzare ulteriormente la sua occupazione militare. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha beneficiato Israele di unimpunità senza precedenti e dell’accettazione delle violazioni del diritto internazionale, al punto che, rafforzato anche dal tacito silenzio della comunità internazionale, Israele sta politicizzando le indagini della CPI allo scopo di mantenere lo stato di eccezione.

Le imminenti indagini sui crimini di guerra di Israele contro il popolo palestinese non sono una minaccia strategica, ma una risposta tardiva che potrebbe offuscare temporaneamente l’immagine di Israele. La collusione fra Israele e la comunità internazionale è un grave ostacolo: non bisogna dimenticare che a livello internazionale Israele gode di un tacito sostegno che gli permette di costituire lui stesso una minaccia strategica per i palestinesi.

La retorica di Netanyahu è un diversivo. Israele non è perseguitato dalla CPI; è possibile che i suoi funzionari siano perseguiti per crimini di guerra, che è la procedura standard. La violenza di Israele ne sostiene la politica coloniale – l’una non può esistere senza l’altra. I palestinesi hanno subìto questa minaccia strategica per decenni. Il tentativo di invertire i ruoli nonostante le prove dei crimini di guerra è una manovra politica che dovrebbe ritorcersi contro Israele se solo la comunità internazionale rimuovesse la sua faziosità pro-Israele e prendesse posizione a favore della decolonizzazione.

Mentre Netanyahu tenta di stringere alleanze contro la CPI, che cosa farà la comunità internazionale? Se la CPI ha stabilito che Israele ha commesso crimini di guerra, il minimo che la comunità internazionale possa fare è sbarazzarsi della retorica dei “presunti crimini di guerra” per sostenere il diritto internazionale e decostruire l’impunità che ha protetto Israele. Se ritenere prioritarie le richieste coloniali di Israele viene prima della legislazione che regola ciò che costituisce i crimini di guerra, la comunità internazionale renderà possibili ulteriori violazioni come nuovi piani di annessione e le prossime indagini saranno eclissate da una nuova ondata di impunità tale per cui ci potrebbero volere decenni prima che siano sottoposte ad attenzione giuridica.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Terrorismo ebraico: gli askhenaziti forniscono il carburante, i mizrahi accendono il fiammifero

Orly Noy

19 maggio 2020 – +972

I leader israeliani hanno impregnato generazioni di mizrahi con l’odio verso gli arabi, così come verso la loro stessa identità araba. I risultati sono stati letali.

Martedì la condanna di Amiram Ben-Uliel per l’uccisione di tre membri della famiglia Dawabsheh durante un attacco incendiario nel villaggio cisgiordano di Duma nel 2015 ha immediatamente riportato i ricordi a quei giorni da incubo. Il solo pensiero del piccolo Ali, bruciato vivo nell’incendio, di suo padre Saad, morto una settimana dopo, di sua madre Riham, deceduta dopo un mese in ospedale, e di Ahmad, che all’epoca aveva quattro anni ed è sopravvissuto, toglie il respiro.

I miei pensieri sono andati al quindicenne Muahammad Abu Khdeir, abitante di Gerusalemme come me, che venne bruciato vivo da estremisti ebrei nel 2014. Poi ho pensato all’incendio della scuola bilingue di Gerusalemme “Mano nella mano”, dove hanno studiato le mie due figlie e che per anni è stata per la nostra famiglia una seconda casa.

Mi baluginavano nella mente i nomi dei responsabili degli attacchi incendiari contro palestinesi: Amiram Ben-Uliel, Yosef Haim Ben David, Yitzhak Gabbai, Shlomo Twito, Nahman Twito. Sono tutti, dolorosamente, di origine mizrahi. I mirzahi (ebrei originari di Paesi arabi e/o musulmani) non sono in alcun modo gli unici responsabili dei crimini efferati contro i palestinesi. È sufficiente seguire per un solo giorno le attività dei terroristi “della cima delle colline” [gruppo terroristico di giovani ebrei particolarmente violenti, ndtr.] per comprendere che è ben lungi dall’essere così.

Però al contempo noi come mizrahi non dobbiamo far finta di niente rispetto agli incendi omicidi che uccidono palestinesi e avvelenano la nostra gioventù con un odio perverso. Abbiamo l’impegno morale, così come un impegno nei confronti della nostra stessa comunità, di fare qualcosa di più che limitarci a comprendere perché questi giovani accendono il fiammifero. Dobbiamo chiederci chi fornisce il combustibile.

La risposta facile, quasi banale, a queste domande è venuta all’inizio dell’anno da Natan Eshel, uno stretto collaboratore del primo ministro Benjamin Netanyahu, che è stato registrato mentre diceva che “l’odio è ciò che unisce” il campo della destra guidato dal partito Likud, e che fare propaganda negativa funziona bene con gli elettori “non askhenaziti [originari dell’Europa centro-orientale e l’élite etnica in Israele, ndtr.]”. E in effetti funziona. Si pensi a Benzi Gopstein, un dichiarato suprematista ebraico e leader del violento gruppo “Lehava”, contrario al meticciato razziale, che per anni ha avuto successo a Gerusalemme nel trasformare mizrahi della classe operaia in stupidi soldati contro i palestinesi della città.

Per decenni sociologi e attivisti mizrahi hanno descritto come il sionismo abbia creato un meccanismo ben oliato che ha intriso generazioni di mizrahi di odio furioso sia per gli arabi tra cui vivono che per la loro stessa identità araba latente, cancellando nel contempo la storia e la lingua dei loro antenati. Poiché l’ideologia sionista ha trasformato qualunque cosa che sembrasse anche lontanamente “araba” in una minaccia meritevole di disprezzo, così anche i mizrahi hanno sentito la necessità di dissociarsi dall’identità araba per essere considerati degni agli occhi dell’establishment israeliano.

La destra israeliana ha sfruttato cinicamente e in modo calcolato per i propri scopi questa tragedia. Comprende la profonda ostilità dei mizrahi nei confronti dei discendenti del Mapai, il precursore politico del partito Laburista, e dell’élite ashkenazita, che li ha trattati con sufficienza e li ha discriminati in ogni modo nei primi decenni dalla fondazione di Israele. Alcuni di questi discendenti continuano ancora oggi a mostrare lo stesso disprezzo per i mizrahi.

Tuttavia in Israele la destra non ha fatto molto di più per consentire ai mizrahi di migliorare la loro educazione o la loro cultura. Al contrario, ha offerto loro una sorta di patto in cui avrebbero continuato ad essere identificati con la turpitudine, l’ignoranza e la volgarità, e come tali sarebbero stati calorosamente accolti perché fossero utili agli interessi politici della destra.

Ci sono buone ragioni per continuare a sfidare i discendenti del Mapai. I mizrahi stanno ancora pagando il prezzo delle discriminazioni che sono al cuore della fondazione dello Stato. Ma non dobbiamo dimenticare che abbiamo ancora un conto in sospeso con la destra, che ha governato Israele per decenni eppure non ha fatto praticamente niente per ottenere giustizia per i mizrahi.

Il nostro primo compito tuttavia dev’essere salvare le anime dei nostri figli dalle grinfie dei Natan Eshel e dei Benzi Gopstein. Non solo salveremo le loro vite, ma anche le vite delle future vittime palestinesi. Nessuna spiegazione sociologica potrà liberarli dalla responsabilità per questo tipo di crimini, e nessuna resa dei conti storica laverà le macchie di sangue dalle loro mani.

Una versione di questo articolo è apparsa la prima volta in ebraico su Local Call [edizione in ebraico di +972, ndtr.].

Orly Noy è una redattrice di Local Call, un’attivista politica e una traduttrice di poesia e prosa in farsi. Fa parte del consiglio di amministrazione di B’Tselem [ong israeliana per la difesa dei diritti umani, ndtr.] ed è un’attivista del partito politico Balad [partito ebreo e palestinese che fa parte della Lista Unita, ndtr.]. Nei suoi scritti parla delle linee che intersecano e definiscono la sua identità di ebrea mizrahi, di donna di sinistra, di donna, una migrante temporanea che vive dentro un’immigrata perpetua e del dialogo costante fra entrambe.

(Traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Territori Occupati: Abu Mazen annuncia fine accordi con Israele ma pochi ci credono

Michele Giorgio

21 maggio 2020, Nena News da Il Manifesto

Il governo Netanyahu non risponde. Scetticismo nella popolazione palestinese. Il presidente dell’Anp più volte in passato ha dato lo stesso annuncio senza far seguire passi concreti alle sue parole.

Un annuncio del genere non molti anni fa avrebbe innescato una crisi regionale, manifestazioni popolari nelle strade dei Territori palestinesi occupati e l’invio di rinforzi di truppe e mezzi corazzati israeliani in Cisgiordania. Invece le parole con cui martedì sera, al termine di una riunione dei vertici politici palestinesi, il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha decretato la fine degli accordi con Israele e Usa a causa delle intenzioni del governo Netanyahu di voler annettere allo Stato ebraico la Valle del Giordano e larghe porzioni di Cisgiordania, sono state accolte tiepidamente dai palestinesi e con palese disinteresse nello Stato ebraico. «Sapete quante volte il presidente Abbas ha annunciato o minacciato l’interruzione dei rapporti con Israele, inclusa la cooperazione di sicurezza (tra le intelligence delle due parti)? Tante. E alle sue parole non sono seguite azioni concrete. La nostra popolazione non ci crede più», ci dice l’analista Hamada Jaber di Ramallah.

I vertici di Fatah, il partito guidato da Abbas e spina dorsale dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), ieri giuravano sulla sostanza del passo mosso dal presidente. «Siamo di fronte a una decisione storica» spiegava Osama Qawasme, portavoce di Fatah, «è la risposta all’attacco di Netanyahu e Donald Trump ai diritti legittimi del popolo palestinese e alle risoluzioni internazionali». Altri dirigenti di Fatah hanno usato toni simili. Hamada Jaber invece ridimensiona la portata dell’annuncio. «Lo considero più una minaccia che una decisione vera e propria» afferma «d’altronde non è passato inosservato che il presidente Abbas sia stato poco perentorio ed incisivo leggendo il suo discorso. L’intervento che pronunciò alle Nazioni unite lo scorso autunno e la sua condanna delle demolizione di case palestinesi a Wadi Hommus (a sud di Gerusalemme) erano stati molto più accesi contro Israele e gli Usa».

Fonti dell’Anp ci riferiscono che la riunione dei vertici palestinesi è stata infuocata. Alcuni dei presenti hanno invocato, a tratti alzando la voce, di tagliare ogni rapporto con Israele e di dare all’occupazione militare israeliana l’intero peso del mantenimento dei tre milioni di palestinesi. Non si è parlato di uno scioglimento delle autorità palestinesi. Tuttavia nelle pieghe del dibattito, a mezza bocca, è emerso anche un possibile ritorno al periodo precedente agli Accordi di Oslo del 1993  (tra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin) e, quindi all’esistenza dell’Anp che ha sgravato Israele dall’obbligo di fornire servizi a milioni di civili palestinesi sotto occupazione e non ha conquistato l’indipendenza. In questo clima ha avuto origine l’annuncio di Abbas. Ma il presidente non cerca lo scontro. Spera che l’Unione europea, le Nazioni unite e altre parti internazionali convincano Netanyahu a frenare l’annessione, almeno fino alle presidenziali Usa di fine anno che il presidente palestinese si augura possa vincere Joe Biden, il candidato democratico. Per questo ha ribadito che la via del negoziato resta aperta. «A patto – ha spiegato – che si svolga sotto auspici internazionali (il Quartetto per il Medio oriente) e attraverso una Conferenza di pace basata sulla legittimità internazionale».

L’opinione pubblica palestinese è divisa al suo interno. Da un lato chiede una posizione più ferma nei confronti di Israele e insiste per la fine della cooperazione di intelligence. Dall’altro pur non avendo fiducia nell’Anp teme il suo smantellamento che significherebbe la disoccupazione per circa 200 mila persone e altrettante famiglie lasciate senza reddito. Nena News