‘Povertà estrema’: durante la pandemia i beduini in Israele lottano per sopravvivere

Suha Arraf 

21 luglio 2020 – +972

Dopo anni di incuria governativa, la crisi del coronavirus ha peggiorato la situazione dei beduini del Naqab, facendo precipitare nella più profonda miseria una comunità una volta autosufficiente.

Ci sono stati giorni in cui non avevo niente da mangiare per i miei sei bambini,” dice A., che abita a Rahat, cittadina beduina nel sud di Israele. “Preparavo per loro tè e pane dicendo che era tutto quello che avevamo. Sono dei bravi bambini che si accontentano di poco.”

La crisi del COVID-19 ha colpito tutti in Israele e Palestina, ma i beduini del deserto del Naqab (Negev) cittadini di Israele, molti dei quali ben prima della pandemia vivevano in povertà, afflitti da un elevato livello di disoccupazione sono probabilmente nella situazione peggiore.

Kheir Al-Bazz, un assistente sociale e presidente di AJEEC-NISPED, un’ONG di Be’er Sheva impegnata in cambiamenti sociali e nella promozione della collaborazione tra arabi ed ebrei, dice che la disoccupazione nel Naqab è fra le più elevate in Israele. “Anche prima del coronavirus era del 30% tra gli uomini e dell’80% tra le donne. Non abbiamo ancora delle statistiche accurate, ma secondo le mie stime questi numeri sono raddoppiati.”

Stando alle cifre fornite dall’Istituto nazionale per la previdenza sociale israeliano, dal 2018 una famiglia su due nel Negev vive sotto la soglia di povertà. La situazione non è aggiornata e probabilmente vedremo i risultati fra pochi mesi. La gente ha usato i pochi soldi rimasti e oggi sta raschiando il fondo del barile. 

Suliman Al-Qarini che per 20 anni ha fatto l’assistente sociale e oggi è il vicepresidente dell’ufficio del welfare nel Negev dice che “prima della crisi due terzi delle famiglie arabe nel Negev viveva sotto la soglia di povertà. Oggi è probabile che siano l’85%.”

Di anno in anno mi contattano sempre più persone,” continua Al-Qarini. “Noi ci consultiamo con loro su come garantire i loro diritti presso l’Istituto nazionale per la previdenza sociale e il Centro per l’impiego israeliano e per far sì che completino gli studi superiori e seguano dei corsi. Nella sola città di Rahat, su 70.000 abitanti abbiamo 5.500 casi di famiglie seguite dai servizi sociali.”

In questi tempi di coronavirus abbiamo aperto un numero verde,” dice Al-Qarini. “Nella prima settimana abbiamo ricevuto centinaia di chiamate, famiglie di cui non conoscevamo l’esistenza, autisti di autobus, operai di fabbriche che hanno chiuso… Tutti implorano aiuto.”

Capisco benissimo le loro necessità. Sono cresciuto come loro. Nel Naqab, con 5.000 shekel [circa 1.200 € ] al mese vivono in 10. La gente non può comprarsi i vestiti. Non hanno auto, vacanze, pasti caldi o Internet. So di molte famiglie che non possono permettersi di mangiare carne, solo nelle festività qualcuno regala loro un pezzettino di carne.

Al-Qarini è cresciuto, con 15 fratelli, in una famiglia povera. Suo padre era un manovale a malapena in grado di mantenere la famiglia. Al-Qarini e i fratelli sono convinti che il loro passaporto per uscire dalla povertà sia stato l’istruzione superiore: 11 si sono laureati e due sono diventati medici.

Siamo andati a trovare una famiglia che vive in un appartamento senza la porta d’ingresso né mobilio. In un altro caso non avevano neppure i soldi per portare i figli dal barbiere. Ci sono centinaia di famiglie che vivono stabilmente così. Immaginatevi cosa sta succedendo durante il coronavirus.”

Tragica’ situatione nei villaggi non riconosciuti

Al-Bazz di AJEEC-NISPED dice che, senza donazioni, molti soffriranno la fame. “C’erano molte donazioni e pacchi di cibo che la gente riceveva tramite il Movimento Islamico [organizzazione politica e assistenziale dei palestinesi con cittadinanza israeliana, ndtr.] e altre organizzazioni. Dato che siamo un ente no-profit, abbiamo formato un comitato di emergenza con cui molte organizzazioni possono collaborare per distribuire donazioni e aiuti.

Abbiamo persino ricevuto dei fondi dal Comando del fronte interno delle Forze di difesa israeliane,” continua al-Bazz. “L’ufficio del welfare ha distribuito alle famiglie bisognose dei buoni spesa e a chi ha perso temporaneamente il lavoro per la pandemia sono stati dati gli assegni sociali.

Ci appoggiamo e ci sosteniamo l’un l’altro, ma questa non è la soluzione,” aggiunge. “Negli ultimi sei mesi i nostri figli non hanno studiato perché nella maggior parte delle case non ci sono internet, elettricità o computer. Ne pagheremo le conseguenze per molti anni.”

Al-Bazz fa inoltre notare che il governo, nel bel mezzo di una crisi economica, ha sospeso i fondi dei progetti destinati allo sviluppo del Naqab. “Adesso lo Stato ha la scusa per interrompere gli investimenti per cui abbiamo lottato per anni,” dice.

Le decisioni del governo su tali progetti dovevano essere messe in atto entro la fine del 2021 e includevano investimenti nei comuni e nei villaggi riconosciuti, continua al-Bazz. Ora, comunque, c’è il pericolo che nel Naqab la maggior parte di queste iniziative non sia avviata.

La condizione dei villaggi non riconosciuti del Naqab, dove sta quasi la metà della popolazione beduina, è molto peggiore. Oltre a vedersi negare servizi essenziali come acqua, elettricità e strade decenti, questi villaggi vivono sotto minaccia costante di essere demoliti e sgomberati dallo Stato.

Alcuni abitanti dei villaggi non riconosciuti hanno perso il lavoro e non hanno alcun reddito, dice al-Bazz e, fino a quando i villaggi non sono riconosciuti, il loro futuro resterà preoccupante. Negare dei servizi pubblici come il trasporto significa anche che gli abitanti non hanno modo di recarsi al lavoro se non hanno un’auto o altri mezzi di locomozione.

La situazione dei villaggi non riconosciuti è tragica,” dice al-Qarini. “Le persone più colpite sono minori e donne, quelle che non ricevono aiuti dallo Stato, come pensioni di anzianità e invalidità, indennità di disoccupazione o contributi di previdenza sociale.”

Povertà estrema’

A., che ha sei bambini e un marito disoccupato, una volta lavorava come collaboratrice in un asilo si guadagnava un piccolo salario. Ora dice che tutta la famiglia vive in “povertà assoluta.”

Mi arrangio con farina, olio e pomodori,” dice. “Sforno 35 pita [tipico pane arabo, ndtr.] ogni due giorni e preparo lo shakshuka, un piatto semplice di uova e pomodori. Mangiamo raramente carne, solo nelle feste o poche volte l’anno. I miei figli non sanno cosa sia la frutta.”

La pandemia ha peggiorato la situazione, dice A., e l’ha costretta a chiedere soldi in prestito per comprare da mangiare per i bambini che adesso sono a casa tutto il giorno. Dall’ufficio del welfare riceve piccoli pacchi di cibo e buoni acquisto. “Se la situazione continua così sarà il suicidio. Non ho idea di cosa farò.”

Muhammad abita ad Abu Tlul e fino allo scoppio della pandemia lavorava nei trasporti. Sua moglie non lavora, ma i loro otto figli sopravvivevano con il suo salario. Tuttavia non guadagnava abbastanza da poter risparmiare e non può chiedere l’indennità di disoccupazione perché non aveva un lavoro regolare.

Muhammad e la sua famiglia ricevono ogni mese pacchi di cibo dal Movimento Islamico, ma dice che non bastano per tutti. “Mi vergogno a chiedere,” continua Muhammad. “Non sono un mendicante. Non mi sono registrato con il comitato per l’emergenza, ma qualcuno ha detto loro della nostra situazione e ci hanno mandato pacchi di viveri. Mi sarei sotterrato dalla vergogna, ma avevo bisogno di aiuto.

Non ho idea di cosa succederà se la situazione continua,” aggiunge. “Pensavo di vendere la mia Ford, ma è parecchio vecchia e non prenderei molto. E come potrò lavorare dopo il coronavirus se non ho la macchina? Ho paura e non riesco a dormire.”

Dall’autosufficienza alla dipendenza

La comunità araba del Naqab è una delle più povere del Paese,” dice al-Bazz. Dall’essere storicamente un gruppo autosufficiente che viveva del cibo che produceva, in vent’anni dall’istituzione dello Stato di Israele, i beduini palestinesi nel Naqab “hanno subito un drastico cambiamento — da una società produttiva a una bisognosa e persino dipendente da altri,” spiega. 

Il cambiamento è dovuto alle politiche israeliane del territorio, che considerano proprietà statali le terre beduine nel Naqab “che devono essere liberate dagli arabi,” dice al-Bazz. “Sono stati costruiti villaggi e città per concentrare la gente in zone residenziali.” Con il risultato, aggiunge, che un’intera comunità ha subito trasformazioni economiche e lavorative per cui non era preparata.

I palestinesi del Naqab hanno poi perso tutte le loro risorse senza che fossero dati loro degli strumenti per uno stile di vita completamente diverso. “La gente è diventata dipendente dall’assistenza sociale e dai sussidi e c’è molta disoccupazione. E il cambiamento dello stile di vita ha fatto salire le spese per la casa, improvvisamente ci sono tasse sulle abitazioni, bollette di acqua e luce. Bisogna comprare cibo, abiti, telefonini, spendere nei trasporti, ecc.”

Al-Bazz sottolinea che questi cambiamenti sono stati imposti alla popolazione, e quello che normalmente si sarebbe sviluppato nel corso di secoli è stato forzatamente compresso in 20 anni.   

Noi siamo arrivati a Rahat da al-Razuq nel 1978,” dice Suliman al-Qarini. “Non c’era nessun tipo di formazione. Chi aveva allevato animali nel deserto non poteva farlo nei propri appartamenti e non aveva altre professioni. Non c’erano neppure fondi come quelli che ricevono le moshav [cooperative di agricoltori ebrei israeliani] nel Naqab. Hanno portato gente a Rahat senza alcuna infrastruttura, neppure i trasporti pubblici che sono arrivati solo nel 2005.” 

Anche al-Bazz sottolinea questo punto. “Il tributo psicologico ed economico pagato per questo cambiamento è stato profondo. Viviamo nel ciclo della povertà. Anche se guadagno 10.000 shekel [circa 2.400 €] al mese restò povero, perché vivo in una società povera.”

C’è ancora molto da fare ’

Il Naqab sta ufficialmente su uno dei livelli più bassi della scala socio-economica del Paese, dice Hanan Alkrenawi. Con una qualifica da assistente sociale, cinquantenne di Rahat, è ora la manager delle pubbliche relazioni di Rayan, il centro per l’impiego con sede nel Naqab, istituito nel 2008 per aiutare gli abitanti a riqualificarsi e trovare lavoro. Il centro offre corsi professionali e di ebraico, e valuta le necessità della formazione in base a quelle del mercato del lavoro. 

Dieci anni fa gli israeliani non erano entusiasti all’idea di assumere arabi del Naqab,” spiega. “Le sole alternative di impiego erano le scuole e gli uffici comunali. Non c’erano abbastanza insegnanti, né abbastanza attività commerciali e industrie, così molti si sono rivolti all’assistenza sociale e ricevevano un introito garantito. Le donne dipendevano finanziariamente dagli uomini.

C’è stata una specie di trasformazione nel 2010,” continua Alkrenawi. “Le donne hanno capito di essere oppresse dal punto di vista economico e a Rahat hanno cominciato a studiare ed entrare nel mondo del lavoro. Hanno cominciato come contoterziste e hanno assunto altre donne per lavorare come contadine. Lavoravano in nero e guadagnavano solo 100-120 shekel [da 25 a 30 €], così Rayan le ha aiutate a trovare posti di lavoro e il rispetto dei propri diritti.”

Alkrenawi aggiunge che negli ultimi anni Rayan si è concentrata specialmente nell’aiutare donne: “Se il Naqab sta in fondo alla scala, allora le donne stanno al fondo del fondo.”

Anche l’istruzione superiore è un fattore chiave nel migliorare l’accesso delle donne al lavoro, dice al-Bazz. “Solo il 10% dei nostri giovani continua gli studi e due terzi sono donne. Entrano nel mondo accademico perché per loro è un rifugio, permette di andarsene di casa e sfuggire alla loro attuale situazione.”

Al-Qarini aggiunge che le donne che vogliono entrare nella forza lavoro incontrano altri problemi. Sebbene i villaggi riconosciuti abbiano accesso al servizio di trasporto pubblico, se si perde quell’autobus non ci sono altri mezzi per andare al lavoro. I villaggi non riconosciuti invece non hanno trasporti pubblici, solo Rahat ha un servizio regolare di autobus.

Il Naqab è sempre stato trascurato e il coronavirus ha peggiorato la situazione,” dice Alkrenawi. “La disoccupazione ha raggiunto i laureati. Le donne che riescono a terminare i propri studi con successo devono poi camminare ore per andare al lavoro. Ci sono dottori e avvocati impiegati in agricoltura o nelle costruzioni. Per i giovani è deprimente. Nel corso degli anni abbiamo avuto molti successi, ma c’è ancora tanto lavoro da fare e tanta strada da percorrere.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)