Cosa sarebbe l’identità israeliana senza il sionismo?

di Yuli Novak  11 giugno 2020

+972 Magazine

Gli afrikaner bianchi nel Sudafrica del dopo-apartheid hanno dovuto crearsi un’identità nazionale che non fosse basata sull’asservimento di altri esseri umani. È un problema che, prima o poi, anche gli ebrei israeliani dovranno affrontare.

Il fatto è che noi siamo malati, molto malati” scrisse Jean-Paul Sartre ai francesi nel 1957 commentando la cecità della sua società verso le proprie responsabilità nei confronti del dominio coloniale in Algeria. Il fatto è che anche noi siamo malati. Molto malati. E ammettere la propria malattia è, secondo me, la fase più difficile.

Essendo cresciuti in Israele, dove c’è un sistema politico che proclama esclusivamente l’idea sionista, noi crediamo orgogliosamente in una chiara distinzione fra il “nostro” sionismo, come è stato applicato entro la Linea Verde, e il progetto dei coloni al di là dei confini antecedenti al 1967 [cioè nei territori palestinesi occupati, ndtr.]. Ma, per quanto sia difficile ammetterlo, questa logica è artificiale e ci sta accecando.

Negli ultimi anni ho passato molto tempo in Sudafrica. Mi sono particolarmente interessato a un gruppo che costituisce meno del 10% popolazione: gli afrikaner bianchi, i discendenti degli europei arrivati nella parte meridionale del continente africano tra il XVI e il XVII secolo. All’inizio del Ventesimo secolo, quando il colonialismo inglese in questa regione stava concludendosi, gli afrikaner ottennero il controllo politico sulle terre. Nel 1948 instaurarono l’apartheid, un sistema politico durato 50 anni prima della sua abolizione nel 1994.

Negli anni dell’apartheid solo pochissimi afrikaner riuscirono a riconoscere la propria malattia (oggi ammessa da quasi tutti quegli afrikaner che desiderano relegarla a una cosa del passato). Quei pochissimi si trovavano davanti a un’impasse scoraggiante poiché si rendevano conto che qualcosa nella narrazione della propria formazione proprio non quadrava, che la logica del dominio dei bianchi sui neri, nonostante tutte le giustificazioni che venivano offerte, non poteva essere valida.

Riconoscerlo significava dover fare i conti con i presupposti più essenziali del proprio ambiente sociale, familiare e professionale. Sovvertire la giustificazione dell’apartheid voleva dire voltare le spalle a famiglia, nazione e Stato. Erano considerati, correttamente, come dei traditori. Ma non avevano mai tradito la madrepatria, solo il suo regime.

La loro impasse era soprattutto interiore: non avevano una narrazione per immaginare se stessi alternativa a quella del regime. Il Movimento della Consapevolezza nera che si stava sviluppando in quel periodo in Sudafrica offriva una solida struttura all’identità della lotta contro l’apartheid che però non si rivolgeva a loro in quanto bianchi. Dato che il regime si equiparava al nazionalismo afrikaner, ne conseguiva che essere contro l’apartheid voleva dire essere anti-afrikaner. Quindi essere un afrikaner contro l’apartheid voleva dire andare contro se stessi. Un afrikaner me l’ha spiegato: “Dovevamo chiederci: cosa significa essere chi siamo, afrikaner, senza l’apartheid? Scoprimmo che non avevamo una risposta.” Questa è l’essenza della malattia.

Cosa significa essere ebreo-israeliano senza il sionismo?” Una domanda che non mi sono mai posto.

Il regime sionista (il sionismo come è stato praticato, non la sua versione ideologica o filosofica del come “sarebbe potuto essere”) non ha mai fatto molto per la democrazia. Già nei suoi primi anni il regime israeliano si adoperò per mantenere una maggioranza ebraica, con la Legge sulla proprietà degli assenti e la Legge del ritorno, e per applicare un sistema duale tramite l’apparato militare imposto sulle zone arabe nel nuovo Stato di Israele. Nel 1967 al nostro progetto nazionale si è aggiunta una sfida nuova, ma vecchia: insediarsi e controllare territori oltre la Linea verde riconosciuta internazionalmente. Alla sinistra sionista ebraica venne dato un nuovo problema con cui fare i conti: “l’occupazione dei territori” che, anche se in linea con l’originaria logica di insediamento alla base del sionismo (“il nostro diritto alla terra”), era molto più sgradevole agli occhi degli ebrei su posizioni di sinistra e a quelli del resto del mondo.

La nostra malattia non è cominciata nel 1967. Per quelli che non vogliono mettere in dubbio la narrazione che la sovranità sulla terra debba essere esclusivamente ebraica, narrazione con cui si fa iniziare “una storia diversa” nel 1967, è un modo conveniente per non guardare in faccia il male. Noi possiamo dire a noi stessi che curare i sintomi dell’occupazione, se solo fosse possibile, avrebbe spianato la strada per continuare il progetto sionista “senza macchia”.

In anni recenti gli eventi sul terreno ci hanno impedito di continuare a raccontare a noi stessi questa storia. Quasi tutti i partiti politici che rappresentano gli ebrei israeliani riconfermano ai cittadini palestinesi la loro esclusione da una collaborazione autenticamente egalitaria al governo di Israele. Mentre si sta rapidamente avvicinando l’annessione de jure di vaste parti della Cisgiordania sostenuta da buona parte dell’opinione pubblica ebraica, sta diventando sempre più difficile distinguere fra “Israele” e l’“occupazione.”

Un buon punto di partenza potrebbe essere la domanda esasperante che ci viene spesso posta dalla destra: “Che differenza c’è fra Ramat Aviv (il quartiere di Tel Aviv costruito sulle rovine del villaggio di Sheikh Muwannis) e Kiryat Arba (l’insediamento in Cisgiordania vicino a Hebron)?” È una domanda che anche noi dovremmo avere il coraggio di farci, non per sfida, ma con coraggio, umiltà e sincerità. Perché, appunto, qual è la differenza quando si guarda attraverso la lente delle giustificazioni nazionali e storiche fra l’applicare il sionismo a Giaffa o a Lydda [due città con una nutrita minoranza di palestinesi, ndtr.] e imporre lo stesso regime su Betlemme o Nablus?

Il malessere che proviamo quando affrontiamo questioni simili è un sintomo su cui vale la pena di riflettere, dato che ci porta più vicino alla nostra vera malattia: noi non abbiamo un’identità nazionale o di gruppo che non coinvolga né dipenda dal soggiogare i palestinesi alla supremazia ebraica. Temo che non l’avremo mai.

La sinistra ebraico-israeliana non ha mai prodotto una narrazione alternativa a quella del regime. Quando sono stati fatti dei tentativi, sono rimasti ai margini e non sono mai stati adottati su larga scala come base per una lotta di liberazione più ampia (e da questo regime dobbiamo liberarci anche noi ebrei israeliani, non solo i palestinesi).

Presentare idee simili oggi in Israele può essere considerato tradimento, eppure è fondamentale analizzarle a fondo e sinceramente se vogliamo far nascere una nuova politica e una nuova identità nostra, nel cui nome combattere. Questa nuova identità politica ebraica dovrà riconoscere gli errori del passato senza farsene dominare. E ci libererà non solo da un’identità definita da paure e minacce, vere e immaginarie, ma anche dalla certezza, repressa e difficile da esprimere a parole, che anche noi siamo malati, molto malati.

Quest’articolo è stato originalmente pubblicato in ebraico su Haaretz.

Yuli Novak è un’attivista israeliana, nata e cresciuta in Israele; fra il 2012 e il 2017 è stata direttrice di ‘Breaking the Silence’  [‘Rompere il silenzio’ un’organizzazione di soldati ed ex soldati israeliani che si oppone all’occupazione, ndtr.].

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




I punti in comune tra Minneapolis e Gerusalemme sono maggiori di quanto sembri

Jonathan Cook

11 giugno 2020 – Middle East Eye

In un mondo in cui le risorse sono in esaurimento e le economie in contrazione gli Stati si preparano a future rivolte da parte delle classi inferiori in aumento

È difficile ignorare i sorprendenti parallelismi tra le recenti scene di brutalità della polizia nelle città degli Stati Uniti e decenni di violenza da parte delle forze di sicurezza israeliane contro i palestinesi.

Alla fine del mese scorso un video diventato virale di un agente di polizia di Minneapolis, Derek Chauvin, che uccide un uomo di colore, George Floyd, premendo con un ginocchio sul suo collo per quasi nove minuti, ha scatenato due settimane di proteste di massa in tutti gli Stati Uniti e altrove.

Le immagini sono l’ultima inquietante testimonianza visiva di una formazione culturale della polizia degli Stati Uniti per cui essa sembra trattare gli afro americani come un nemico – e rinnova il ricordo di come troppo raramente venga punito il comportamento criminale dei poliziotti.

Il linciaggio di Floyd da parte di Chauvin mentre altri tre agenti osservavano o partecipavano ricorda scene inquietanti e familiari nei territori occupati. I video di soldati israeliani, polizia e coloni armati che picchiano, sparano e esercitano abusi su uomini, donne e bambini palestinesi sono stati a lungo un punto fermo dei social media.

La disumanizzazione che ha permesso l’omicidio di Floyd è stata regolarmente messa in evidenza nei territori palestinesi occupati. All’inizio del 2018 i cecchini israeliani hanno iniziato a utilizzare i palestinesi, compresi minorenni, infermieri, giornalisti e disabili come poco più che bersagli dei poligoni di tiro durante le proteste settimanali presso la barriera perimetrale che circonda Gaza tenendoveli rinchiusi.

Diffusa impunità

E proprio come negli Stati Uniti, l’uso della violenza da parte della polizia e dei soldati israeliani contro i palestinesi raramente porta a procedimenti giudiziari, per non parlare di condanne.

Pochi giorni dopo l’omicidio di Floyd, un uomo palestinese affetto da autismo, Iyad Hallaq, che secondo la sua famiglia aveva un’età mentale di sei anni, è stato colpito con sette colpi dalla polizia a Gerusalemme. Nessuno degli agenti è stato arrestato.

Di fronte all’imbarazzante attenzione internazionale in seguito all’omicidio di Floyd, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha rilasciato una dichiarazione inconsueta nei casi di uccisione di un palestinese da parte dei servizi di sicurezza. Ha definito l’omicidio di Hallaq “una tragedia” e ha promesso un’indagine.

I due omicidi, a distanza di pochi giorni, hanno rivelato il motivo per cui gli slogan “Black Lives Matter” e “Palestinian Lives Matter” siano intimamente legati, sia nelle proteste che nei post sui social media.

Ci sono differenze tra i due casi, ovviamente. Oggi i neri americani hanno la cittadinanza, la maggior parte di loro può votare (se riescono a raggiungere un seggio elettorale), le leggi non sono più esplicitamente razziste e hanno accesso agli stessi tribunali – se non sempre alla stessa giustizia – della popolazione bianca.

Non è questa la situazione per la maggior parte dei palestinesi sotto il dominio israeliano. Vivono sotto l’occupazione di un esercito straniero, ordinanze militari arbitrarie governano le loro vite e hanno un accesso molto limitato a qualsiasi tipo di concreto ricorso per adire a vie legali.

E c’è un’altra ovvia differenza. L’omicidio di Floyd ha scosso molti americani bianchi tanto da indurli a partecipare alle proteste. L’omicidio di Hallaq, al contrario, è stato ignorato dalla stragrande maggioranza degli israeliani e apparentemente accettato ancora una volta come prezzo da pagare per il mantenimento dell’occupazione.

Trattati come un nemico

Tuttavia, vale la pena mettere in evidenza i confronti tra le culture razziste delle due polizie. Entrambe scaturiscono da una visione del mondo costruita da società colonialiste, fondate sull’ espropriazione, la segregazione e lo sfruttamento.

Israele vede ancora in gran parte i palestinesi come un nemico che deve essere espulso o costretto a sottomettersi. Nel contempo i neri americani convivono coll’eredità di una cultura bianca razzista che fino a non molto tempo fa giustificava la schiavitù e l’apartheid.

Da tempo palestinesi e afroamericani sono stati depredati della loro dignità; troppo spesso le loro vite sono considerate di scarso valore.

Purtroppo la maggior parte degli ebrei israeliani nega ostinatamente l’ideologia razzista che sta alla base delle loro principali istituzioni, compresi i servizi di sicurezza. In pochi protestano in solidarietà con i palestinesi e quelli che lo fanno sono ampiamente visti dal resto dell’opinione pubblica israeliana come traditori.

Molti americani bianchi, d’altra parte, sono rimasti scioccati nel vedere quanto velocemente le forze di polizia statunitensi, di fronte a proteste diffuse, hanno fatto ricorso a metodi violenti di controllo della folla di un genere fin troppo familiare ai palestinesi.

Tali metodi comprendono la dichiarazione di coprifuoco e la chiusura di zone delle principali città; il dispiegamento di squadre di cecchini contro i civili; l’uso di squadre antisommossa con indosso uniformi o passamontagna senza contrassegno; arresti e aggressioni fisiche di giornalisti chiaramente identificabili; l’uso indiscriminato di gas lacrimogeni e proiettili di acciaio rivestiti di gomma per ferire i manifestanti e terrorizzarli per le strade.

E non finisce qui.

Il presidente Donald Trump ha descritto i manifestanti come “terroristi”, facendo eco al modo in cui gli israeliani definiscono tutte le proteste palestinesi, e ha minacciato di inviare l’esercito americano, il che riproporrebbe con ancora maggiore precisione la situazione affrontata dai palestinesi.

Come i palestinesi, la comunità nera degli Stati Uniti – e ora i manifestanti – hanno registrato esempi degli abusi sui loro telefoni e pubblicato i video sui social media per evidenziare le menzogne delle dichiarazioni della polizia e dei resoconti dei media su ciò che è accaduto.

Testato su palestinesi

Nessuno di questi parallelismi dovrebbe sorprenderci. Per anni le forze di polizia statunitensi, insieme a molte altre in tutto il mondo, hanno fatto la fila alla porta di Israele per imparare dalla sua esperienza decennale nella repressione della resistenza palestinese.

In un mondo caratterizzato dall’esaurimento delle risorse e dalla contrazione a lungo termine dell’economia globale, Israele ha capitalizzato la necessità tra gli Stati occidentali di prepararsi a future rivolte interne da parte di classi inferiori in aumento.

Potendo fare tranquillamente esperimenti nei territori palestinesi occupati, Israele è stato a lungo in grado di sviluppare e testare sul campo sui palestinesi oppressi nuovi metodi di sorveglianza e subordinazione. Essendo le più cospicue classi inferiori degli Stati Uniti, le comunità nere urbane hanno sempre avuto molte più probabilità di trovarsi in prima linea quando le forze di polizia statunitensi hanno adottato nelle loro pratiche un approccio più militarizzato.

Alla fine questi cambiamenti si sono manifestati in modo evidente durante le proteste scoppiate a Ferguson, nel Missouri, nel 2014 dopo che un uomo di colore, Michael Brown, è stato ucciso dalla polizia. Vestita in tenuta antisommossa e sostenuta da camionette blindate, la polizia locale sembrava entrare in una zona di guerra piuttosto che trovarsi lì per “servire e proteggere” [motto di molte polizie locali negli USA, ndtr.].

Addestrati in Israele

È stato allora che le organizzazioni per i diritti umani e altri hanno iniziato a mettere in evidenza in che misura le forze di polizia statunitensi venivano influenzate dai metodi israeliani per assoggettare i palestinesi. Molte forze erano state addestrate in Israele o coinvolte in programmi di scambio.

Soprattutto la famigerata polizia di frontiera paramilitare israeliana [il MAGAV, che non segue la regolare struttura di comando della polizia militare ma risponde direttamente all’agenzia per la sicurezza israeliana, ndtr.] è diventata un modello per altri Paesi. È stata la polizia di frontiera a sparare a morte su Hallaq a Gerusalemme poco dopo che Floyd è stato ucciso a Minneapolis.

La polizia di frontiera svolge la duplice funzione di una forza di polizia e di un esercito, operando contro i palestinesi nei territori occupati e all’interno di Israele, dove esiste una folta minoranza palestinese con diritti di cittadinanza molto ridotti. 

La premessa istituzionale della polizia di frontiera è che tutti i palestinesi, compresi quelli che sono formalmente cittadini israeliani, dovrebbero essere trattati come nemici. È il nucleo della cultura razzista della polizia israeliana, identificata 17 anni fa dal Rapporto Or [frutto del lavoro di una commissione istituita dal governo israeliano nel 2000 durante la seconda Intifada, ndtr.], l’unica analisi seria del Paese riguardo le sue forze di polizia.

La polizia di frontiera sembra sempre più il modello che le forze di polizia statunitensi stanno emulando in città con le vaste comunità di neri.

Molte decine di agenti di polizia di Minneapolis sono stati addestrati da esperti israeliani in tecniche di “antiterrorismo” e di “contenimento” durante un seminario a Chicago nel 2012.

Il soffocamento da parte di Derek Chauvin, con l’utilizzo del ginocchio per fare pressione sul collo di Floyd, è una procedura di “immobilizzazione” molto nota ai palestinesi. In modo inquietante, quando ha ucciso Floyd Chauvin stava addestrando due agenti alle prime armi trasmettendo le competenze istituzionali del dipartimento alla nuova generazione di agenti.

Monopolio della violenza

Queste somiglianze avrebbero dovuto essere previste. Gli Stati inevitabilmente prendono in prestito e imparano gli uni dagli altri sulle questioni più importanti per loro, come reprimere il dissenso interno. Il compito di uno Stato è garantirsi il mantenimento del monopolio della violenza all’interno del proprio territorio.

È la ragione per cui diversi anni fa nel suo libro War Against the People [Guerra contro il popolo, Edizioni Epoké, 2017, ndtr.] lo studioso israeliano Jeff Halper ammoniva che Israele è stato fondamentale nello sviluppo di quella che egli chiamava l’industria della “pacificazione globale”. I solidi muri tra i militari e la polizia si erano sgretolati, creando quelli che lui definiva “poliziotti guerrieri”.

Il pericolo, secondo Halper, è che a lungo termine, man mano che la polizia diventerà più militarizzata, è probabile che verremo tutti trattati come i palestinesi. Ecco perché è necessario mettere in evidenza un ulteriore legame tra la strategia degli Stati Uniti nei confronti della comunità nera e quella di Israele nei confronti dei palestinesi.

I due Paesi non stanno solo condividendo tattiche e metodi di polizia contro le proteste una volta scoppiate. Hanno anche sviluppato congiuntamente strategie a lungo termine nella speranza di smantellare la capacità delle comunità nere e palestinesi sotto la loro oppressione di organizzarsi in modo efficace e sviluppare la solidarietà con altri gruppi.

Perdita di direzione storica

Se un insegnamento è chiaro, è quello che l’oppressione può essere meglio contrastata attraverso la resistenza organizzata da un movimento di massa con richieste chiare e una visione coerente di un futuro migliore.

In passato dipendeva da leader carismatici con un’ideologia pienamente sviluppata e ben articolata in grado di ispirare e mobilitare i sostenitori. Si basava anche su reti di solidarietà tra gruppi oppressi di tutto il mondo che condividevano la loro conoscenza ed esperienza.

Una volta i palestinesi erano guidati da figure che avevano il sostegno e il rispetto nazionali, da Yasser Arafat a George Habash e allo sceicco Ahmed Yassin. La lotta che essi conducevano era in grado di galvanizzare i sostenitori di tutto il mondo.

Questi leader non erano necessariamente uniti. Ci furono discussioni sul fatto che il colonialismo di insediamento israeliano sarebbe stato minacciato meglio attraverso la lotta secolare o la forza religiosa, trovando alleati all’interno della Nazione degli oppressori o sconfiggendola usando i suoi metodi violenti.

Questi dibattiti e disaccordi hanno formato ampi strati della comunità palestinese, hanno chiarito la posta in gioco per loro e fornito il senso di una direzione e uno scopo nella storia. E questi leader sono diventati punti di riferimento per la solidarietà internazionale e la passione rivoluzionaria.

Ciò è scomparso da tempo. Israele ha perseguito una politica implacabile di incarcerazioni e assassinii di leader palestinesi. Nel caso di Arafat, è stato confinato dai carri armati israeliani in un complesso a Ramallah prima di essere avvelenato a morte in circostanze fortemente sospette. Da allora, la società palestinese si è trovata orfana, alla deriva, divisa e disorganizzata.

Anche la solidarietà internazionale è stata ampiamente messa a tacere. I popoli degli Stati arabi, già impegnati nelle proprie lotte, appaiono sempre più stanchi della causa palestinese, scissa e apparentemente senza speranza. E, come segnale del nostro tempo, la solidarietà occidentale oggi si impegna principalmente in un movimento di boicottaggio che ha dovuto condurre la sua lotta sul campo di battaglia dei consumi e delle finanze, più favorevole al nemico.

Dallo scontro alla consolazione rassegnata

La comunità afroamericana negli Stati Uniti ha subito processi paralleli, anche se è più difficile accusare i servizi di sicurezza statunitensi in modo così diretto per la perdita, decenni fa, di una leadership nazionale nera. Martin Luther King, Malcolm X e il movimento Black Panther furono perseguitati dai servizi di sicurezza statunitensi. Sono stati incarcerati o abbattuti da assassini, nonostante i loro approcci molto diversi alla lotta per i diritti civili.

Oggi nessuno va in giro a fare discorsi illuminanti e a mobilitare larghi strati di popolazione, americani bianchi o neri, per agire sul palcoscenico nazionale.

Privata di una forte leadership nazionale, a volte la comunità nera organizzata è sembrata essersi ritirata nello spazio più sicuro ma più limitato delle chiese, almeno fino alle ultime proteste. Una politica della consolazione rassegnata sembrava aver sostituito la politica dello scontro.

L’identità al centro

Questi cambiamenti non possono essere attribuiti unicamente alla perdita di leader nazionali. Negli ultimi decenni anche il contesto politico globale è stato trasformato. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica 30 anni fa gli Stati Uniti non solo sono diventati l’unica superpotenza al mondo, ma hanno schiacciato lo spazio fisico e ideologico in cui potrebbe prosperare l’opposizione politica.

L’analisi di classe e le ideologie rivoluzionarie – una politica di giustizia – sono state deviate dai loro percorsi e poste sempre più ai margini del mondo accademico.

Invece gli attivisti politici occidentali sono stati incoraggiati a dedicare le loro energie non all’antimperialismo e alla lotta di classe, ma ad una molto più angusta politica identitaria. L’attivismo politico è diventato una competizione tra gruppi sociali per attirare attenzione e privilegi.

Come per l’attivismo solidaristico palestinese, la politica dell’identità negli Stati Uniti ha condotto le sue battaglie sul terreno di una società ossessionata dal consumo. Gli hashtag e le segnalazioni virtuali sui social media sono spesso apparsi come sostitutivi della protesta sociale e dell’attivismo.

Un momento di transizione

La domanda posta dalle attuali proteste statunitensi è se questo tipo di politica timida, individualista e mirata ad acquisire vantaggi non stia iniziando a sembrare inadeguata. I manifestanti statunitensi sono ancora in gran parte privi di leader, la loro lotta rischia di essere atomizzata, le loro richieste sottaciute e in gran parte confuse – è più chiaro ciò che i manifestanti non vogliono rispetto a ciò che vogliono.

Ciò riflette un attuale stato d’animo per cui le sfide che tutti noi affrontiamo, dalla crisi economica permanente e dalla nuova minaccia di pandemie all’incombente catastrofe climatica, sembrano troppo grandi, troppo gravi per dar loro un significato. Sembra che siamo intrappolati in un momento di transizione, destinato [a precorrere] una nuova era, buona o cattiva, che non possiamo ancora definire chiaramente.

Ad agosto, ci si aspetta che milioni di persone si dirigano a Washington in una marcia che ricordi quella guidata da Martin Luther King nel 1963. Il pesante fardello di questo momento storico dovrebbe essere portato sulle anziane spalle del reverendo Al Sharpton [religioso, attivista e politico statunitense, ndtr.].

Quel simbolismo può essere appropriato. Sono trascorsi più di 50 anni da quando gli Stati occidentali sono stati per l’ultima volta coinvolti dal fervore rivoluzionario. Ma la fame di cambiamento, che raggiunse il suo apice nel 1968, per la fine dell’imperialismo, della guerra infinita e della dilagante disuguaglianza, non è mai stata saziata.

Le comunità oppresse in tutto il mondo hanno ancora fame di un mondo più giusto. In Palestina e altrove, coloro che soffrono per la brutalità, la miseria, lo sfruttamento e l’indignazione hanno ancora bisogno di un paladino. Guardano a Minneapolis e alla lotta che ne è scaturita come ad un seme di speranza.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica

Jonathan Cook

Jonathan Cook, giornalista britannico che opera a Nazareth dal 2001, è autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del premio speciale Martha Gellhorn per il giornalismo.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Vedere il futuro nel cuore della crisi: verso un rafforzamento dei servizi di salute mentale

Samah Jabr

8 giugno 2020 – Chronicle de Palestine

La pandemia di COVID-19 ha diffuso in tutto il mondo i semi di una crisi della salute mentale; in Palestina mette in evidenza le preesistenti sfide nell’ambito della salute mentale.

Benché i palestinesi siano sopravvissuti a precedenti episodi di ansia collettiva, di limitazioni delle libertà, d’incertezza e di lutto, la pandemia smaschera un sistema di salute mentale da sempre trascurato e che attualmente si deve confrontare con una doppia sfida: quella del COVID-19 e quella dell’occupazione israeliana. Tuttavia questa crisi può essere sfruttata come opportunità per correggere gli errori fatti e sostenere la necessità di un rafforzamento del sistema di salute mentale in Palestina.

Si è detto che tra i Paesi del Mediterraneo orientale quello che presentava la maggiore morbilità dovuta alle malattie mentali è la Palestina [1]. A causa del contesto cronico di occupazione e dell’esposizione alla violenza, i disturbi mentali sono una delle più importanti sfide della salute pubblica in Palestina (OMS, 2019) [2]. L’angoscia e il timore di affrontare una pandemia si aggiungono ora alle debolezze preesistenti. Il bisogno di servizi psicologici e psichiatrici dovrebbe aumentare perché i fattori di stress, come l’isolamento sociale, le preoccupazioni legate alla salute e la perdita del lavoro e del reddito esercitano un’ulteriore pressione sulle persone, accentuando a volte la violenza domestica.

Le persone colpite da malattie croniche, in particolare i pazienti psichiatrici, sono sottoposti a ulteriori sfide. Tra i primi pazienti colpiti ci sono i tossicodipendenti che cercano di disintossicarsi al Centro Nazionale Palestinese di Recupero di Betlemme. La loro cura è stata interrotta per poter trasformare l’edificio in centro per il trattamento dei malati di coronavirus. Sappiamo già che alcuni di loro hanno avuto una ricaduta, altri hanno tentato il suicidio e altri ancora sono stati arrestati durante la pandemia.

In ogni distretto della Cisgiordania quattordici centri di salute mentale comunitaria offrono servizi pubblici esterni (tipo ambulatori). Le statistiche del 2019 indicano che l’anno scorso ci sono stati circa 3.000 nuovi pazienti e 92.000 interventi. Tuttavia nel settore pubblico meno del 2% dei dipendenti e del 2% del bilancio sono investiti nella salute mentale. Le organizzazioni non governative, onnipresenti nel sistema della salute mentale, offrono servizi psicosociali e di consulenza.

Nel 2014 l’YMCA [Young Men Christian Association, Associazione dei Giovani Cristiani, organizzazione cristiana ecumenica britannica che si occupa di problemi giovanili, ndtr.] ha realizzato una vasta inchiesta e ha constatato che 148 associazioni, di cui 109 Ong, 27 organizzazioni del settore privato e 7 organizzazioni internazionali, così come la Mezzaluna rossa palestinese e l’Ufficio per il Soccorso e il Lavoro delle Nazioni Unite (UNRWA), forniscono servizi di salute mentale. Questa grande varietà di organizzazioni può essere una risorsa, ma anche una complicazione per avere una risposta coerente in materia di salute mentale in tempi di crisi.

In Palestina la risposta al COVID-19 in campo sanitario, oltre a fornire le prime cure psicologiche ai casi di COVID-19 e ai membri delle rispettive famiglie e servizi di consulenza attraverso l’assistenza telefonica, a erogare diverse forme di servizi tra le organizzazioni impegnate sul terreno e a garantire la disponibilità delle medicine, ha implicato un piano in varie tappe per prevenire il collasso del sistema di salute mentale.

Per prima cosa e in qualità di responsabile dell’Unità di Salute Mentale (USM) del ministero della Sanità palestinese sono stata coinvolta fin dall’inizio nell’elaborazione di una risposta alla pandemia nel campo della salute mentale, nella stesura di raccomandazioni e nella lotta contro le resistenze della burocrazia per la loro messa in pratica. La priorità è quella di impedire il collasso del sistema di salute mentale e di fare in modo di fornire un sostegno a un pubblico più vasto possibile, ai lavoratori della sanità, ai pazienti e ai loro familiari, cosa che implica un rafforzamento dei servizi, così come della documentazione e della ricerca.

Le misure specifiche del piano comprendono l’erogazione delle prime cure psicologiche alle persone positive al test di controllo del COVID-19 ed ai membri delle rispettive famiglie, con un’attenzione specifica ai bambini. Si è raccomandato che il personale sanitario che applica il test del COVID-19 fosse incaricato di informare i pazienti della possibilità di ricevere prime cure psicologiche che in seguito sarebbero state offerte da specialisti. Nel corso del processo di controllo i pazienti che hanno bisogno di un’attenzione supplementare o che mostrano segni di sofferenza vengono orientati a rivolgersi a psicologi per un ulteriore trattamento.

In secondo luogo si è proposto al ministero della Sanità di mettere in atto una linea di assistenza telefonica nazionale, un processo purtroppo complicato a causa di numerose lungaggini burocratiche. Al momento del rilascio dell’approvazione necessaria, erano già state attivate molte altre linee di assistenza telefonica di Ong locali ed internazionali. È stato preoccupante constatare che, forse a causa della rapidità con cui sono state attivate, molte di queste linee di assistenza mancavano di direttive operative sulla riservatezza e la chiarezza riguardo alla formazione e alla supervisione delle persone che fornivano i servizi.

Inoltre non c’era nessun protocollo per guidare il lavoro degli operatori e garantire la qualità del servizio. Un altro problema è stata la mancanza di un sistema di orientamento dei servizi di pronto soccorso verso un secondo e un terzo livello più specializzati. Alcune linee telefoniche hanno assunto personale altamente specializzato che però si è trovato di fronte problemi logistici, come la fornitura di pacchi alimentari, cosa che ha dimostrato che le capacità e la competenza del personale non erano utilizzate al meglio.

La salute mentale è una risorsa, soprattutto in un Paese come la Palestina, dove viene attaccata.

Così alla USM abbiamo rinunciato alla linea di assistenza telefonica per non replicare servizi che già esistevano e di conseguenza non accentuare la confusione per le persone che avevano bisogno di aiuto. Al suo posto è stato proposto un certo numero di modifiche al sistema di linee telefoniche di assistenza già esistenti ed è stato suggerito che il ministero approvasse una linea di assistenza più consona ai criteri di qualità per l’erogazione di servizi e sviluppasse un sistema di riferimento che potesse avvalersi di altri professionisti altamente specializzati. Dopo aver preso misure per migliorare ancor di più i suoi servizi, sarebbe stata considerata la linea d’assistenza nazionale per i servizi a distanza. Ciò è stato fatto per evitare la duplicazione dei numerosi servizi già esistenti.

Come terzo elemento, la USM ha raccomandato che i compiti venissero condivisi tra le diverse organizzazioni e che le attività venissero distribuite tra le diverse Ong locali e internazionali per rispondere in modo adeguato ai bisogni dei pazienti. Per esempio, è fondamentale non limitarsi a fornire delle cure ai pazienti, ma tener conto delle necessità di chi si occupava di loro e delle altre persone che lavoravano in prima linea durante questa emergenza. Il quarto punto da sottolineare è stata la necessità di prevenire il collasso del sistema sanitario, mentre il quinto punto ha evidenziato l’importanza di garantire la disponibilità degli psicofarmaci in caso di bisogno.

Le malattie mentali colpiscono un palestinese su cinque, provocando enormi sofferenze, con un costo importante per la società e l’economia del Paese.

Inoltre la USM ha elaborato delle raccomandazioni per i quattordici centri comunitari e di salute mentale statali per avviare servizi di alta qualità a distanza. Per incoraggiare i pazienti a rimanere a casa, ci si è concentrati in particolare sulle persone con gravi disturbi mentali, in quanto forse non avevano ricevuto le informazioni e le direttive necessarie.

Si è consigliato l’accompagnamento telefonico dei pazienti con disturbi psichiatrici per orientarli verso l’ambulatorio più vicino che offrisse i servizi di salute mentale. Per assicurare che non venissero trascurate le medicine per le malattie croniche e per dare dei consigli sulle modalità di consulenza a domicilio, si è proposta la comunicazione con i membri della famiglia, perché è noto che una forte emozionalità espressiva contribuisce alle ricadute di disturbi psichiatrici come la schizofrenia. I membri della famiglia sono stati consigliati circa il modo in cui aiutare a contenere le emozioni e appoggiare i pazienti nella gestione di questa difficile situazione.

Un’altra raccomandazione ha avuto come obiettivo garantire la fornitura di medicine ai pazienti su richiesta, mettendoli a disposizione in tutti i distretti della Palestina, in particolare nelle cittadine e nei villaggi. Dato che era sconsigliato alle persone di lasciare la propria abitazione, si sono anche organizzate consegne a domicilio. Per garantirne la disponibilità senza interruzione, i farmaci psichiatrici sono stati forniti ai pazienti cronici per un periodo di tre mesi invece che di un mese.

Per assicurare una continuità delle informazioni, si è anche sottolineata l’importanza della documentazione per i servizi a distanza riguardo ai pazienti con problemi mentali. Infine si è lanciato un appello a favore di una stretta collaborazione tra i medici che assicuravano gli interventi per il COVID-19 e i professionisti della salute mentale. Si è anche raccomandato che le cure di primo soccorso fornissero il sostegno logistico necessario ai professionisti della salute mentale, permettendo loro di prendere le misure necessarie.

Attualmente l’Unità di Salute Mentale del ministero della Sanità sta elaborando una strategia nazionale di salute mentale, un piano nazionale di prevenzione dei suicidi e contribuisce a una legge palestinese sulla salute mentale.

Oltre a fornire queste raccomandazioni e questi progetti, la USM è stata consultata da alcune Ong nazionali e internazionali sulle questioni di salute mentale. Per garantire la qualità dei servizi forniti ai pazienti che ne hanno la necessità ed offrire un sostegno reciproco e una supervisione tra pari ai professionisti della salute mentale, la USM organizza ogni settimana una webinar aperta iniziata a metà marzo per presentare una nuova documentazione pertinente relativa a una risposta nel campo della salute mentale riguardo al COVID-19 e per aiutare a coordinare gli impegni tra le diverse parti implicate.

Il ministero della Sanità era perfettamente consapevole che l’erogazione di cure per la salute mentale in una situazione così difficile e senza precedenti era un lavoro in corso che richiedeva una riflessione e una comunicazione tra i diversi attori, in quanto non c’erano risposte già pronte, la situazione e il livello d’informazione relativo al COVID-19 e le risposte adeguate erano in continua evoluzione.

Le riunioni intendevano non solo raccogliere informazioni sul lavoro dei professionisti della salute coinvolti – che facevano parte del personale delle organizzazioni o dei volontari molto motivati dall’idea di imparare di più sull’erogazione di cure per la salute mentale – ma anche appoggiarli psicologicamente e professionalmente. Analogamente si sono organizzate riunioni per cercare di rispondere alle difficoltà per rendere efficace un servizio organico delle linee telefoniche di assistenza e per dissipare le preoccupazioni relative alla qualità dei servizi. Si è potuto accertare che il lavoro degli operatori che gestivano le linee dirette venisse migliorato.

La USM ha anche diffuso informazioni e le ha condivise con un vasto pubblico con frequenti interviste alla televisione e alla radio e con la pubblicazione di articoli nei media locali e arabi che si sono centrate sulla salute mentale e sulla lotta contro le idee errate e le voci legate alla pandemia. Gli argomenti affrontati riguardavano il contesto palestinese e si sono concentrati, per esempio, sul modo di parlare ai bambini, sui bisogni delle persone anziane o su come sensibilizzare i lavoratori riguardo al COVID-19 senza stigmatizzarli.

La UNSM partecipa anche a un progetto di ricerca che si occupa della solidarietà, della stigmatizzazione e della discriminazione che devono affrontare i pazienti e le famiglie in seguito alla diagnosi di COVID-19 di un membro della famiglia. Questo progetto intende anche identificare e contribuire ad eliminare gli ostacoli al reinserimento dei pazienti nella comunità.

Il 20 aprile la USM ha organizzato una riunione tematica che ha riunito i rappresentanti di molte organizzazioni che forniscono servizi di salute mentale e di sostegno piscologico (SSMSP). La riunione si è concentrata sull’analisi delle forze e delle sfide del sistema di salute mentale per elaborare delle raccomandazioni adeguate ed efficaci nell’attuale situazione. Una delle principali sfide sono stati il ritardo nella messa in pratica del piano d’azione d’urgenza e la mancanza di coordinamento nella risposta del SSMSP a causa del numero di attori diversi coinvolti. Il risultato positivo di una riunione piuttosto difficile è stata l’elaborazione di un piano d’azione nazionale per una risposta che fornisca, direttamente o indirettamente, dei servizi di SSMSP alle persone affette da COVID-19.

Il processo di intervento nel campo della salute mentale è stato reso difficoltoso a causa del sostegno politico e dell’aiuto logistico storicamente deboli che la USM riceve a causa dell’ignoranza o di atteggiamenti negativi nei confronti della salute mentale in generale. Ciò ha comportato lunghi ritardi nella comunicazione con gli altri attori. Questa debolezza del sistema pubblico ha portato a una lotta di potere e a sovrapposizioni tra le Ong. Pertanto ci sono numerose lacune e omissioni nei servizi, così come uno spreco di risorse. Inoltre la debolezza del sistema di governo compromette la garanzia della qualità e i protocolli di cura nel campo della salute mentale in Palestina.

Pensiamo che, affinché la risposta a un’eventuale seconda ondata [di contagi] o a un’epidemia simile in futuro possa essere più coerente e meglio organizzata, sia importante essere coscienti di questi conflitti. Dobbiamo evidenziare le strategie che hanno funzionato bene per quanto riguarda il sostegno ai lavoratori della sanità mentale, come i gruppi settimanali di sostegno e la supervisione. Noi tutti impariamo come affrontare questa crisi e come rispondere in modo adeguato a livello nazionale.

Per riuscire ad aiutare la Palestina a rimettersi veramente in piedi l’unità di salute mentale ha bisogno di un sostegno politico e logistico, così come di maggiori finanziamenti.

Le malattie mentali provocano enormi sofferenze ad almeno il 20% dei palestinesi e rappresentano per la società un costo sociale ed economico a lungo termine. La Palestina non si rimetterà in piedi senza dare una notevole priorità alla salute mentale dei suoi cittadini nei programmi della sanità pubblica. Dobbiamo porre rimedio al tradizionale scarso investimento in questo campo. Per farlo, quando elaboriamo la nostra strategia nazionale in materia di salute mentale, la USM ha bisogno di un sostegno politico e logistico di primo livello un piano nazionale di prevenzione dei suicidi e una legge palestinese sulla salute mentale.

Le parti locali e internazionali coinvolte devono coordinare i propri sforzi per sostenere la USM e garantire la totale disponibilità di servizi di alta qualità e finanziariamente sostenibili che riducano al minimo le lacune nel campo della salute mentale ed evitino le sovrapposizioni e gli sprechi. Se vogliamo migliorare la qualità dei servizi in Palestina è essenziale creare dei protocolli e delle linee guida, delle procedure operative standard, un controllo della qualità e verifiche cliniche nel campo della salute mentale. Si tratta tuttavia di un lavoro e di uno sforzo collettivi che non possono essere realizzati dalla sola USM.

Il benessere mentale è una risorsa nazionale, soprattutto per una Nazione come la nostra che è stata spogliata delle sue risorse naturali e dove la salute mentale è presa di mira. Di conseguenza dedicare una maggiore attenzione alla salute mentale diventa una responsabilità collettiva e una priorità nazionale. Questa pandemia deve essere considerata come un’opportunità per migliorare i servizi di salute mentale, cambiare gli atteggiamenti negativi e incoraggiare il governo palestinese a passare dalle parole ai fatti in questo settore. Prese seriamente, queste misure e queste cure aiuteranno sicuramente i palestinesi a diventare più reattivi e più uniti di fronte alla prossima crisi.

Note:

[1] Raghid Charara et al., “The Burden of Mental Disorders in the Eastern Mediterranean Region, 1990–2013,” Plos One, 17 gennaio 2017, visibile qui.

[2] “The closing ceremony of the mental health project in the occupied Palestinian territory,” WHO, 13 giugno 2019, visibile qui.

*La dottoressa Samah Jabr è una psichiatra che lavora a Gerusalemme est e in Cisgiordania. Attualmente è responsabile dell’Unità di Salute Mentale del ministero della Sanità palestinese. Ha insegnato in università palestinesi e internazionali. La dottoressa Jabr è spesso consulente di organizzazioni internazionali nel campo dello sviluppo della salute mentale. È anche una scrittrice prolifica. Il suo ultimo libro pubblicato in italiano è “Dietro i Fronti – Cronache di una psichiatra e psicoterapeuta palestinesi sotto occupazione” [Sensibili alle foglie, 2019].

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Ben Gourion Internazionale, questo aeroporto diventato un tribunale inquisitorio

Laurent Perpigna Iban

6 giugno 2020 – Middle East Eye

All’aeroporto di Tel Aviv ottenere il visto israeliano a volte diventa un incubo per i viaggiatori. Soprattutto per quelli che sono sospettati dalle autorità israeliane di essere militanti filopalestinesi

Tel Aviv, Israele – La lunga rampa che conduce dai terminal dell’aeroporto Ben Gurion agli uffici dell’immigrazione israeliani a volte ha il sapore della paura. Più in basso, dietro i vetri della ventina di posti di controllo, gli agenti attendono pazientemente i viaggiatori. Nelle code in attesa la gioia dei pellegrini contrasta con l’ansia di altri candidati al visto.

Arriva il momento fatidico. I passaporti vengono analizzati meticolosamente, le domande a dir poco brusche: “Dove andate? Conoscete qualcuno qui? Come si chiama?”. E altrettante domande a cui i viaggiatori devono rispondere senza batter ciglio, soprattutto coloro che intendono recarsi per conto proprio in Cisgiordania, per i quali la bugia risulta essere il miglior parafulmine ai guai.

Queste domande da interrogatorio non riguardano solo questioni di sicurezza. Gli obbiettivi, oltre a prevenire attacchi sul suolo israeliano, sono anche politici, poiché si tratta di limitare la presenza straniera nei territori occupati. A questo scopo le autorità israeliane dispongono di uno strumento imbattibile: la concessione del visto all’arrivo.

Dato che i due principali punti d’ingresso che consentono agli stranieri di recarsi in Cisgiordania sono sotto controllo israeliano – l’aeroporto di Tel Aviv e il ponte di Allenby – Malik Hussein, tra la Cisgiordania e la Giordania – la concessione di questo ‘apriti sesamo’ si è trasformata nel tempo in uno strumento amministrativo agli ordini della politica israeliana.

Gli accordi che esentano dalla richiesta di visto prima della partenza conclusi con parecchi Paesi erano peraltro tesi a facilitare il viaggio degli stranieri. Ma ecco che queste cortesi direttive hanno assunto l’aspetto si una roulette russa per molti viaggiatori: l’autorizzazione ad entrare nel territorio – attraverso un visto per turismo di tre mesi – si ottiene direttamente sul posto e di fatto sottopone i viaggiatori all’arbitrio.

Il quotidiano economico Globes, citando statistiche dell’Amministrazione dei posti di frontiera, della popolazione e dell’immigrazione –che fa capo al Ministero dell’Interno israeliano – riportava che nel 2018 erano state respinte al loro arrivo circa 19.000 persone, contro le 16.534 del 2016 e….le 1.870 del 2011.

Risultato: molti viaggiatori che vogliono andare in Cisgiordania in modo indipendente preferiscono tacere le proprie intenzioni, di fronte al rischio di pesanti interrogatori o anche di respingimento.

Interrogatori interminabili

Kamel e Louis* lo sapevano. Questi due giovani francesi si erano documentati in proposito prima di partire per Tel Aviv, nel novembre 2019. Se Louis ha passato senza problemi i controlli, non è stato così per il suo amico.

“Ho mostrato il mio passaporto francese. Ho risposto che sarei andato a visitare Tel Aviv e Gerusalemme. La giovane donna allora mi ha chiesto quali fossero le mie origini. Algerine. Per me è stato l’inizio dei guai,” racconta Kamel a Middle East Eye.

Il giovane viene quindi fatto entrare nella sala d’attesa riservata ai “aspiranti [all’ingresso in Israele] sospetti”. Kamel subisce un primo interrogatorio di una mezz’ora. Passano due ore prima che sia portato davanti ad un secondo interlocutore.

“Questo mi ha detto di essere il capo della sicurezza. Mi ha fatto le stesse domande alle quali ho dato le stesse risposte. Mi sono trovato davanti una terza persona. E’ diventato sempre più pesante.”

Kamel riferisce che dal terzo interrogatorio in poi era presente un traduttore francese.

“L’agente della sicurezza israeliana ha alzato più volte la voce. Mi ha chiesto se ero musulmano, se pregavo… E poi domande personali che non li riguardavano e che comunque loro si permettevano di farmi. Davano l’impressione di voler controllare tutto e di avere un potere assoluto. Mi hanno chiesto perché i miei genitori erano andati a vivere in Francia. Hanno anche controllato il mio portatile”, racconta.

Il giovane ha subito in tutto cinque interrogatori, per un fermo in totale di sei ore.

“Hanno cercato di colpirmi psicologicamente. Ero nella posizione del colpevole”, racconta a MEE. Quando si rassegna ad un respingimento formale, ha finito “quasi miracolosamente”per ottenere il visto.

Un trattamento che sono costretti a subire tutti coloro che non corrispondono al profilo del turista depoliticizzato. Ma di fatto le persone di origine araba e di fede musulmana sono molto più esposte a queste complicazioni. Al punto che alcune di loro, dal profilo insospettabile, a volte sono pesantemente minacciate.

Nel 2019 il quotidiano israeliano Haaretz ha dato conto della disavventura dell’ambasciatore di Israele a Panama, Reda Mansour, che ha riferito che lui stesso e suoi famigliari sono stati “umiliati e trattati come sospetti dalle guardie di sicurezza”.

Un trattamento che aveva provocato una pesante polemica in Israele, che ha costretto il presidente Reuven Rivlin ad esprimersi pubblicamente. “Ciò che conta è ciò che voi sentite, e se voi vi sentite così feriti, allora non dobbiamo fare delle riflessioni”, aveva allora dichiarato il capo dello Stato.

In seguito la situazione non sembra essere affatto migliorata: alcune ore prima della messa in quarantena di tutti i viaggiatori in arrivo all’aeroporto di Tel Aviv a causa dell’epidemia di coronavirus, gli agenti dell’immigrazione si preoccupavano meno di sapere se essi provenissero da una zona infetta dal coronavirus che di cosa avessero intenzione di fare una volta entrati.

La legge in questione

Alla fine degli interrogatori alcuni non hanno la fortuna di Kamel e si trovano nella situazione di « denied entry » (ingresso respinto). Per loro è un ritorno al mittente.

Qualunque scusa è buona per giustificare questa decisione. Le simpatie filo palestinesi, anche presunte, mettono il candidato al visto nella posizione del colpevole, mentre le foto archiviate sui telefonini, gli account Twitter e Facebook valgono come prove.

Una situazione tanto più paradossale in quanto la visita nei territori palestinesi non è vietata agli stranieri, anche in base al diritto israeliano.

Tuttavia nel 2017 la Knesset [parlamento israeliano, ndtr.] ha approvato una legge che vieta il rilascio di visti e di diritti di residenza ai cittadini stranieri che aderiscono al boicottaggio economico, culturale o accademico di Israele, ma anche di tutte le istituzioni israeliane o di ogni “zona sotto il controllo di Israele”, cioè le colonie. Se gli stranieri sono il principale obiettivo, anche i militanti israeliani contro l’occupazione ne fanno regolarmente le spese.

Tuttavia non sono solo i controlli all’arrivo a provocare paura e tensione. Quelli effettuati al momento di lasciare il Paese in aereo – il primo avviene tre chilometri prima di arrivare all’aeroporto – sono tanto numerosi quanto snervanti.

Il più inquietante è quello effettuato dentro l’area da una schiera di agenti di sicurezza, ancor prima che il viaggiatore possa accedere agli sportelli per il check in. Con il pretesto della sicurezza aeroportuale, le domande sui viaggi precedenti – soprattutto nei Paesi arabi – si susseguono a folle velocità, volutamente destabilizzante.

Questa raccolta di informazioni resta segreta, anche se alcuni segreti dei servizi di immigrazione israeliani a volte finiscono per essere smascherati. È il caso degli adesivi con codice a barre incollati sul retro del passaporto dopo l’interrogatorio: secondo diverse fonti il primo numero, compreso tra 1 e 6, classifica i viaggiatori secondo un ordine crescente di “pericolosità”.

Una teoria confermata da nostri incontri con una decina di persone che hanno viaggiato in Israele: quelle che hanno la prima cifra compresa tra 5 e 6 subiscono interrogatori pesanti e sistematiche perquisizioni dei bagagli.

Chris Den Hond è un giornalista. Abituato dal 1994 a recarsi nei territori occupati, è avvezzo a questo genere di interrogatori.

“Anche se non mi hanno messo il timbro sul passaporto e non mi hanno mai sequestrato cassette video, tutte le volte, sia all’entrata che all’uscita, è lo stesso stress”, confida a MEE.

“Mi sono sempre limitato a visitare i siti turistici di Gerusalemme e di Betlemme. Ma le intimidazioni perché io fornissi i nomi, i numeri di telefono e gli indirizzi di contatti palestinesi sono sempre numerose.”

Nel 2017, quando Chris Den Hond è uscito dal territorio attraverso il valico con la Giordania, ha citato anche la visita a Ramallah. “La città di troppo”, spiega, amaramente.

Si susseguono lunghe ricerche condotte dalle forze di sicurezza israeliane, che non tardano a trovare dei video che il giornalista ha realizzato sul movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), vera bestia nera delle elite del paese.

“Alla fine un dirigente mi ha consigliato ironicamente di consultare l’ambasciata israeliana prima di pensare di tornare in Israele, per evitare di essere respinto all’arrivo. Ho chiesto: ‘ Per quanto tempo?’ Mi hanno risposto: ‘Almeno per dieci anni’.”

[SI tratta di] frequenti misure di divieto di ingresso nel territorio, come spiega a MEE Salah Hamouri, avvocato franco-palestinese.

“All’arrivo attraverso questo aeroporto Israele cerca di vietare l’ingresso nel territorio a tutte le persone che hanno idee politiche considerate filo palestinesi. Questo rientra nel loro concetto di negazione stessa dell’esistenza del popolo palestinese”, commenta.

Il caso spinoso dei familiari di palestinesi

Salah Hamouri è nel mirino delle autorità israeliane. Dopo essere stato incarcerato una prima volta tra il 2005 e il 2011, l’avvocato viene arrestato nell’agosto 2017 a Gerusalemme: passerà più di un anno in detenzione amministrativa, senza che le accuse contro di lui vengano rese pubbliche.

Prima ancora, nel 2016, hanno arrestato sua moglie, Elsa Lefort, allora incinta di sette mesi. “È rimasta tre giorni in un centro di detenzione prima di essere rimandata in Francia con un divieto di ingresso nel territorio tuttora in vigore. Non può più venire a Gerusalemme.”

Quando è uscito di prigione nel 2018, il Ministero degli Esteri francese ha consigliato a Salah Hamouri di fare domanda di visto presso l’ambasciata israeliana prima di partire, se (sua moglie) vuole tornare nel Paese.

 “L’ambasciata mi ha risposto che le era vietato l’ingresso nel territorio fino al 2025. Quanto a mio figlio, hanno detto che la sua domanda sarebbe stata esaminata al momento dell’arrivo…”, spiega.

L’avvocato ricorda almeno “una trentina di donne francesi sposate a palestinesi” che incontrano tremende difficoltà per entrare nel territorio e condurre una vita normale. Di fronte a questi problemi che le riguardano direttamente, “le autorità francesi restano sorde…”, ci dice.

In realtà Salah Hamouri, come altri, deplora la passività della diplomazia francese.

“Ufficialmente, anche se io sono in possesso della carta di residenza di Gerusalemme, ho soltanto la nazionalità francese e in quanto famiglia francese noi abbiamo il diritto di vivere dove vogliamo. Le nostre richieste alle autorità francesi sono vane. Nel mio caso gli israeliani utilizzano questo per revocarmi la carta d’identità come residente a Gerusalemme e scoraggiarmi dall’andarci.”

Un arbitrio al passo coi tempi: i palestinesi di Gerusalemme, che nella gran maggioranza non possiedono la cittadinanza israeliana, hanno solamente lo statuto di residenti della città, facilmente revocabile. Per Salah Hamouri, come per migliaia di altri, un allontanamento geografico di eccessiva durata potrebbe privarlo di questa preziosa carta di residenza.

Nondimeno, l’ esasperato sistema di controllo dell’aeroporto di Tel Aviv suscita l’interesse e anche l’ammirazione di parecchi Paesi, soprattutto europei, che lo considerano – nonostante gli abusi rilevati – uno dei luoghi più sicuri al mondo.

Così, due mesi dopo l’attentato avvenuto all’aeroporto di Bruxelles nel marzo 2016, il Ministro dell’Interno belga ha effettuato una visita privata delle installazioni israeliane. Anche altre delegazioni europee vi si sono recate in trasferta.

In queste condizioni è difficile aspettarsi un qualunque ammorbidimento all’aeroporto internazionale Ben Gurion, che di anno in anno si trasforma sempre più in tribunale inquisitorio.

* I nomi di battesimo sono stati modificati.

** Al momento della pubblicazione di questo articolo le autorità aeroportuali israeliane non avevano ancora risposto alle domande di MEE.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




“Per Scopi Medicinali” Il settore militare israeliano e la crisi del coronavirus.

Rapporto flash

Maggio 2020 – WHO PROFITS

Il Ministero della Difesa israeliano (IMOD), l’esercito e le imprese militari statali e private sono stati in prima linea nella risposta del governo israeliano alla crisi del coronavirus. Il loro cospicuo coinvolgimento, salutato dai media israeliani come dimostrazione di solidarietà sociale e impegno civile, evidenzia il profondo coinvolgimento militare alla base del regime economico e politico israeliano e la simbiosi esistente tra la sfera civile e l’apparato militare. Una delle caratteristiche che spiccano nel caso di Israele è la conversione della produzione e della ricerca e sviluppo (R&S) militare in un’azienda medica nazionale. Apparentemente da un giorno all’altro, il Direttorato per la Difesa (DDR e D) israeliano è stato trasformato in un hub di tecnologia medica, unità top secret di intelligence sono state convertite in centri di raccolta di informazioni mediche e le più grandi imprese militari israeliane sono diventate società appaltatrici per il settore medico. Questi sviluppi rivelano il dominio del settore militare nella ricerca e sviluppo commerciale israeliano e offrono nuove opportunità alle imprese militari di beneficiare materialmente e simbolicamente dalla crisi. In questo flash-report Who Profits [Centro di ricerca indipendente dedicato alla divulgazione del ruolo del settore privato nell’economia israeliana dell’occupazione, ndt] indaga le attività correlate al coronavirus dell’establishment militare e delle imprese private israeliane, concentrandosi sulle nuove iniziative lanciate, secondo quanto riferito, dalle tre maggiori e più lucrative società militari israeliane: l’Israel Aerospace Industries (IAI) di proprietà statale, e Rafael Advanced Defense Systems e Elbit Systems quotati in borsa.

“Una fusione di medicina e guerra”- La risposta militarizzata di Israele al Coronavirus

L’approccio militarizzato di Israele al virus è vividamente catturato nel National CoronaPlan for Israel del Ministero della Difesa israeliano (IMOD), un documento di trentuno pagine pubblicato il 29 marzo 2020. Il documento fa riferimento alla pandemia come “una fusione di medicina e guerra” e prevede un ruolo centrale per l’IMOD in materia di sanità pubblica e politica economica. [1] Tra le altre cose, presenta un’iniziativa pubblico-privata per sviluppare, rendere operativo e potenzialmente esportabile un sistema centralizzato di dati per valutare la probabilità degli individui di essere infettati dal virus. [2] I rapporti dei media hanno rivelato che la società privata coinvolta nel progetto è l’azienda di spionaggio informatico israeliana NSO Group. [3] Dall’inizio della crisi, gli organismi governativi di sicurezza nazionale hanno svolto un ruolo di primo piano nella creazione e nell’attuazione dell’agenda coronavirus. Questi includono il National Security Council (NSC), operante nell’ufficio del primo ministro, il Mossad, l’agenzia di intelligence segreta di Israele e il General Security Service (GSS o Shin Bet). Il NSC è stato incaricato del coordinamento generale a livello nazionale, nonostante le dubbie qualifiche nei settori della sanità pubblica e dell’economia. La divisione dei ruoli tra il Mossad e lo Shin Bet nella risposta alla crisi ha riflesso i rispettivi settori di attività, internazionale e nazionale. Il Mossad, che opera una vasta rete globale di agenti segreti regolarmente collegati con casi confermati e presunti di omicidi extragiudiziali [4], è stato impiegato nell’ambito dell’approvvigionamento di attrezzature mediche. [5] Il capo della divisione tecnologica del Mossad ha riferito a un giornalista israeliano che parte dell’attrezzatura è stata ottenuta illecitamente, affermando che “noi attiviamo i nostri collegamenti speciali al fine di […] mettere le mani su partite che qualcun altro ha ordinato.”[6] Lo Shin Bet, che opera nel territorio palestinese occupato e all’interno della linea verde, è stato rapidamente autorizzato dal governo israeliano a monitorare i pazienti coronavirus confermati e i probabili contatti.[7] I considerevoli poteri di sorveglianza della Shin Bet precorrono di gran lunga l’attuale pandemia e sono stati a lungo usati contro i palestinesi da entrambe le parti della Linea verde. Secondo Ynet [notiziario e sito web israeliano di contenuti generali, che è l’outlet online per il quotidiano Yedioth Ahronot, ndt], il monitoraggio dei pazienti con coronavirus si affida a un enorme database segreto già esistente, noto come “the Tool” [lo Strumento], che raccoglie dati continui in tempo reale su tutti i cittadini israeliani.[8] Lo Shin Bet è molto coinvolto nella politica israeliana degli omicidi mirati, nella stesura di black-list e a fornire indicazioni per le operazioni dell’aeronautica militare israeliana.[9] A settembre 2019, Amnesty International ha denunciato la tortura autorizzata dallo Stato del detenuto palestinese Samir Arbeed durante gli interrogatori dello Shin Bet.[10] La Intelligence Division dell’esercito israeliano è stata anche coinvolta nella risposta nazionale al coronavirus, stabilendo un National Information and Knowledge Center on Coronavirus.[11] Secondo quanto riportato dai media, due unità di intelligence d’élite, l’unità 8200, la Signals Intelligence Uni,t e l’unità 81, la Intelligence Division’s Technology Unit, stanno al momento conducendo una ricerca medica correlata al coronavirus.[12] È significativo che gli sforzi tecnologici per affrontare il virus a livello nazionale non siano stati condotti dalla Israel Innovation Authority (IIA) o dal Ministero della scienza e della tecnologia, ma dal Directorate of Defence Research and Development (DDR & D) dell’esercito israeliano.[13] Il direttore della DDR & D, Brigadier-General (Res.) Dani Gold, è stato nominato capo del National Technological Center to Fight Coronavirus, che il Ministro della Difesa Naftali Bennett ha definito una “commando unit” per individuare tecnologie avanzate. [14] ​​La Direzione ha istituito un “National Emergency Team” composto da alcuni ministeri del governo (Difesa, Salute e Finanza), esercito israeliano, industrie militari, IIA, società tecnologiche, ospedali e istituzioni accademiche. Il Centro fornisce la cornice istituzionale per molte delle recenti collaborazioni tra le compagnie militari israeliane e le imprese medicali civili, gli ospedali e gli accademici in campo medico. Questa cornice fornisce un potenziale modello di sviluppo commerciale per il settore militare israeliano nel mercato medico. Come ha detto il Direttore della Government Companies Authority al quotidiano israeliano Globes, “I due tipi di industrie in cui c’è big money sono quelle che sviluppano mezzi per uccidere le persone e quelle che sviluppano mezzi per salvarle”. [15] Come verrà discusso nella sezione seguente, dal lancio del Centro diretto dal DDR& D c’è stata una rapida proliferazione di proposte, prodotti e progetti relativi al coronavirus, che coinvolgono autorità israeliane di governo, capitale privato, enti accademici di ricerca e ospedali. Va sottolineato che questa sua nuova vocazione medica non ha distolto l’apparato militare israeliano dalla sua funzione primaria e ragion d’essere, ossia il continuo controllo militare sulla popolazione civile palestinese. La repressione quotidiana dei palestinesi rimane il lavoro “essenziale” dell’esercito. Secondo la rivista ufficiale dell’esercito israeliano, l’equipaggiamento di protezione, tra cui maschere e guanti chirurgici e altre misure fanno sì che i soldati possano continuare a compiere incursioni nelle case palestinesi nella Cisgiordania occupata e pattugliare il territorio attorno a Gaza assediata con un minimo di rischio per sé.[16] Inoltre, dal momento della crisi, sono avvenute diverse segnalazioni di attacchi aerei israeliani in Siria [17], che hanno sollevato la possibilità che Israele stia approfittando della crisi sanitaria globale per ottenere benefici geopolitici strategici.[18]

Militarismo nella medicina – Esercito militare israeliano e tecnologia correlata al Coronavirus

La crisi del coronavirus spalanca una finestra su come funziona il trasferimento della conoscenza militare israeliana alle industrie civili, in questo caso l’industria medica. Le ricerche precedenti di Who Profits hanno messo in luce i modi in cui la commercializzazione del know-how militare israeliano generato dall’occupazione si estenda oltre l’industria della sicurezza e all’interno dei mercati civili. L’apparato militare statale funziona come un laboratorio, un punto di riferimento, un cliente e un incubatore per l’innovazione tecnologica israeliana. Dai muri sottomarini alle armi per il controllo della folla e ai sistemi biometrici, l’occupazione prolungata di Israele fornisce un terreno fertile per lo sviluppo e l’applicazione di nuove tecnologie di controllo. I contratti con le forze armate israeliane fungono da “biglietto da visita” [19] per le aziende con i potenziali clienti, dando loro un vantaggio competitivo. L’importanza di avere l’establishment militare come acquirente di prodotti di sicurezza ha risvolti sia materiali sia in termini di reputazione, creando la domanda locale iniziale e facilitando l’emergere dell’industria locale.[20] Infine, le industrie militari e di proprietà statale rappresentano un campo di addestramento altamente efficace per i lavoratori della tecnologia, molti dei quali, dopo aver lasciato il settore militare, vengono ad occupare posizioni chiave nel settore privato dell’alta tecnologia, portando con sé il know-how tecnico e la rete informale ottenuta nel corso della loro carriera militare. Un’indagine della risposta tecnologica israeliana alla pandemia di coronavirus rivela il coinvolgimento dei tre maggiori attori del settore militare israeliano. Secondo quanto riferito, IAI, Rafael ed Elbit Systems sono stati coinvolti in innumerevoli iniziative legate al coronavirus, tra cui la produzione di ventilatori e la conversione di funzionalità di monitoraggio remoto per uso medico. Mentre IAI, Rafael ed Elbit derivano la maggior parte delle loro entrate dai mercati della difesa e della sicurezza, tutti e tre sono attivi nel mercato civile, direttamente o tramite le loro filiali. Nel 2018, IAI ha riferito che il 28% delle sue entrate proveniva dal mercato civile.[21] Rafael detiene il 49,9% di Rafael Development Corporation (RDC), una società privata che gestisce un portafoglio di società tecnologiche impegnate nello sviluppo di prodotti basati su tecnologie militari originarie di Rafael per i mercati civili.[22] Elbit Systems fornisce prodotti e soluzioni in una serie di settori commerciali, compresa la strumentazione medica.[23] Precedenti ricerche di Who Profits hanno dimostrato che tutti e tre hanno adattato le proprie capacità militari ad uso nella crescente industria della tecnologia agroalimentare: IAI ha convertito droni per uso agricolo, la controllata Rafael mPrest ha collaborato con Netafim su una piattaforma di irrigazione digitale ed Elbit è membro di un consorzio di ricerca sulle tecnologie di identificazione delle piante.[24] L’attuale crisi della sanità pubblica presenta a queste società nuove prospettive di guadagno materiale e simbolico. La capacità di diversificare la loro offerta di prodotti è particolarmente significativa in quanto la pandemia minaccia di avere un impatto sulle catene di approvvigionamento della difesa globale e sulle priorità di bilancio dei governi [25]. Inoltre, con il numero di pazienti in condizioni critiche in Israele [26], il potenziale per future esportazioni è innegabile.

Ventilatori

Una delle prime iniziative intraprese dalla DDR & D è stata abbinare i produttori israeliani di ventilatori alle industrie militari, sfruttando le capacità di produzione di queste ultime per aumentare la produzione [27]. ll Direttore della DDR & D ha riferito ai media israeliani che “le nostre industrie militari hanno capacità straordinarie di produrre rapidamente e in grandi quantità qualsiasi componente, armi o ventilatori, e di eliminare la dipendenza dalle importazioni”. [28] Secondo un’intervista al capo della divisione tecnologica del Mossad, anche il Mossad ha procurato, “con mezzi tortuosi”, informazioni vitali per la produzione di ventilatori. [29] Il 31 marzo 2020, IAI ha dichiarato in un comunicato stampa che il DDR & D, la Direzione di Produzione e Approvvigionamento dell’IMOD, la società israeliana privata Inovytec Medical Solutions e un Dipartimento segreto di produzione di missili IAI hanno istituito una linea di produzione per i ventilatori VentwaySparrow.[30] Secondo Calcalist, il dipartimento di produzione in questione fabbrica satelliti di sorveglianza per l’IMOD e clienti internazionali. [31] Secondo quanto riferito, gli ingegneri IAI hanno preso parte a una collaborazione tra la divisione elettronica di Aeronautica Militare, Microsoft Israel e altre entità per convertire respiratori manuali in automatici [32] Rafael e le società israeliane private Flight Medical e Baya Technologies sono anche coinvolte nella produzione in serie di ventilatori.[33] Flight Medical è un produttore di respiratori portatili, [34] mentre Baya Technologies è specializzata nella produzione di sistemi elettronici sensibili per l’industria militare e medica. [35] In un blog Rafael ha dichiarato che la società stava fornendo assistenza per i componenti difficili da reperire e nella creazione di infrastrutture di produzione. [36] Infine, la Elbit Systems è stata selezionata dalla IMOD, DDR & D e dal Ministero della Salute per stabilire una linea di produzione seriale per fabbricare grandi quantità di ventilatori LifeCan One, basati sulla tecnologia sviluppata dalla start-up medica israeliana LifeCan Medical.[ 37]

Monitoraggio remoto

Mentre la produzione di ventilatori fa leva principalmente sulla capacità produttiva del settore militare, una serie di progetti tecnologici cerca di adattare le tecnologie militari israeliane, sviluppate nel contesto dell’occupazione prolungata di Israele del territorio palestinese e siriano, per uso medico civile. Tra questi progetti c’è un’iniziativa congiunta di Elbit Systems ed Elta Systems, una filiale interamente controllata dell’IAI, condotta nell’ambito del National Technological Center DDR & D, per sviluppare un sistema remoto di monitoraggio per pazienti affetti da coronavirus. [38] Secondo The Marker [quotidiano economico in lingua ebraica pubblicato dal gruppo Haaretz in Israele, ndt], il sistema si basa sul radar e sui sistemi ottici di Elbitand Elta, nonché sulle tecnologie sviluppate dalle startup israeliane Neteera, Vayyar ed EchoCare. [39] Un sensore altamente sensibile misurerebbe la frequenza cardiaca e respiratoria di un paziente mentre una termocamera misurerebbe la temperatura corporea; nella fase successiva, una componente di Intelligenza Artificiale può essere aggiunta per analizzare i dati. [40] Un’altra azienda che si unisce al business della tecnologia correlata al coronavirus è l’impresa israeliana di riconoscimento facciale AnyVision, i cui prodotti di sorveglianza sono stati impiegati nella Cisgiordania occupata, tra cui Gerusalemme est. La tecnologia aziendale è stata utilizzata nei checkpoint militari e nelle reti CCTV esistenti all’interno della Cisgiordania per monitorare e sorvegliare i palestinesi, [41] come anche dalla polizia israeliana per rintracciare i sospetti lungo le strade di Gerusalemme est controllate da Israele, dove tre residenti su cinque sono palestinesi. [42] All’inizio di aprile, Calcalist ha riferito che AnyVision inizierà a distribuire in un ospedale di Tel Aviv termocamere in grado di misurare in remoto la temperatura del corpo e determinare se l’alta temperatura è il risultato di una malattia o di uno sforzo fisico. [43] Il sistema si basa sulle telecamere termiche MiniIOP44 dell’IAI. Secondo Calcalist, la tecnologia è stata originariamente sviluppata per navi da guerra e droni militari. [45] Un prodotto simile, progettato per identificare le persone con febbre nei luoghi pubblici, è stato sviluppato dalla Rafael utilizzando le termocamere della sua parzialmente controllata (49,9%) Opgal. Secondo il blog dell’azienda “queste telecamere ad alta sensibilità, utilizzate nei dispositivi di tracciamento collegati ai nostri missili, sono in grado di rilevare e misurare il calore da una distanza significativa”. [46] A seguito di uno studio pilota in due ospedali israeliani, il prodotto è attualmente operativo. In futuro, secondo il blog, tali telecamere potranno anche essere installate in luoghi come centri commerciali e negozi. Mentre la presenza dei maggiori attori militari israeliani nelle iniziative del National Technological Center to Fight Coronavirus è stata di vasta portata e onnipresente, esistono canali aggiuntivi per il trasferimento di conoscenze dall’apparato militare statale al settore medico privato. Diverse unità israeliane di intelligence militare, ingegneria informatica e programmi di addestramento funzionano da “nastro trasportatore” per centinaia di israeliani, molti dei quali migrano verso l’industria privata dell’alta tecnologia. [47] Un caso emblematico è la start-up israeliana Sensible Medical, composta in gran parte da veterani dell’Unità 81, l’unità tecnologica top-secret della divisione di intelligence dell’esercito israeliano. [48] Haaretz ha riferito che in un certo numero di ospedali israeliani la società sta testando l’uso del suo monitor del fluido polmonare ReDS per monitorare i polmoni dei pazienti affetti da coronavirus. [49] Secondo quanto riferito, il sistema ReDS è già in uso in Italia e negli Stati Uniti. [50] Il CEO di Sensible Medical, Amir Ronentold ha detto a Haaretz che la tecnologia di base del sistema è una tecnologia militare, “intesa a vedere attraverso i muri in condizione di guerra urbana o per localizzare i sopravvissuti sotto i detriti”. [51]

1 National Corona Plan for Israel . Israeli Ministry of Defense. 29 March 2020.

2 Ibid. “This is why we have established in the IMOD in collaboration with the IDF [sic] and civilian

companies a centralized data system, into which we will ‘spill’ all the data…The system is ready to be operationalized. It is the most advanced system in the world, in my opinion, and will be replicated later (gladly!) all over the world.”

3 Goichman, Rafaela. Ministry of Defense Teamed Up with NSO to Rate the Probability of You Catching Coronavirus. The Marker, 29 March, 2020. For more on the involvement of NSO Group, see NSO Group: Technologies of Control, Who Profits, May 2020. https://whoprofits.org/updates/nso-group-technologies-of-control/

4 Black, Ian. Rise and Kill First: The Secret History of Israel’s Targeted Assassinations – review . The

Guardian. 22 July 2018. https://www.theguardian.com/books/2018/jul/22/rise-kill-first-secret-history-israel-targeted-assassinations-ronen-bergman-review-mossad

5 Holmes, Oliver. Israeli spies source up to 100,000 coronavirus tests in covert mission. The Guardian. 19 March 2020. https://www.theguardian.com/world/2020/mar/19/israeli-spies-source-100000-coronavirus-tests-covert-foreign-mission

6 Dayan, Ilana. Commander of Mossad war room for fighting coronavirus, in an interview with Uvda: Globally people are dying due to shortage of ventilators. That won’t happen in Israel. Channel 12, 31 March 2020 (Hebrew).

7 Konrad, Ido. Equating coronavirus with terror, Netanyahu turns surveillance powers on Israelis. +972 Magazine, 15 March 2020. https://www.972mag.com/netanyahu-surveillance-coronavirus/

8 Bergman, Ronen and Shvartztuch, Ido. “The Tool” is exposed: The secret GSS database that collects your SMS texts, calls and locations. Ynet+, 27 March 2020 (Hebrew).

9 Weizman, Eyal. Hollow land: Israel’s architecture of occupation. Verso books, 2012, p. 241. 10 Israel/ OPT: Legally-sanctioned torture of Palestinian detainee left him in critical condition. Amnesty International, 30 October 2019. https://www.amnesty.org/en/latest/news/2019/09/israel-opt-legally-sanctioned-torture-of-palestinian-detainee-left-him-in-critical-condition/

11 National Information and Knowledge Center on Coronavirus. Gov.il (Hebrew).

12 Berkovitz, Uri. Hush-hush IDF intel unit takes on Covid-19. Globes, 20 April 2020. https://en.globes.co.il/en/article-hush-hush-idf-intel-unit-takes-on-covid-19-1001325867

13 DDR&D- Directorate of Defense Research & Development. Israeli Ministry of Defense. Accessed 11 May 2020. https://english.mod.gov.il/About/Innovative_Strength/Pages/Directorate-_of_Defense_Research_Development.aspx

14 DDR&D: Emergency team to address the COVID-19 pandemic. Israeli Ministry of Defense. Accessed 11 May 2020.

15 Barkat, Amiram. Weapons against coronavirus. Globes, 1 April 2020. https://en.globes.co.il/en/article-weapons-against-coronavirus-1001324270

16 Barel, Merav, Van Zayden, Batya, Greenberg Cohen, Einav and Neustein, Lior. Adjusted training, surgical gloves and dispersing the force: How does one maintain operational preparedness under the coronavirus pandemic?. IDF [sic] Editorial Board, 22 March 2020 (Hebrew).

17 Salama, Daniel, Zeitoun, Yoav and Blumenthal, Itay. Syria: Israel attacked in the northern region. Ynet, 5 May 2020 (Hebrew).

18 Harel, Amos. Analysis Under Cover of COVID-19, Israel Seems to Intensify Its Attacks Against

Iran in Syria. 5 May 2020.

19 Israel Aerospace Industries, 2018 Annual Report, p. 124. On file with Who Profits.

20 Gordon, Neve. “The political economy of Israel’s homeland security/surveillance industry.” The New Transparency: Surveillance and Social Sorting 28 (2009). P. 24

21 Israel Aerospace Industries, 2018 Annual Report, p. 154. On file with Who Profits.

22 Rafael Advanced Defense Systems, 2018 Annual Report, p. 13. On file with Who Profits.

23 Elbit Systems, 2019 Annual Report. On file with Who Profits.

24 Agribusiness as Usual Agricultural Technology and the Israeli Occupation. Who Profits, January

2020. https://whoprofits.org/report/agribusiness-as-usual/

25 Sreekumar, Arjun. How COVID-19 Will Impact the Defense Industry. The Diplomat, 27 March 2020. https://thediplomat.com/2020/03/how-covid-19-will-impact-the-defense-industry/

26 Covid-19 in Israel. Haaretz. Accessed 11 May 2020. https://www.haaretz.com/israel-news/EXT-INTERACTIVE-coronavirus-tracker-israel-world-updates-real-time-statistics-covid-19-cases-deaths-1.8763410

27 Etzion, Udi. Head of MOD emergency team: “We will supply ventilators in a short period time”. Calcalist, 29 March 2020 (Hebrew).

28 Etzion, Udi. A peek into Israel’s ventilators production line.Calcalist, 6 April 2020 (Hebrew).

29 Dayan, Ilana. Commander of Mossad war room for fighting coronavirus, in an interview with Uvda: Globally people are dying due to shortage of ventilators. That won’t happen in Israel. Channel 12, 31 March 2020 (Hebrew).

30 In Accordance with the Directive of the Minister of Defense, Naftali Bennett: The Ministry of Defense, IAI and Invoytec will Begin the Serial Production of Israeli-developed Ventilators. Press release. Israel Aerospace Industries. 31 March 2020. Accessed 11 May 2020. https://www.iai.co.il/serial-production-of-israeli-developed-ventilators

31 Etzion, Urdi. Coronavirus brings military industries into a new battlefield. Calcalist, 31 March

2020 (Hebrew).

32 Ibid; Etzion, Udi. Head of MOD emergency team: “We will supply ventilators in a short period time”. Calcalist, 29 March 2020 (Hebrew).

33 Ibid.

34 Flight Medical Homepage . Accessed 11 May 2020. https://www.flight-medical.com/

35 Etzion, Udi. A peek into Israel’s ventilators production line. Calcalist, 6 April 2020 (Hebrew).

36 Fighting the Coronavirus with Powerful Technologies . Rafael Blog. Rafael Advanced Defense Systems, 16 April 2020. Accessed 11 May 2020. https://www.rafael.co.il/blog/rafael-fighting-the-coronavirus-with-powerful-technologies/

37 Globes Correspondent. Elbit Systems to produce LifeCan Medical ventilators . Globes , 10 April 2020. https://en.globes.co.il/en/article-elbit-systems-to-produce-lifecan-medical-ventilators-1001325034

38 Cohen, Sagi. Without a doctor’s touch: An Israeli system will remotely monitor temperature and breathing in coronavirus patients . TheMarker , 31 March 2020 (Hebrew).

39 Ibid.

40 Ibid.

41 Ziv, Amitai. Scoop: The curious Israeli startup that operates clandestinely in the territories and surveils Palestinians. TheMarker, 14 July 2019 (Hebrew).

42 Solon, Olivia. Why did Microsoft fund an Israeli firm that surveils West Bank Palestinians? NBC News, 28 October 2019. https://www.nbcnews.com/news/all/why-did-microsoft-fund-israeli-firm-surveils-west-bank-palestinians-n1072116

43 Kabir, Omer. Face Recognition Startup AnyVision to Deploy Thermal Cameras at Tel Aviv Hospital. CTech, 7 April 2020. https://www.calcalistech.com/ctech/articles/0,7340,L-3806587,00.html

44 MiniPOP Lightweight Payload for Day/Night Observation System. Israel Aerospace Systems. Accessed 11 May 2020. https://www.iai.co.il/p/minipop

45 Kabir, Omer. Face Recognition Startup AnyVision to Deploy Thermal Cameras at Tel Aviv Hospital. CTech, 7 April 2020. https://www.calcalistech.com/ctech/articles/0,7340,L-3806587,00.html

46 Fighting the Coronavirus with Powerful Technologies. Rafael Blog. Rafael Advanced Defense Systems, 16 April 2020. Accessed 11 May 2020.

47 Gordon, Neve. “The political economy of Israel’s homeland security/surveillance industry.” The New Transparency: Surveillance and Social Sorting 28 (2009).

48 Cohen, Sagi. Pilot in hospitals: A radar to warn about deteriorating condition of coronavirus patients. Haaretz, 30 April 2020 (Hebrew).

49 Ibid.

50 Sensible Medical ReDS Lung Fluid Monitor to Help COVID-19 Patients in Italy, US and Other Countries. News. Sensible Medical. 16 April 2020. Accessed 11 May 2020. https://sensible-medical.com/sensible-medical-reds-lung-fluid-monitor-to-help-covid-19-patients-in-italy-us-and-other-countries/

51 Cohen, Sagi. Pilot in hospitals: A radar to warn about deteriorating condition of coronavirus patients. Haaretz, 30 April 2020 (Hebrew).

(Traduzione dall’inglese di Angelo Stefanini)




La Francia condannata dalla CEDU per il caso degli appelli al boicottaggio dei prodotti israeliani

Jean-Baptiste Jacquin

11 giugno – Le Monde

Alcuni militanti erano stati condannati dopo aver partecipato a due azioni nei pressi di Mulhouse. Ma la giustizia europea ritiene che rientrassero nell’ambito della libertà d’espressione, violata in questo caso dalla Francia.

Giovedì 11 giugno la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato la Francia nel caso degli appelli al boicottaggio dei prodotti israeliani. Alcuni militanti erano stati condannati per incitamento alla discriminazione economica contro persone per la loro appartenenza a una Nazione. Questa decisione molto attesa contraddice la sentenza della Corte di Cassazione.

La Corte di Strasburgo ha giudicato all’unanimità che la Francia ha violato l’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo sulla libertà d’espressione. Ricorda che questo articolo “non consente in nessun modo limitazioni alla libertà d’espressione nel campo del dibattito politico o di questioni d’interesse generale. Per sua natura il dibattito politico spesso è virulento e fonte di polemiche. Ciò non toglie che sia d’interesse pubblico, salvo che degeneri in un appello alla violenza, all’odio o all’intolleranza.”

I fatti risalgono al 26 settembre 2009 e al 22 maggio 2010, quando alcuni militanti avevano partecipato a un’azione organizzata dal collettivo “Palestine 68” nell’ipermercato Carrefour di Illzach, nella periferia di Mulhouse (Alto Reno). Indossando magliette con lo slogan “La Palestina vivrà, Boicotta Israele”, avevano distribuito ai clienti dei volantini sui quali c’era scritto: “Acquistare i prodotti importati da Israele vuol dire legittimare i crimini a Gaza, approvare la politica condotta dal governo israeliano.”

Affermazioni che “si inseriscono in un dibattito contemporaneo”

Nella sua decisione la Corte Europea sottolinea che “le azioni e le affermazioni contestate ai ricorrenti riguardavano un argomento di interesse generale, quello del rispetto delle leggi internazionali pubbliche da parte dello Stato d’Israele e della situazione dei diritti dell’uomo nei territori palestinesi occupati, e si inseriscono nel dibattito contemporaneo, in corso in Francia come in tutta la comunità internazionale.” E aggiunge che “riguardavano l’espressione politica e militante.”

I giudici di Strasburgo si sono premurati di citare a questo proposito il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di religione e di espressione. Durante l’Assemblea Generale dell’ONU del settembre 2019 egli ha ricordato che “nel diritto internazionale il boicottaggio è considerato come una forma legittima d’espressione politica e che le manifestazioni non violente di sostegno ai boicottaggi riguardano, in linea generale, la legittima libertà d’espressione che è necessario proteggere.”

I tribunali francesi hanno dato interpretazioni divergenti riguardo alle azioni condotte nel quadro della campagna internazionale lanciata dal movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), alcuni con sentenze di condanna ed altri, come in questa causa il tribunale distrettuale di Mulhouse nel novembre 2011, di assoluzione. Carrefour non aveva presentato nessuna denuncia e durante le manifestazioni di Illzach non erano state rilevate affermazioni antisemite né violenze. Ma nel novembre 2013 la Corte d’Appello di Colmar aveva deciso in modo diverso condannando dodici militanti che avevano partecipato a quelle due azioni.

Una svolta” per l’avvocato del BDS

La Corte di Cassazione aveva chiuso la discussione nell’ottobre 2015 confermando questa condanna. Il supremo organo giurisdizionale francese aveva sentenziato che queste iniziative costituivano un reato di “incitamento alla discriminazione, all’odio o alla violenza contro una persona o un gruppo di persone a causa dello loro origine o della loro appartenenza a una determinata etnia, Nazione, razza o religione (articolo 24 della legge sulla libertà di stampa).

La sua motivazione era che discriminare dei prodotti provenienti da un Paese corrispondeva a discriminare delle persone, i produttori, in base alla loro origine. Per la Corte Europa tale interpretazione equivaleva a dire che “il diritto francese vieta ogni invito al boicottaggio di prodotti a causa della loro origine geografica, indipendentemente dal tenore di questo invito, dalle sue motivazioni e dalle circostanze nelle quali si inserisce.”

Secondo Antoine Comte, l’avvocato del BDS e di sei delle undici persone che si sono rivolte alla CEDU, “questa decisione della Corte Europea segna una svolta in un periodo in cui in Francia è stato introdotto un certo numero di limitazioni alla libertà d’espressione. Ciò restituisce ai cittadini la possibilità di discutere di questioni nazionali o internazionali e, se è il caso, di trarne appelli al boicottaggio.”

Dalla circolare del 2010 emanata da Michèle Alliot-Marie [di un partito politico gollista di destra, molto attiva nel difendere alcuni dittatori nei Paesi arabi, ndtr.], allora ministra della Giustizia del governo di François Filllon, rivolta all’insieme delle procure generali. La ministra chiese di perseguire sistematicamente e specificamente gli appelli al boicottaggio dei prodotti israeliani: “È imperativo assicurare da parte del pubblico ministero una risposta coerente e ferma a queste iniziative,” scrisse. Quando la campagna internazionale lanciata nel 2005 dal movimento ha riscosso una vasta risonanza in molti Paesi, la Francia è stato l’unico a voler condannare queste iniziative di boicottaggio in quanto tali.

Paradossalmente dopo la sentenza della Corte di Cassazione del 2015, che avrebbe dovuto fare giurisprudenza, le procure non hanno più avviato procedimenti giudiziari per istigazione alla discriminazione in seguito a nuove azioni della stessa natura. “Un po’ come se i pubblici ministeri stessero aspettando la decisione di Strasburgo,” ritiene Bertrand Heilbronn, presidente dell’associazione “France Palestine Solidarité”. Il tribunale di Alençon ha comunque emesso delle condanne, ma per il reato di intralcio all’esercizio di attività commerciali, in quel caso quelle di un supermercato.

La Federazione Internazionale dei Diritti dell’Uomo e la Lega dei Diritti dell’Uomo, che si erano associate al processo, in un comunicato si sono rallegrate che la decisione della CEDU “metta in evidenza che la critica alle autorità israeliane e l’uso di mezzi pacifici per opporsi alla loro politica non possono essere confuse con una manifestazione di antisemitismo”. Nel caso in cui queste manifestazioni diano luogo a violenze o a delle affermazioni antisemite, ciò continua ovviamente ad essere un reato penale.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Come l’Europa potrebbe ripensare i suoi rapporti economici con Israele

Robert Swift e Ben Fisher

10 giugno 2020 – +972

Israele ha ignorato le critiche dell’UE sull’annessione della Cisgiordania usufruendo nel contempo dei finanziamenti per la ricerca scientifica e la tecnologia. Se i rapporti non cambieranno non bloccherà i suoi progetti.

Se c’erano speranze che la visita di mercoledì a Gerusalemme di Hieko Maas, ministro degli Esteri tedesco, avrebbe contribuito a dissuadere Israele dai suoi progetti di annettere formalmente vaste zone della Cisgiordania occupata, esse sono presto svanite.

Incontrandosi con politici israeliani, Maas ha manifestato la “seria e sincera preoccupazione” della Germania riguardo alla minaccia rappresentata dall’annessione alla soluzione dei due Stati, avvertendo che alcuni Stati stanno facendo pressione per imporre sanzioni contro Israele o per riconoscere la Palestina come Stato. Tuttavia Maas ha sottolineato che la Germania non discuterà un “prezzo da pagare” per la politica israeliana, ma sta semplicemente cercando un dialogo sull’argomento.

Nonostante i suoi avvertimenti, le osservazioni di Maas hanno in grande misura riconfermato la tradizionale prudenza, per cui è improbabile che l’Unione Europea – un fondamentale attore politico ed economico nel conflitto israelo-palestinese e di cui la Germania è un potente Stato membro – agisca in modo significativo per impedire l’annessione. A dispetto dei soliti discorsi contro questa mossa, la politica estera dell’UE è caratterizzata dai disaccordi interni su come procedere, immobilizzata dalla necessità di ottenere il consenso unanime tra i suoi 27 Stati membri.

Due fonti diplomatiche dell’UE hanno detto a +972 che tuttavia questa “prudenza” potrebbe sottovalutare una significativa opzione politica che l’UE potrebbe utilizzare per tradurre il suo enorme potere economico in influenza politica. L’unico problema è che l’UE sceglie di non farlo.

Perché il gigante europeo parli sulla scena mondiale lo deve fare con una voce univoca: un solo parere contrario di uno dei suoi Stati membri è sufficiente per impedire prese di posizione o azioni in politica estera. Questa clausola è stata un ostacolo fondamentale allo sviluppo di una efficace politica dell’UE su Israele/Palestina. Mentre una parte dei membri dell’UE ha cercato di spostare il blocco su una posizione critica nei confronti delle pratiche del governo israeliano, un’altra ha costantemente spinto nella direzione opposta.

Gli alleati che il primo ministro Benjamin Netanyahu si è procurato nel gruppo di Visegrad – cioè Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia e Slovacchia – si sono rifiutati di criticare pubblicamente Israele, che vedono come un’anima gemella. Ciò non significa che siano d’accordo con il concetto secondo cui gli Stati possono annettersi un territorio ottenuto con la guerra. Dopotutto solo tre decenni fa erano tutti dominati da Mosca come parte dell’Unione Sovietica. Il precedente dell’Ue con la Crimea, che la Russia ha annesso nel 2014 (a cui l’UE ha risposto con sanzioni contro Mosca) li preoccupa.

Quindi la principale divergenza all’interno dell’UE è meno sulla posizione contro l’annessione che su come meglio impedirla.

Una fonte diplomatica, che ha chiesto di rimanere anonima in quanto non ha il permesso di parlare pubblicamente dell’argomento, ha detto a +972 che il disaccordo riguarda più la tattica che la sostanza, in particolare se Israele reagirebbe meglio a una condanna pubblica o a una sollecitazione in privato.

Il diplomatico ha spiegato che un campo insiste che Israele ha esplicitato le sue intenzioni annessioniste e gli dovrebbe essere immediatamente impedito di perseguirle; l’altro campo sostiene che è ancora troppo presto per agire.

Entrambi i diplomatici che hanno parlato con +972 dicono che non sono solo le solite voci critiche – Francia, Svezia, Spagna, Irlanda e Lussemburgo – che stanno sostenendo il “campo della deterrenza”, bensì oltre metà degli Stati membri dell’UE. Ma, nonostante qualche mormorio nella stampa israeliana e gli ultimi avvertimenti di Maas, sanzioni economiche non sembrano molto probabili, in quanto i Paesi membri sono praticamente certi che su questa misura non si possa trovare l’unanimità.

Il nuovo Horizon

Ciò non significa che l’UE non abbia opzioni per dissuadere Israele dall’annessione. “Horizon 2020” è un fondo settennale di 80 miliardi di euro dell’UE che fornisce sostegno finanziario alla ricerca, allo sviluppo tecnologico e all’innovazione. Il progetto termina quest’anno e nel 2021 dovrebbe essere sostituito con un nuovo programma di sette anni, “Horizon Europe”.

Benché praticamente ogni Paese al di fuori dell’UE possa presentare domanda di finanziamento per il programma Horizon, Israele insieme a Norvegia, Turchia, Albania e ad altri Paesi confinanti con l’UE, è definito “Paese associato”. Questo status, che Israele ha ottenuto nel 1996 come primo Paese non europeo a riuscirci, significa che gli è garantito l’accesso ai finanziamenti alla pari degli Stati membri dell’UE.

Per quanto riguarda il conflitto, la questione è se nel prossimo programma Israele, nel caso in cui proceda con l’annessione della Cisgiordania, godrà dello stesso status privilegiato di adesso.

Nili Shalev, direttrice generale della Direzione per la Ricerca e lo Sviluppo Israele-UE presso l’Autorità Israeliana per l’Innovazione [ente governativo che finanzia progetti di sviluppo e innovazione tecnologica, ndtr.] spiega che, mentre Israele paga per far parte del programma – 1.3 miliardi di euro saranno pagati all’UE entro la fine di Horizon 2000, una somma in base ai PIL rispettivamente di Israele e dell’UE –, ha ottenuto finanziariamente più di quanto ha sborsato. Per esempio, secondo Shalev, dal 2014 al 2018 Israele ha investito [in Horizon] 788 milioni di euro e ne ha ricevuti 940.

Shalev afferma che, tra i vari vantaggi, Israele beneficia di Horizon attraverso elargizioni accademiche europee che sono più consistenti di quelle che il governo fornisce a livello nazionale; il programma contribuisce anche a ridurre i tempi di commercializzazione (il tempo tra la produzione e la vendita) per le imprese private.

Al contempo, prosegue, l’UE trae vantaggio dalla collaborazione perché i progetti israeliani spesso affrontano priorità europee come l’innovazione ambientale, le cure mediche e la sicurezza informatica e in rete – progetti che contribuiscono a creare lavoro anche in Europa, aggiunge.

Ricordando che durante la precedente edizione di Horizon Israele ha dovuto affrontare la questione dei finanziamenti utilizzati fuori dai confini di Israele prima del 1967 [quindi nei territori occupati di Golan, Cisgiordania e Gaza, ndtr.], Shalev spera che le attuali differenze politiche non impediscano di continuare la collaborazione: “La scienza è un’innovazione per tutti. Porta conoscenza a tutta la popolazione del mondo, non ha confini,” afferma.

Molti palestinesi non sarebbero affatto d’accordo con questa affermazione. In un articolo del 2018 Yara Hawari, esperta di politica del gruppo di studio palestinese Al-Shabaka, ha evidenziato che molti dei progetti tecnologici finanziati da Horizon sono stati utilizzati anche per continuare l’occupazione israeliana. Per esempio, la clausola del “doppio uso” nelle linee guida di Horizon per i finanziamenti consente effettivamente alle imprese israeliane di “avere accesso a finanziamenti UE per un progetto ‘civile’ e in seguito svilupparlo per il settore militare,” mentre alcuni dei beneficiari dei finanziamenti si trovano nella Gerusalemme est occupata, oltre la Linea Verde [confine precedente al 1967, ndtr.].

I finanziamenti che Israele riceve da Horizon dovrebbero essere limitati a istituzioni accademiche e a imprese private che operano all’interno dei confini del Paese prima del 1967 – le frontiere riconosciute ufficialmente dall’UE. Se Israele continuerà o meno a mantenere il suo status di “associato” nel prossimo programma Horizon, secondo i due diplomatici rimarranno in vigore le disposizioni dell’UE su dove i fondi possono essere spesi.

Anche se l’Ue non prenderà misure attive contro l’annessione, molti elettori israeliani probabilmente vorranno una spiegazione dai loro politici sul perché il governo sta cooperando con un programma che rifiuta di riconoscere parti della Cisgiordania come “territorio sovrano di Israele”, dice la seconda fonte diplomatica: “Dopo l’annessione – si son chiesti – come potranno accettare che l’Università Ebraica e quella di Tel Aviv collaborino con l’Europa, ma che l’università di Ariel (in Cisgiordania) non possa farlo?”.

Da parte sua Shalev spera e crede che i dissensi sui confini non impediranno di continuare la collaborazione scientifica. Il rifiuto dell’UE di riconoscere le rivendicazioni di Israele su territori in Cisgiordania – compresa l’annessione formale di Gerusalemme est e delle Alture del Golan siriane nel 1980-81 – negli ultimi 25 anni non ha impedito alle due parti di collaborare; perché dovrebbe succedere in futuro?

Privilegiare la tecnologia sui diritti umani

Dato che Israele ha ignorato il punto di vista europeo sui confini, destinando nel contempo i finanziamenti dell’UE alle imprese israeliane, attualmente ha pochi incentivi a modificare la sua linea di condotta nei territori occupati. Pertanto, secondo chi critica questa situazione, l’UE non può continuare ad attribuire ad Israele una posizione privilegiata se è così preoccupata per la sua illegale espansione territoriale.

Innanzitutto la commissione UE potrebbe sospendere l’inclusione di Israele nel nuovo programma di Horizon del prossimo anno. Ciò includerebbe la fine dello status di Israele come “associato”, in modo che debba competere per i finanziamenti alla pari con la maggior parte dei Paesi di tutto il mondo. Come ha notato Shalev, è raro che Stati non associati ricevano fondi del programma e i dati di Horizon mostrano che meno del 2% dei suoi finanziamenti vanno a Paesi “terzi”.

In futuro non si tratterà solo di quello che verrà bloccato in termini di rapporti (UE-Israele), ma quali futuri accordi l’UE e Israele saranno in grado di avviare a causa dell’annessione,” afferma Hugh Lovatt, esperto di politica del programma su Medio Oriente e Nord Africa presso l’ European Council on Foreign Relations [gruppo di lavoro a livello europeo sulla politica estera, ndtr.].

Notando che Israele non ha ancora firmato il programma per le innovazioni del prossimo anno e che l’annessione potrebbe essere un punto critico, Lovatt afferma che la mancanza di unanimità all’interno della UE è un’arma a doppio taglio: rende difficile sospendere l’accordo, ma rende anche complicato ratificarne di nuovi.

Ciononostante è improbabile che l’UE prenda una posizione ostile nei confronti di Israele, almeno in parte a causa della volontà dell’Europa di avere accesso a “un’economia tecnologicamente molto avanzata, con molte ricerche in corso,” dice la prima fonte diplomatica.

Secondo i critici questo calcolo non fa ben sperare per il conflitto. I palestinesi hanno a lungo accusato il fatto che le credenziali tecnologiche di Israele accechino la comunità internazionale riguardo alle violazioni dei diritti umani che avvengono sotto l’occupazione militare, quello che molti hanno descritto come “ripulitura grazie alla tecnologia”.

La seconda fonte diplomatica smentisce questa affermazione, insistendo sul fatto che, mentre l’UE è desiderosa di collaborare con Israele, è un’esagerazione dire che ciò dipende dalle innovazioni israeliane. “L’affermazione secondo cui Israele è talmente avanzato tecnologicamente da poterne trarre vantaggi politici può funzionare con alcuni Paesi del Terzo Mondo, ma non con l’Europa.”

Eppure è probabile che l’Europa accolga ancora Israele nel prossimo programma Horizon, continuando a protestare contro l’annessione. Nel migliore dei casi questa contraddizione invierà segnali contraddittori; nel peggiore, rafforzerà le critiche secondo cui l’Europa sta privilegiando la tecnologia sui diritti umani dei palestinesi. La prima fonte diplomatica ammette quest’ultima preoccupazione, benché affermi che è troppo presto per fare questa affermazione.

Benché il governo israeliano abbia previsto il 1 luglio come data in cui presenterà [in parlamento] l’annessione, non è chiaro se il governo procederà come promesso. Si moltiplicano le ipotesi secondo cui Netanyahu potrebbe rinunciare all’iniziativa, consentendo all’UE almeno tre settimane per farsi sentire prima della data prevista. Se il futuro della collaborazione scientifica e tecnologica dovesse essere preso in considerazione, i timori degli europei riguardo all’annessione probabilmente sarebbero presi più seriamente.

Un portavoce dei programmi Horizon presso la Commissione europea ha rivolto domande riguardo a Israele al rappresentante dell’ufficio Affari Esteri e Sicurezza della Commissione, che a sua volta ha girato le richieste all’ufficio di Horizon. Nessuno ha fornito un commento per questo articolo.

Robert Swift è un giornalista freelance e scrittore scozzese che vive a Gerusalemme. Il suo lavoro riguarda la tecnologia, la politica mediorientale e questioni belliche e relative alla sicurezza.

Ben Fisher è un giornalista freelance di Seattle. Ha lavorato per il Jerusalem Post e il suo disco folk di 17 brani su Israele-Palestina “Does the Land Remember Me?” [la terra si ricorda di me?] è stato pubblicato nel 2018.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Lo spettro di Edward Said e la fine di Oslo

Palestinese nato a Gerusalemme il primo novembre 1935 e deceduto a New York il 25 settembre 2003, Edward Said è stato sia un intellettuale molto stimato in ambito letterario ( nella letteratura comparata), della critica musicale classica e degli studi storici, sia un infaticabile militante e critico della causa palestinese.

Haidar Eid

10 giugno 2020 – Chronique de Palestine

Ciò che Edward Said aveva previsto negli anni ’90 è diventato realtà: il progetto dell’OLP di creare due Stati è fallito.

Quando nel 1993 sul prato della Casa Bianca a Washington furono firmati i disastrosi Accordi di Oslo, alcuni espressero severe critiche e profonda inquietudine riguardo alle loro disposizioni e alle rilevanti concessioni che i palestinesi furono costretti a fare.

I firmatari palestinesi – guidati dal capo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) Yasser Arafat – e i loro sostenitori replicarono con la domanda: qual è l’alternativa? Forse pensavano che questa sarebbe stata la domanda semplicistica che avrebbe chiuso la discussione e celato il fatto che gli accordi erano la prosecuzione della natura coloniale del rapporto tra gli oppressori israeliani e gli oppressi palestinesi.

Il rimpianto Edward Said, un feroce oppositore all’accordo, accettò la sfida e scrisse un articolo profetico sulla ‘London Review of Books’, dal titolo: ‘Oslo: il giorno dopo’. Ricorrendo a ciò che definiva “il buon senso”, predisse la situazione tragica che è andata peggiorando dopo il 1993; né più, né meno.

Nel suo stile molto eloquente, scrisse: “Per avanzare verso l’autodeterminazione palestinese – che ha senso soltanto se il suo obbiettivo sono la libertà, la sovranità e l’uguaglianza, invece del perpetuo asservimento a Israele – abbiamo bisogno di riconoscere onestamente la nostra situazione.”

Ciò che all’epoca trovava particolarmente “mistificante” era “come tanti dirigenti palestinesi ed intellettuali al loro fianco possano continuare a parlare dell’accordo come di una ‘vittoria’.” Il consigliere di Arafat, Nabil Shaat, per esempio, definiva l’accordo una “uguaglianza totale” tra israeliani e palestinesi.

Negli anni seguenti, negli articoli pubblicati su Al-Ahram Weekly, Al-Hayat, Sharq Al-Awsat ed altri quotidiani e riviste, Said continuò a porre domande “imbarazzanti”: Israele, sotto il governo laburista sionista askenazita, ha deciso di riconoscere il popolo palestinese come popolo quando ha firmato gli Accordi di Oslo? Gli Accordi di Oslo hanno costituito un cambiamento radicale dell’ideologia sionista riguardo ai “gentili non ebrei palestinesi”?

Gli accordi hanno garantito l’instaurazione di una pace globale e duratura? E l’attuale direzione dell’OLP ha rappresentato le aspirazioni politiche e nazionali del popolo palestinese?

Nel suo libro ‘La fine del processo di pace’ ha sintetizzato la risposta a queste domande: “Non c’è negoziato peggiore di concessioni senza fine che non fanno che prolungare l’occupazione israeliana. Israele è sicuramente felice di potersi attribuire il merito di avere fatto la pace e al tempo stesso di continuare l’occupazione con il consenso dei palestinesi.”

Ventisette anni e molte concessioni palestinesi dopo, tutto ciò che Said aveva previsto si è purtroppo realizzato. L’OLP è alle prese con una triste realtà che ha ampiamente contribuito a creare accettando di firmare gli Accordi di Oslo.

Mentre Israele si prepara ad annettere il 30% della Cisgiordania occupata, il presidente [dell’ ANP] Mahmoud Abbas, il pupillo e successore di Arafat, ha iniziato a lanciare una nuova serie di minacce prive di senso. Il 19 maggio ha dichiarato la fine della cooperazione in materia di sicurezza e degli accordi con Israele e gli Stati Uniti.

Questo è ritenuto la fine del sogno di avere uno Stato palestinese “indipendente” sul 22% della Palestina storica. È la realizzazione di questo sogno che gli intellettuali favorevoli a Oslo hanno posto come obbiettivo finale per giustificare il pesante prezzo pagato dai palestinesi.

Hanno continuato ad alimentare questa illusione per 27 anni, rifiutando di ammettere l’impossibilità economica, politica e anche fisica di creare uno Stato palestinese veramente sovrano in un contesto di colonizzazione attiva e in assenza di contiguità territoriale.

La dolorosa domanda che noi dobbiamo porci oggi è sapere se, dopo il 1993, siamo stati costretti a subire orrendi massacri, un assedio genocida, l’espropriazione inarrestabile delle nostre terre, la costruzione di un muro dell’apartheid, la detenzione di minori e di intere famiglie, la demolizione di case e moltissime altre violazioni solamente perché una classe compradora [termine che indica la borghesia parassitaria che nei Paesi colonizzati collabora a proprio favore con i colonizzatori, ndtr.] ha visto l’“indipendenza” alla fine di un tunnel senza uscita.

È tempo per noi, che ci opponiamo all’accordo, di rimandare la domanda ai sostenitori di Oslo: l’accordo stesso ha mai avuto come obbiettivo garantire i minimi diritti fondamentali del popolo palestinese colonizzato, incluse la libertà e l’autodeterminazione?

Prima di morire Said ha pubblicato due libri: ‘Israele-Palestina: una terza via’, e ‘L’unica alternativa’, nei quali ha proposto una soluzione basata su “uguaglianza o niente”, una soluzione che può realizzarsi attraverso la creazione di uno Stato democratico laico in Palestina, in cui tutti i cittadini siano trattati nello stesso modo, indipendentemente dalla loro religione, sesso e colore della pelle.

Ha ipotizzato che una pace globale, complessiva significasse che Israele, la potenza colonizzatrice, dovesse riconoscere il diritto dei palestinesi ad esistere in quanto popolo, il loro diritto all’autodeterminazione e all’uguaglianza, come hanno fatto i colonizzatori bianchi in Sudafrica.

Alla fine di uno di questi saggi [Said] chiedeva: “L’attuale direzione palestinese sa ancora ascoltare? Può suggerire qualcosa di meglio di questo, dato il suo bilancio catastrofico in un ‘processo di pace’ che ha condotto agli orrori attuali?”

Non poteva allora e non può oggi. È da molto tempo che il popolo palestinese si sta allontanando dall’illusione della soluzione di due Stati e tenta la strada di un approccio democratico che possa garantire i suoi diritti fondamentali: la libertà, l’uguaglianza e la giustizia.

Haiddar Eid è scrittore e docente di letteratura postcoloniale all’università Al-Aqsa a Gaza, dopo aver insegnato in diverse università all’estero. Veterano del movimento per i diritti nazionali dei palestinesi, è un commentatore politico indipendente, autore di molti articoli sulla situazione in Palestina.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




La Corte Penale Internazionale (CPI) continuerà a investigare i crimini di guerra israeliani nonostante gli accordi di Oslo

9 giugno 2020 – Palestine Chronicle

Il pubblico ministero Fatou Bensouda della Corte Penale Internazionale (CPI) ha annunciato ieri che continuerà le sue indagini sulle politiche di Israele relative ai palestinesi, nonostante l’ininterrotta applicazione degli accordi di Oslo del 1993, 

Questa dichiarazione è la risposta alla richiesta, presentata il 27 maggio, della Camera per il processo preliminare del CPI di chiarire l’attuale situazione degli accordi di Oslo e del loro impatto sull’inchiesta sui crimini di guerra israeliani.

Alcuni hanno messo in dubbio se la Corte internazionale possa investigare tali crimini dato che gli accordi di Oslo prevedono che Israele abbia la giurisdizione in materia penale nella Cisgiordania occupata, dimostrando così che non esiste lo Stato di Palestina e che quindi essa non possa presentare il caso alla CPI, come spiega il Jerusalem Post.

L’ANP ha detto che non sarebbe più legata dagli accordi di Oslo nel caso Israele procedesse il mese prossimo con la pianificata annessione della Cisgiordania occupata.

Bensouda ha espresso un’ulteriore preoccupazione circa l’impatto dell’annessione israeliana e ha affermato che una tale mossa da parte di Israele non avrebbe valore legale.

Se Israele procede con l’annessione, una violazione sostanziale degli accordi fra le due parti, si annullerebbero di conseguenza ciò che resta degli accordi di Oslo e tutti gli altri patti,” ha detto Riyad Al-Maliki, il ministro degli esteri palestinese.

Lo Stato di Palestina continuerà a cooperare con le istituzioni di diritto internazionale, inclusa la CPI, per combattere i crimini e punire chi commette gravi delitti contro i palestinesi per ottenere giustizia,” ha aggiunto Maliki.

Israele ha tempo fino al 24 giugno per rispondere alle osservazioni del pubblico ministero, ma, secondo il Jerusalem Post, potrebbe scegliere di non farlo per non dare legittimità alla CPI.

In dicembre l’ufficio del procuratore della CPI ha terminato un’inchiesta preliminare durata cinque anni sulla “situazione nello Stato di Palestina”, concludendo che ci sono fondati motivi per credere che nella Cisgiordania occupata siano stati o siano ancora commessi crimini di guerra.

Il 30 aprile, Fatou Bensouda, procuratrice capo della CPI, ha ripetuto che la Palestina è uno Stato e perciò la Corte ha giurisdizione legale per pronunciarsi su presunti crimini di guerra là commessi.

La dichiarazione è stata una risposta decisa all’intensa pressione esercitata da Israele e dai suoi sostenitori, specialmente la Germania, per delegittimare del tutto il procedimento nel suo complesso.

Comunque, la palla è ora alla Camera per il processo preliminare della CPI, da cui nelle prossime settimane si attende una risposta sui dubbi circa la giurisdizione.

(traduzione di Mirella Alessio)




La Corte Suprema israeliana: non si possono legalizzare colonie su terra palestinese rubata

9 giugno 2020 – Middle East Monitor

La [agenzia di notizie britannica] Reuter informa che martedì la Corte Suprema israeliana ha bocciato una legge che aveva legalizzato retrospettivamente circa 4.000 case di coloni costruite su terreni di proprietà privata palestinese nella Cisgiordania occupata.

Una giuria composta da nove giudici ha votato l’abrogazione della misura del 2017 in base alla quale i coloni potrebbero rimanere sulla terra se vi hanno costruito senza sapere in precedenza che era di proprietà di un palestinese o se le case sono state costruite su indicazione dello Stato. Otto giudici hanno votato a favore [della bocciatura] e uno contro.

Le associazioni per i diritti umani affermano che la misura, che è stata sospesa poco dopo l’approvazione in attesa che la Corte esaminasse i ricorsi contro di essa, aveva legalizzato più di 50 avamposti dei coloni costruiti senza l’approvazione del governo.

Nella sentenza del tribunale la presidentessa della Corte Suprema Esther Hayut ha scritto che la legge: “…indubbiamente viola i diritti di proprietà degli abitanti palestinesi dando la prevalenza agli interessi di proprietà dei coloni israeliani.”

Il partito Likud del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che è “deplorevole” che la Corte sia intervenuta su “una legge importante per le attività di colonizzazione e sul loro futuro” e che si attiverà per reintrodurla.

Ma il partner della nuova coalizione, Blu e Bianco, ha affermato che la legge “nella sua formulazione è in contrasto con il contesto istituzionale di Israele e al momento della sua approvazione i suoi problemi di carattere giuridico erano noti.”

Blu e Bianco ha detto: “Noi rispettiamo la sentenza dell’Alta Corte e garantiremo che venga applicata.”

Sotto Netanyahu il governo si è impegnato ad estendere la sovranità alle colonie ebraiche e alla Valle del Giordano in Cisgiordania, territori che Israele ha conquistato nella guerra mediorientale del 1967 e su cui i palestinesi intendono fondare il proprio Stato.

È previsto che il governo inizi a discutere l’annessione di fatto il 1 luglio, ma non è chiaro se il principale alleato di Israele, gli Stati Uniti, darà il via libera all’iniziativa. Lunedì Netanyahu ha affermato che gli USA non hanno ancora dato il loro consenso.

Le parole di Netanyahu sembrano contraddire quelle di importanti politici USA, compreso il segretario di Stato Mike Pompeo, che lo scorso mese, dopo un viaggio di un giorno in Israele, ha detto: “Il governo israeliano deciderà in merito a quando e come esattamente farlo.”

Ciò è avvenuto poche settimane dopo che l’ambasciatore USA in Israele David Friedman ha affermato: “Non stiamo dichiarando noi la sovranità, lo deve fare il governo israeliano. E poi noi siamo pronti a riconoscerla…Quindi dovete cominciare voi.”

I palestinesi hanno rifiutato la bozza di accordo per la pace del presidente USA Donald Trump in base al quale la maggior parte delle colonie israeliane verrebbe incorporata nel “territorio israeliano contiguo.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)