“Dai da mangiare a un beduino”: video razzista israeliano suscita indignazione

Redazione di Palestine Chronicle

13 luglio 2020 – Palestine Chronicle

Riprese video diventate virali sulle reti sociali mostrano il conduttore di un popolare spettacolo televisivo israeliano per bambini che viaggia con la sua famiglia nel deserto del Naqab (Negev) e che dà da mangiare a due bambini palestinesi come se si tratti di animali da zoo.

Il video mostra Roy Oz (noto anche come Roy Boy) che apre il finestrino della sua macchina mentre tiene in mano un biscotto. Poi lui agita il biscotto davanti a due bambini palestinesi di una comunità beduina mentre chiede a suo figlio: “Ariel, vuoi dar da mangiare a un beduino?”

“Diamo da mangiare a un beduino. Non volete dare da mangiare a un beduino?” dice ripetutamente Oz ai suoi figli sui sedili posteriori.

Il video ha provocato un’immediata indignazione tra gli attivisti per i diritti umani, con molte critiche nei confronti del razzismo istituzionalizzato in Israele.

In un post su Facebook Oz ha affermato che il video era stato realizzato cinque anni fa durante un viaggio di famiglia. Non è chiaro come le immagini vergognose siano filtrate sulle reti sociali.

Atia al-Asem, capo del consiglio regionale dei villaggi palestinesi nel Naqab, ha manifestato indignazione riguardo al video, affermando che i beduini sono trattati dagli israeliani come se fossero “scimmie”

Il deputato arabo del parlamento israeliano (la Knesset) Ahmad Tibi ha descritto il comportamento di Oz come “il peggior comportamento umano, di una brutalità razzista e ignobile.”

Il giornalista e redattore palestinese di Palestine Chronicle Ramzy Baroud ha affermato: “Le migliaia di palestinesi che stanno ancora vivendo nel deserto del Naqab sono state sottoposte a una costante campagna israeliana di disumanizzazione, razzismo e pulizia etnica.”

“Il razzismo e la pulizia etnica delle comunità beduine palestinesi vanno di pari passo,” ha aggiunto Baroud. “Il video di Oz non può essere visto separatamente dai progetti del governo israeliano di rinchiudere i palestinesi nel Naqab in comunità isolate e povere per far posto allo sviluppo di zone residenziali per soli ebrei.”

“Perché questo sinistro scenario avesse successo i beduini palestinesi dovevano essere disumanizzati dal sistema politico e mediatico israeliano. Il video di Oz è una semplice manifestazione di questa indignante situazione.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 30 giugno – 13 luglio 2020

In Cisgiordania, il 9 luglio, nei pressi del villaggio di Kifl Haris (Salfit), le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un palestinese di 33 anni e ferendone un altro.

Fonti ufficiali israeliane hanno riferito che i soldati hanno aperto il fuoco contro due palestinesi visti lanciare una bottiglia incendiaria contro una postazione militare; uno dei due è stato ferito, mentre l’altro è fuggito. Successivamente il ferito [forse già morto] è stato prelevato da un’ambulanza palestinese. Fonti palestinesi hanno affermato che l’uomo rimasto ucciso era un passante. Le autorità israeliane hanno aperto un’indagine. Questo episodio porta a 17 il numero di palestinesi uccisi in Cisgiordania dalle forze israeliane dall’inizio del 2020. Un altro palestinese è stato colpito e ferito da forze israeliane durante scontri scoppiati dopo il funerale dell’uomo ucciso. Un cancello all’ingresso principale di Kifl Haris, che era stato chiuso il giorno prima dell’accaduto, è rimasto chiuso fino al 12 luglio, ostacolando gli spostamenti degli oltre 4.300 residenti [palestinesi].

Sempre in Cisgiordania, in numerosi scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane altri 72 palestinesi [segue dettaglio]. Quaranta di questi feriti si sono avuti durante operazioni di ricerca-arresto condotte nella città di Abu Dis (Gerusalemme), nel quartiere di Al ‘Isawiya (Gerusalemme Est) e nella città di Nablus. Complessivamente, in tutta la Cisgiordania, ci sono state 150 operazioni di questo tipo, il 30% delle quali compiute a Gerusalemme Est e dintorni. Altri 30 feriti sono stati segnalati durante varie proteste contro attività riferibili a coloni: ad ‘Asira ash Shamaliya (Nablus), contro la creazione di un nuovo avamposto colonico in prossimità del villaggio; a Biddya (Salfit) per protestare contro i continui attacchi ad agricoltori (vedi sotto); a Kafr Qaddum (Qalqiliya), contro le restrizioni di accesso di lunga data e contro l’espansione degli insediamenti colonici nell’area. Nella città di Hebron, un palestinese è rimasto ferito durante una protesta contro il Piano di annessione previsto da Israele, e un altro è stato ferito nel governatorato di Tulkarm, ad un checkpoint della Barriera. Tre dei ferimenti sono stati provocati da proiettili di arma da fuoco; i rimanenti sono da attribuire ad inalazione di gas lacrimogeno, proiettili di gomma ed aggressioni fisiche.

Durante il periodo di riferimento, quasi ogni giorno e per diverse ore, uno dei principali checkpoint che controllano l’accesso all’Area riservata della città di Hebron è rimasto chiuso, ostacolando l’accesso dei residenti palestinesi ai servizi di base dislocati in altre parti della Città. Le chiusure sono state attuate durante e dopo le quasi quotidiane proteste anti-annessione e successivi scontri avvenuti vicino al checkpoint (al di fuori dell’Area riservata). Queste restrizioni hanno esacerbato il contesto coercitivo imposto agli oltre 1.000 palestinesi che vivono in questa area della città di Hebron, dove sono stati costituiti insediamenti israeliani dedicati.

Il 5 luglio, un gruppo armato palestinese ha lanciato tre missili contro la regione meridionale di Israele; a seguito del lancio, forze [aeree] israeliane hanno attaccato la postazione di un gruppo armato e diverse aree aperte di Gaza. Non ci sono state vittime da ambo le parti; tre case ed una fattoria palestinesi sono state danneggiate dai raid aerei israeliani.

Nella Striscia di Gaza, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso sia ad aree [interne alla Striscia, ma] prossime alla recinzione perimetrale israeliana, sia al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 18 occasioni. Non sono stati registrati feriti, ma, in un caso, le forze navali israeliane hanno arrestato quattro pescatori e confiscato due barche; successivamente i pescatori sono stati liberati. Inoltre, in due casi, le forze israeliane hanno arrestato due palestinesi che stavano tentando di entrare in Israele: uno attraverso la recinzione e l’altro dal mare. In tre casi, le forze israeliane sono entrate a Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione.

Per mancanza di permessi di costruzione israeliani, sono state demolite o sequestrate trentuno strutture di proprietà palestinese, sfollando 13 persone e intaccando il sostentamento di oltre 100 altre [segue dettaglio]. Nella valle del Giordano, nella Comunità beduina palestinese di Fasayil, le autorità israeliane hanno demolito 12 abitazioni e strutture di sostentamento ad utilizzo stagionale. Quattro delle strutture colpite erano situate in quattro Comunità beduine, interne o attigue ad un’area destinata [da Israele] all’espansione dell’insediamento colonico di Ma’ale Adumim (Piano E1). Due strutture della Comunità di At Taybeh (Hebron), anch’esse in Area C, sono state demolite sulla base di un “Ordine militare 1797”, che prevede la rimozione accelerata di strutture prive di licenza, in quanto ritenute “nuove”. Nove strutture sono state demolite a Gerusalemme Est, di cui due nel quartiere di Al ‘Isawiya; qui, il 19 febbraio 2020, il Comune di Gerusalemme aveva annunciato un arresto semestrale delle demolizioni.

In due località situate nell’Area C del governatorato di Hebron, le forze israeliane hanno spianato con bulldozer terreni agricoli, con la motivazione che l’area è designata [da Israele] come “terra di Stato” [segue dettaglio]. Ad Al Baq’a, vicino alla città di Hebron, 0,4 ettari di colture stagionali e un muro di sostegno sono stati distrutti con bulldozer, mentre vicino alla città di Sair sono stati sradicati 70 ulivi.

Cinque palestinesi sono stati feriti e decine di alberi e veicoli sono stati vandalizzati da coloni israeliani. Tutti i ferimenti si sono verificati in due episodi accaduti nel villaggio di Biddya (Salfit), quando coloni hanno attaccato agricoltori al lavoro sulla propria terra: tre sono stati colpiti con armi da fuoco, uno è stato aggredito fisicamente e un altro è stato morso da un cane sguinzagliato da coloni. Nel villaggio di Burin (Nablus) sono stati incendiati decine di ulivi, mentre alcuni altri sono stati sradicati nella Comunità di As Seefer (Hebron), situata in un’area chiusa, dietro la Barriera. Coloni israeliani hanno anche fatto irruzione nel villaggio Al Lubban ash Sharqiya (Nablus) dove hanno vandalizzato 12 veicoli.

Secondo una ONG israeliana, quattro israeliani, incluso un minore, che viaggiavano su varie strade della Cisgiordania, sono stati colpiti e feriti con pietre; un totale di 19 veicoli israeliani avrebbero subito danni a causa del lancio di pietre ed uno a causa del lancio di una bottiglia incendiaria da parte di palestinesi.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




L’occupante israeliano teme una possibile riconciliazione palestinese

Adnan Abu Amer

11 luglio 2020 – Chronique de Palestine

I recenti incontri tra i rappresentanti di Fatah e di Hamas hanno ricevuto ampia copertura da parte dei media israeliani.

Queste riunioni sono fonte di grande inquietudine se servono a garantire al movimento Hamas una copertura politica e relativa alla sicurezza nella Cisgiordania occupata, consentendogli di riprendere le azioni di resistenza contro Israele. Soprattutto se l’Autorità palestinese pone fine alla persecuzione del movimento di resistenza islamica…

L’ultimo incontro a distanza si è svolto tra Jibril Rajoub, segretario generale del Comitato Centrale di Fatah ed ex capo della Forza di Sicurezza preventiva (dell’Autorità Nazionale Palestinese, o ANP), e Saleh Al-Arouri, vice-responsabile dell’ufficio politico di Hamas, che Israele presenta come “l’ideatore degli attacchi armati in Cisgiordania”.

Gli israeliani ritengono che questa riunione abbia dato semaforo verde ad Hamas per agire in Cisgiordania, anche se Mahmoud Abbas [presidente dell’ANP, ndtr.] non auspica il ritorno della resistenza armata.

Quello tra Rajoub- Al-Arouri è stato seguito da un altro incontro, tra Ahmed Helles, responsabile di Fatah per le questioni di Gaza, e Husam Badran, responsabile delle relazioni nazionali di Hamas. L’occupante israeliano teme che ciò sia il segnale della fine della situazione relativamente sotto controllo sul terreno.

Negli ultimi dieci anni si è assistito a parecchi incontri tra Fatah e Hamas e a tanti abbracci, sorrisi e strette di mano. In quasi tutte queste occasioni – troppo numerose per contarle – si è sentito affermare da Gaza, dal Cairo, da Beirut, da Doha e da Mosca, come da altri luoghi mantenuti segreti, che si è aperta una nuova pagina nelle loro relazioni. Tuttavia il punto comune di tutti questi annunci è che non hanno dato alcun risultato.

Questa volta ci si può aspettare qualcosa di diverso?

Non abbiamo altro nemico che Israele”

A proposito di queste recenti riunioni, gli israeliani hanno notato due novità: 1) né Rajoub né Al-Arouri hanno fatto dichiarazioni pubbliche sulla fine delle divisioni, la formazione di un governo di unità o l’indizione di nuove elezioni; 2) chi ha spinto i vecchi dirigenti a riprendere i colloqui è stato Israele.

Dal punto di vista israeliano, durante la conferenza stampa successiva alla riunione l’ANP ha avuto un chiaro obbiettivo, e non si è trattato di una riconciliazione con Hamas. Ha inteso solo contrariare Israele dopo aver messo fine al coordinamento in materia di repressione. Ma dare semaforo verde a Hamas per agire in Cisgiordania è la tappa successiva della campagna contro l’annessione [di parti della Cisgiordania, ndtr.].

Certo non l’hanno detto così, ma era questa la conclusione, dopo che si sono ascoltate espressioni come “una lotta comune sul terreno”. Rajoub ha dichiarato: “Non abbiamo altro nemico che Israele” e Al-Arouri è parso felice di questo annuncio ed ha chiamato ad una lotta comune in Cisgiordania.

Nonostante tutti questi aspetti, gli israeliani sono convinti che Abbas si atterrà alla sua politica di opposizione alla lotta armata. Si può immaginare che non voglia davvero vedere le bandiere verdi di Hamas sventolare ad ogni angolo di strada nel territorio palestinese sotto occupazione…

Tuttavia, quando Rajoub parla di Hamas in termini di lotta comune contro il piano israeliano di annessione, e seduto virtualmente accanto alla persona responsabile della creazione dell’infrastruttura militare di Hamas in Cisgiordania, corre il rischio di “cavalcare la tigre”. Questo incontro tra Fatah e Hamas può avere conseguenze immediate sulla volontà di quest’ultimo di condurre attacchi di resistenza armata nei territori occupati.

Semaforo verde” per il movimento Hamas nella Cisgiordania occupata?

Quanto ai dibattiti in Israele, essi insistono sul fatto che l’incontro tra Rajoub e Al-Arouri è il segnale di un partenariato tra Fatah e Hamas. Una simile cooperazione inquieta al massimo grado gli israeliani perché, per quanto limitata possa essere, resta un elemento di primaria importanza per il loro Paese. La velocità con cui è stato raggiunto l’accordo tra i due movimenti ha sorpreso i servizi di sicurezza israeliani, anche se non avevano escluso questa possibilità dal momento in cui Benjamin Netanyahu ha annunciato il suo piano di annessione.

Gli israeliani non prestano molta attenzione a ciò che viene detto durante le conferenze stampa palestinesi organizzate congiuntamente da Fatah e Hamas, poiché quel che conta è ciò che avviene sul terreno. Tutto dipende quindi dal possibile annuncio da parte dell’ANP che non fermerà i membri di Hamas e li lascerà agire liberamente in Cisgiordania.

Parlando di queste riunioni tra Fatah e Hamas, gli israeliani rivelano alcune informazioni importanti relativamente ai partecipanti. Rajoub, per esempio, è uno dei principali aspiranti alla successione di Abbas, e si è alleato con l’ex capo dei servizi di informazione, Tawfik Tirawi, e con il nipote di Yasser Arafat, Nasser Al-Qudwa.

Recentemente si è anche in parte riconciliato con il suo antico rivale Mohammed Dahlan, che è stato cacciato dalla Palestina occupata e vive in esilio a Abu Dhabi e in Serbia, da dove cerca continuamente di conquistarsi amicizie ed influenza tra le fila di Fatah.

Sempre secondo quanto si discute in Israele, Rajoub non è il prescelto di Abbas per la sua successione, né quello dell’ANP. Tuttavia il capo dell’ANP ha scelto Rajoub per coordinare le proteste contro i piani di annessione israeliani, e Rajoub si presenta anche come il solo uomo di Fatah in grado di raggiungere un accordo con Hamas.

Del resto, il fratello di Rajoub, Sheikh Nayef Rajoub, è un alto dirigente di Hamas in Cisgiordania.

Al-Arouri è un uomo molto astuto e di grande acume ed ha subito capito i vantaggi di un incontro con Rajoub. Ora è convinto che Hamas sarà in grado di organizzare grandi manifestazioni in Cisgiordania, cosa che Fatah non è stata capace di fare. I militanti di Hamas non rischieranno un arresto da parte delle forze di repressione dell’ANP e potranno riunirsi, almeno nei circoli politici.

Secondo l’interpretazione israeliana, le riunioni tra Fatah e Hamas potrebbero creare una situazione positiva per la resistenza sulla scena palestinese, dato che gli scontri tra i dirigenti dei due movimenti sarebbero sostituiti da un coordinamento e da garanzie reciproche. È davvero l’ultima cosa che Israele si augura….

Adnan Abu Amer dirige il dipartimento di scienze politiche e di mezzi di comunicazione dell’università Umma Open Education di Gaza, dove tiene corsi sulla storia della causa palestinese, la sicurezza nazionale e Israele. È titolare di un dottorato in storia politica all’università di Damasco e ha pubblicato parecchi libri sulla storia contemporanea della causa palestinese e del conflitto arabo-israeliano. Lavora anche come ricercatore e traduttore per centri di ricerca arabi ed occidentali e scrive regolarmente su quotidiani e riviste arabi.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




‘Un regime illegittimo’: un’importante organizzazione per i diritti umani svela i miti israeliani e riconosce l’esistenza dell’apartheid

Amjad Iraqi

9 luglio 2020 – +972 Magazine

Nel corso di un’intervista approfondita, Michael Sfard, avvocato per i diritti umani, spiega cosa abbia portato Yesh Din ad accusare Israele del crimine di apartheid in Cisgiordania

Vent’anni fa, quando Michael Sfard era un promettente avvocato per i diritti umani, si era energicamente opposto alla parola “apartheid” per descrivere il dominio militare di Israele su Cisgiordania e Striscia di Gaza. Sebbene fosse un critico feroce dell’occupazione che ha dedicato la carriera a difendere i diritti dei palestinesi, aveva detto a se stesso che “le parole contano,” e che l’occupazione, seppure profondamente ingiusta, era una struttura solo temporanea che poteva essere ribaltata con il contributo del diritto

Anni dopo, Sfard — ora un famoso avvocato — ha radicalmente cambiato opinione.

In quello che potrebbe passare alla storia come un momento significativo del dibattito pubblico israeliano, giovedì Yesh Din [“C’è la legge”, associazione israeliana che intende difendere i diritti dei palestinesi nei territori occupati, ndtr.], un’ONG per i diritti umani,   ha diffuso un dettagliato parere legale, stilato principalmente da Sfard, consulente legale dell’organizzazione, che afferma che l’occupazione della Cisgiordania da parte di Israele, che dura da 53 anni, costituisce un “regime di apartheid.”

Esaminandone lo sviluppo, dal dominio della minoranza bianca in Sudafrica alla sua definizione contenuta nello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, si asserisce che Israele sta commettendo il crimine internazionale di apartheid tramite “oppressione e dominazione sistematiche” di un gruppo su un altro nel territorio “con l’intenzione di mantenere quel regime.”

Yesh Din avrebbe detto fino ad ora che alcune politiche specifiche sono illegali o persino che sono crimini di guerra, ma adesso stiamo dicendo che il regime è illegittimo,” ha detto Sfard in un’intervista esclusiva a +972. Egli sostiene che lo scopo del parere giuridico “è di cambiare il dibattito interno in Israele e di non parlare più della nostra presenza in Cisgiordania come di un’occupazione temporanea, ma come di un crimine illegale.”

Anche se l’analisi si concentra principalmente sulla Cisgiordania, Yesh Din sottolinea che con ciò non esclude affatto la tesi secondo cui “il crimine di apartheid sia commesso solo in Cisgiordania. Che il regime israeliano nel suo complesso sia un regime di apartheid. Che Israele sia uno Stato in cui vige l’apartheid.”

Questo cambiamento radicale è rappresentativo di un’opinione che sta crescendo fra gli ebrei-israeliani critici di quello che i palestinesi hanno da tempo diagnosticato a proposito della loro oppressione. Sebbene la recente spinta del governo israeliano verso un’annessione formale abbia consolidato la discussione internazionale circa l’apartheid israeliano, Sfard dice che il parere legale fa parte di un processo più lungo per riconoscere che “la bestia che stiamo affrontando deve essere descritta per quello che è,” a prescindere dall’annessione.

L’intervista è stata modificata e abbreviata per renderla più chiara.

Cominciamo con delle domande ovvie: Perché adesso? Qual è stato il processo mentale che ha portato al parere giuridico?

Le mie riflessioni personali sull’argomento sono cominciate alcuni anni fa quando sono andato a New York per scrivere il mio libro [The Wall and the Gate: Israel, Palestine and the Legal Battle for Human Rights,  Metropolitan Books, 2018, ndtr.]. Una delle cose con cui mi trovavo alle prese era la sensazione che il paradigma di “occupazione” non potesse sostenere tutto il peso della realtà sul terreno. Anche se ovviamente esiste un’occupazione, e il concetto legale di occupazione belligerante spiega alcune delle cose che vediamo, c’è molto di più che non spiega.

Yesh Din opera in Cisgiordania da 15 anni e ha imparato a conoscere molto profondamente le caratteristiche del governo in quella zona in tutte le sue sfaccettature — il quadro giuridico, le politiche, le pratiche, le cose fatte ma non dette.

La nostra sensazione era che ci fosse bisogno di dare un nome alla ‘bestia’ che ci troviamo di fronte, che deve essere descritta per quello che è. L’apartheid come concetto giuridico è, per ragioni ovvie, la prima scelta, sebbene ci sia voluto un po’ prima che avessimo tempo e risorse per condurre l’analisi. Questa è una discussione che noi non abbiamo né iniziato né finito, ma è una voce in più che si spera dica cose che arricchiranno la discussione.

Personalmente, io ho sentito per la prima volta il concetto di “apartheid” in riferimento alla presenza israeliana in Cisgiordania, e al conflitto in generale, nei primi anni del 2000 durante la Seconda Intifada e la costruzione del muro di separazione. Devo dire che la mia reazione iniziale è stata di totale opposizione all’uso della parola — non ogni omicidio è un genocidio e non ogni discriminazione istituzionale è apartheid.

Ma nel mio intimo non ero così sicuro di me: l’attrazione verso l’uso del concetto mi tormentava. Così ho iniziato a studiare l’apartheid nei suoi diversi aspetti, incluso quello legale, e a visitare il Sudafrica. 

Yesh Din sembra avere un approccio diverso da quello dell’ONG B’Tselem: nel 2016, B’Tselem ha dichiarato che avrebbe smesso di sporgere denunce alle autorità militari israeliane perché facesse delle indagini, il che sembra dare loro una parziale maggiore libertà nell’essere più espliciti circa la natura dell’occupazione.

Anche se Yesh Din accetta molte delle critiche di B’Tselem, voi avete ancora dei procedimenti pendenti in tribunali israeliani e non interromperete le vostre azioni legali. Che influsso ha la posizione di Yesh Din riguardo all’apartheid sul vostro lavoro legale? Vi aspettate delle conseguenze da parte delle autorità, inclusi i tribunali?

Le autorità israeliane non hanno bisogno che noi diciamo cose radicali per dare il via a delle ritorsioni contro di noi — è qualcosa che viene fatto anche quando noi abbassiamo i toni. Anzi io ho la sensazione che sia vero il contrario: noi stiamo dicendo quella che pensiamo sia la verità in modo ragionato con una relazione esauriente. Si può essere d’accordo o no, ma presenta le argomentazioni e costruisce il caso basandosi sui dati, i precedenti e l’analisi giuridica.

Se alcune parti del sistema giudiziario si offenderanno ci sarà almeno un po’ di rispetto per il modo professionale in cui conduciamo la nostra lotta. Io non penso che un singolo caso legale (presentato da Yesh Din) sarà danneggiato dal fatto che noi stiamo dicendo cose che sono sgradevoli da sentire. Se ci sono funzionari e giudici le cui decisioni ne saranno influenzate, si tratterà di critiche secondarie. Quindi ciò non ci preoccupa affatto.

Non dimentichiamo che questo non è un rapporto sulla magistratura o sui giudici, ma sul sistema che si è creato durante gli anni. La “musica” del rapporto è che noi [israeliani] siamo tutti responsabili dell’apartheid, che io sono responsabile. Questa è una sfumatura importante. Non lo sto guardando dal di fuori, e tutte le mie controparti nell’ufficio del Procuratore Generale, nel Ministero della Giustizia o fra i giudici sanno che questa è la mia identità e coloro che sono onesti la rispetteranno.

Detto ciò, stiamo discutendo di qualcosa che ha enormi implicazioni. Fino ad ora, Yesh Din ha detto che politiche specifiche sono illegali o persino che sono crimini di guerra, ma ora noi parliamo di un regime che è illegittimo.

E così la domanda che ci si ritorce contro è questa: cosa fare se è un regime di apartheid? Continuare a stare all’“opposizione” — qualcuno che si oppone alle politiche del regime — o diventare “dissidenti” — qualcuno che si oppone al regime stesso? E seguire il cammino della “giustizia” che il regime illegittimo ci offre?

Per rispondere devo ricorrere ai miei “antenati” in Sudafrica. Gli avvocati nel regime di apartheid in Sudafrica non smisero mai di andare in tribunale perché i neri chiedevano loro di andarci. La decisione di andare in tribunale o di boicottarlo non sta a me, ma ai palestinesi. Fino a quando i palestinesi vogliono che noi li rappresentiamo, noi non abbiamo il diritto di rifiutare basandoci sull’affermazione che “noi ne sappiamo di più.”

Va certamente bene ammettere che gli avvocati e le ONG non possono guidare la lotta. Detto ciò, c’è ancora un dilemma davanti a cui si trovano persino le organizzazioni palestinesi, cioè che talvolta possono sentirsi colpevoli per aver detto ai clienti palestinesi che hanno una possibilità, seppure piccola, di vincere.

Come trova il confine fra l’identificare l’occupazione come un regime di apartheid, e perciò senza aspettarsi di ottenere nulla di quello che spera, e tuttavia andare avanti?

Niente ha cambiato le prospettive di vittoria o successo (che sono due cose diverse) da quando ho scritto la relazione. Era lo stesso regime anche prima. Nei miei rapporti con i clienti, io cerco di essere chiaro suIla montagna che stiamo scalando e quello che ci si può, o non può, aspettare.

Allo stesso tempo, si deve riconoscere il fatto che i palestinesi non vanno via dal tribunale completamente a mani vuote. I tribunali sono un’istituzione in cui i palestinesi talvolta ottengono risarcimenti — di solito non con decisioni favolose, ma piuttosto nel processo che li trasforma da individui completamente trasparenti e senza importanza in soggetti di un contenzioso. Solo quando “si rivolgono a un avvocato” e vanno in tribunale diventano “qualcuno” (agli occhi delle autorità).

Ci sono anche delle vittorie, come nel recente caso sollevato a proposito della Legge per la Regolarizzazione (che cerca di legalizzare tantissimi insediamenti israeliani e “avamposti” e annullata lo scorso mese dalla Corte Suprema).

Avevamo un grosso dilemma quando alcuni anni fa abbiamo presentato la denuncia. C’erano delle persone che ci hanno detto: “Non presentate alcuna petizione… lasciate che il governo ne paghi le conseguenze.” Ma secondo me c’erano decine di migliaia di persone che stavano per perdere le loro terre e volevano che noi li rappresentassimo. Così, avendo una possibilità di vincere per loro, non ho detto di no per ottenere un vantaggio ipotetico. E per come va il mondo oggi, mi chiedo quale contromossa avrebbe tirato fuori il governo per mettere in pratica la Legge per la Regolarizzazione.

Dopo la nostra conclusione che questo è un regime di apartheid non sarà più “tutto come prima”. L’analisi sull’apartheid finirà nelle nostre memorie giudiziarie e cause. È nostra intenzione cambiare il dibattito interno israeliano e non parlare più della nostra presenza in Cisgiordania come di un’occupazione temporanea, ma piuttosto di un crimine di illegittimità.

Questo rispecchia il dibattito sull’uso della “legge dell’oppressore,” un dibattito che anche i sudafricani hanno avuto. Quali altre lezioni ha ricavato dagli avvocati sudafricani su come sfidare l’apartheid?

Noi (in Israele-Palestina) siamo in una posizione peggiore rispetto al movimento anti-apartheid in Sudafrica.

Primo, noi qui abbiamo due movimenti separati per porre fine all’apartheid in Israele: uno israeliano, l’altro palestinese. In Sudafrica c’era un movimento ed era guidato dagli oppressi. Questo è un grosso problema, perché gli israeliani hanno più potere, più privilegi, più diritti e sono molto meno vulnerabili rispetto ai palestinesi.

Secondo, c’è la posizione internazionale israeliana rispetto a quella del Sudafrica. Ma negli ultimi dieci anni abbiamo visto quasi una rivoluzione nella società civile internazionale a proposito del conflitto. Persino negli Stati Uniti, persino nella comunità ebraica americana si può vedere questo cambiamento. La nostra relazione e la nostra campagna di sensibilizzazione mirano ad accelerare questo cambiamento, per contribuire a far capire alla comunità internazionale che deve far pressione su Israele per fermare l’apartheid.

Per anni molti avvocati, ONG e attivisti palestinesi hanno offerto un’ampia analisi, professionale e legale, accusando Israele del crimine di apartheid, inclusa la recente denuncia alla Corte Penale Internazionale.

Tuttavia è probabile che l’opinione di Yesh Din riceverà molta più attenzione perché questa è un’organizzazione israeliana e forse verrà presa più seriamente nei circoli che contano all’estero. Ai palestinesi potrebbe sembrare provocatorio perché, anche se noi siamo spesso felici che escano tali rapporti, c’è anche una strana sensazione quando si vede che il nostro lavoro è valutato in modo così diverso.

Lei prima ha parlato di un suo rifiuto iniziale per il termine apartheid: pensa che sia lo stesso per altri avvocati e organizzazioni ebraico-israeliane? Perché pensa che ci sia voluto così tanto ad essere d’accordo con quello che molti palestinesi hanno detto?

Si tratta di negazionismo. Ma è anche importante notare che noi israeliani viviamo in condizioni di totale lavaggio del cervello a causa del dibattito, dei leader e dei media. E mentre noi (israeliani di sinistra) mettiamo in discussione molte cose e abbiamo una nostra identità in quanto critici, siamo pur sempre nati in questo contesto.

Io stesso sono nato a Gerusalemme Ovest nel 1972 e l’ebraico è la mia lingua madre. Sono cresciuto con il sistema scolastico israeliano e sono andato sotto le armi fino a quando non sono diventato un refusenik [chi rifiuta di prestare servizio nei territori occupati, ndtr.]. Ho assorbito il punto di vista israeliano per tutta la mia vita e cosi hanno fatto i miei amici e colleghi.

Noi siamo stati accecati dalla narrazione israeliana e c’è voluto del tempo per renderci conto che gli argomenti che ogni israeliano ripete — come “noi non vogliamo controllare i palestinesi,” o “noi vogliamo che siano padroni del proprio destino,” o “noi faremo un accordo quando avremo una controparte nei negoziati” — sono tutte menzogne. Il mito particolarmente potente durante gli anni di Oslo era che gli israeliani volevano porre fine al “dominio non voluto” sui palestinesi. Ci vuole del tempo per rendersi conto che non è vero — che questo fa tutto parte di un’impresa di dominazione, e per interiorizzare la nostra supremazia.

Anche la sinistra israeliana, per quanto piccola, è cambiata, in parte perché oggi include molti palestinesi. Alle superiori io ero un attivista di sinistra, ma non ho mai lavorato al fianco dei palestinesi, neppure con i palestinesi (cittadini) israeliani.

Oggi non è possibile lavorare su questo tema senza i palestinesi. La loro comprensione del conflitto ha arricchito noi attivisti ebrei, inclusi quelli di gruppi come Yesh Din e B’Tselem. Io non vedrò mai la realtà come la vedete voi, posso solo cercare di capire meglio cosa vedete voi, e viceversa.

La relazione non esclude la possibilità di identificare l’apartheid in altre parti della realtà dello Stato di Israele. Eppure, ciò afferma che i regimi in Cisgiordania e dentro Israele possono ancora essere visti come distinti, e forse in un “processo di unificazione.”

Comunque, le basi dell’occupazione non derivano solo dalle leggi principali di Israele, ma erano state presenti fin dall’inizio dentro lo Stato in quanto governo militare imposto ai cittadini palestinesi di Israele dal 1948 al 1966. Quindi il regime del ’67 può essere considerato separato da quello del ’48 o ne è piuttosto un’estensione o una continuazione?

Quando ho cominciato a studiare il crimine di apartheid a livello internazionale, mi ha immediatamente colpito che sia un crimine di regime. Ma il diritto internazionale non definisce cosa sia un regime, per cui ci si deve rivolgere ad altre discipline per scoprirlo.

Con mio grande stupore, “regime” è una nozione dotata di flessibilità. È la totalità delle autorità pubbliche che hanno poteri, leggi e regolamenti normativi, politiche, prassi, e così via. Guardando ad una certa area geografica con lenti diverse e usando decisioni diverse, si possono trovare regimi diversi.

Per esempio, possiamo guardare a tutta la zona fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo con una bassa risoluzione e vedere che c’è un potere politico che crea e porta avanti le proprie decisioni. Ma si può anche guardarlo con un’alta risoluzione, e scoprire che, all’interno di quel territorio, ci sono nuclei distinti di autorità, politiche e pratiche pubbliche nelle diverse zone.

Quando si guarda con una lente di ingrandimento l’occupazione militare in Cisgiordania è un regime distinto. Non esclude un’analisi diversa da un punto di osservazione posto più in alto, ma ci sono complessità (dentro Israele) che non si trovano in Cisgiordania.

Per esempio, il regime può essere classificato come di apartheid quando il gruppo inferiore ha il diritto politico di votare e di candidarsi al governo (come i cittadini palestinesi in Israele)? Io penso che si possa se quei diritti sono completamente diluiti e resi privi di significato. Non so se in Israele sono tali, ma in merito ci sono molte opinioni legittime.

Noi di Yesh Din abbiamo fatto la scelta di concentrarci sulla Cisgiordania come nostra area di competenza e di cui ci occupiamo. Ma per noi è importante dire che ciò non esclude altre analisi che possono essere condotte in parallelo. Noi ci rendiamo conto che c’è un costo o rischio guardando solo a un segmento della politica israeliana, quindi il nostro modo di affrontare quel rischio è di riconoscerlo e dirlo con chiarezza.

C’è una sezione del documento che dice: “sebbene l’origine [dell’apartheid] sia storicamente connessa al regime razzista in Sudafrica, ora è un concetto legale indipendente con una sua propria vita che può esistere senza essere basato su un’ideologia razzista.”

Devo confessare che, leggendolo, il mio primo pensiero è stato che, almeno non intenzionalmente, si dissociasse l’obiettivo politico della supremazia ebraica — o per essere franchi, del sionismo — dalle strutture istituzionali israeliane. Può chiarire la riflessione che sta dietro quella affermazione?

Uno dei problemi che ho incontrato quando ho sottoposto le mie idee a degli israeliani è che l’apartheid, per quelli che sanno cos’è, è visto come parte di un’ideologia razzista come quella dei nazisti: che alcuni hanno tratti biologici o genetici che scientificamente li rendono inferiori agli altri.

Dato che la Convenzione contro l‘apartheid e lo Statuto di Roma definiscono l’apartheid usando le parole “gruppi razziali,” l’interpretazione è controintuitiva. Non si tratta dell’assunzione biologica di razza, ma piutttosto di gruppi sociali e politici in cui membri di una certa Nazione hanno privilegi come gruppo.

Non stavo cercando di dire che non c’è un’ideologia di supremazia che mette il principio di preferenza ebraica al di sopra di quello dei palestinesi; naturalmente c’è una cosa simile (e il rapporto lo menziona ). Quello che volevo dire era che non si tratta della stessa argomentazione scientifica che una razza è migliore di un’altra.

In conclusione, si può commettere il crimine di apartheid indipendentemente da quale sia la motivazione. L’apartheid, per esempio, potrebbe essere economico — l’intero progetto potrebbe riguardare il profitto e continuerebbe ad essere apartheid. Nel nostro caso, noi abbiamo un conflitto nazionale. In altri posti potrebbe trattarsi di etnia, casta o altro; non deve essere per forza basato su un’ideologia razzista.

Sembra che lei stia cercando di universalizzare ulteriormente il quadro dell’apartheid.

Certamente. Ai sensi del diritto internazionale il divieto di apartheid costituisce il valore fondamentale che il mondo ha adottato dopo la seconda guerra mondiale: noi condividiamo un’umanità e un regime che viola in maniera diretta e sistematica quel principio affermando che ci sono alcuni che hanno più diritti di altri — questa è la cosa che si sta cercando prevenire.

Il diritto e le convenzioni internazionali che identificano il crimine di apartheid e le sue caratteristiche in Israele-Palestina esistono da decenni. Ma a differenza del Sudafrica, il mondo sembra fare un’eccezione con Israele sull’apartheid. Perché dovrebbe fare eccezione e dove pensate che il dibattito debba andare per porvi fine?

Primo, sono passati solo 70 anni dal più grande crimine mai commesso contro l’umanità. Io sono il nipote di sopravvissuti all’Olocausto. C’è una riluttanza, comprensibile, ma inaccettabile, a confrontarsi con questo crimine da parte delle “vittime per eccellenza.” 

Si può vedere come le potenze europee camminino sulle uova quando si tratta di Israele, e Israele è riuscito a mobilitare nel mondo occidentale questo senso di colpa collettivo e giustificato a proprio favore. Se c’è una lezione da imparare dalla storia del genocidio e dell’antisemitismo, è che non si dovrebbe restare in silenzio davanti al male e alla persecuzione di comunità.

Secondo, Israele è visto, tavolta correttamente, in pericolo esistenziale dato che i suoi vicini cercano di distruggerlo. Anche se queste dichiarazioni hanno pochissimo significato o sono solo propaganda, e anche se Israele è la maggiore potenza in Medio Oriente alleata con una superpotenza, queste affermazioni danno a Israele molto spazio di manovra. C’è anche la questione della posizione di Israele quale avamposto dell’America in Medio Oriente. Ma penso che tutto ciò stia cambiando.

Per il dopo, come ho già detto, io ci vado molto attento con le parole. “Apartheid” è una parola che ha molto peso e non la userei con leggerezza. Se questa accusa sarà qualcosa da discutere più seriamente — non come una parolaccia ma come qualcosa di valido — nel caso in cui ci si confronti con un regime di apartheid, l’obbligo in ogni Paese è di porvi fine.

Ciò è molto diverso dall’occupazione. Per esempio, l’Europa ha raggiunto la conclusione che si deve attenere a una politica di differenziazione per garantire che non un centesimo dei suoi soldi vada alle colonie. Se si arriva alla conclusione che Israele è un regime di apartheid, ciò avrà un enorme impatto su quello che è obbligata a fare per legge, non solo rifiutando di assistere quel regime, ma di fare pressioni affinché esso finisca.

In conclusione la gente dovrebbe chiedersi qual è lo scopo finale delle politiche di Israele. Vent’anni fa la maggior parte della gente avrebbe detto che era di avere due Stati — ma oggi non sono sicuro della loro risposta. E se neanche uno Stato democratico binationale è la risposta, allora non c’è via alternativa all’apartheid.

In pratica affermando che non ci sia una soluzione si accetta automaticamente l’apartheid.

Giusto. Quando ho cominciato a scrivere il documento, a prova delle sue intentioni di perpetuare la dominazione avevo solo le azioni di Israele sul terreno. Per 50 anni il governo di Israele ha detto la “cosa giusta” — che l’occupazione è temporanea fino a che gli accordi di pace non sostituiranno gli accordi di cessate il fuoco.

Ma poi il divario fra le dichiarazioni di Israele e le sue azioni è scomparso. Con le loro stesse parole i governanti israeliani hanno distrutto il proprio alibi — un pessimo alibi che comunque non riusciva a nascondere le loro azioni. Oggi il mio lavoro è molto più facile.

Amjad Iraqi è redattore e autore di +972 magazine. È anche analista politico di Al-Shabaka e in precedenza è stato un coordinatore della difesa di “Adalah” [Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele, ndtr.]. È un cittadino palestinese di Israele, attualmente residente ad Haifa.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’inchiesta della CPI renderà giustizia alla Palestina?

Romana Rubeo, Ramzy Baroud

9 luglio 2020 – Chronicle de Palestine

In passato ci sono stati numerosi tentativi di obbligare i criminali di guerra israeliani a rispondere del proprio operato.

Il caso dell’ex primo ministro israeliano Ariel Sharon (noto, tra l’altro, con il soprannome di “macellaio di Sabra e Shatila”), è particolarmente significativo, in quanto nel 2002 le sue vittime tentarono di farlo comparire davanti a un tribunale belga.

Come ogni altra iniziativa, la possibilità di un processo in Belgio è stata abbandonata in seguito a pressioni americane. La storia sembra ripetersi.

Il 20 dicembre la procuratrice generale della Corte Penale Internazionale (CPI), Fatou Bensouda, ha deciso di aver raccolto elementi sufficientemente solidi per avviare un’inchiesta per presunti crimini di guerra commessi nella Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza. La decisione senza precedenti della CPI concludeva che non c’era “nessuna ragione sostanziale per credere che un’inchiesta non fosse al servizio degli interessi della giustizia.”

Da quando Bensouda, benché con molto ritardo, ha preso la decisione, l’amministrazione americana ha rapidamente preso misure per bloccare il tentativo della Corte di far sì che i responsabili israeliani rispondano del proprio operato. L’11 giugno il presidente americano Donald Trump ha firmato un decreto che impone sanzioni contro i membri dell’organo giudiziario internazionale, in riferimento alle inchieste della CPI sui crimini di guerra americani in Afghanistan e quelli israeliani in Palestina.

Gli Stati Uniti riusciranno ancora una volta a bloccare un’indagine internazionale?

Il 19 giugno abbiamo parlato con il dottor Triestino Mariniello, membro del gruppo di giuristi che rappresenta le vittime di Gaza davanti alla CPI. Mariniello è anche docente all’università John Moore di Liverpool, nel Regno Unito.

Ci sono molti dubbi sulla serietà, la volontà o la capacità della CPI di arrivare a questo processo. A un certo punto sono state poste questioni tecniche per sapere se la giurisdizione della CPI si estendesse alla Palestina occupata. Questi dubbi sono stati superati?

Lo scorso dicembre la procuratrice ha deciso di porre la seguente domanda alla Camera preliminare: “La CPI è competente, cioè, in base allo Statuto di Roma, la Palestina è uno Stato, non in generale in base al diritto internazionale, ma almeno secondo lo Statuto istitutivo della CPI? E, in caso affermativo, qual è la competenza territoriale della Corte?”

La procuratrice ha sostenuto che la Corte è competente per i crimini commessi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e a Gaza. Questa richiesta alla Camera preliminare non era necessaria per una ragione molto semplice: la domanda è stata presentata dallo Stato di Palestina. Così, quando uno Stato (che faccia parte della CPI) deferisce una situazione alla procura, questa non ha bisogno dell’autorizzazione della Camera preliminare. Ma analizziamo le cose in un contesto più ampio.

L’impegno ufficiale dello Stato di Palestina con la CPI è iniziato nel 2009, in seguito alla guerra di Gaza (l’operazione “Piombo fuso”). All’epoca la Palestina aveva già accettato la giurisdizione della CPI. Al precedente procuratore ci sono voluti più di due anni per decidere se la Palestina fosse o meno uno Stato. Dopo tre anni ha dichiarato: “Non sappiamo se la Palestina è uno Stato, quindi non sappiamo se possiamo riconoscere la giurisdizione della CPI.” In seguito questa questione è stata sollevata davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e all’assemblea degli Stati Membri. In altri termini, hanno delegato la risposta a degli organi politici e non alla Camera preliminare.

Questa indagine non c’è mai stata e non abbiamo mai ottenuto giustizia per le vittime di quella guerra.

Nel 2015 la Palestina ha accettato la giurisdizione della Corte ed è anche diventata uno Stato Membro. Tuttavia la Camera preliminare ha deciso di coinvolgere un certo numero di Stati, organizzazioni della società civile, Ong, accademici ed esperti per porre loro la domanda: in base allo Statuto di Roma la Palestina è uno Stato? La risposta è stata la seguente: la Camera preliminare si pronuncerà su questa questione dopo aver ricevuto le opinioni delle vittime, degli Stati, delle organizzazioni della società civile… e si pronuncerà nelle prossime settimane o nei prossimi mesi.

Oltre all’amministrazione Trump, altri Paesi occidentali, come la Germania e l’Australia, fanno pressione sulla CPI perché abbandoni l’inchiesta. Ci riusciranno?

Ci sono almeno otto Paesi che sono apertamente contrari a un’indagine sulla situazione palestinese. La Germania è una di essi. Certi altri Paesi, ad essere onesti, ci hanno sorpresi perché almeno quattro di essi, l’Uganda, il Brasile, la Repubblica Ceca e l’Ungheria, avevano esplicitamente riconosciuto che la Palestina è uno Stato di diritto internazionale, e tuttavia ora presentano dichiarazioni davanti alla Camera preliminare della CPI in cui sostengono che non lo è più.

Naturalmente la questione è un po’ più complessa, ma in fondo questi Paesi sollevano davanti alla CPI argomenti politici che non hanno alcuna base giuridica. È sorprendente che questi Stati da una parte sostengano di essere favorevoli a una Corte Penale Internazionale indipendente, ma da un’altra cerchino di esercitare una pressione politica (su questo stesso organo giudiziario).

L’11 giugno Trump ha firmato un decreto in cui impone sanzioni alle persone legate alla CPI. Gli Stati Uniti e i loro alleati possono bloccare l’inchiesta della CPI?

La risposta è no. L’amministrazione Trump fa pressione sulla CPI. Per “pressione” intendo principalmente riguardo alla situazione in Afghanistan, ma anche a quella israelo-palestinese. Così ogni volta che c’è una dichiarazione di Trump o del segretario di Stato Mike Pompeo riguardo alla CPI, non dimenticano mai di citare la questione dell’Afghanistan.

In effetti la procuratrice sta facendo un’indagine anche su presunti crimini di guerra commessi da membri della CIA e soldati americani. Finora questa pressione non è stata particolarmente efficace. Nel caso dell’Afghanistan la Corte d’appello ha direttamente autorizzato la procuratrice ad aprire un’inchiesta, modificando una decisione presa dalla Camera preliminare.

Le successive amministrazioni americane non sono mai state molto favorevoli alla CPI e il principale problema a Roma durante la redazione dello Statuto nel 1998 riguardava proprio il ruolo del Procuratore. Fin dall’inizio gli Stati Uniti si sono opposti a un ruolo indipendente del Procuratore, o che egli potesse aprire un’inchiesta senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Questa opposizione risale alle amministrazioni Clinton, Bush, Obama e Trump.

Tuttavia oggi assistiamo a una situazione totalmente nuova, in quanto l’amministrazione americana è pronta ad imporre sanzioni economiche e restrizioni al rilascio di visti al personale legato alla CPI e forse anche ad altre organizzazioni.

L’articolo 5 dello Statuto di Roma – il documento che ha fondato la CPI – presenta una definizione allargata di ciò che costituisce “crimini gravi”, cioè crimini di genocidio, contro l’umanità, di guerra e di aggressione. Si potrebbe quindi sostenere che Israele dovrebbe essere considerato responsabile di tutti questi “crimini gravi”. Tuttavia la CPI ha scelto quello che si chiama il “campo di applicazione ristretto”, per cui l’indagine riguarderà solo la componente dei crimini di guerra. Perché?

Se esaminiamo la richiesta della procuratrice alla Camera preliminare, in particolare il paragrafo 94, è sorprendente constatare che la portata dell’inchiesta è piuttosto ridotta, e le vittime lo sanno. Non include (nel quadro della sua inchiesta sui crimini di guerra) che alcuni avvenimenti legati alla guerra di Gaza del 2014, crimini commessi nel contesto della “Grande Marcia del Ritorno” e le colonie ebraiche (illegali).

È sorprendente che non ci sia nessun riferimento alle presunte azioni di “crimini contro l’umanità” che, come dicono le vittime, sono ampiamente documentate. Non c’è alcun riferimento agli attacchi sistematici condotti dalle autorità israeliane contro la popolazione civile in Cisgiordania, a Gerusalemme est o a Gaza. L’ “ambito di applicazione ridotto”, che esclude i crimini contro l’umanità, è un elemento sul quale la procuratrice dovrebbe riflettere. La situazione generale a Gaza è ampiamente ignorata; non c’è alcun riferimento all’assedio che dura da 14 anni; non c’è alcun riferimento all’insieme delle vittime della guerra contro Gaza nel 2014.

Ciò detto, il campo d’indagine non è vincolante per il futuro. La procuratrice può decidere, in qualunque momento, di includere altri crimini. Speriamo che ciò avvenga, perché in caso contrario molte vittime non otterranno mai giustizia.

Ma perché la Striscia di Gaza viene esclusa? È a causa del modo in cui i palestinesi hanno presentato la loro causa o di come la CPI ha interpretato il caso palestinese?

Non penso che si debba dare la colpa ai palestinesi, perché le organizzazioni palestinesi hanno presentato (una grande quantità di) prove. Penso che si tratti di una strategia di perseguimento giudiziario a questo stadio e speriamo che ciò cambi in futuro, in particolare riguardo alla situazione a Gaza, dove è stato ignorato persino il numero totale di vittime. Più di 1.600 civili, tra cui donne e minori, sono stati uccisi.

A mio parere ci sono parecchi riferimenti al concetto stesso di conflitto. La parola “conflitto” si basa sul presupposto che ci siano due parti che si affrontano allo stesso livello e che l’occupazione israeliana in sé non sia oggetto di un’attenzione sufficiente.

Inoltre sono stati esclusi tutti i crimini commessi contro i prigionieri palestinesi, come la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Non è stato incluso neppure l’apartheid in quanto crimine contro l’umanità. Ancora una volta, ci sono prove schiaccianti che questi crimini vengono commessi contro i palestinesi. Speriamo che in futuro ci sarà un approccio diverso.

Quali sono secondo lei i diversi scenari e tempi che potrebbero risultare dall’inchiesta della CPI? Cosa dobbiamo aspettarci?

Penso che se esaminiamo i possibili scenari dal punto di vista dello Statuto di Roma, della legge vincolante, non credo che i giudici abbiano altra possibilità che confermare alla procura che in base allo Statuto di Roma la Palestina sia uno Stato e che la giurisdizione territoriale comprenda la Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza.

Mi sembrerebbe estremamente sorprendente se i giudici arrivassero ad una conclusione diversa. Lo Stato palestinese è stato ratificato nel 2015, e quindi non si può tornare dai palestinesi e dire loro: “No, voi non siete più membri.” Nel frattempo la Palestina ha partecipato all’assemblea degli Stati Membri, fa parte della commissione di sorveglianza della CPI ed ha preso parte a decisioni importanti.

È probabile che la procuratrice ottenga in via libera dalla Camera preliminare. Se ciò non avviene la procuratrice può (ancora) portare avanti l’inchiesta.

Gli altri possibili scenari non possono essere che negativi, perché impedirebbero alle vittime di ottenere giustizia. Se la questione viene portata davanti alla CPI è perché le vittime non hanno mai ottenuto giustizia davanti ai tribunali nazionali: lo Stato di Palestina non può giudicare i cittadini israeliani, mentre le autorità israeliane non vogliono giudicare le persone che hanno commesso dei crimini internazionali.

Se i giudici della CPI decidessero di non accettare la giurisdizione sui crimini di guerra commessi in Palestina, ciò priverebbe le vittime dell’unica possibilità di ottenere giustizia.

Uno scenario particolarmente pericoloso sarebbe la decisione dei giudici di confermare la competenza della CPI su certe parti del territorio palestinese escludendone altre, cosa che non ha alcun fondamento giuridico in base al diritto internazionale. Ciò sarebbe pericoloso, perché darebbe una legittimità internazionale a tutte le misure illegali che le autorità israeliane, ed ora anche l’amministrazione Trump, mettono in atto, compreso il piano di annessione, totalmente illegale (in base al diritto internazionale).

* Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e direttore di Palestine Chronicle. Il suo prossimo libro è “The Last Earth: A Palestinian Story” [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press). Baroud ha un dottorato di studi sulla Palestina dell’università di Exeter ed è ricercatore associato al Centro Orfalea di studi mondiali e internazionali, università della California.

* Romana Rubeo è traduttrice freelance e vive in Italia. È titolare di un master in lingua e letteratura straniera ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica. Lettrice accanita, si interessa di musica, politica e geopolitica.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Per il sionismo le vite degli ebrei hanno sempre avuto più valore

Tom Pessah

8 luglio 2020 – +972

Il sionismo non è mai stato solo l’idea che “le vite degli ebrei siano importanti” – ha sempre privilegiato i coloni ebrei rispetto al popolo nativo. Basta chiederlo a Theodor Herzl.

Alla fine di giugno The Forward [storico giornale ebraico americano, ndtr.] ha pubblicato un articolo di Moshe Daniel Levine con il titolo “Il sionismo è il Black Lives Matter [Le vite dei neri sono importanti, movimento di protesta degli afroamericani contro le discriminazioni e la violenza della polizia, ndtr.] degli ebrei” Nell’articolo Levine, l’importante insegnante ebreo dell’ Orange County Hillel [istituzione ebraica che si rivolge agli studenti ebrei nell’omonima università, ndtr.] chiede agli ebrei di sostenere il movimento Black Lives Matter come estensione del loro sionismo. Secondo lui gli ebrei hanno tradizionalmente predicato il messaggio universale secondo cui “ogni vita è importante”, finché Theodor Herzl – il cosiddetto padre fondatore del sionismo – alla fine del XIX secolo comprese che l’antisemitismo non sarebbe finito senza uno Stato per gli ebrei.

Di conseguenza il sionismo è, scrive Levine, “la più alta rivendicazione che le vite degli ebrei sono importanti. Gli ebrei sono arrivati alla difficile ma importante consapevolezza che in alcune particolari circostanze è necessario mettere da parte l’universalismo a favore del particolarismo. Comprendiamo che, mentre dobbiamo impegnarci costantemente in problemi globali e universali, l’educazione e la protezione specifica degli ebrei è fondamentale per il nostro benessere.” In breve, quello che Levine sta sostenendo è che l’appoggio ebraico a Black Lives Matter è un obbligo precisamente perché lo è l’appoggio ebraico al sionismo.

Ma il sionismo non ha niente a che vedere con la giusta richiesta che gli ebrei sostengano le vite dei neri. Anch’io credo che dovremmo farlo. Il problema è che il ragionamento di Levine legittima di fatto una serie di pratiche razziste che il sionismo consente, pratiche che svalutano le vite degli altri. In altre parole Levine sta ripulendo la storia.

In particolare la sua descrizione trascura un fattore cruciale: l’ammirazione di Herzl per il colonialismo. Oggi è probabile che qualunque associazione tra Herzl e il colonialismo sollevi forti obiezioni da parte di sionisti come Levine. Eppure il sionismo di Herzl era effettivamente radicato nel suo desiderio di emulare il colonialismo europeo della sua epoca.

Il diario di Herzl cita una lettera che egli mandò nel 1902 a Cecil Rhodes, un affarista britannico e uno dei più famosi colonialisti del periodo. Rhodes fu il fondatore della compagnia mineraria De Beers, che prese il controllo dei diamanti del Sudafrica. Le condizioni di lavoro nelle miniere della De Beers erano di sfruttamento e pericolo: parte del lavoro veniva svolto da prigionieri non pagati, mentre persino ai lavoratori stipendiati non era consentito lasciare il baraccamento in cui abitavano. Prima di fondare la compagnia, Rhodes era il proprietario della British South Africa Company, che vi controllava le miniere d’oro e sfruttava allo stesso modo i lavoratori africani.

Nella sua lettera Herzl scrive a Rhodes: “Lei è invitato a contribuire a fare la storia. Ciò non riguarda l’Africa, ma una parte dell’Asia minore; non inglesi ma ebrei… Come mai, allora, si dà il caso che io mi rivolga a lei, dato che questa è una materia estranea dai suoi interessi? Com’è possibile? Perché si tratta di una questione coloniale.”

Gli apologeti di Herzl possono ben sostenere che fosse un uomo del suo tempo. Eppure il colonialismo era di fatto considerato discutibile persino quando era in corso, non solo retroattivamente, e non solo tra le sue vittime. Nel 1901 Mark Twain scrisse saggi a sostegno della Lega Imperialista [si tratta di un refuso: in realtà si chiamava Antimperialista, ndtr.] Americana, che si oppose all’annessione delle Filippine da parte dell’America. L’anno seguente il famoso economista britannico John A. Hobson pubblicò Imperialismo, che metteva in rapporto capitalismo ed espansione imperialista – un lavoro che scaturì dalla sua critica alle azioni di Rhodes in Sudafrica.

La decisione di Herzl di avvicinarsi a Rhodes non era affatto casuale. Levine ha ragione nel sostenere che Herzl pensava che uno Stato ebraico sarebbe stato la soluzione dell’antisemitismo in Europa, però evita di menzionare come Herzl pensava che sarebbe stato raggiunto. Nel suo pamphlet del 1896 Lo Stato Ebraico, il progetto di Herzl per la creazione di uno Stato ebraico si basa sulla creazione di una “Agenzia ebraica”. Per spiegare come questa agenzia avrebbe funzionato Herzl si chiede:

Cos’è oggi l’estrazione dell’oro nel Transvaal (regione del Sudafrica)? Non ci sono vagabondi avventurieri, solo geologi e ingegneri esperti sono sul luogo per controllarvi l‘industria dell’oro e per utilizzare ingegnosi macchinari per separare il minerale dalle pietre. Ben poco ora è lasciato al caso.

Quindi dobbiamo studiare e prendere possesso del nuovo Paese ebraico mediante ogni moderno espediente.”

Il modello operativo dell’Agenzia Ebraica di Herzl si rivela essere la Compagnia Britannica del Sudafrica di Rhodes, la principale responsabile dell’estrazione dell’oro nella regione del Transvaal in Sudafrica, a spese degli africani e delle loro risorse.

L’adozione di un modello colonialista ebbe altri effetti. In Lo Stato Ebraico Herzl spiega perché il consenso di una potenza europea fosse necessario per permettere l’immigrazione e la colonizzazione ebraica del territorio destinato allo Stato [ebraico]:

Sono stati presi in considerazione due territori, la Palestina e l’Argentina. In entrambi i Paesi sono stati fatti importanti esperimenti di colonizzazione, benché sulla base del principio sbagliato di una graduale infiltrazione degli ebrei. Un’infiltrazione è destinata a finire male. Continua fino al momento inevitabile in cui la popolazione nativa si sente minacciata e obbliga il governo a bloccare un’ulteriore afflusso di ebrei. Di conseguenza l’immigrazione è inutile se non abbiamo il diritto sovrano di continuare tale immigrazione.”

La “popolazione nativa” non avrebbe certo concesso il diritto sovrano di colonizzare il proprio Paese. Proprio come la regina Vittoria diede alla British South African Company una concessione per estrarre minerali in Sudafrica nel 1889, così Herzl progettò che la sua iniziativa cominciasse “sotto la protezione delle potenze europee.”

Infine è importante evidenziare che la scelta della Palestina come obiettivo della colonizzazione non era fondamentale nel progetto di Herzl. Le sue ragioni per prendere in considerazione la Palestina (invece dell’Argentina) furono che molti ebrei erano già immigrati là; che più ebrei avrebbero appoggiato il sionismo per ragioni religiose (“Il nome stesso della Palestina attirerebbe il nostro popolo con una forza di straordinaria efficacia”); che “là dovremmo costituire parte di un bastione dell’Europa contro l’Asia, un avamposto di civiltà contro la barbarie.”

In base al progetto di Herzl i nativi palestinesi, o quanti si trovassero a vivere nel territorio scelto per la colonizzazione, sarebbero stati obbligati a lasciare la loro terra, proprio come i minerali sudafricani finirono nelle mani di Rhodes. Herzl pronosticò che i nativi si sarebbero “sentiti minacciati” da questo accordo, ma depose la propria fiducia in una potenza europea per risolvere la questione.

È assolutamente possibile affermare che le vite dei neri sono importanti senza svalutare le vite di qualunque altro gruppo. Invece, a differenza di quanto sostiene Levine, il sionismo non ha mai riguardato solo l’idea che le vite degli ebrei siano importanti; fin dall’inizio, ciò ha significato che le vite dei coloni ebrei sarebbero state considerate più importanti di quelle dei gruppi indigeni, dai tempi di Herzl fino ad oggi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Beinart è l’ultimo tra i sionisti progressisti ad abbandonare la soluzione dei due Stati

DI PHILIP WEISS

8 luglio 2020 – Mondoweiss

Nella giornata di ieri tutti parlavano dell’articolo di Peter Beinart [editorialista, giornalista e commentatore politico progressista statunitense, ndtr.], il quale su Jewish Currents [ Correnti Ebraiche, rivista trimestrale di politica e sito con orientamento di sinistra, ndtr.] abbandona la soluzione dei due Stati. Beinart afferma che lo sforzo di creare uno Stato palestinese è fallito ed è tempo che i sionisti progressisti sostengano l’uguaglianza tra ebrei e palestinesi. Su Twitter Beinart è andato oltre, elogiando il libro rivoluzionario di Ali Abunimah [giornalista palestinese-americano convinto sostenitore della soluzione di un unico Stato, ndtr.], One Country [Un Paese, ndtr.], (che considera la soluzione dei due Stati come apartheid), e in un editoriale sul New York Times di oggi, in cui Beinart deplora l’idea di “separazione” tra palestinesi ed ebrei.

L’obiettivo dell’uguaglianza è ora più realistico rispetto all’obiettivo della separazione. Il motivo è che cambiare lo status quo richiede una prospettiva abbastanza dura da creare un vasto movimento di opinione. Uno Stato palestinese frammentato sotto il controllo israeliano non offre questa prospettiva. L’uguaglianza è in grado di farlo. Sempre di più [vivere in] un medesimo Stato non costituisce solo la propensione dei giovani palestinesi. È anche la propensione dei giovani americani.

Beinart abbandona di proposito un’argomentazione avanzata in numerose occasioni, secondo cui uno Stato per due nazioni non funziona. Ora sostiene ciò che Yousef Munayyer affermava nel corso di un dibattito del 2015 con Beinart: non sarebbe stata una cosa semplice, ma la prospettiva avrebbe dovuto essere quella di uno Stato unico democratico.

Qualsiasi intervento critico sulla svolta di Beinart deve riconoscere il suo status e la sua sincerità. Si tratta di uno scrittore molto stimato dalla classe dirigente. È stato il braccio destro di Martin Peretz a New Republic [rivista culturale e politica di cui Martin Peretz, sostenitore di Israele, era proprietario ed editore, ndtr.], quindi doveva essere un ultra-sionista. Ha tenuto conferenze private presso l’AIPAC, la lobby israeliana di destra. Ha scritto un libro a sostegno della guerra in Iraq, e in seguito ha ripudiato la sua posizione. Il suo articolo del 2010 su The New York Review of Books [rivista bisettimanale con articoli su letteratura, cultura e attualità, ndtr.] sul fallimento della classe dirigente ebraico-americana, di cui sosteneva il crollo morale in seguito al consenso all’occupazione, è stato estremamente significativo in quanto Beinart ha introdotto nell’opinione più diffusa concetti presi da Walt e Mearsheimer [John Mearsheimer e Stephen Walt hanno pubblicato nel 2007 il libro La Lobby Israeliana e la politica estera americana, in cui sostengono che Israele condiziona la politica estera USA, ndtr.] e anche B’Tselem [ONG israeliana che sostiene i diritti dei palestinesi, ndtr.]. Lo ha ribadito in seguito con un libro, La crisi del sionismo, che si apre sul disgusto dell’autore per le violazioni israeliane dei diritti umani e procede mettendo alla gogna la presidente della DNC [Comitato Nazionale Democratico, ndtr.] Debbie Wasserman Schultz per aver capeggiato le ovazioni a Netanyahu. Beinart è diventato un eroe alle riunioni dei sionisti progressisti. Agli incontri di J Street [ONG sionista liberal americana che propugna una soluzione dei due Stati, ndtr.] i giovani indossavano magliette con la scritta Beinart’s Army, [esercito di Beinart, ndtr.].

L’importanza di Beinart nella vita comunitaria ebraica progressista significa che le sue nuove opinioni rappresentano, come afferma Robert Herbst [stimatissimo giornalista americano, dagli anni ‘60 agli ’80, conduttore del telegiornale della CBS, ndtr.], un potenziale “momento Walter Cronkite”. Il momento in cui il più influente conduttore americano, di ritorno dal Vietnam nel 1968, affermò che l’America non stava vincendo la guerra, che si trattava di un “sanguinoso … stallo” e Lyndon Johnson disse, come è noto, di aver perso il Paese.

Molti potrebbero dire che le rivelazioni politiche di Beinart non sono originali e, anche se sono d’accordo, risponderei che è un giornalista carismatico e di talento. Non dimenticherò mai il momento in cui alcuni anni fa, durante un affollato incontro di J Street, ha affermato che se Israele e il sionismo avessero fallito, gli ebrei avrebbero camminato sulle macerie di quell’errore per generazioni … Ed ecco un bel passaggio dal brano di Jewish Currents:

Per generazioni, gli ebrei hanno visto uno Stato ebraico come un tikkun, una riparazione, un modo per superare l’eredità dell’Olocausto. Ma non ha funzionato. Per giustificare la nostra oppressione nei confronti dei palestinesi, lo Stato ebraico ci ha richiesto di considerarli come nazisti. E, in questo modo, ha mantenuto in vita l’eredità dell’Olocausto. Il vero tikkun è l’uguaglianza, una casa ebraica che è anche una casa palestinese.

Beinart si unisce all’elenco di sionisti progressisti che hanno abbandonato la soluzione dei due Stati e la sua adesione a tale elenco significa che crescerà. Alcuni dei sionisti liberali che lo hanno preceduto sono … Gershon Baskin [fondatore dell’IPCRI – Centro di ricerca e informazione Israele/ Palestina, dedicato alla risoluzione del conflitto israelo-palestinese sulla base di una soluzione “due Stati per due popoli”, ndtr.] l’anno scorso sul Jerusalem Post:

Quelli di noi in Israele che hanno sostenuto e lottato per ottenere una soluzione con due Stati sono ora costretti ad accettare la nuova realtà che [Netanyahu] creerà e dovremo unirci ai ranghi del popolo palestinese che combatterà per la democrazia e uguaglianza in uno Stato laico non-nazione-non-etnico.

Ian Lustick [politologo ed esperto americano del Medio Oriente, ndtr.] nel suo libro dell’anno scorso, Paradigm Lost, che una volta era un attivista a favore dei due Stati, ora fa appello ad una battaglia per la parità dei diritti.

O Eric Alterman [storico e giornalista americano, ndtr.] che afferma su The Nation [la più antica rivista statunitense, ndtr.] che il sionismo progressista è una contraddizione in termini … Lara Friedman della Fondazione Middle East Peace, in precedenza di Americans for Peace Now, che chiede sanzioni … Larry Derfner [giornalista israelo americano, ndtr.] che pubblica il suo libro No Country for Jewish Liberals [Gli ebrei progressisti non hanno un Paese, ndtr.] e che sostiene il BDS…. o il leggendario Jeff Halper [antropologo, docente e attivista politico israeliano, ndtr.], contrario all’occupazione, che ha abbandonato da vari decenni il sionismo…

La defezione di Beinart rispetto all’opzione per i due Stati e per la separazione esercita un’enorme pressione sulle principali organizzazioni sioniste liberal-centriste J Street, Americans for Peace Now, New Israel Fund e Israel Policy Forum, perché mettano da parte gli orribili discorsi su “separazione” e demografia e si spostino più a sinistra. J Street è già sotto pressione. La sua opposizione all’annessione è stata, secondo gli studenti che fanno parte della sua sezione giovanile, solo parolaia e inefficace, e questi giovani, molti dei quali della comunità ebraica, stanno sicuramente esultando per le nuove opinioni di Beinart e stanno cercando di andare oltre. Scommetto che IfNotNow [organizzazione progressista ebraico americana che si oppone all’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, ndtr.] appoggerà fra non molto il BDS…

Il sionista conservatore David Harris recentemente si è lamentato del fatto che sia i finanziatori che i sostenitori ebrei stanno facendo pressioni su di lui affinché prenda una posizione decisa contro Israele. Sia i finanziatori che i sostenitori! La comunità ebraica organizzata è chiaramente in evoluzione rispetto a Israele e la sinistra può avere l’opportunità di guidare questo dibattito. L’appoggio di Beinart ad Ali Abunimah mostra che la narrazione palestinese del sionismo si trova ora nel campo degli ebrei e non se ne andrà più.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Le demolizioni di case raggiungono un picco prima dell’annessione

Maureen Clare Murphy

7 luglio 2020 – Electronic Intifada

L’annessione formale di territori occupati da parte di Israele potrebbe essere stata accantonata, ma prosegue l’espulsione forzata di palestinesi in Cisgiordania.

Secondo l’associazione [israeliana] per i diritti umani B’Tselem, il mese scorso le demolizioni israeliane di case palestinesi nei territori sono aumentate.

In Cisgiordania, compresa Gerusalemme est – che Israele ha già annesso in violazione delle leggi internazionali – sono state distrutte circa 45 case.

B’Tselem afferma che otto delle case distrutte a Gerusalemme “sono state demolite dai loro proprietari, dopo che essi hanno ricevuto un ordine di demolizione dalla Municipalità e desideravano evitare di pagare il costo della demolizione e le multe del Comune.”

A Gerusalemme est più di 50 persone, tra cui circa 30 minorenni, sono state cacciate in seguito alle demolizioni. Nel resto della Cisgiordania 100 persone, metà delle quali minorenni, sono state lasciate senza casa. Oltre alla distruzione delle case, il mese scorso le forze di occupazione israeliane hanno raso al suolo più di 35 strutture non abitative.

B’Tselem ha pubblicato il video dell’Amministrazione Civile israeliana – in realtà un’unità del suo esercito – che il 3 giugno ha demolito cinque stalle di proprietà della famiglia Abu Dahuk nei pressi di Gerico nella Valle del Giordano.

Le forze di occupazione hanno anche confiscato pannelli solari, frigoriferi e contenitori per l’acqua. In gennaio, con il pretesto della vicinanza di una zona militare israeliana, la famiglia Abu Dahuk è stata espulsa da un’area attigua in cui aveva vissuto per 30 anni.

Israele ha dichiarato zona militare chiusa più di metà della Valle del Giordano della Cisgiordania. Ai palestinesi che vivono in queste zone, molti dei quali in comunità di pastori, è stato ordinato di evacuare le loro case quando Israele compie esercitazioni militari di combattimento.

Ma il vero scopo della dichiarazione di zone militari chiuse è l’espropriazione delle terre palestinesi per poi annetterle ad Israele.

L’utilizzo di macchinari edili delle ditte Caterpillar e JCB

All’inizio di giugno l’Amministrazione Civile israeliana si è occupata della distruzione di sei case nelle colline meridionali di Hebron, in Cisgiordania.

Per mettere in atto questi crimini ha utilizzato macchinari della Caterpillar e della JCB.

Entrambe le imprese, rispettivamente americana e britannica, sono state contestate per il loro perdurante coinvolgimento nella distruzione delle case palestinesi.

In seguito, nello stesso mese l’amministrazione civile ha smantellato e confiscato un recinto per allevamento del bestiame in un’altra zona delle colline meridionali di Hebron.

Le forze di occupazione hanno sparato granate stordenti contro abitanti e attivisti che protestavano contro la confisca.>

Così, anche se l’annessione di Israele non è stata formalizzata, i palestinesi continuano ad essere espulsi per farvi posto.

Come ha detto recentemente Hagai El-Ad, direttore di B’Tselem, la mancanza di iniziative internazionali riguardo all’annessione di fatto delle terre della Cisgiordania invia ad Israele un messaggio di accondiscendenza:

“Fai quello che vuoi con milioni di palestinesi per tutto il tempo che vuoi. È permesso quasi tutto finché non vengano ufficialmente formalizzati certi aspetti, in modo che noi tutti possiamo continuare a guardare da un’altra parte rispetto a questa ingiustizia e facciamo finta che sia temporanea.”

Finora nel corso di quest’anno in Cisgiordania sono state demolite circa 325 strutture di proprietà di palestinesi, con conseguente espulsione di circa 370 persone.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Come la guerra di propaganda israeliana riduce l’Europa al silenzio

Gideon Levy

6 luglio 2020 – Middle East Eye

l diluvio di accuse esagerate di antisemitismo, a volte senza alcun fondamento, si è rivelato di dubbia efficacia.

La Segretaria di Stato all’Educazione del governo ombra del partito laburista britannico, Rebecca Long-Bailey, è stata recentemente dimissionata per aver diffuso sulle reti sociali un articolo in cui affermava, tra le altre cose, che Israele aveva addestrato la polizia americana ad utilizzare la tecnica del soffocamento consistente nel premere un ginocchio sul collo, praticata su George Floyd [afroamericano ucciso per soffocamento dalla polizia di Minneapolis, la cui morte ha dato inizio a molte proteste negli USA e nel mondo, ndtr.].

Nelle ultime settimane questa affermazione è circolata ampiamente nell’ambito della sinistra mondiale. Il segretario del partito Laburista inglese Keir Starmer ha accusato Long-Bailey di aver postato un articolo contenente una “teoria cospirazionista antisemita”. Evidentemente dopo le dimissioni di Jeremy Corbin il vento del cambiamento ha soffiato sul partito laburista britannico– e questo cambiamento non prelude a niente di buono. 

Osare criticare Israele

Il 25 giugno Middle East Eye ha pubblicato delle informazioni contenute nell’articolo in discussione sottoponendole a ‘fact-checking’ [verifica dei fatti, ndtr.]. L’accusa secondo cui Israele ha insegnato alla polizia americana il metodo di soffocamento che ha causato la morte di Floyd è infondata. Da decenni la polizia degli Stati Uniti ha il grilletto terribilmente facile quando sono coinvolti dei cittadini neri – ben prima che lo Stato d’Israele e la sua polizia venissero creati.

La polizia americana non ha certo bisogno della consulenza israeliana per essere capace di uccidere in gran numero civili neri innocenti.

Resta il fatto che l’inquietante velocità con cui Long-Bailey è stata sostituita nel governo ombra dovrebbe preoccupare i partigiani dei diritti umani ben più della credibilità di qualunque articolo che lei ha condiviso su internet. Long-Bailey è stata silurata per il solo motivo che ha osato condividere un articolo che criticava Israele, non perché ha osato pubblicare un articolo carente di basi fattuali.

Starmer non si preoccupa certo allo stesso modo dell’attendibilità degli articoli diffusi dai membri del suo partito. Si inquieta di più per l’immagine antisemita, non sempre giustificata, che si affibbia al suo partito.

Anche se le accuse dell’articolo fossero state inventate e senza alcun fondamento, resta molto improbabile che Long-Bailey sarebbe stata liquidata in questo modo se avesse postato false accuse contro qualunque altro Paese al mondo. In Europa, quando si tratta di critiche a Israele, le regole del gioco sono diverse. C’è Israele da una parte e il resto del mondo dall’altra.

Efficace propaganda sionista

In questi ultimi anni la propaganda israeliana è stata coronata da buon esito in Europa. Il licenziamento di Long-Bailey è solo un successo tra tanti altri. Ultimamente, sotto la direzione di un Ministero degli Affari Strategici relativamente nuovo nel governo israeliano – e con la cooperazione dell’establishment sionista nel resto del mondo – la propaganda sionista ha adottato una nuova strategia, che si rivela di un’efficacia senza precedenti.

Israele e l’establishment sionista in molti Paesi hanno iniziato a definire come antisemita ogni critica a Israele. Questo ha ridotto al silenzio gli europei. I propagandisti di Israele sfruttano cinicamente il senso di colpa dell’Europa che permane ancora riguardo al passato, spesso a ragione – e le accuse hanno raggiunto il proprio obbiettivo.

Continua ad essere difficile criticare Israele, l’occupazione, i crimini di guerra che l’accompagnano, le violazioni del diritto internazionale o il trattamento dei palestinesi da parte di Israele; tutto questo è etichettato come antisemitismo e sparisce immediatamente dal dibattito. Oltre a questa campagna di catalogazione, la maggior parte delle Nazioni occidentali, in particolare gli Stati Uniti, hanno adottato delle leggi che mirano a dichiarare guerra al movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) – del tutto legittimo -, tentativo che ha lo scopo di penalizzare le sue attività e i suoi attivisti.

È incredibile che questa lotta contro un’occupazione e la sua infrastruttura legale sia oggetto di una delegittimazione e di una criminalizzazione intense. Provate a immaginare se un altro tipo di lotta condotta, per esempio, contro le fabbriche dove si sfrutta la miseria nel sud-est asiatico, contro la produzione di carne su scala industriale o i grandi campi di concentramento in Cina, fosse definita “criminale” in Occidente. Difficile da immaginare.

Eppure la lotta contro l’apartheid israeliana – e non c’è lotta più incontestabilmente morale – oggi è considerata criminale. Al di là del coronavirus, provate oggi a prenotare un grande spazio pubblico da qualche parte in Europa per un evento di solidarietà con i palestinesi. Provate a pubblicare un articolo contro l’occupazione israeliana sugli organi di stampa tradizionali. L’occhiuta macchina della propaganda israeliana vi scoverà immediatamente, vi accuserà di antisemitismo e vi ridurrà al silenzio.

Sostenere la libertà di espressione

Ridurre al silenzio: non c’è un’altra espressione per descrivere la situazione. Ciò significa che questo problema non può riguardare solo coloro che si occupano della causa palestinese, deve diventare una preoccupazione urgente per chiunque sostenga la libertà di espressione.

Israele non potrà certo beneficiare a lungo della sua campagna aggressiva, quasi violenta, che potrebbe ritorcersi sia contro lo Stato israeliano che contro gli ebrei in generale, suscitando l’opposizione, addirittura la repulsione, tra i sostenitori della libertà di espressione. Per una ragione sconosciuta ciò non si è – ancora – verificato, l’Europa ha piegato la testa e si è arresa senza condizioni di fronte a questa pioggia di accuse eccessive di antisemitismo, a volte del tutto infondate. L’Europa è stata ridotta al silenzio.

Sicuramente bisogna combattere l’antisemitismo. Esso esiste, continua a mostrare i denti, riaccende i ricordi del passato. Ma la critica necessaria e legittima dell’occupazione israeliana o anche del sionismo non può essere associata all’antisemitismo.

Se Israele compie crimini di guerra bisogna opporvisi e condannarli. È più che un diritto; è un dovere. Come accidenti potrebbe trattarsi di antisemitismo? Come ha fatto una lotta di coscienza a diventare un tabù?

Se Israele evoca l’annessione di territori occupati e la trasformazione di Israele in uno Stato di apartheid non solo de facto, ma de jure, è un dovere opporvisi e denunciare le intenzioni di Israele. Se Israele bombarda i civili indifesi a Gaza, come si fa a non opporsi? Tuttavia questo è diventato quasi impossibile in Europa e negli Stati Uniti.

Confusione sistemica

Ormai da quasi un secolo i palestinesi sono privati del loro Paese. In questi ultimi 53 anni hanno anche vissuto sotto occupazione militare senza diritti, senza un presente né un futuro, le loro terre violate e la loro libertà annientata, la loro vita e la loro dignità considerate senza valore – e improvvisamente la lotta contro tutto questo viene proibita.

Vi è una confusione sistemica sconcertante: l’occupante ha il diritto di difendersi e chiunque lotti contro l’occupazione si trova tra gli accusati. Invece di denunciare l’occupazione israeliana, di attaccarla e infine cominciare a farle pagare un costo sanzionando il Paese responsabile – cosa che l’Europa ha fatto molto giustamente nei giorni seguenti l’annessione della Crimea da parte della Russia -, invece di definire apartheid l’apartheid israeliana, perché non vi è altra parola per descriverla, i suoi detrattori sono ridotti al silenzio.

È disgustoso, immorale e ingiusto. L’Europa non può, e non deve, continuare a restare in silenzio riguardo a questo, anche se il prezzo da pagare è di essere definiti antisemiti.

Queste accuse non devono continuare a ridurre al silenzio l’Europa. Gli ebrei e i sionisti israeliani formulano false accuse, e allora?

Long-Bailey ha condiviso un articolo online, che forse non meritava di essere diffuso. Dimissionarla è un problema ben più grave.

Gideon Levy è un giornalista e membro del comitato di redazione del quotidiano Haaretz. E’entrato a Haaretz nel 1982 ed è stato per quattro anni vice caporedattore del giornale. Ha vinto il premio Euro-Med Journalist nel 2008, il premio Leipzig Freedom nel 2001, il premio Israeli Journalists’Union [Unione dei Giornalisti Israeliani] nel 1997 ed il premio dell’Associazione dei Diritti Umani di Israele nel 1996. Il suo ultimo libro, ‘La punizione di Gaza’, è stato pubblicato dalle edizioni Verso nel 2010.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo l’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Sanzioni degli USA contro la CPI: a proposito della risposta collettiva di 67 Stati

Nicolas Boeglin

30 giugno 2020 – Middle East Monitor

Lo scorso 11 giugno il mondo ha assistito attonito a un atteggiamento inusitato nella storia del diritto internazionale: gli Stati Uniti hanno annunciato ufficialmente vari provvedimenti sanzionatori presi contro il personale della Corte Penale Internazionale (CPI).

Lo scorso 23 giugno sono stati 67 gli Stati aderenti allo Statuto di Roma che hanno deciso di alzare la voce, diffondendo un comunicato congiunto in cui si oppongono a queste insolite sanzioni unilaterali nordamericane contro la giustizia penale internazionale.

L’iniziativa di questa risposta collettiva, scarsamente pubblicizzata, è stata affidata a Costarica e Svizzera.

Sintesi del testo del comunicato congiunto

Il comunicato sottoscritto chiarisce che:

Come Stati Membri dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (CPI) riaffermiamo il nostro appoggio incondizionato alla Corte come istituzione giudiziaria indipendente e imparziale. In sintonia con il comunicato stampa dell’11 giugno del presidente dell’Assemblea degli Stati Membri rinnoviamo il nostro impegno per mantenere e difendere i principi e i valori sanciti dallo Statuto di Roma e di preservarne l’integrità senza che essa venga danneggiata da nessuna iniziativa o minaccia contro la Corte, i suoi funzionari e quanti collaborano con essa.”

In questo appello unitario da parte dei firmatari si afferma anche:

Continuiamo ad impegnarci a favore di un ordine internazionale sulla base di regole. La Corte Penale Internazionale è parte integrante di questo ordine ed è un’istituzione fondamentale nella lotta contro l’impunità e nella ricerca della giustizia, componenti essenziali della pace, della sicurezza e della riconciliazione sostenibili. Di conseguenza continueremo a rispettare i nostri obblighi di collaborazione in base allo Statuto di Roma ed esortiamo tutti gli Stati a garantire la piena collaborazione con la Corte affinché essa svolga al meglio il proprio importante compito di garantire la giustizia per le vittime dei crimini più gravi, di grande rilevanza per la comunità internazionale.”

Va sottolineato che, per una qualche ragione che lascia sorpresi, il testo in spagnolo del comunicato non è stato pubblicato in nessun sito ufficiale di nessuno Stato ispanofono, ragione per la quale ci siamo limitati a riprodurre le versioni ufficiali in inglese e francese rese pubbliche dagli organismi diplomatici di altri Stati.

Benché, a differenza del titolo, il testo in sé non menzioni esplicitamente gli Stati Uniti, esso riafferma in modo inequivocabile l’appoggio alla giustizia penale internazionale da parte di questi 67 Stati che lo hanno sottoscritto, cercando in questo modo di rispondere alla inusitata decisione nordamericana annunciata lo scorso 11 giugno.

Alcuni brevi particolari sui firmatari

Gli Stati Membri dello Statuto di Roma sono in totale 123 (secondo il documento ufficiale del depositario dello Statuto di Roma, che spetta alla Segreteria Generale delle Nazioni Unite).

La lista dei 67 Paesi, che precede il testo del comunicato congiunto reso pubblico il 23 giugno dall’Aia, consente di identificare chiaramente gli Stati Membri dello Statuto di Roma che per qualche ragione hanno scelto di non appoggiare l’iniziativa presentata da Costarica e Svizzera non firmando il testo.

La mancanza di queste firme risponde probabilmente a forti pressioni diplomatiche esercitate dagli Stati Uniti. Nel caso dell’America Latina non compaiono El Salvador, Guatemala, Honduras, Panama e Paraguay. Nel caso di Stati Membri dell’Unione Europea (UE), né Ungheria né Polonia hanno considerato opportuno firmare il comunicato, così come la Corea del Sud e il Giappone in Asia.

Nel suo account twitter personale il presidente dell’Assemblea degli Stati Membri, il sudcoreano O-Gon Kwon, ha ringraziato Costarica e Svizzera per aver dato avvio all’iniziativa di questa risposta collettiva.

Il fatto che il Costarica sia stato tra quelli che hanno preso l’iniziativa non fa che riconfermare la sua tradizionale vocazione di attaccamento alla giustizia e di difesa del diritto internazionale.

Nel caso specifico della CPI è necessario ricordare che il Costarica è stato l’unico Stato centroamericano a non firmare l’Accordo Bilaterale di Immunità” (o ABI) uno degli oltre 100 firmati dagli Stati Uniti per evitare che il suo personale militare o civile possa essere consegnato alla giustizia penale internazionale. A questo riguardo il tipo di pressioni esercitate dai diplomatici nordamericani negli anni 2005 e 2006 al più alto livello in Costarica e le risposte alle loro richieste possono essere analizzate riguardando i telegrammi confidenziali resi noti da Wikileaks. Nel secondo di questi messaggi si può leggere che [in inglese nel testo, ndtr.] “dopo l’incontro, tuttavia, la vicepresidentessa di Arias, Laura Chinchilla, ha chiesto una copia dell’articolo 98 dell’accordo tra USA e Colombia, che poi le abbiamo consegnato.”

Nella pubblicazione del 2012 dell’Università per la Pace [istituzione accademica dell’ONU con sede in Costarica, ndtr.] l’ex-ministro degli Esteri del Costarica Bruno Stagno Ugarte, nel suo articolo intitolato “Difendere l’integrità dello Statuto di Roma: gli alti e bassi del caso Costarica, 2002-2008”, entra nei dettagli dell’impatto delle sanzioni a cui è stato in seguito sottoposto il Costarica per essere rimasto fedele ai principi sui quali si fonda la CPI.

Tornando alle sanzioni annunciate nel giugno del 2020 contro il personale della CPI “non c’è dubbio che questa decisione nordamericana non abbia precedenti nella storia del diritto internazionale.”

Anche il fatto di rispondere a una insolita decisione unilaterale (salutata e accolta positivamente da un solo Stato: Israele) con una controffensiva diplomatica collettiva è un gesto altrettanto inedito: da questo punto di vista il comunicato unitario sottoscritto da questi 67 Paesi Membri dello Statuto di Roma può essere considerato una vera “prima assoluta” nella storia della giustizia penale internazionale.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)