Rapporto OCHA del periodo 14-27 luglio 2020

In Cisgiordania, 20 palestinesi sono rimasti feriti in scontri con forze israeliane.

Questo dato è più basso di circa l’80% rispetto al numero medio di feriti registrati dall’inizio del 2020 in analoghe circostanze. Dei venti feriti, quattordici si sono avuti durante scontri scoppiati in due separate proteste contro la realizzazione di due avamposti colonici [israeliani] nei pressi dei villaggi di Asira ash Shamaliya e di Beita (entrambi in Nablus); tali avamposti sono stati successivamente smantellati dalle autorità israeliane. Gli altri sei palestinesi [dei 20], incluso un minore, sono rimasti feriti durante scontri innescati da operazioni di ricerca-arresto nei Campi profughi di Balata (Nablus), Al Jalazun (Ramallah) e Jenin, e nella città di Tulkarm.

Il 21 luglio, due ragazzi palestinesi (di 11 e 14 anni) sono rimasti ustionati (uno in modo grave) maneggiando un oggetto caduto da un aeromobile israeliano durante un addestramento militare, secondo quanto riferito; l’oggetto ha spontaneamente preso fuoco dopo la caduta. L’episodio è avvenuto nella città di Hebron, nell’Area (H2) controllata da Israele, nei pressi della casa dei ragazzi.

Il 25 luglio, nella città di Nablus, durante scontri, le forze di sicurezza palestinesi hanno sparato, uccidendo un palestinese e ferendone diversi altri. Gli scontri sono scoppiati quando le forze palestinesi, nell’intento di applicare le norme di blocco imposte nel contesto della pandemia, hanno tentato di chiudere negozi e arrestare i proprietari. Le autorità palestinesi hanno annunciato l’apertura di un’inchiesta.

A Gerusalemme Est, le forze israeliane hanno condotto 26 operazioni di ricerca-arresto; due di tali operazioni sono state effettuate presso sedi di istituzioni culturali ed una presso un centro di magazzinaggio della Società della Mezzaluna Rossa Palestinese (PRCS). In quest’ultimo caso, le forze israeliane hanno requisito circa 100 confezioni di alimenti destinati, secondo quanto riferito, alle famiglie in quarantena domiciliare per il COVID-19; le motivazioni dell’azione non sono ancora chiare. In seguito all’operazione svolta nei due centri culturali e all’arresto dei loro direttori, una rete di ONG palestinesi ha rilasciato una dichiarazione nella quale esorta la Comunità internazionale a difendere lo spazio civico e a proteggere le Organizzazioni della società civile palestinese. In una delle operazioni, svolta nel quartiere di Al ‘Isawiya, una unità sotto copertura ha aggredito fisicamente e arrestato un ragazzo palestinese di 12 anni.

Nella Striscia di Gaza, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso alle aree [interne alla Striscia e] prossime alla recinzione perimetrale israeliana e al largo della costa, in almeno 22 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento; non sono stati segnalati feriti né danni alle proprietà. In due occasioni, le forze israeliane sono entrate in Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

In Area C e Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate trenta strutture di proprietà palestinese, sfollando 25 persone e creando ripercussioni su altre 140 [seguono alcuni dettagli]. In un episodio accaduto il 21 luglio, le autorità israeliane hanno demolito una struttura alla periferia della città di Hebron che, secondo la Municipalità di Hebron, era pianificata per essere utilizzata come centro diagnostico del COVID-19; l’affermazione è contestata dalle autorità israeliane. Questa e altre tre strutture sono state demolite in base ad un “Ordine Militare 1797”, che consente la demolizione di edifici “non autorizzati” entro 96 ore dalla consegna della notifica. Le Organizzazioni Umanitarie e per i Diritti Umani hanno ripetutamente manifestato preoccupazione per questa procedura che, sostanzialmente, impedisce alle persone destinatarie dei provvedimenti di essere ascoltate da un organo giudiziario.

Dal 5 marzo (data di inizio dell’emergenza COVID-19), citando la mancanza di permessi [israeliani] di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 19 case abitate, esistenti prima di tale data, sfollando 104 palestinesi. Ciò è in contrasto con l’impegno, da parte delle autorità [israeliane], di sospendere la demolizione di tali strutture durante la pandemia. Durante questo periodo, altre sette case abitate sono state autodemolite dai proprietari, in ottemperanza all’emissione di ordini di demolizione. Dall’inizio dell’emergenza COVID-19, adducendo la motivazione della mancanza di permessi di costruzione, 282 strutture palestinesi di ogni tipo [abitazioni e/o strutture di servizio] sono state demolite o sequestrate in violazione del diritto umanitario internazionale.

Assalitori, ritenuti coloni israeliani, hanno ferito tre palestinesi ed hanno vandalizzato una moschea, circa 30 alberi ed altre proprietà [seguono dettagli]. Dei tre feriti, due sono stati aggrediti fisicamente con bastoni e pietre nel villaggio di Turmus’ayya (Ramallah) e un altro nella Zona H2 della città di Hebron. Il 27 luglio, nella città di Al Bireh (Ramallah,) una moschea è stata incendiata, danneggiandone parti e scritte in lingua ebraica sono state dipinte sui suoi muri. È stato riferito che la polizia israeliana ha aperto un’inchiesta. Nei villaggi di Turmus’ayya, Burin, Qaryut (tutti in Nablus) e Sa’ir (Hebron) sono stati incendiati o abbattuti circa 30 ulivi. Tra le altre proprietà vandalizzate sono da includere escavatori e altri strumenti di lavoro in una cava nel villaggio di Jamma’in (Nablus) e negozi chiusi nella Zona H2 della città di Hebron.

Un colono israeliano è stato aggredito fisicamente e ferito da palestinesi nell’Area H2 della città di Hebron. Secondo fonti israeliane, altri quattro israeliani sono rimasti feriti per il lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli in transito sulle strade della Cisgiordania. A quanto riferito, sei veicoli israeliani hanno subito danni a causa del lancio di pietre ed uno a causa del lancio di una bottiglia incendiaria da parte di palestinesi.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




I coloni israeliani incendiano una moschea nella città di Al-Bireh in Cisgiordania

Redazione di MEE

27 Luglio 2020 Middle East Eye

Slogan razzista scritto sui muri dell’edificio nell’ultimo attacco “del prezzo da pagare” contro i palestinesi

Secondo l’agenzia di stampa Wafa dei coloni israeliani hanno organizzato un assalto incendiario contro una moschea palestinese nella città di Al-Bireh, vicino alla città di Ramallah, nella Cisgiordania occupata.

I bagni e i sevizi igienici della moschea di Al-Bir wa al-Ehsan sono stati incendiati, e lasciati bruciare e distruggere dal fuoco, ma non è stato riportato nessun ferito.

Gli incendiari hanno imbrattato le pareti della moschea con graffiti che dichiarano “Assedio ad arabi e non ebrei” e “la terra di Israele è per il popolo di Israele”.

Il sindaco del comune di Al-Bireh, Azzam Ismail, ha detto a Wafa che i coloni israeliani sono entrati in città nelle prime ore del mattino di lunedì e, oltre ad innescare l’incendio, hanno imbrattato con graffiti e slogan razzisti le pareti interne della moschea,.

I residenti di Al-Bireh si sono accorti dell’incendio intorno alle 3 del mattino prima che i vigili del fuoco lo estinguessero e la polizia palestinese arrivasse per indagare sull’incidente.

Al-Bireh è circondato dagli edifici della colonia israeliana di Biet El a nord e dall’insediamento coloniale illegale di Psagot a sud. Ad ovest della cittadina si trova la città palestinese di Ramallah.

La moschea di Al-Birr wa al-Ehsan si trova ai margini della città.

Husam Abu al-Rub, il referente del awqaf [fondazione di matrice religiosa con fini sociali e benefici, ndtr.] dell’Autorità palestinese e del Ministero degli affari religiosi, ha condannato l’attacco dicendo: “È un un atto criminale e razzista di cui è responsabile il governo d’occupazione, dal momento che sostiene questi gruppi terroristici”, riferendosi a Israele.

A gennaio, i coloni israeliani hanno dato alle fiamme una moschea e scritto slogan anti-arabi sulle sue mura nel sobborgo dj Sharafat a Gerusalemme Est occupata.

Tali atti vandalici da parte dei coloni israeliani contro le comunità palestinesi sono attacchi noti come il prezzo da pagare” e sono usati per intimidire i residenti e affermare la supremazia ebraica nei territori che Israele ha occupato militarmente dal 1967.

Gli attacchi “il prezzo da pagare” sono diventati sempre più comuni in Cisgiordania.

Includono il taglio di pneumatici e le scritte con la vernice di slogan anti-arabi sulle automobili, aggressioni contro palestinesi, incendi dolosi contro proprietà e luoghi sacri e abbattimenti di alberi appartenenti a agricoltori palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Rimettete sulla mappa la Palestina” chiede Madonna

22 luglio 2020 – Middle East Monitor

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Secondo alcuni utenti delle reti sociali, durante il fine settimana la cantante, cantautrice e attrice Madonna ha manifestato solidarietà nei confronti della Palestina con una serie di post su Instagram protestando contro il fatto che su Google Maps non siano presenti i territori occupati palestinesi. La solidarietà di Madonna con la Palestina ha coinciso con la promozione di una petizione, firmata da più di un milione di persone, che chiede a Google di mettere “la Palestina sulla mappa”.

La petizione denuncia il fatto che la scelta rende Google “complice della pulizia etnica della Palestina da parte del governo israeliano.” Israele, fondato su terra palestinese, è chiaramente delimitato, ma la Palestina non compare su Google maps. “Perché no?” chiedono i firmatari.

Immagini che hanno circolato sulle reti sociali mostrano Madonna che condivide un’immagine della mappa in questione senza la Palestina, con un commento: “Google e Apple hanno ufficialmente tolto la Palestina dalle loro mappe.” Lei ha più di 15 milioni di follower su Instagram. MEMO non ha potuto verificare l’autenticità delle schermate e non ha ricevuto risposte dallo staff di Madonna riguardo alle immagini.

Va anche notato che Google Maps in precedenza non aveva la Palestina sulla mappa, aveva Gaza e la Cisgiordania come regioni, senza neppure definire la Palestina come Paese.

In un secondo post la cantante manifesta la più forte solidarietà mai espressa da lei con la causa palestinese. La sessantunenne chiede “Rimettete la Palestina sulla mappa” prima di aggiungere “#IStandWithPalestine”.

Un terzo post mostra un’immagine di Angela Davis, icona del movimento per i diritti civili americano, insieme a una citazione: “La solidarietà dei neri con la Palestina ci consente di comprendere più approfonditamente la natura del razzismo contemporaneo.”

Recentemente Davis ha spiegato perché la causa palestinese sia così importante per il movimento Black Lives Matter. Ha ricordato come gli attivisti palestinesi abbiano a lungo appoggiato la lotta dei neri americani contro il razzismo e che, quando lei è stata ingiustamente imprigionata nel 1970, la solidarietà dalla Palestina sia stata di grande conforto per lei.

In passato Madonna non è stata così disponibile ad appoggiare la causa palestinese. Nel 2019 si è rifiutata di boicottare la gara canora Eurovision, che si è tenuta in Israele: “Non smetterò mai di suonare per conformarmi al progetto politico di qualcuno né smetterò di parlare contro le violazioni dei diritti umani ovunque nel mondo,” ha detto all’epoca in un comunicato.

Nota: questa pagina è stata aggiornata il 27 luglio 2020 alle 21 per aggiungere che la petizione chiede di aggiungere, non di “rimettere”, la Palestina sulle mappe, in quanto la Palestina come Paese non compare nelle precedenti versioni di Google Maps.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Corte Suprema: Le carceri non sono autorizzate ad applicare il distanziamento sociale

Yumna Patel

24 luglio 2020 – Mondoweiss

Adalah boccia la decisione: “I prigionieri palestinesi non hanno il diritto alla protezione del distanziamento sociale contro il COVID-19”.

La Corte Suprema israeliana ha respinto una petizione che chiedeva che il Servizio Carcerario Israeliano (IPS) applicasse gli ordini di distanziamento sociale nel carcere di Gilboa, in seguito alla propagazione del coronavirus in quella prigione.

Adalah, Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba, ha inoltrato la petizione per conto delle famiglie di due prigionieri palestinesi detenuti nel carcere, che attualmente conta 30 agenti carcerari e 7 prigionieri contagiati da COVID-19, e 489 agenti e 58 prigionieri sottoposti a quarantena.

Adalah ha bocciato la decisione della Corte, che sostanzialmente ha sentenziato che “i prigionieri palestinesi non hanno diritto alla protezione del distanziamento sociale contro il COVID-19.”

Secondo l’associazione, la Corte ha accettato la versione dello Stato, che sostiene che i prigionieri palestinesi “non sono diversi dai membri di una famiglia o dai coinquilini che vivono nella stessa casa.”

Questo punto di vista, ha dichiarato Adalah, “ignora completamente il fatto che i prigionieri sono sotto costrizione e le autorità israeliane sono responsabili della loro salute e delle condizioni della loro detenzione.”

In un comunicato l’avvocatessa di Adalah Myssana Morany ha affermato: “La Corte Suprema israeliana ha scelto di accettare la finzione propostale dalle autorità israeliane secondo cui le politiche di distanziamento sociale relative al COVID-19 – essenziali per chiunque altro – non sono importanti per i “prigionieri per ragioni di sicurezza” palestinesi che (Israele) detiene dietro le sbarre”.

Morany ha espresso preoccupazione riguardo al precedente che questa sentenza creerebbe, dicendo che “essa mette a rischio la vita e la salute dei palestinesi detenuti da Israele e costituisce una minaccia per l’intera società.”

È uno schiaffo in faccia agli operatori sanitari e per i diritti umani di tutto il mondo che hanno perorato il distanziamento sociale all’interno delle carceri, e lascia i palestinesi detenuti da Israele esposti al virus senza possibilità di proteggersi”, ha detto.

La prigione di Gilboa è una delle decine di carceri e centri di detenzione che in cui sono rinchiuse migliaia di prigionieri politici palestinesi. In maggio vi erano 4.236 prigionieri palestinesi detenuti in queste strutture.

Inoltre Adalah afferma che l’IPS continua ad ignorare una precedente sentenza della Corte Suprema che stabilisce che le strutture carcerarie israeliane devono garantire uno spazio vitale di almeno 4,5 metri quadrati.

Nel carcere di Gilboa ogni cella misura circa 22 metri quadri e ospita almeno sei prigionieri, che condividono una toilette e un bagno.

Associazioni per i diritti come Adalah hanno sostenuto che le condizioni delle prigioni israeliane rendono impossibile conformarsi alle linee guida di distanziamento sociale, esponendo la salute e la sicurezza dei prigionieri ad un rischio crescente di contagio.

Nonostante il COVID-19, Israele ha continuato a condurre operazioni di perquisizioni ed arresti nei territori occupati, imprigionando negli ultimi mesi centinaia di palestinesi.

Yumna Patel è la corrispondente per la Palestina di Mondoweiss

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Perché i cittadini palestinesi si tengono fuori dalle proteste contro Netanyahu?

Yaser Abu Areesha

24 luglio 2020 – +972

Gli ebrei israeliani si stanno rendendo conto solo adesso dell’abbandono e del razzismo che hanno a lungo caratterizzato la nostra situazione.

Martedì scorso ho viaggiato fino a Gerusalemme con un amico per l’ultima di una serie di manifestazioni contro il primo ministro Benjamin Netanyahu, il governo e il sistema economico. Insieme a migliaia di dimostranti che rappresentavano un’ampia gamma di obiettivi, abbiamo camminato dalla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] alla residenza del primo ministro in via Balfour. Nonostante tutti i diversi gruppi presenti, tra i manifestanti non ho individuato nessun cittadino palestinese oltre a me, il giornalista della radiotelevisione pubblica Suleiman Maswadeh e il capo della Lista Unita [coalizione di partiti arabo-israeliani, ndtr.] Ayman Odeh.

In un mondo diverso ci saremmo aspettati di vedere una maggiore partecipazione di palestinesi in Israele a una protesta contro la fallimentare risposta del governo alla crisi del coronavirus. Dopotutto la nostra società ha subito un forte impatto dall’epidemia. Secondo i dati resi noti dal Servizio per l’Impiego israeliano, i cittadini palestinesi sono stati duramente colpiti dalle conseguenze economiche della pandemia, ed hanno costituito il 20% dell’approssimativamente 1 milione di cittadini che hanno fatto domanda di disoccupazione in marzo e aprile.

Quindi perché una lotta contro l’ingiustizia istituzionale, portata avanti da una coalizione di gruppi, non attira quelli che sono storicamente stati danneggiati da quelle stesse istituzioni? La risposta risiede nella lotta per la sopravvivenza della comunità palestinese in quanto è una minoranza nazionale marginalizzata e discriminata.

I palestinesi in Israele sono in una situazione diversa rispetto alle persone che partecipano alle attuali proteste. Dalla nostra prospettiva questa è una lotta per un cambiamento che non ci include e per cui quindi noi abbiamo scarso interesse. Di conseguenza, benché noi abbiamo un evidente interesse a spodestare Netanyahu, il nostro entusiasmo e la nostra speranza per quello che ne seguirebbe sono molto scarsi – e ci risulta indifferente chi guiderà il prossimo governo.

La storia ci ha insegnato che nessuno vuole realmente i cittadini palestinesi al tavolo di governo. La raccomandazione totalmente inutile della Lista Unita a favore di Benny Gantz, il capo del partito Blu e Bianco, perché formasse una coalizione di governo al posto di Netanyahu dimostra che il nostro status nella società israeliana non è ancora cambiato e che non facciamo parte del gioco politico.

C’è una qualche possibilità che le cose possano essere diverse? Odeh, della Lista Unita, ha diffuso immagini della protesta di martedì ed ha invitato i cittadini palestinesi a partecipare. Ma dubito che possa fare la differenza – il cambiamento avverrà solo quando saranno modificate le regole del gioco, e quando il resto dell’opinione pubblica degli ebrei israeliani riconoscerà che la società palestinese ha le proprie sofferenze e necessità. La mobilitazione deve essere basata sulla comprensione e sulla buona volontà.

Siamo una popolazione ferita. Nel corso di molti decenni, fin dalla fondazione dello Stato, le politiche governative hanno frammentato dall’interno la nostra collettività. Stiamo andando verso la catastrofe a causa dell’abbandono, del razzismo e delle discriminazioni che hanno caratterizzato la nostra situazione ben prima che la popolazione ebraica si rendesse conto che il sistema stava ingannando tutti e giocando con il futuro di tutti noi.

Tre palestinesi sono stati colpiti a morte nell’arco di 12 ore tra sabato e domenica: uno a Kufr Qasim, uno a Kufr Ibtin e uno a Tira. Anche altre due persone sono state uccise da colpi di arma da fuoco martedì. La violenza armata è diventata molto frequente.

L’uso di armi sta aumentando senza alcun controllo intorno a noi, senza che se ne veda la fine. Il sistema politico, che da molto tempo ci ha abbandonati, non sta facendo abbastanza per opporsi a questa devastante violenza e per migliorare le infrastrutture, l’economia e l’educazione nella comunità palestinese. Sentiamo spesso di spettacolari operazioni poliziesche per cercare armi e droga, ma queste notizie sono inevitabilmente seguite da un altro assassinio, da un’altra sparatoria e da ulteriore violenza, soprattutto contro le donne.

Abbiamo bisogno di un ascolto attento e di un impegno collettivo che affrontino i problemi sia a breve che a lungo termine. Abbiamo bisogno di un pensiero condiviso che prospetti un futuro per le prossime generazioni. Ma sappiamo già che nessuno nel sistema sta dando la priorità alla popolazione palestinese, non da ultimo a causa della pandemia. Chi ha il tempo per parlare di uguaglianza civile e di diritti umani?

Eppure la popolazione ebraica ha un evidente interesse nello sviluppo della comunità palestinese. I cittadini di Umm al-Fahem devono avere gli stessi diritti e le stesse opportunità dei cittadini di Herzliya [ricca città israeliana abitata quasi esclusivamente da ebrei, ndtr.]. La produttività e la prosperità dipendono dalla diversità, non dalla discriminazione.

Se i manifestanti di oggi stanno veramente pensando in prospettiva futura, allora uno sforzo congiunto è possibile. Ogni cambiamento deve andare oltre chi governa il Paese e mettere al centro le persone, costruendo un sistema che non escluda i cittadini palestinesi.

E chissà, forse le proteste di via Balfour potrebbero essere l’inizio di qualcosa di nuovo.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Come Israele ostacola le cure per il COVID-19 a Gerusalemme est

Tamara Nassar

23 luglio 2020 – Electronic Intifada

La pandemia di COVID-19 non rende tutti uguali.

Al contrario ha messo in evidenza sistemi di diseguaglianza all’interno di servizi sanitari apparentemente moderni ed ha portato sull’orlo del collasso quelli già in crisi.

Il caso della Gerusalemme est occupata è particolarmente rivelatore.

Secondo un nuovo rapporto dell’associazione palestinese per i diritti umani Al-Haq, dell’organizzazione benefica con sede in Gran Bretagna Medical Aid for Palestinians [Aiuto Medico per la Palestina] e del Jerusalem Legal Aid and Human Rights Center [Centro per l’Assistenza legale e i Diritti Umani di Gerusalemme], la pandemia ha smascherato ed esacerbato gli orrori dell’occupazione militare israeliana in città. Israele ha occupato Gerusalemme est nel 1967 e l’ha annessa formalmente nel 1980.

In base alle leggi internazionali Israele ha l’obbligo specifico di garantire la salute e altri servizi fondamentali ai palestinesi che vivono sotto il suo controllo militare.

Lungi dal rispettare questi obblighi, durante la pandemia il sistematico disinteresse e la continua violenza di Israele a Gerusalemme est sono diventati sempre più evidenti.

Israele ha adottato il solito atteggiamento quando si tratta di opprimere i palestinesi.

Le autorità israeliane non hanno tempestivamente messo in campo strutture per diagnosticare il COVID-19, non hanno fornito dati accurati e affidabili per ricostruire la diffusione del virus, hanno vessato ed arrestato attivisti sanitari palestinesi ed hanno ostacolato l’approvvigionamento dell’equipaggiamento indispensabile da parte degli ospedali.

Il rapporto afferma che “i palestinesi sono ormai mal equipaggiati per affrontare una qualunque crisi di salute pubblica, per non parlare dello scoppio di una pandemia come il COVID-19.”

Carenza di strutture diagnostiche

Ci è voluto più di un mese dal primo caso di coronavirus confermato in Israele prima che venisse allestita una struttura diagnostica a Gerusalemme est.

In seguito a pressioni legali da parte di associazioni palestinesi per i diritti umani, quella per il controllo effettuato in macchina è stata installata nel quartiere di Jabal al-Mukabbir, che si trova fuori dal muro di annessione di Israele.

Con un ritardo di circa due mesi Israele ha creato centri diagnostici al di là del muro, e ciò è stato fatto solo dopo che Adalah, un’organizzazione per i diritti umani, ha presentato una petizione alla Corte Suprema israeliana.

I ritardi nell’effettuare analisi ai palestinesi sono stati di per sé discriminatori, in quanto “in evidente contrasto con l’urgenza e la rapidità nel rispondere alle necessità della popolazione israeliana ebraica.”

I ritardi “discriminatori” sono stati probabilmente ciò che “ha dimostrato nel modo più evidente” il disinteresse di Israele nel tentare di contenere [l’epidemia].

Ma i ritardi non sono stati l’unico problema.

“Il fatto di poter fare le analisi in queste strutture è condizionato alla possibilità di avere un’assicurazione sanitaria privata israeliana, che un numero significativo di palestinesi non ha,” afferma il rapporto.

Israele fornisce cure mediche gratuite ai palestinesi ufficialmente residenti a Gerusalemme est, che rappresentano solo il 40% della popolazione.

Quando Israele occupò Gerusalemme est nel 1967 calcolò solo i palestinesi che erano fisicamente presenti in città.

Quelli che erano all’estero per qualunque ragione – compresi lavoro e studio – non vennero contati e furono “arbitrariamente privati dei loro diritti di residenti a Gerusalemme.”

Fino ad oggi per vivere nella città in cui sono nati i palestinesi devono dimostrare che il “centro della loro vita” è a Gerusalemme.

Monitoraggio decentralizzato

Il monitoraggio del numero di casi confermati a Gerusalemme est è stato un processo contraddittorio e inaffidabile.

A causa della natura dell’annessione israeliana di Gerusalemme est, il ministero della Salute israeliano è l’unico ente che abbia accesso ai dati sui palestinesi contagiati dal virus in città.

Secondo il rapporto, in assenza di dati disaggregati, il numero di casi confermati viene contato da tre diversi enti: il ministero della Salute israeliano, il Comune di Gerusalemme controllato da Israele e alcune associazioni all’interno della Jerusalem Alliance to Confront the Coronavirus Pandemic [Coalizione di Gerusalemme per Affrontare la Pandemia di Coronavirus, formata da Ong palestinesi, ndtr.].

Ciò ha creato una discordanza tra i dati, e quindi né il ministero della Salute dell’Autorità Nazionale Palestinese né l’Organizzazione Mondiale della Sanità hanno una visione chiara della gravità dell’epidemia a Gerusalemme est.

Abbandono degli ospedali e riduzione dei finanziamenti

Gli effetti dell’abbandono cronico e dell’indebolimento degli ospedali palestinesi da parte di Israele a Gerusalemme est sono diventati evidenti durante la pandemia.

Per le cure che non possono ricevere altrove i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza occupate dipendono dagli ospedali di Gerusalemme est.

A Gerusalemme est tre ospedali sono stati destinati alla cura del coronavirus: l’al-Makassed, l’Augusta Victoria e il Saint Joseph.

“La pandemia ha colpito in un momento in cui tutti questi ospedali stavano già affrontando situazioni economiche particolarmente pesanti e la riduzione cronica dei finanziamenti,” afferma il rapporto.

Nel 2018 l’amministrazione Trump ha tagliato più di 25 milioni di dollari di aiuti già stanziati per sei ospedali a Gerusalemme est.

Tutti e tre gli ospedali destinati alle cure per il COVID-19 contano in totale solo 22 ventilatori e 62 letti per i pazienti da coronavirus.

Anche se i palestinesi possono cercare di essere curati negli ospedali israeliani, “neppure la disponibilità degli ospedali israeliani esime le autorità occupanti israeliane dalla responsabilità per il deliberato indebolimento, peggioramento delle condizioni e sistematico abbandono degli ospedali palestinesi a Gerusalemme est,” afferma il rapporto.

Attaccare gli attivisti sanitari

Durante la pandemia le forze israeliane hanno continuato nei loro attacchi contro attivisti sanitari.

Israele ha sistematicamente preso di mira ed arrestato volontari che distribuivano volantini informativi in città ed hanno imprigionato palestinesi che a titolo volontario disinfettavano luoghi pubblici, come le moschee.

Le forze israeliane hanno persino fatto irruzione in una struttura diagnostica nella zona di Silwan, sostenendo inizialmente che fosse gestita da medici senza laurea, e poi adducendo come pretesto per la sua chiusura che le attività della struttura fossero supervisionate dall’Autorità Nazionale Palestinese.

Di fatto il medico che amministrava la struttura ha confermato alle associazioni per i diritti umani che hanno stilato il nuovo rapporto di essersi laureato in Israele.

“Indipendentemente dal pretesto, il fatto stesso che i palestinesi siano stati obbligati a mettere in piedi un centro per conto proprio e la sua successiva chiusura da parte della potenza occupante è una dimostrazione della notevole incapacità di ottemperare al proprio obbligo di adempiere senza discriminazioni ai diritti dei palestinesi alla salute e alla vita.”

Attualmente nella Cisgiordania occupata ci sono circa 12.000 casi confermati di COVID-19, tra cui più di 2.100 casi a Gerusalemme est.

Ci sono 75 casi confermati nella Striscia di Gaza. Finora 70 palestinesi sono morti per la malattia.

Negando le basilari cure mediche ai palestinesi – e, peggio, attaccando le loro strutture di cura – Israele ha reso inevitabile che il numero di morti sia destinato ad aumentare.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele distrugge un centro palestinese per la diagnosi del coronavirus a Hebron

Akram Al-Waara , Mustafa Abu Sneineh – Cisgiordania occupata

22 luglio 2020 – Middle East Eye

I soldati israeliani avrebbero assistito per due mesi alla costruzione di questa struttura indispensabile prima di inviare i bulldozer

Le autorità israeliane hanno distrutto un centro palestinese per la diagnosi del coronavirus che doveva fungere da guida nella città di Hebron, nel sud della Cisgiordania occupata.

La Cisgiordania fatica a contenere la seconda ondata di infezioni da coronavirus, dopo che sembrava aver avuto successo nel bloccare la pandemia con un rigido isolamento per parecchie settimane in marzo.

Hebron, la città più grande del territorio e locomotiva economica dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), è stata particolarmente colpita. Fino ad oggi nei territori palestinesi l’Autorità Nazionale Palestinese ha registrato 65 decessi legati al coronavirus.

Il Comune di Hebron ha realizzato un centro di crisi dedicato al coronavirus, ma la stigmatizzazione sociale e le difficoltà causate dall’occupazione israeliana hanno ostacolato il suo lavoro.

Raed Maswadeh, ingegnere trentacinquenne la cui famiglia possiede il terreno sul quale è stata costruita la struttura, riferisce a Middle East Eye che tre mesi fa il Comune si è rivolto ai palestinesi per raccogliere denaro per la costruzione di questo centro.

La mia famiglia ha deciso di donare il proprio terreno all’ingresso settentrionale di Hebron per costruire una clinica di tracciamento del COVID-19”, racconta Maswadeh.

È stata costruita in memoria del nonno, morto recentemente di coronavirus. Maswadeh riferisce che il progetto è costato alla sua famiglia circa 250.000 dollari.

Questo terreno si trova nella zona C, una parte della Cisgiordania sotto totale controllo di Israele, che non rilascia quasi mai i permessi edilizi agli abitanti palestinesi. I coloni israeliani nella regione invece non hanno alcun problema di questo genere.

Maswadeh dice che, come per molte strutture nella regione, hanno cominciato a costruire il centro senza il permesso edilizio.

Se lo avessimo richiesto non lo avremmo ottenuto. Pensavamo che forse, con il COVID-19, ci sarebbero state delle eccezioni”, spiega.

Strumento di pressione

Il progetto mirava ad alleviare la pressione sugli ospedali di Hebron dove vengono curati i pazienti colpiti dalla malattia, che hanno raggiunto la loro capacità massima.

Maswadeh racconta a MEE che la costruzione è stata inaugurata due mesi fa e che i soldati israeliani pattugliavano la zona. Hanno visto che i bulldozer e i materiali da costruzione entravano sul posto, ma non hanno detto niente, prosegue.

Tuttavia il 12 luglio hanno ricevuto un ordine militare, consegnato da un comandante dell’esercito israeliano, di interrompere la costruzione.

Farid al-Atrash, avvocato specializzato nei diritti umani ed attivista di Hebron, spiega a MEE che la città è stata colpita dalla crisi ed ha un disperato bisogno di questo centro.

In questo modo possiamo controllare meglio le persone che entrano ed escono da Hebron e controllare il virus”, spiega.

Secondo lui la demolizione potrebbe essere un modo per Israele di far pressione sull’ANP perché riprenda il coordinamento amministrativo, che è stato interrotto come segno di protesta contro i progetti israeliani di annessione di alcune aree della Cisgiordania.

In generale Israele complica la lotta contro il virus per i palestinesi. Dopo che l’ANP ha interrotto ogni coordinamento con Israele, gli israeliani usano ogni mezzo a loro disposizione per fare pressione sull’ANP perché lo ripristini”, sostiene.

Faranno tutto ciò che possono per renderci la vita qui ancora più difficile.”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Come i lobbysti israeliani si sono impossessati dell’eredità di Mandela

Nkosi Zwelivelile Mandela

21 luglio 2020 – Middle East Monitor

I tentativi di chi difende Israele di presentare mio nonno come un pacifista moderato è un travisamento della sua eredità

Dov’è il Mandela palestinese?” è la domanda che ho sentito spesso fare dai sostenitori di Israele. Quello che in realtà chiedono è dov’è l’equivalente palestinese di Nelson Mandela – un uomo che, secondo quello che credono, offrì solo ramoscelli d’ulivo e dialogo. Dov’è la versione palestinese di Mandela che – nella loro immaginazione – adorava tanto il proprio oppressore da essere disposto a riconciliarsi con lui condizionatamente?

I gruppi di pressione di Israele – sia in Sudafrica come nel resto del mondo – hanno risuscitato mio nonno come pacifista moderato che ha fatto la pace con i suoi nemici in modo benevolo. Ridurre la vita di Rolihlahla (secondo nome di Nelson Mandela, che significa “quello che sradica”) a pacificatoria e riconciliatrice è una deliberata distorsione della sua eredità.

Il presidente Mandela fu all’altezza del suo secondo nome. Fu un rivoluzionario, intellettuale e combattente per la libertà. La sua vita fu dedicata a resistere all’oppressione e a riconquistare la dignità. La forma di resistenza che difendeva era definita dall’oppressore. “ E’ assolutamente inutile che continuiamo a parlare di pace e nonviolenza contro un governo che risponde solo con brutali aggressioni,” affermò Mandela nel maggio 1961, sette mesi prima di diventare il primo comandante del neonato braccio armato del Congresso Nazionale Africano, chiamato uMkhonto we Sizwe [Lancia della Nazione].

Tuttavia quando i sostenitori di Israele parlano di Nelson Mandela si concentrano esclusivamente nel suo messaggio di dialogo e riconciliazione. Di conseguenza la storia della transizione di Madiba e del Sudafrica alla democrazia si riduce a un raccontino per bambini del perdono, invece che una lunga e dura – a volte rabbiosa – cronaca di giustizia e libertà. Il dialogo, il perdono e la riconciliazione debbono tornare ad essere inseriti nel contesto e nel luogo come meritano nella storia di Mandela e del Sudafrica.

La causa di Mandela non era pace e riconciliazione, ma giustizia e liberazione. La riconciliazione e il perdono sono arrivati dopo che si è ottenuta la liberazione. Prima Nelson Mandela considerava qualunque forma di “riconciliazione” con l’oppressore come una sottomissione e uno strumento di cooptazione per ingabbiare il movimento di liberazione.

Né gli alleati del Sudafrica nel movimento mondiale contro l’apartheid ci hanno mai chiesto di fare la pace con i nostri oppressori prima di ottenere la liberazione. Chiedere ai sudafricani di dialogare con il governo dell’apartheid nel contesto del brutale stato di polizia caratterizzato dalla spoliazione implacabile, dalle restrizioni contro la libertà di movimento, dalla repressione violenta delle proteste e dalla detenzione senza processo, avrebbe significato chiederci di collaborare con i nostri oppressori. Il mondo non ci ha mai chiesto né si è aspettato questo dai sudafricani, ma lo chiede ai palestinesi che vivono la stessa, se non peggiore, condizione.

Il Mandela che perdona è adorato in particolare dai gruppi di pressione israeliani. Si dilettano a raccontare di come si conquistò la fiducia dei suoi nemici, o prese il tè con Betsie Verwoerd, la vedova dell’architetto dell’apartheid, Hendrik Verwoerd. Gli apologeti di Israele vogliono che il mondo creda che, appena Nelson Rolihlahla Mandela venne liberato, abbandonò la lotta armata ed iniziò tranquillamente negoziati con il governo dell’apartheid, senza prerequisiti né precondizioni.

Persino dopo 27 anni di prigione, quando venne liberato, Mandela offrì dialogo, non violenza,” dice lo scrittore sudafricano [israeliano di origini sudafricane, ndtr.] Benjamin Pogrund. Non è vero.

Il giorno in cui venne liberato dalla prigione, Nelson Mandela disse: “I fattori che hanno reso necessaria la lotta armata continuano tuttora ad esistere. Non abbiamo altra opzione che continuare. Manifestiamo la speranza che presto si determini un clima propizio per un accordo negoziato, in modo che la lotta armata non sia più necessaria.”

Mandela non iniziò negoziati mentre i negri sudafricani erano ancora spogliati e perseguitati violentemente, o mentre i dirigenti della nostra liberazione erano in carcere, torturati ed assassinati. “La continuazione dei negoziati e la retorica sulla pace mentre contemporaneamente il governo sta portando avanti una guerra contro di noi è una posizione che non possiamo accettare,” dichiarò Madiba nel settembre 1990 davanti all’allora Organizzazione dell’Unità Africana (OUA).

Prima che Mandela iniziasse i negoziati c’erano condizioni fondamentali che dovevano essere rispettate. Esse includevano la fine della spoliazione e della violenza organizzate dallo Stato contro i negri sudafricani, la liberazione dei prigionieri politici e il ritorno degli esiliati. Quando i palestinesi chiedono le stesse condizioni prima di iniziare trattative vengono definiti irragionevoli e cocciuti.

I difensori di Israele sono convinti che i palestinesi siano il contrario di quello che rappresentava Mandela. Quando i palestinesi resistono ad essere cooptati da Israele, gli si dice che Madiba non si sarebbe mai comportato così.

Secondo loro Mandela, a differenza di Yasser Arafat, avrebbe accettato i posti di controllo, la costruzione di colonie illegali e sette anni di negoziati infruttuosi durante gli accordi di Oslo e Camp David.

Nella loro immaginazione Nelson Mandela, a differenza di Mamhoud Abbas, avrebbe accettato l’accordo segreto del 2008 di Ehud Olmert del bantustan [territori che nel Sudafrica dell’apartheid erano autonomi e gestiti da “governi” dei neri sudafricani, ndtr.] palestinese, abbozzato in fretta e furia su un tovagliolo. I Madiba che hanno creato non avrebbero mai rifiutato l’“accordo epocale” di Israele per uno Stato palestinese smilitarizzato con i suoi principali centri abitati separati tra loro e con Israele che avrebbe controllato gli spostamenti tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, lo spazio aereo palestinese, la sua politica economica ed estera, le risorse idriche e le frontiere.

Il Mandela che hanno in testa i sostenitori di Israele sarebbe sempre stato disponibile ad arrivare a compromessi sulla giustizia e la dignità. In vero Mandela, tuttavia, rifiutò varie “offerte generose” del governo dell’apartheid, tra cui l’immediata liberazione se avesse rinunciato alla lotta armata, ai diritti del suo popolo e si fosse limitato al Bantustan Traskei.

I sostenitori di Mandela il Perdonatore dimenticano che Madiba non cedette mai su nessun argomento che compromettesse il suo obiettivo finale: la liberazione dei sudafricani. Durante i negoziati lui e i suoi compagni, come i palestinesi, spesso preferirono non arrivare ad alcun accordo che non rispettasse almeno la dignità e i diritti umani.

Negli ultimi vent’anni Israele non ha mai avviato conversazioni di pace per negoziare realmente con i palestinesi. Ha utilizzato il processo di pace come un giochetto per tenere occupati (letteralmente e in senso figurato) i palestinesi, mentre rafforzava con la violenza l’occupazione della Cisgiordania e intensificava l’assedio di Gaza. Però, finché il “processo di pace” continua, Israele può mettere a tacere gli appelli al boicottaggio. Ciò sarà più difficile da fare ora che i dirigenti israeliani discutono apertamente dell’annessione, ammettendo che non ci sarà mai uno Stato palestinese.

In Palestina – Israele c’è più che mai bisogno dell’eredità di Nelson Mandela, non per predicare perdono e riconciliazione, ma per elaborare soluzioni politiche radicate nella giustizia e nella dignità. La principale lezione che Israele e i suoi sostenitori possono imparare dalla vita di Nelson Mandela è che la pace, il perdono e la riconciliazione si otterranno solo quando tutti godranno della giustizia, della libertà e della dignità.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

Nkosi Zwelivelile Mandela è un deputato sudafricano e nipote di Nelson Mandela.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




La vendetta contro i palestinesi è giustificabile, afferma un giudice israeliano nell’assolvere i due agenti di sicurezza che hanno assalito un uomo innocente

Jonathan Ofir

21 luglio 2020 – Mondoweiss

Ieri un incredibile verdetto è stato pronunciato dal tribunale distrettuale di Beersheba in Israele.

Due agenti di sicurezza israeliani sono stati assolti in una causa relativa al linciaggio di Haftom Zarhum, un rifugiato eritreo, nonostante fossero stati ripresi mentre lo picchiavano e lo colpivano ripetutamente alla testa con una panca. Il giudice ha addotto il “ragionevole dubbio”.

Il linciaggio dell’ottobre 2015 da parte di una folla assetata di sangue è stato parte di una serie di episodi di “errore di identificazione” in Israele. In effetti in precedenza si era verificato un attacco terroristico alla stazione centrale degli autobus di Beersheba; un uomo non identificato di un villaggio beduino del Negev aveva aperto il fuoco, uccidendo un soldato e ferendo altre 11 persone.

Zarhum passava di lì ed è stato scambiato da un agente di sicurezza per l’assalitore perché aveva la pelle scura. Un portavoce della polizia ha dichiarato dopo l’accaduto: “Non è chiaro se [Zarhum] sia coinvolto nell’episodio o se gli abbiano sparato a causa del suo aspetto esteriore”.

Gli hanno sparato 8 colpi. Sebbene Zarhum fosse stato reso inoffensivo, la folla ha continuato a picchiarlo duramente, gridando “Terrorista!”, “Uccidetelo!”, “Rompetegli la testa, figlio di puttana!”. I due ufficiali si trovavano tra la folla. Il Times of Israel osserva:

L’accusa afferma che nelle fasi successive all’assalto [il soldato Yaakov] Shimba ha sferrato con forza un calcio a Zarhum alla testa e alla parte superiore del corpo. Pare che [l’ufficiale dei servizi penitenziali Ronen] Cohen gli abbia scagliato addosso una panca, e dopo che un altro uomo l’ha rimossa, l’avrebbe riafferrata per scagliarla nuovamente sull’uomo inerte.”

L’accusa afferma che, sebbene Zarhum risultasse tra i feriti più gravi nei tafferugl, sia stato condotto in ospedale solo dopo che tutti gli altri feriti erano stati evacuati (secondo Haaretz).

Gli autori del linciaggio hanno esultato per l’assassinio in diretta televisiva, quando ancora credevano che Zarhum fosse quello che aveva sparato.

È importante evidenziare che l’autopsia ha concluso che Zarhum è morto a causa delle ferite da arma da fuoco, non delle percosse, ma che le percosse erano gravi. L’accusa ha affermato che “gli imputati hanno commesso gravi atti di violenza nei confronti del defunto cittadino Haftom Zarhum, a cui avevano già sparato, che era ferito e perdeva molto sangue, per motivi di vendetta e al fine di scaricare la propria rabbia e non, come gli imputati hanno dichiarato, per auto-difesa”.

In origine in questo processo erano sotto accusa quattro persone, tra cui due civili. I civili nel 2018 hanno sottoscritto un patteggiamento che ha declassato l’accusa da “procurate lesioni con grave dolo” (che comporta un potenziale carcere di 20 anni) ad “abuso su incapace”. Uno di loro è stato condannato a quattro mesi di prigione e l’altro ha ricevuto 100 giorni di servizio comunitario e otto mesi di libertà vigilata e gli è stato ordinato di pagare un risarcimento di 2000 shekel [circa 470 euro] alla famiglia di Zarhum.

Ma gli agenti di sicurezza non hanno richiesto un patteggiamento, si sono dichiarati non colpevoli e hanno ottenuto l’assoluzione dal giudice.

Il giudice Aharon Mishnayot ha una lunga esperienza come consulente legale e giudice militare (dal 1990, giudice dal 1998), e ha trascorso l’ultima fase della sua carriera militare dal 2007 al 2013 come primo giudice dei tribunali militari nella Cisgiordania occupata.

Il giudice ha dichiarato che, dopo aver visto le prove era “certo che gli imputati fossero convinti che il defunto fosse uno dei tanti terroristi”, che gli attacchi (soprattutto da parte di lupi solitari) all’epoca avevano “creato tra la gente un’atmosfera di paura e panico” e che non poteva “ignorare il collegamento di quanto accaduto ai frequenti eventi terroristici succedutisi in quei giorni nello Stato prima del fatto in questione e le implicazioni che tutto ciò poteva avere sullo stato di sensibilità delle persone coinvolte”.

Ma gli imputati non stavano rispondendo a una minaccia alla sicurezza in quanto tale. Stavano agendo per vendetta. Il giudice suggerisce quindi che la mera vendetta nei confronti degli attacchi palestinesi sia una circostanza attenuante.

Di fronte all’affermazione dell’accusa secondo cui gli imputati erano in grado di distinguere tra “neutralizzare un terrorista, o tale in apparenza, e aggredire una persona innocente”, il giudice ha aggiunto di avere “paura che tale valutazione sia giusta nel contesto di una condizione utopica, in cui si possa facilmente distinguere tra bene e male e tra amico e nemico, ma sia in contrasto con la realtà effettiva e con il mondo reale e non rifletta correttamente le complesse circostanze della difficile situazione in cui sfortunatamente le persone nella stazione centrale, compresi gli imputati, si sono trovate la sera dell’assalto.

Quindi gli autori del linciaggio, e in particolare gli agenti di sicurezza, sarebbero semplicemente stati, secondo il giudice, essi stessi delle vittime, vittime di una “sfortunata circostanza”.

Ma che dire di Zarhum? Non è stato forse lui la vittima e in maniera più agghiacciante di questa “sfortunata congiuntura”? E gli autori del linciaggio non sono stati particolarmente determinanti perché questa congiuntura letale si verificasse? Dopotutto era solo un passante, ucciso per il colore della sua pelle.

E cosa accadrebbe se dei palestinesi, ad esempio, si comportassero come hanno fatto gli imputati?

Alma Bilbash [esponente dell’organizzazione Human Rights Defenders Fund, ndtr.] ha citato un caso paragonabile sulla sua pagina Facebook: nel 2005 un soldato israeliano, Eden Nathan Zada, ha aperto il fuoco su un autobus nel villaggio palestinese-israeliano di Shefa-Amr, uccidendo quattro [viaggiatori] e ferendone dodici. Dopo essere stato catturato e ammanettato, è stato picchiato a morte dalla folla. Quindi qui abbiamo a che fare con un vero e proprio attacco terroristico, con conseguente linciaggio del terrorista.

Mettiamo da parte la struttura asimmetrica del potere dei palestinesi in Israele nel confronto con lo Stato ebraico. Alla fine, sei palestinesi con cittadinanza israeliana sono stati condannati, quattro per tentato omicidio colposo, due per percosse aggravate. Tre di loro sono stati condannati a due anni di prigione, gli altri a 20, 18 e 11 mesi di prigione.

Orly Noy [redattrice di Local Call, sito israeliano di notizie politiche, e attivista dell’Ong B’Tselem, ndtr.] cita nel suo post di Facebook un altro parallelo, il caso del 2015 di Shlomo Haim Pinto, un ebreo israeliano che, in seguito ad una “chiamata spirituale” ha preso la decisione di pugnalare un palestinese in un supermercato, ma ha scambiato Uri Razkan, ebreo mizrahi [cioè originario di un Paese arabo o musulmano, ndtr,], per un palestinese, lo ha pugnalato e gli ha causato ferite leggere. Pinto è stato condannato a 11 mesi di carcere.

Noy chiarisce che Pinto è andato in prigione solo perché la sua vittima era ebrea. Se Razkan non fosse stato ebreo, è possibile presumere che il giudice Mishnayot del caso Zarhum avrebbe assolto Pinto a causa di “ragionevoli dubbi”. Lei riassume così la “piramide della razza dominante”:

Se sei un uomo dalla pelle scura, ti trovi, per definizione, in un gruppo a rischio. Il colore della tua pelle ti segnala come bersaglio. Se sei ebreo e il tuo assassino è in uniforme, otterrai una copertura mediatica, ma dimenticati la giustizia o una condanna. Se non sei ebreo e il tuo assassino indossa l’uniforme, ringrazia se non verrai dichiarato terrorista post mortem. Se sei ebreo e il tuo aggressore non è un ebreo in uniforme, c’è la possibilità che paghi per le sue azioni. Se non sei ebreo e il tuo assalitore è un ebreo non in uniforme, la tua famiglia otterrà 2000 shekel [505 euro, ndtr.] per il tuo funerale. Se sei palestinese, indipendentemente dal fatto che il tuo assassino indossi l’uniforme o meno, stai sicuro che verrai dichiarato terrorista dopo la tua morte”.

Nel commentare il verdetto di ieri, l’avvocato di Ronen Cohen, Zion Amir, ha affermato che Cohen è un eroe:

Non c’è dubbio che questo è un grande giorno per un ufficiale che ha agito eroicamente durante l’accaduto, e invece di un premio ha ottenuto un atto d’accusa. Sono contento che il tribunale lo abbia assolto dopo una battaglia legale di quasi cinque anni “.

Cohen non sarebbe l’unico eroe nell’uccisione di Hafton Zarhum. Il soldato e compagno imputato Yaakov Shimba, secondo il generale israeliano (riservista) Gershon Hacohen, avrebbe meritato per il suo comportamento una medaglia d’onore. Hacohen ha testimoniato nel processo due anni fa e pur ammettendo di non aver nemmeno letto le accuse ha affermato che processare il soldato fosse “immorale” e che il soldato fosse “degno di rispetto” poiché “non ha sparato un proiettile”. (nemmeno l’assassino di George Floyd, Derek Chauvin, osserva Edith Breslauer su Facebook.)

Un altro generale che ha testimoniato nel 2018, Dan Biton, ha affermato che il soldato avrebbe agito “con calma” anche quando ha maledetto Zarhum.

“Proveniva dalla Golani (brigata di fanteria), quindi non ho bisogno di aggiungere altro. Se fosse appartenuto all’Armeria non sarebbe stato così. È la calma (nel maledire) che è tipica di quelli della Golani. Chi proviene dalla Golani maledice istintivamente. Alla fine, dopo aver verificato lo svolgersi dettagliato dei fatti, ha agito con calma”.

Immaginate come sarebbe andata se Shimba avesse avuto una brutta giornata. Per il generale Biton è stata una buona giornata, dopo tutto.

Non c’è alcun dubbio che Haftom Zarhum sia stato linciato. Non vi è certamente alcun dubbio che i due imputati abbiano svolto un ruolo decisivo nel suo linciaggio. Ma poiché sospettavano che Zarhum fosse un terrorista, sebbene non lo avessero visto ammazzare neanche una mosca né rappresentare alcun tipo di pericolo per loro, in realtà era innocuo, la loro sanguinaria vendetta era “ragionevole”. Ecco cos’è il “ragionevole dubbio”, nella neolingua israeliana.

Un particolare ringraziamento a Ofer Neiman [impegnato attivista israeliano a favore dei diritti civili dei palestinesi, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




‘Povertà estrema’: durante la pandemia i beduini in Israele lottano per sopravvivere

Suha Arraf 

21 luglio 2020 – +972

Dopo anni di incuria governativa, la crisi del coronavirus ha peggiorato la situazione dei beduini del Naqab, facendo precipitare nella più profonda miseria una comunità una volta autosufficiente.

Ci sono stati giorni in cui non avevo niente da mangiare per i miei sei bambini,” dice A., che abita a Rahat, cittadina beduina nel sud di Israele. “Preparavo per loro tè e pane dicendo che era tutto quello che avevamo. Sono dei bravi bambini che si accontentano di poco.”

La crisi del COVID-19 ha colpito tutti in Israele e Palestina, ma i beduini del deserto del Naqab (Negev) cittadini di Israele, molti dei quali ben prima della pandemia vivevano in povertà, afflitti da un elevato livello di disoccupazione sono probabilmente nella situazione peggiore.

Kheir Al-Bazz, un assistente sociale e presidente di AJEEC-NISPED, un’ONG di Be’er Sheva impegnata in cambiamenti sociali e nella promozione della collaborazione tra arabi ed ebrei, dice che la disoccupazione nel Naqab è fra le più elevate in Israele. “Anche prima del coronavirus era del 30% tra gli uomini e dell’80% tra le donne. Non abbiamo ancora delle statistiche accurate, ma secondo le mie stime questi numeri sono raddoppiati.”

Stando alle cifre fornite dall’Istituto nazionale per la previdenza sociale israeliano, dal 2018 una famiglia su due nel Negev vive sotto la soglia di povertà. La situazione non è aggiornata e probabilmente vedremo i risultati fra pochi mesi. La gente ha usato i pochi soldi rimasti e oggi sta raschiando il fondo del barile. 

Suliman Al-Qarini che per 20 anni ha fatto l’assistente sociale e oggi è il vicepresidente dell’ufficio del welfare nel Negev dice che “prima della crisi due terzi delle famiglie arabe nel Negev viveva sotto la soglia di povertà. Oggi è probabile che siano l’85%.”

Di anno in anno mi contattano sempre più persone,” continua Al-Qarini. “Noi ci consultiamo con loro su come garantire i loro diritti presso l’Istituto nazionale per la previdenza sociale e il Centro per l’impiego israeliano e per far sì che completino gli studi superiori e seguano dei corsi. Nella sola città di Rahat, su 70.000 abitanti abbiamo 5.500 casi di famiglie seguite dai servizi sociali.”

In questi tempi di coronavirus abbiamo aperto un numero verde,” dice Al-Qarini. “Nella prima settimana abbiamo ricevuto centinaia di chiamate, famiglie di cui non conoscevamo l’esistenza, autisti di autobus, operai di fabbriche che hanno chiuso… Tutti implorano aiuto.”

Capisco benissimo le loro necessità. Sono cresciuto come loro. Nel Naqab, con 5.000 shekel [circa 1.200 € ] al mese vivono in 10. La gente non può comprarsi i vestiti. Non hanno auto, vacanze, pasti caldi o Internet. So di molte famiglie che non possono permettersi di mangiare carne, solo nelle festività qualcuno regala loro un pezzettino di carne.

Al-Qarini è cresciuto, con 15 fratelli, in una famiglia povera. Suo padre era un manovale a malapena in grado di mantenere la famiglia. Al-Qarini e i fratelli sono convinti che il loro passaporto per uscire dalla povertà sia stato l’istruzione superiore: 11 si sono laureati e due sono diventati medici.

Siamo andati a trovare una famiglia che vive in un appartamento senza la porta d’ingresso né mobilio. In un altro caso non avevano neppure i soldi per portare i figli dal barbiere. Ci sono centinaia di famiglie che vivono stabilmente così. Immaginatevi cosa sta succedendo durante il coronavirus.”

Tragica’ situatione nei villaggi non riconosciuti

Al-Bazz di AJEEC-NISPED dice che, senza donazioni, molti soffriranno la fame. “C’erano molte donazioni e pacchi di cibo che la gente riceveva tramite il Movimento Islamico [organizzazione politica e assistenziale dei palestinesi con cittadinanza israeliana, ndtr.] e altre organizzazioni. Dato che siamo un ente no-profit, abbiamo formato un comitato di emergenza con cui molte organizzazioni possono collaborare per distribuire donazioni e aiuti.

Abbiamo persino ricevuto dei fondi dal Comando del fronte interno delle Forze di difesa israeliane,” continua al-Bazz. “L’ufficio del welfare ha distribuito alle famiglie bisognose dei buoni spesa e a chi ha perso temporaneamente il lavoro per la pandemia sono stati dati gli assegni sociali.

Ci appoggiamo e ci sosteniamo l’un l’altro, ma questa non è la soluzione,” aggiunge. “Negli ultimi sei mesi i nostri figli non hanno studiato perché nella maggior parte delle case non ci sono internet, elettricità o computer. Ne pagheremo le conseguenze per molti anni.”

Al-Bazz fa inoltre notare che il governo, nel bel mezzo di una crisi economica, ha sospeso i fondi dei progetti destinati allo sviluppo del Naqab. “Adesso lo Stato ha la scusa per interrompere gli investimenti per cui abbiamo lottato per anni,” dice.

Le decisioni del governo su tali progetti dovevano essere messe in atto entro la fine del 2021 e includevano investimenti nei comuni e nei villaggi riconosciuti, continua al-Bazz. Ora, comunque, c’è il pericolo che nel Naqab la maggior parte di queste iniziative non sia avviata.

La condizione dei villaggi non riconosciuti del Naqab, dove sta quasi la metà della popolazione beduina, è molto peggiore. Oltre a vedersi negare servizi essenziali come acqua, elettricità e strade decenti, questi villaggi vivono sotto minaccia costante di essere demoliti e sgomberati dallo Stato.

Alcuni abitanti dei villaggi non riconosciuti hanno perso il lavoro e non hanno alcun reddito, dice al-Bazz e, fino a quando i villaggi non sono riconosciuti, il loro futuro resterà preoccupante. Negare dei servizi pubblici come il trasporto significa anche che gli abitanti non hanno modo di recarsi al lavoro se non hanno un’auto o altri mezzi di locomozione.

La situazione dei villaggi non riconosciuti è tragica,” dice al-Qarini. “Le persone più colpite sono minori e donne, quelle che non ricevono aiuti dallo Stato, come pensioni di anzianità e invalidità, indennità di disoccupazione o contributi di previdenza sociale.”

Povertà estrema’

A., che ha sei bambini e un marito disoccupato, una volta lavorava come collaboratrice in un asilo si guadagnava un piccolo salario. Ora dice che tutta la famiglia vive in “povertà assoluta.”

Mi arrangio con farina, olio e pomodori,” dice. “Sforno 35 pita [tipico pane arabo, ndtr.] ogni due giorni e preparo lo shakshuka, un piatto semplice di uova e pomodori. Mangiamo raramente carne, solo nelle feste o poche volte l’anno. I miei figli non sanno cosa sia la frutta.”

La pandemia ha peggiorato la situazione, dice A., e l’ha costretta a chiedere soldi in prestito per comprare da mangiare per i bambini che adesso sono a casa tutto il giorno. Dall’ufficio del welfare riceve piccoli pacchi di cibo e buoni acquisto. “Se la situazione continua così sarà il suicidio. Non ho idea di cosa farò.”

Muhammad abita ad Abu Tlul e fino allo scoppio della pandemia lavorava nei trasporti. Sua moglie non lavora, ma i loro otto figli sopravvivevano con il suo salario. Tuttavia non guadagnava abbastanza da poter risparmiare e non può chiedere l’indennità di disoccupazione perché non aveva un lavoro regolare.

Muhammad e la sua famiglia ricevono ogni mese pacchi di cibo dal Movimento Islamico, ma dice che non bastano per tutti. “Mi vergogno a chiedere,” continua Muhammad. “Non sono un mendicante. Non mi sono registrato con il comitato per l’emergenza, ma qualcuno ha detto loro della nostra situazione e ci hanno mandato pacchi di viveri. Mi sarei sotterrato dalla vergogna, ma avevo bisogno di aiuto.

Non ho idea di cosa succederà se la situazione continua,” aggiunge. “Pensavo di vendere la mia Ford, ma è parecchio vecchia e non prenderei molto. E come potrò lavorare dopo il coronavirus se non ho la macchina? Ho paura e non riesco a dormire.”

Dall’autosufficienza alla dipendenza

La comunità araba del Naqab è una delle più povere del Paese,” dice al-Bazz. Dall’essere storicamente un gruppo autosufficiente che viveva del cibo che produceva, in vent’anni dall’istituzione dello Stato di Israele, i beduini palestinesi nel Naqab “hanno subito un drastico cambiamento — da una società produttiva a una bisognosa e persino dipendente da altri,” spiega. 

Il cambiamento è dovuto alle politiche israeliane del territorio, che considerano proprietà statali le terre beduine nel Naqab “che devono essere liberate dagli arabi,” dice al-Bazz. “Sono stati costruiti villaggi e città per concentrare la gente in zone residenziali.” Con il risultato, aggiunge, che un’intera comunità ha subito trasformazioni economiche e lavorative per cui non era preparata.

I palestinesi del Naqab hanno poi perso tutte le loro risorse senza che fossero dati loro degli strumenti per uno stile di vita completamente diverso. “La gente è diventata dipendente dall’assistenza sociale e dai sussidi e c’è molta disoccupazione. E il cambiamento dello stile di vita ha fatto salire le spese per la casa, improvvisamente ci sono tasse sulle abitazioni, bollette di acqua e luce. Bisogna comprare cibo, abiti, telefonini, spendere nei trasporti, ecc.”

Al-Bazz sottolinea che questi cambiamenti sono stati imposti alla popolazione, e quello che normalmente si sarebbe sviluppato nel corso di secoli è stato forzatamente compresso in 20 anni.   

Noi siamo arrivati a Rahat da al-Razuq nel 1978,” dice Suliman al-Qarini. “Non c’era nessun tipo di formazione. Chi aveva allevato animali nel deserto non poteva farlo nei propri appartamenti e non aveva altre professioni. Non c’erano neppure fondi come quelli che ricevono le moshav [cooperative di agricoltori ebrei israeliani] nel Naqab. Hanno portato gente a Rahat senza alcuna infrastruttura, neppure i trasporti pubblici che sono arrivati solo nel 2005.” 

Anche al-Bazz sottolinea questo punto. “Il tributo psicologico ed economico pagato per questo cambiamento è stato profondo. Viviamo nel ciclo della povertà. Anche se guadagno 10.000 shekel [circa 2.400 €] al mese restò povero, perché vivo in una società povera.”

C’è ancora molto da fare ’

Il Naqab sta ufficialmente su uno dei livelli più bassi della scala socio-economica del Paese, dice Hanan Alkrenawi. Con una qualifica da assistente sociale, cinquantenne di Rahat, è ora la manager delle pubbliche relazioni di Rayan, il centro per l’impiego con sede nel Naqab, istituito nel 2008 per aiutare gli abitanti a riqualificarsi e trovare lavoro. Il centro offre corsi professionali e di ebraico, e valuta le necessità della formazione in base a quelle del mercato del lavoro. 

Dieci anni fa gli israeliani non erano entusiasti all’idea di assumere arabi del Naqab,” spiega. “Le sole alternative di impiego erano le scuole e gli uffici comunali. Non c’erano abbastanza insegnanti, né abbastanza attività commerciali e industrie, così molti si sono rivolti all’assistenza sociale e ricevevano un introito garantito. Le donne dipendevano finanziariamente dagli uomini.

C’è stata una specie di trasformazione nel 2010,” continua Alkrenawi. “Le donne hanno capito di essere oppresse dal punto di vista economico e a Rahat hanno cominciato a studiare ed entrare nel mondo del lavoro. Hanno cominciato come contoterziste e hanno assunto altre donne per lavorare come contadine. Lavoravano in nero e guadagnavano solo 100-120 shekel [da 25 a 30 €], così Rayan le ha aiutate a trovare posti di lavoro e il rispetto dei propri diritti.”

Alkrenawi aggiunge che negli ultimi anni Rayan si è concentrata specialmente nell’aiutare donne: “Se il Naqab sta in fondo alla scala, allora le donne stanno al fondo del fondo.”

Anche l’istruzione superiore è un fattore chiave nel migliorare l’accesso delle donne al lavoro, dice al-Bazz. “Solo il 10% dei nostri giovani continua gli studi e due terzi sono donne. Entrano nel mondo accademico perché per loro è un rifugio, permette di andarsene di casa e sfuggire alla loro attuale situazione.”

Al-Qarini aggiunge che le donne che vogliono entrare nella forza lavoro incontrano altri problemi. Sebbene i villaggi riconosciuti abbiano accesso al servizio di trasporto pubblico, se si perde quell’autobus non ci sono altri mezzi per andare al lavoro. I villaggi non riconosciuti invece non hanno trasporti pubblici, solo Rahat ha un servizio regolare di autobus.

Il Naqab è sempre stato trascurato e il coronavirus ha peggiorato la situazione,” dice Alkrenawi. “La disoccupazione ha raggiunto i laureati. Le donne che riescono a terminare i propri studi con successo devono poi camminare ore per andare al lavoro. Ci sono dottori e avvocati impiegati in agricoltura o nelle costruzioni. Per i giovani è deprimente. Nel corso degli anni abbiamo avuto molti successi, ma c’è ancora tanto lavoro da fare e tanta strada da percorrere.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)