Rapporto OCHA del periodo 11 – 24 agosto 2020

In Cisgiordania in due distinti episodi, due palestinesi, uno di essi minore, sono stati colpiti e uccisi dalle forze israeliane; altri tre sono rimasti feriti

Il 17 agosto, a una delle porte che conducono alla moschea di Al Aqsa nella Città Vecchia di Gerusalemme, forze israeliane hanno sparato, uccidendo un palestinese 30enne che aveva accoltellato e ferito un ufficiale della polizia di frontiera. In seguito all’accaduto, le forze israeliane hanno limitato i movimenti all’interno della Città Vecchia; secondo fonti mediche palestinesi, tale provvedimento ha impedito loro di raggiungere l’area in cui era stato colpito l’aggressore. Anche una donna, passante palestinese, è rimasta ferita da un proiettile vagante. Il 19 agosto, a Deir abu Mash’al (Ramallah), nel secondo episodio [dei due sopra citati], un 16enne palestinese è stato ucciso ed altri due minori sono stati feriti. Le circostanze in cui il ragazzo è stato ucciso rimangono poco chiare, nondimeno fonti militari israeliane hanno asserito che i minori erano in procinto di lanciare bottiglie incendiarie e che i soldati hanno sparato quando li hanno visti sistemare a terra dei pneumatici, con l’intento di incendiarli. Secondo testimoni oculari palestinesi, nell’area non ci sono stati scontri, né incendio di pneumatici. Al momento della pubblicazione di questo Rapporto, entrambi i corpi dei palestinesi uccisi sono ancora trattenuti dalle forze israeliane. I due decessi portano a 19 il numero di palestinesi uccisi in Cisgiordania, dall’inizio dell’anno.

Le intensificate ostilità nella Striscia di Gaza e nel sud di Israele hanno causato il ferimento di 12 palestinesi e 6 israeliani. Le tensioni sono aumentate a partire dal 12 agosto, quando palestinesi hanno lanciato palloni igniferi da Gaza verso Israele, provocando l’incendio, secondo fonti israeliane, di terreni agricoli nel sud di Israele. Gruppi armati palestinesi hanno anche lanciato una serie di razzi contro Israele: benché alcuni siano stati intercettati dal sistema di difesa “Cupola di Ferro”, sei israeliani sono rimasti feriti e proprietà sono state danneggiate. Successivamente, le forze israeliane hanno colpito diverse aree aperte e postazioni militari [di Gaza] appartenenti a gruppi armati, provocando il ferimento di quattro minori e una donna, oltre a danni ai siti presi di mira ed a proprietà civili adiacenti, comprese almeno nove abitazioni ed una scuola. Inoltre, un palestinese è stato ferito dalle schegge di un razzo [palestinese] ed altre sei persone sono rimaste ferite vicino alla recinzione, in scontri con forze israeliane. Le autorità israeliane hanno anche bloccato l’ingresso in Gaza della maggior parte delle merci, compreso il carburante che transitava dal valico di Kerem Shalom, ed hanno ridotto l’area di pesca consentita lungo la costa di Gaza, inizialmente ad otto miglia nautiche e, successivamente, a zero. Il blocco dell’ingresso di carburante ha causato, il 18 agosto, la chiusura completa della Centrale Elettrica di Gaza, determinando interruzioni di corrente fino a 20 ore al giorno in tutta Gaza, con ripercussioni sulla fornitura dei servizi di base.

In Cisgiordania, in molteplici episodi e scontri, le forze israeliane hanno ferito 81 palestinesi [seguono dettagli]. La maggior parte (45) dei feriti si sono avuti nel villaggio di Turmus’ayya (Ramallah), durante una dimostrazione svolta nel corso di un evento pubblico di protesta contro l’accordo tra Emirati Arabi Uniti e Israele, annunciato il 13 agosto. Inoltre, a Gerusalemme Est, forze israeliane intervenute a disperdere un raduno all’ingresso dell’ospedale Al Maqased, nel quartiere di At Tur, hanno sparato lacrimogeni e bombe assordanti all’interno del complesso ospedaliero, provocando lesioni a 20 palestinesi appartenenti al personale medico dell’ospedale. In un episodio separato, forze israeliane hanno fatto irruzione nel medesimo ospedale per arrestare un palestinese ferito in uno scontro avvenuto durante una demolizione (vedi di seguito, al quinto paragrafo). Nei governatorati di Tulkarm, Qalqiliya e Jenin, altri dieci palestinesi sono rimasti feriti mentre tentavano di oltrepassare la Barriera attraverso varchi non autorizzati. Altri quattro palestinesi sono rimasti feriti durante altrettante operazioni di ricerca-arresto condotte nei governatorati di Tulkarm e Ramallah e a Gerusalemme Est; in Cisgiordania durante il periodo in esame sono state effettuate 153 operazioni di questo tipo. Inoltre, un palestinese è stato ferito dall’esplosione di un ordigno; questo si trovava all’interno di una scatola collocata nei pressi dell’area dove si svolgono le manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya) ed è esploso al contatto. Si tratta di uno dei tre dispositivi trovati lungo il percorso delle manifestazioni e vicino a un parco pubblico: secondo media israeliani sarebbero stati collocati dalle forze israeliane. Un palestinese è stato ferito vicino alla città di Betlemme, a quanto riferito, dopo aver lanciato una bottiglia incendiaria; ed un altro al checkpoint di Qalandiya (Gerusalemme), perché sospettato di avere indosso un coltello. In quest’ultimo caso, l’uomo soffriva di problemi di udito e quindi potrebbe non aver sentito l’alt dei soldati; fonti di media israeliani hanno in seguito riferito che l’uomo non aveva con sé alcun coltello. Degli 81 feriti, dieci sono stati colpiti da armi da fuoco, nove da proiettili rivestiti di gomma, due sono stati aggrediti fisicamente; i rimanenti hanno dovuto essere curati per inalazione di gas lacrimogeno.

Nella Striscia di Gaza, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso alle aree prossime alla recinzione perimetrale israeliana e al largo della costa, in almeno 26 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento, provocando il ferimento di un pescatore, danni a una barca e la perdita di reti da pesca. In una occasione, le forze israeliane sono entrate a Gaza, a nord di Beit-Lahiya, ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

Per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, 25 strutture di proprietà palestinese sono state demolite o sequestrate, sfollando 32 palestinesi e creando ripercussioni di diversa entità su altri 160 circa [seguono dettagli]. Quindici di queste strutture sono state demolite in otto Comunità dell’Area C, comprese due nelle Comunità di Mughayyir al Abeed e Al Fakheit (entrambe a Hebron), che si trovano in “aree chiuse” dai militari per consentire l’addestramento dell’esercito israeliano; le strutture in questione erano tutte correlate al sostentamento, tranne due. Altre sei strutture di sostentamento sono state demolite nell’Area C di Al ‘Isawiya (Gerusalemme). Il resto delle strutture si trovava a Gerusalemme Est, compreso un edificio residenziale in costruzione nel quartiere di Jabal al Mukkabir; in questo caso si sono avuti scontri e un ferito [vedi sopra, al terzo paragrafo]. Cinque delle strutture di Gerusalemme Est sono state demolite dai proprietari, costretti a farlo per evitare multe. Finora, quest’anno, circa la metà di tutte le demolizioni a Gerusalemme Est (118) sono state effettuate dai proprietari, a seguito dell’emissione di ordini di demolizione da parte delle autorità israeliane.

Un palestinese è stato ferito e 650 alberi e alberelli e altre proprietà palestinesi sono stati vandalizzate da aggressori ritenuti coloni [segue dettaglio]. In un caso, a Huwwara (Nablus), coloni hanno ferito con pietre un lavoratore palestinese impegnato in un progetto di censimento di terreni. In altri quattro casi, coloni hanno sradicato 400 piantine di ulivo e mandorlo ad ‘Asira ash Shamaliya e sei piantine di vite a Qaryut (entrambi a Nablus); hanno abbattuto 244 ulivi a Khirbet at Tawamin (Hebron); hanno danneggiato 1,6 ettari coltivati a grano e orzo, pascolando le loro pecore su terreni prossimi al villaggio di Sa’ir (Hebron). Inoltre, coloni hanno danneggiato sette auto nel villaggio di Yasuf (Salfit) e una cava vicino al villaggio di Urif (Nablus), dove hanno anche imbrattato muri con graffiti mentre lanciavano pietre contro le auto [palestinesi] in transito in vicinanza degli insediamenti colonici di Yitzhar (Nablus) e Kiryat Arba’ (Hebron). Gli altri due episodi si sono verificati ad At Tuwani e nell’area H2 della città di Hebron, dove gli aggressori, ritenuti coloni, hanno danneggiato un rifugio per animali e recinzioni, ed hanno rubato proprietà. Infine, durante il periodo di riferimento di questo Rapporto, è morto un palestinese 21enne: a quanto riferito era stato investito da un veicolo guidato da un colono nei pressi del checkpoint di Kafriat, a sud di Tulkarm, mentre stava attraversando la strada 557 sul lato israeliano della Barriera (non incluso nel totale riportato sopra).

Secondo fonti israeliane, una ragazza israeliana è rimasta ferita e 17 veicoli sono stati danneggiati da pietre lanciate da palestinesi contro veicoli israeliani in transito su strade della Cisgiordania.

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 26 agosto, nella città israeliana di Petah Tikva, un civile israeliano è stato pugnalato mortalmente; la polizia ha arrestato un palestinese sospettato dell’aggressione.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Vittoria in tribunale per i 3 di Humboldt e per la Palestina

Qassam Muaddi

24 agosto 2020  Quds News Network

Il movimento di solidarietà con la Palestina nel mondo sta crescendo. Così come la pressione esercitata contro di esso da gruppi di lobby ed organizzazioni pro-Israele; alcune sponsorizzate dallo stesso governo d’Israele.

In Europa, dove il movimento BDS ha affrontato gravi tentativi di delegittimazione, il movimento è stato al centro di un dibattito pubblico negli ultimi anni, soprattutto in Francia e in Germania, polarizzando le posizioni intorno alla questione palestinese.

La vittoria giudiziaria dei tre attivisti nei tribunali tedeschi, due settimane fa, ha segnato un precedente in questa storia. I tre di Humboldt – Ronnie Barkan, Stavit Sinai e Majed Abusalama – hanno affrontato un’accusa per aver protestato contro la visita dell’israeliana Aliza Lavie, membro della Knesset,  a Berlino nel 2017, e la Corte tedesca ha alla fine li ha assolti, condannando solo Sinai per accuse di lievissima entità.

Il caso è particolarmente importante in Germania, un paese che ha stretti legami con lo Stato di occupazione e il cui parlamento ha condannato il movimento BDS come forma di antisemitismo.

Il Network Quds News ha intervistato Majed Abusalama, che ha condiviso le sue opinioni sul caso Humboldt 3, così come alcuni dettagli del processo, che è diventato una storia a sé quando gli attivisti lo hanno usato per dar voce al loro messaggio.

Ha condiviso anche le sue opinioni e quelle dei suoi compagni sul rapporto tra la Germania e lo Stato di occupazione, la battaglia per la narrazione storica, e il ruolo del movimento di solidarietà con la Palestina in questo momento.

Qual è l’importanza della vostra vittoria per il movimento di solidarietà con la Palestina in Europa e nel mondo?

Dovremmo considerare che il nostro caso è avvenuto in un contesto molto complicato, in cui la lobby sionista cerca continuamente di far sembrare noi, il movimento di solidarietà con la Palestina, dei perdenti senza alcuna possibilità di vincere. Siamo stati in grado di dimostrare che non lo siamo. L’abbiamo fatto nell’ambiente più ostile, perché la Germania, come Stato, è smisuratamente complice dello Stato di apartheid di Israele.

I palestinesi in Germania costituiscono la più grande comunità palestinese in Europa, ma noi siamo soffocati. Il nostro diritto di protestare ed esprimerci ci è rubato, sempre intimiditi dalle accuse di antisemitismo, fatta sparire completamente ed esclusa la nostra narrativa palestinese.

Che cosa definisce esattamente come complicità tedesca con lo Stato di apartheid, e come lo spiega?

La Germania è in prima linea nel nascondere i crimini d’Israele contro l’umanità. Attraverso il suo ruolo guida nell’Unione Europea, lo Stato tedesco impone la soppressione del movimento di solidarietà con la Palestina e la sua condanna.

La Germania ha persino venduto sottomarini nucleari allo Stato dell’apartheid. In parte ciò deriva dal senso di colpa tedesco verso la Seconda Guerra Mondiale. Ma questo uso della colpevolezza, a mio parere, non si basa sui valori umani. Si tratta più che altro di un tentativo da parte dello Stato tedesco di costruire un atteggiamento di comodo nei confronti del passato della Germania, anche se è a scapito del discorso sui diritti umani del popolo palestinese.

Credo che questo atteggiamento, e ripulitura dell’apartheid israeliana e del crimine contro l’umanità che ne deriva, dicano molto di quanto questo Stato non abbia imparato la lezione della Seconda Guerra Mondiale. Questa lezione non riguarda la protezione di un gruppo specifico o di uno Stato, ma piuttosto la protezione dei diritti umani e dei valori umani. Questo è il motivo per cui diciamo che lo Stato tedesco ha fallito sul piano dell’umanità nella questione della Palestina.

Vede qualche evoluzione nella società tedesca rispetto alla posizione verso la causa palestinese?

Recenti sondaggi mostrano che un numero crescente di tedeschi è favorevole alla causa palestinese e direi piuttosto che la maggioranza sostiene la Palestina. Questo sostegno è aumentato dopo la seconda Intifada e l’assedio e l’aggressione continua a Gaza.

Inoltre, il pubblico tedesco non poteva restare cieco di fronte all’atteggiamento di Israele verso i diritti umani degli attivisti, come la deportazione del direttore locale in Palestina di Human Rights Watch, Omar Shakir, lo scorso novembre. Il flusso di informazioni libere grazie a Internet ha mostrato troppo perché i tedeschi rimanessero ciechi e indifferenti.

Come ha reagito il pubblico tedesco al vostro caso?

C’era una solidarietà schiacciante con noi, nel tribunale e fuori di esso. Abbiamo trasformato il nostro processo in un processo in cui eravamo gli accusatori, e siamo andati con un messaggio e il pubblico tedesco lo ha ricevuto. Poiché vogliamo che lo Stato dell’apartheid sia processato in un tribunale tedesco, abbiamo deciso di ricorrere al nostro stesso processo per farlo.

Ci siamo concentrati sul membro della knesset Aliza Lavie. Eravamo sotto processo per aver protestato contro la sua visita a Berlino nel 2017. Aliza Lavie è stata direttamente responsabile dell’attacco a Gaza nel 2014 perché ha partecipato nel prendere la decisione di quell’attacco, che ha ucciso oltre 2000 palestinesi, tra cui 500 bambini.

E’ anche la presidentessa della lobby anti-BDS, che promuove la repressione del BDS e di tutti gli attivisti palestinesi. La lobby sionista ha cercato di manipolare il caso, come al solito rigirando e fabbricando la verità sul fatto che saremmo violenti, ma questo non ha avuto successo. Era un tentativo di spostare l’attenzione nostra e del pubblico, ma ci siamo concentrati sul nostro messaggio politico e morale.

Ho detto al giudice che sono di Gaza e che Lavie aveva la responsabilità criminale dell’uccisione dei miei amici e della mia gente a casa, e che era a pochi metri da me. L’ho sfidato su come si sarebbe sentito al mio posto.

I miei compagni hanno anche sfidato Lavie direttamente e le hanno detto che è una criminale e che appartiene alla prigione della Corte Penale Internazionale. Quella era l’intera discussione durante il processo. Non abbiamo deviato da essa.

Com’è stato l’atteggiamento della corte nei confronti del vostro messaggio?

Non hanno trovato niente e siamo stati assolti. Ma hanno multato Sinai per la pena minima di 450 euro, perché ha bussato alla porta tre volte, chiedendo di chiedere i dettagli di qualcuno che l’aveva assalita quando eravamo stati tirati fuori. La decisione della corte è ridicola. Era solo un tentativo di salvare la faccia del tribunale difronte alla lobby sionista e a Israele, e dice quanto le istituzioni tedesche sono prigioniere della pressione di questa lobby, e persino complici dell’occupazione e dello Stato di apartheid.

Qualcuno potrebbe dire che è un’accusa dura per le istituzioni tedesche. Perché, secondo voi, sono complici?

Il parlamento tedesco dichiarò il movimento BDS antisemita contro il sistema giudiziario tedesco. In tutta la Germania, molti tribunali hanno dichiarato il movimento BDS una forma legittima di libertà di espressione e di protesta, ma il parlamento tedesco mantiene la sua accusa diffamatoria verso di noi, cosa che mostra che quella del BDS è solo una dichiarazione politica.

Ora c’è anche una decisione giuridica europea, dopo che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è pronunciata a favore dei nostri compagni in Francia, anch’essi accusati di antisemitismo nei tribunali francesi. Questa complicità è politica ai massimi livelli.

Quali lezioni si possono trarre dal vostro caso?

Vogliamo chiarire che questa storia non riguarda noi personalmente. Questa è la storia della Palestina e della solidarietà globale con essa. La nostra vittoria è una vittoria per la lotta palestinese, che è lotta di tutti gli uomini e le donne di coscienza in tutto il mondo. In secondo luogo, vogliamo potenziare la nostra comunità, in Germania, in Europa, in tutto il mondo e in Palestina. Noi non siamo soli. Tutti quelli che si oppongono al colonialismo, alle violazioni dei diritti umani e all’apartheid nel mondo intero sono dalla parte della lotta palestinese.

Quale messaggio trasmette la vostra storia al popolo palestinese, nel momento in cui alcuni Stati arabi stanno normalizzando le loro relazioni con lo Stato di occupazione, specialmente dopo gli accordi di pace tra Israele e gli Emirati?

La narrazione di Israele è rimasta così a lungo perché molte persone non conoscevano la realtà della nostra causa, ma questa narrazione sionista sta cadendo a pezzi e Israele non può più nascondere il suo vero volto criminale e di apartheid. Questo è il momento giusto per il nostro popolo di diventare più autosufficiente e contare su se stesso nella lotta.

Sappiamo troppo bene che gli Stati cercheranno di normalizzare, ma noi possiamo contare sul movimento di base di persone coscienti nei paesi arabi e su tutte le persone di coscienza nel mondo per continuare a sfidare la normalizzazione, intensificando il BDS e tutte le forme di resistenza per ritenere Israele responsabile. La causa palestinese sarà sempre sul tavolo per esaminare la coscienza delle persone in tutto il mondo ed è un movimento di cittadinanza globale che la sostiene.

Ma siamo noi, palestinesi, a dover condurre questa lotta. Noi, il popolo palestinese, e la Palestina siamo al centro della nostra lotta.

Traduzione di Flavia Lepre

da Contropiano




A Gaza il sistema sanitario è a rischio mentre da una settimana continuano gli attacchi aerei israeliani

Yumna Patel

21 agosto 2020- Mondoweiss

È già successo tante di quelle volte,” ha detto a Mondoweiss il giornalista palestinese Omar Ghraieb, 33 anni, “ma adesso con una pandemia globale e l’intero mondo che sta andando a pezzi, senza elettricità né acqua è più dura.”

Israele bombarda Gaza ininterrottamente da otto giorni (dal 13 agosto, ndtr.), secondo Israele come parte della risposta al lancio di palloni incendiari da Gaza sul territorio israeliano. 

Ogni notte, da oltre una settimana, il cielo notturno di Gaza si accende di rosso e arancione, giovedì è stata l’ottava notte consecutiva di raid aerei israeliani. 

Nonostante si parli di tentativi da parte di alcuni funzionari egiziani di mediare un cessate il fuoco, non sembra che le tensioni ai confini finiranno tanto presto, stando alla dichiarazione rilasciata dal movimento Hamas secondo cui “non esiterà a combattere” le forze israeliane, “se continuano l’escalation, i bombardamenti e l’assedio (di Gaza).”

L’esercito israeliano sostiene che i bombardamenti sono diretti su avamposti che appartengono all’ala militare di Hamas che, secondo Israele, è responsabile dei “lanci di palloni esplosivi e incendiari dalla Striscia di Gaza verso Israele”.

I media locali palestinesi nell’ultima settimana hanno riportato vari episodi in cui i bombardamenti israeliani hanno causato danni a strutture residenziali e non legate ad Hamas e che, in alcuni casi, hanno ferito dei civili. 

All’inizio di questa settimana, Wafa, l’agenzia stampa (palestinese), ha sostenuto che in seguito a un attacco aereo su Bureij, il campo profughi situato nella zona centrale della Striscia di Gaza, una bambina di 3 anni, un ragazzo di 11 e una donna sono stati ricoverati in ospedale dopo essere stati gravemente feriti. Sono anche stati riportati “danni seri” a case nella zona. 

Un’altra donna è stata ricoverata in seguito un attacco aereo separato contro la cittadina di Beit Hanoun, nel nord di Gaza. 

Domenica i media palestinesi hanno riferito che un palestinese di 35 anni è stato gravemente ferito a causa dello scoppio di un ordigno israeliano inesploso nei dintorni di al-Zaytoun, nel sud della Striscia. 

Ci siamo passati migliaia di volte,” dice a Mondoweiss Omar Ghraieb, 33 anni,

riferendosi a bombardamenti e attacchi israeliani contro Gaza, che nel passato sono andati avanti ogni volta per settimane. 

Ma adesso con una pandemia globale e l’intero mondo che sta andando a pezzi, è più dura senza elettricità né acqua,” afferma. 

Ghraieb sottolinea che, sebbene gli abitanti di Gaza siano “abituati a cose terribili e traumi,” situazioni come queste “non miglioreranno mai.” 

È semplicemente troppo .”

Interruzioni di corrente elettrica mentre salgono i casi di COVID-19

I recenti bombardamenti arrivano in un momento difficile per i 2 milioni di abitanti di Gaza che soffrono per i problemi quotidiani con acqua, elettricità, crescita della disoccupazione e, più recentemente, a causa della pandemia da coronavirus. 

Anche se Gaza ha avuto successo nel mantenere il tasso di contagi da coronavirus straordinariamente basso, rispetto a Cisgiordania e Gerusalemme Est occupate, il ministero della Salute ha riportato ora nove nuovi casi, arrivando mercoledì a un totale di 18. 

Oltre alla costante minaccia del COVID-19, all’inizio di questa settimana l’unica centrale elettrica di Gaza ha chiuso e interrotto le attività a causa del blocco israeliano di importazioni di gasolio nel territorio.

Il divieto è una punizione di Israele, anche in risposta ai palloncini incendiari che sono stati la ragione dell’ultima serie di attacchi aerei. 

Da anni gli abitanti subiscono interruzioni di corrente e ore di blackout, ma adesso dicono che le cose sono più difficili per via del COVID-19. 

Abbiamo subito interruzioni giornaliere di elettricità per oltre dieci anni,” dice Ghraieb. “[Ma] in estate, con una pandemia globale e gli attacchi israeliani, è più difficile restare in contatto con il mondo e condividere l’inferno in cui stiamo vivendo senza luce o Internet.”

Uno si sente isolato e condannato a vivere in un inferno in fiamme,” dice. 

Martedì il CIRC [Comitato internazionale della Croce Rossa, ndtr.] ha espresso preoccupazione per la carenza di energia elettrica a Gaza, segnalando che i recenti blackout potrebbero colpire in maniera sproporzionata il già fatiscente settore sanitario, dato che le otto ore di elettricità al giorno sono state ridotte ad appena tre o quattro.

Quando gli abbiamo chiesto che messaggio avesse per la comunità internazionale circa i recenti attacchi, Ghraieb ha detto a Mondoweiss di “non avere un messaggio per un mondo che ci ha delusi per decenni e che ci vede vittime di violenze, occupazione, apartheid e pulizia etnica da parte degli israeliani. Al mondo non importa niente di noi e io non imploro giustizia,” afferma Ghraieb. “Ma prima o poi giustizia sarà fatta.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La guida essenziale per i palestinesi ai fini dell’attraversamento di un posto di controllo israeliano.

George Zeidan

19 agosto 2020 – + 972 MAGAZINE

Per non creare dei problemi ai nostri oppressori, ecco una guida in 10 passaggi per aiutare i palestinesi a evitare la profilazione razziale ai posti di blocco e magari arrivare puntuali.

Anni fa, un palestinese abitante a Ramallah – chiamiamolo “Ahmad” – aveva programmato un colloquio per il visto presso il consolato americano a Gerusalemme.

Appassionato fondista, Ahmad voleva recarsi negli Stati Uniti per partecipare ad una importante maratona. Ma per presenziare al colloquio aveva bisogno di un permesso rilasciato da Israele per entrare nella Gerusalemme Est occupata. Se non fosse stato per i posti di blocco militari e il muro di separazione israeliani, il consolato sarebbe stato a pochi minuti di auto da casa sua.

Purtroppo la richiesta di permesso di Ahmad venne negata dalle autorità israeliane. Quindi, un amico, che chiameremo “Tamer”, decise di aiutarlo con un piano un po’ sfrontato.

Mentre si avvicinavano al checkpoint, Tamer sorrise al soldato israeliano di guardia e agitò la mano con sicurezza, come se stesse salutando un conoscente. Poteva sentire Ahmad dietro di lui che recitava sottovoce ansiosamente quante più preghiere poteva.

Il soldato diede un’occhiata ai passeggeri e, invece di fermarli per controllare i loro documenti, fece cenno perché l’auto passasse.

Ahmad alla fine avrebbe ricevuto il suo visto per gli Stati Uniti e in seguito, quell’anno, completò la sua gara con un ottimo risultato e si qualificò anche per un’altra importante maratona. I suoi amici erano entusiasti per lui, ma erano anche contenti di aver trovato un modo per ingannare il sistema dei posti di controllo: usando il razzismo degli israeliani contro di loro.

Diversi posti di controllo, diverse carte d’ identità

Non tutti i palestinesi hanno il “privilegio” di attraversare un posto di controllo israeliano per entrare nella Gerusalemme est occupata o in Israele. In effetti, molti non sono mai stati “dall’altra parte” perché non è mai stato concesso loro un permesso e nemmeno la possibilità di richiederlo. Ad esempio, a circa 2 milioni di palestinesi di Gaza, sotto assedio dal 2007, è stato impedito di lasciare la Striscia, anche verso altre parti dei territori occupati, se non in circostanze umanitarie eccezionali.

I palestinesi con maggior facoltà di spostarsi attraverso la cosiddetta “linea verde” [confine convenzionale che separa i territori palestinesi dai “territori occupati”, ndtr.] sono quelli che detengono la cittadinanza israeliana essendo in possesso di documenti di identità blu e quelli con residenza a Gerusalemme est e in possesso di documenti di identità rossi. Durante i loro viaggi dalla Cisgiordania in Israele, questi palestinesi hanno due opzioni: o attraversare i posti di controllo del tipo di quelli presenti nei terminal degli aeroporti o utilizzare quelli che vengono chiamati “bypass”.

I posti di controllo in stile aeroporto presentano corsie pedonali e automobilistiche. I palestinesi della Cisgiordania con i permessi possono entrare in Israele solo attraverso questi posti di controllo. Le corsie per le auto sono solitamente lente e trafficate, ma sono l’unica opzione se palestinesi con documenti di identità diversi viaggiano nella stessa macchina. Ad esempio, nel caso di una coppia palestinese di cui una persona ha la residenza a Gerusalemme e l’altra una carta d’identità della Cisgiordania con un permesso, quest’ultima dovrebbe attraversare da sola a piedi mentre la prima rimarrebbe in macchina e si riunirebbe al proprio partner dall’altro lato.

I posti di blocco bypass sono molto più insidiosi in quanto i valichi non sono utilizzati solo dagli arabi; sono destinati soprattutto a mettere in collegamento i coloni israeliani in Cisgiordania con il resto di Israele. Attraversare questi posti di blocco è un’esperienza molto diversa che assomiglia più al passaggio attraverso un casello autostradale. I soldati israeliani stanno ai lati di ogni terminal cercando di identificare le “minacce” – palestinesi – da selezionare per [sottoporli] a perquisizioni più invasive.

Come sembrare un “non-arabo”

Ciò che è diventato noto a tutti i palestinesi è come attraversare questi posti di blocco nel modo più efficiente possibile. Il trucco, in parole povere, è avvicinarsi al valico come un “non arabo”.

Dopotutto la fatica per i soldati israeliani è notevole: molti di loro devono annoiarsi a stare al sole tutto il giorno, consultando le liste di profilatura razziale per facilitare il proprio lavoro. Deve anche essere difficile a volte distinguere tra un arabo e un ebreo israeliano solo dal loro aspetto: ci somigliamo moltissimo.

E così, per non affaticare troppo i nostri oppressori, ho messo insieme una guida in 10 passaggi per aiutare i palestinesi a nascondere o attenuare la loro “arabicità“:

1) Avete considerato la possibilità di allevare un animale domestico? In caso contrario, iniziate a tenerne uno ora e portatelo fuori spesso. I soldati israeliani non pensano che gli arabi siano abbastanza in gamba da avere animali domestici. I gatti vanno bene, ma io consiglierei i cani perché sono molto più grandi e più visibili nelle auto. Evitate di prendere un cane carino perché è meglio non rischiare che i soldati fermino l’auto per giocare con lui.

2) Tatuaggi, piercing e altri accessori per il corpo sono molto utili. Per i soldati israeliani gli uomini arabi non sono abbastanza fichi da indossare orecchini; quindi, conducenti uomini, se non li indossate già, assicuratevi di tenere un orecchino magnetico in macchina. Per le conducenti donne, consiglierei di farvi tatuaggi all’henna; sono a buon mercato e facilmente rimovibili, assicuratevi solo che siano chiaramente visibili. Inoltre, l’uso dell’henna significa che potete far rivivere la cultura palestinese facilitando il vostro viaggio attraverso il posto di controllo.

3) Chiudete i finestrini dell’auto durante l’attraversamento. Gli arabi hanno l’abitudine di tenere la mano fuori dal finestrino. Questa pratica è utile quando guidate in una città palestinese e per strada dovete salutare 50 persone che conoscete, ma a un posto di blocco state solo cercando guai.

4) Lavate la vostra auto ogni giorno: è un segno di agiatezza. Macchine sporche o confezioni di fazzoletti con scritte in arabo sono una cattiva idea.

5) Tingetevi i capelli di biondo. È sia di moda che utile; più bianchi appaiono i passeggeri, meno ragioni avranno i soldati per fermare l’auto. La probabilità di un arabo biondo, credono alcuni israeliani, è molto bassa e, di conseguenza, i soldati non saranno inclini a fermarvi.

6) Lavorate duro per permettervi di avere continuamente un’auto nuova. Per i soldati israeliani, le vecchie auto sono un segno di arretratezza e implicano che l’autista abbia lasciato solo di recente il cammello come mezzo per andare al lavoro. Evitate però di prendere una Mercedes: a quanto pare si sa che gli arabi preferiscono quella marca. Sì, è un’ottima macchina, ma non a questo fine.

7) È dimostrato che anche guidare con donne che fumano riduce le possibilità di essere fermati dai soldati; pensano che alle donne palestinesi non sia permesso fumare. Naturalmente, mi interessa la salute generale delle donne palestinesi, quindi non incoraggerò le donne palestinesi a fumare ogni volta che attraversano un posto di controllo, ma tenetelo a mente.

8) Uomini, dovete stare molto attenti alla barba; in realtà possono capitare entrambe le cose: che vi aiuti o vi danneggi. O volete assicurarvi di stare al passo con gli stili da intellettuale anticonformista più contemporanei, altrimenti sembrerà solo una pratica religiosa e vi si ritorcerà contro.

9) Mostrate il vostro sostegno alla comunità LGBTQ . I soldati israeliani pensano che tutti i palestinesi siano omofobi.

10) Ascoltare musica in ebraico mentre si attraversa il posto di blocco ha dimostrato di funzionare per alcune persone. La musica mizrahi [combina elementi della musica araba, turca e greca con i ritmi e le melodie della musica dei sefarditi e degli ebrei mizrahì, cioè provenienti da Paesi arabi o musulmani, ndtr.] può essere una buona via di mezzo per combinare melodie arabe con parole ebraiche. Ma fate attenzione perché questa tattica è stata troppo utilizzata.

La guida di cui sopra rimane la soluzione migliore per un palestinese che voglia arrivare al lavoro o agli appuntamenti in tempo. In un mondo giusto non dovremmo ridurre la nostra “arabicità” per muoverci liberamente da un luogo all’altro. Ma molti di noi sono diventati troppo insensibili per provare anche solo il dolore e l’umiliazione di questi posti di blocco. Fino a quando il nostro diritto di spostarci non sarà soddisfatto, potrebbe essere l’unica strategia che abbiamo sotto il dominio dell'”unica democrazia in Medio Oriente”.

George Zeidan è un co-fondatore di Right to Movement Palestine [Diritto al movimento Palestina, ndtr.], un’iniziativa che utilizza lo sport per mettere in luce la condizione della vita dei palestinesi e la libertà di movimento.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




Un tempo tabù, i diritti LGBTQ si prendono il centro della scena nella società palestinese

Fady Khouri

21 agosto 2020 + 972 Mag

Nonostante il rifiuto dei conservatori e la cautela dei politici, i palestinesi queer stanno guadagnando nuovo terreno nella loro lotta per la legittimità – e intendono restarci.

L’ultimo anno è stato di trasformazione – perfino storico – per la comunità Palestinese LGBTQ.

Da molto tempo, i palestinesi queer vivono sotto due sistemi di cancellazione dell’identità diversi e sovrapposti. Uno è quello degli israeliani che hanno continuamente negato la nostra esistenza come palestinesi, sostenendo che “non esiste qualcosa come il popolo palestinese”. Il secondo è quello dei palestinesi che hanno negato per la maggior parte la nostra esistenza come omosessuali, bisessuali, transgender, queer e così via; quando uno di noi si alza e insiste sulla loro esistenza, allora siamo etichettati come malati, eretici, una deviazione dalla natura o il prodotto di influenze occidentali.

Questa negazione si è tipicamente manifestata nel silenzio sui diritti LGBTQ. Inoltre, i palestinesi queer sono stati considerati indegni di rappresentanza politica nonostante abbiano guidato da molto tempo l’accusa contro il pinkwashing, che è, come sostengo altrove, una questione nazionale palestinese. Ad esempio, quando i giornalisti – di solito israeliani – hanno chiesto al parlamentare della Knesset Jamal Zahalka del Partito Balad la sua posizione sui diritti LGBTQ, lui ha risposto che la questione “semplicemente non è nella nostra agenda”. Ma quello che una volta era un tabù si è ora trasformato in un argomento di intenso dibattito nella società palestinese, costringendo anche le élites politiche a rompere il prolungato silenzio e a prendere posizione.

Non sono esagerato né dichiaro vittoria. E non sto suggerendo che questo sia il meglio per cui possiamo e dobbiamo lottare. Ma, per quanto sia difficile vederlo in questa fase, stiamo vivendo un momento di cambiamento, o meglio ancora – di progresso.

Solo nell’ultimo anno, ci siamo trovati al centro di molte discussioni che ci hanno permesso di iniziare almeno ad uscire dalla nostra forzata oscurità. Un paio di questi eventi hanno riguardato la recente tragica morte di persone queer: il talentuoso ballerino gay palestinese, Ayman Safieh, che ha perso la vita in mare e il cui funerale, con danze e bandiere arcobaleno, ha fatto infuriare alcuni conservatori; e Sarah Hegazi, l’attivista comunista egiziana che è stata detenuta e torturata dalla polizia egiziana dopo aver sventolato la bandiera arcobaleno a un concerto di Mashrou ‘Leila al Cairo, morta suicida dopo aver trovato rifugio in Canada. Entrambi questi stimolanti individui sono diventati oggetto di accese discussioni sui social media, tra amici e alleati che li piangevano e li celebravano pubblicamente di fronte a conservatori che hanno cercato di infangare i loro nomi.

A queste tragedie ne sono seguite molte altre, come l’attivista trans Maya Haddad morta suicida un anno dopo essere sopravvissuta a un tentato omicidio, e un adolescente gay palestinese sopravvissuto a un’accoltellamento da parte di suo fratello. Nell’agosto 2019 si è svolta ad Haifa la prima storica manifestazione guidata da LGBTQ palestinesi, alla quale hanno partecipato anche rappresentanti della società civile e la parlamentare Aida Touma-Sliman, una dei pochi politici palestinesi a esprimere pubblicamente sostegno per i diritti LGBTQ.

Poi, a luglio, si sono verificati altri due incidenti che sembravano catalizzare questo cambiamento. Nonostante la loro complessità, evidenziano il progressivo cambiamento di atteggiamento nei confronti delle questioni LGBTQ all’interno della società palestinese.

La deputata della Knesset della Joint Lista Aida Touma-Sliman dirige una riunione del Comitato sullo stato delle donne e l’uguaglianza di genere al parlamento israeliano il 27 dicembre 2016 (Yonatan Sindel / Flash90)

Il primo è stata una modesta donazione da parte di Julia Zaher, CEO di una società locale di tahina palestinese al-Arz, per finanziare una linea diretta per queer palestinesi presso un’organizzazione LGBTQ israeliana. La donazione è stata criticata da alcuni palestinesi conservatori e religiosi, portando diversi negozi di alimentari a rimuovere i prodotti dell’azienda dagli scaffali in segno di protesta. Allo stesso tempo, alcuni palestinesi progressisti hanno criticato il fatto che, invece di sostenere i gruppi LGBTQ palestinesi, la donazione è stata fatta a una ONG coinvolta negli sforzi di propaganda del pinkwashing israeliano.

Eppure, agli appelli al boicottaggio di al-Arz è stata opposta una contro-campagna per incoraggiare le persone ad acquistare i prodotti dell’azienda, con molti utenti dei social media che hanno sostituito le loro immagini del profilo con il famoso tahini di al-Arz. Persino alcuni politici palestinesi sono stati spinti a dare i loro due centesimi e partecipare al dibattito in corso sui social media. Ayman Odeh, il capo della Joint List, ad esempio, ha descritto la campagna di boicottaggio contro la compagnia come ipocrita, sebbene non abbia espresso sostegno diretto alla comunità LGBTQ. Touma-Sliman è stata l’unica parlamentare palestinese a sostenere apertamente Zaher e parlare della necessità di accettare la differenza.

E poi è arrivata la legge della Knesset volta a criminalizzare la “terapia di conversione” (pratica pseudoscientifica per cambiare l’orientamento sessuale di un individuo n.d.t.) che ha approfondito le divisioni tra i membri della Lista Congiunta guidata dai palestinesi. Tre hanno votato a favore del disegno di legge (MK Touma-Sliman, MK Odeh e MK Ofer Cassif del partito palestinese-ebraico al-Jabha / Hadash), tre hanno votato contro (MK Said al-Harumi, MK Walid Taha e MK Mansour Abbas del United Arab List Party, l’ala politica del ramo meridionale del Movimento Islamico). Il resto era assente dal voto, ed è stato particolarmente deludente e considerato ipocrita, dato il loro discorso sui diritti umani, e l’enfasi sui valori laici e universali nelle loro piattaforme politiche, borse di studio accademiche e attivismo di base

Questo non era il primo disegno di legge a sostegno dei diritti LGBTQ presentato alla Knesset, e storicamente alcuni deputati di quei partiti hanno votato a favore di questo tipo di legislazione, come il disegno di legge per istituzionalizzare il matrimonio civile nel 2018 che avrebbe consentito matrimoni tra persone dello stesso sesso. Anche se questa legge non ha provocato molte discussioni tra i palestinesi, diversi parlamentari della lista congiunta hanno votato favore.

Tuttavia, a differenza della legislazione precedente su questo tema, il disegno di legge sulla “terapia di conversione” ha ricevuto attenzione sui social media. I parlamentari che hanno votato per mettere fuorilegge la misura sono stati criticati dai palestinesi conservatori e i parlamentari che non si sono presentati al voto sono stati criticati dai palestinesi liberali e progressisti.

Aswat, il Centro femminista palestinese per le libertà sessuali e di genere, ha rilasciato una dichiarazione in cui ribadiva la sua posizione contro la cosiddetta pratica della “terapia di conversione”, descrivendola come una forma di violenza e tortura verso i corpi LGBTQ, facendo riferimento sia alla Dichiarazione della Società psichiatrica libanese del 2013 sulla questione che alla decisione del 1973 dell’American Psychiatric Association di rimuovere l’omosessualità dal DSM. Inoltre, l’organizzazione ha invitato la Lista congiunta a dichiarare pubblicamente e chiaramente il suo sostegno al disegno di legge, per proteggere i diritti umani e le libertà di tutti e porre fine a pratiche violente e dannose contro “coloro che hanno esperienze sessuali e legate al genere diverse . ” La stessa dichiarazione è stata condivisa da alQaws for Sexual and Gender Diversity in Palestinian Society sulla loro pagina Facebook.

L’Arab Psychiatric Association ha anche rilasciato una dichiarazione che elabora la sua posizione professionale riguardo al disegno di legge: “L’Arab Psychiatric Association vede che la diversità nelle identità sessuali e di genere è diventata un fatto sociale e psicologico … mentre la letteratura psicologica mostra chiaramente il fallimento della cosiddetta “terapia di conversione” e i suoi effetti distruttivi sulla salute psicologica e fisica dell’individuo “, hanno scritto. “La libertà equivale alla responsabilità verso se stessi e alla tutela dell’autenticità dell’essere, ed è in contraddizione con l’imposizione, la tortura e le violazioni della dignità umana. Perciò, l’azione della terapia non può impiegare violenza simbolica e mentale imponendo determinate identità e stili di vita a individui e gruppi ”, ha continuato la dichiarazione.

Il disegno di legge è diventato oggetto di discussione anche nei media palestinesi locali, con giornalisti che hanno intervistato molti parlamentari sulla questione: una svolta eccezionale. Ad esempio, il 23 luglio, i giornalisti Sanaa ’Hamoud e Mohammad Majadleh hanno intervistato MK Ahmad Tibi del Ta’al Party su Nas Radio, una stazione radio palestinese con sede a Nazareth, e hanno chiesto perché lui e il suo partito erano assenti al voto. Le risposte di Tibi sono state deludenti. Ha affermato che questa legge riguardava semplicemente gli standard psicologici professionali e non la legittimità dell’omosessualità, sottolineando che, sebbene accetti la logica medica del disegno di legge, il suo partito non sostiene la revoca della licenza a un terapeuta per praticare la terapia di conversione, né sosterrebbe l’omosessualità.

Anche MK Mtanes Shehadeh di Balad è stato intervistato nello stesso programma. Il suo partito si è tradizionalmente identificato con un’agenda secolare e con solidi principi dei diritti umani basati sugli standard del diritto internazionale. Quando è stato chiesto perché il suo partito fosse assente dal voto sul disegno di legge, Shehadeh ha spiegato che le discussioni in corso nella società palestinese rispecchiano i dibattiti che si svolgono all’interno di Balad. “Abbiamo sempre detto nella Lista congiunta che le questioni essenziali e fondamentali per le quali andiamo alla Knesset per affrontare e per cui lottare sono lo status della società palestinese, la discriminazione, la causa palestinese”, ha continuato, ma i diritti LGBTQ non sono ” una questione politica essenziale. Non la politicizziamo. ” Il giornalista ha quindi chiesto a Shehadeh se la decisione di astenersi dal voto sia di per sé una posizione e se ciò vada contro la loro piattaforma. Shehadeh ha risposto che il luogo appropriato per questo tipo di conversazione dovrebbe essere all’interno di istituzioni come l’High Follow-Up Committee, un’organizzazione ombrello che rappresenta i cittadini palestinesi di Israele.

Dr Mtanes Shehadeh della Joint (Arab) List e leader del Balad party parla durante la campagna elettorale August 20, 2019. Foto Gili Yaari / Flash90

Shehadeh è stato duramente criticato per i suoi commenti, tanto che alla fine ha pubblicato una dichiarazione su Facebook ammettendo di aver “fatto una valutazione sbagliata”, anche se ha continuato a tenersi lontano dall’impegnarsi a difendere i diritti LGBTQ. Per Shehadeh, la questione riguarda meno i diritti LGBTQ e più il modo in cui i quattro partiti che formano la Joint List dovrebbero impegnarsi su questioni controverse.

Molti Palestinesi hanno commentato il post di Shehadeh, definendo le sue scuse vili, evasive e problematiche per non aver preso una posizione chiara su una questione che riguarda intrinsecamente i diritti umani. Ma non è stato l’unico parlamentare palestinese a essere colto impreparato: questo contenzioso ha profondamente imbarazzato i partiti palestinesi. D’un tratto, voci della base progressista si sono alzate abbastanza da sfidare senza scusarsi i politici su questo tema. E non è un’impresa da poco. L’ avanti e indietro sui diritti LGBTQ che si svolgono all’interno della società palestinese, e tra gli elettori e i loro rappresentanti, sta creando il tipo di movimento che è destinato a dare i suoi frutti.

Diversi sviluppi hanno reso possibile questo momento storico di trasformazione, non ultimo il lavoro incrollabile e testardo delle organizzazioni palestinesi LGBTQ, come al-Qaws e Aswat, e attivisti indipendenti che si sono mostrati affrontando le forze conservatrici che cercano di negare la nostra esistenza e legittimità. A questi sforzi ha anche notevolmente contribuito l’ubiquità dei social media, non solo per riunire coloro che altrimenti non si sarebbero incontrati, ma anche – e soprattutto – per rompere il monopolio delle élites politiche su ceti tipi di discorso e sull’accesso al fare politica, che storicamente ha escluso le voci subalterne ed emarginate e reso loro impossibile essere ascoltate.

Questo, ovviamente, non significa che la questione dei diritti LGBTQ sia stata risolta all’interno della società palestinese. Il nostro percorso verso l’accettazione è ancora pieno di sfide e la lotta per l’uguaglianza è lungi dall’essere vinta. Ma questo recente episodio, accompagnato da altri degli ultimi anni, segna un cambiamento qualitativo che segnala un cambio di paradigma nel modo in cui abbiamo operato. I palestinesi queer non sono più tabù o “semplicemente non all’ordine del giorno”.

Palestinesi LGBT manifestano al centro di Haifa 29 luglio 2020 (Suha Arraf)

Per coloro che vivono in paesi che hanno fatto passi da gigante sui diritti LGBTQ, può sembrare strano parlare di questo momento in termini di progresso. Ma qualsiasi lotta di successo verso il riconoscimento e l’accettazione inizia con la rottura del silenzio su di noi, costringendo la società a riconoscere la nostra esistenza. E mentre molto di ciò che ascoltiamo e vediamo ora è un rifiuto da parte di forze conservatrici, ciò significa che l’ago della bilancia si è spostato abbastanza su questo problema da motivare una risposta così forte.

La comunità LGBTQ palestinese e i suoi alleati prendono la parola e chiamano ad una assunzione di responsabilità sia la società palestinese che il suo establishment politico. “Un grido queer di libertà” era ciò che gli attivisti queer e i loro alleati hanno cantato all’ultima manifestazione di fine luglio. Erano animati da rabbia, dolore, delusione e frustrazione, ma motivati dalla speranza e dalla forte convinzione della nostra capacità di ottenere il cambiamento. Per come la vedo io, questo slogan e le emozioni che rappresenta racchiudono perfettamente questo momento di trasformazione.

Fady Khoury è un avvocato per i diritti umani e un dottorando presso la Harvard Law School.

Traduzione a cura di Alessandra Mecozzi da PalestinaCulturaèLibertà




Come le università fungono da avamposti del controllo colonialista israeliano

Josh Ruebner

11 agosto 2020 – The Electronic Intifada

Enforcing Silence: Academic Freedom, Palestine and the Criticism of Israel [Imporre il silenzio: libertà accademica, Palestina e le critiche contro Israele], David Landy, Ronit Lentin e Conor McCarthy (a cura di), Zed Books (2020).

Oggi sono poche le persone in ambito accademico che possano raccontare meglio di Rabab Abdulhadi l’oppressione amministrativa e le aggressioni giudiziarie che sono pena e tormento per molti professori.

Abdulhadi, docente associata presso la San Francisco State University [università dello Stato della California], è stata oggetto di tre fallite denunce da parte del filoisraeliano Lawfare Project [organizzazione lobbystica filoisraeliana USA, ndtr.] intese a mettere a tacere la sua militanza per i diritti dei palestinesi.

La sua introduzione a questa raccolta di saggi sui tentativi di Israele e dei suoi sostenitori di zittire il dibattito accademico è appropriata: “Non vedo la mia vicenda come una questione privata o un’esperienza individuale: riflette e rappresenta storie comuni a noti intellettuali dentro e fuori l’ambito accademico che intendano esprimersi a favore della giustizia per la e nella Palestina.”

Il fatto che non abbia potuto contribuire al volume con un capitolo, come aveva precedentemente previsto, è proprio un esempio del fenomeno descritto in dettaglio nelle pagine del libro. Il tempo che avrebbe avuto a disposizione per scriverlo è stato impegnato a rispondere a un ricorso amministrativo inviatole con la minaccia di un’azione disciplinare a causa del suo impegno.

In un altro capitolo del volume David Landy, professore associato di Sociologia al Trinity College di Dublino, fa riferimento a questa strategia come “attacchi price tag [prezzo da pagare, termine usato da coloni israeliani estremisti negli attacchi contro i palestinesi, ndtr.] contro chi critica Israele, nel senso che chi critica sarà costretto a pagare per ogni critica fatta a Israele.”

Correttamente Landy identifica questi attacchi – il termine è preso dalle aggressioni dei coloni contro i palestinesi e le loro proprietà nella Cisgiordania occupata – “come estensione delle pratiche di controllo colonialista.”

Analogamente altri contributi al libro considerano la repressione di ogni discorso accademico critico nei confronti di Israele come una logica derivazione delle politiche di dominio del colonialismo d’insediamento contro il popolo nativo palestinese.

Ronit Lentin, docente associata di sociologia in pensione, anche lei del Trinity College di Dublino, specifica come Israele abbia “reclutato con successo professori universitari israeliani come collaboratori partecipi nella colonizzazione della Palestina.” Scrive che questo modello serve come “risorsa, o schema, per ostacolare la libertà accademica e la libera discussione sulla colonizzazione israeliana della Palestina nel resto del mondo.”

Altri tentativi di esportare il controllo colonialista di Israele sul popolo palestinese sono più sottili, come documenta Hilary Aked nel suo saggio sul proliferare dei dipartimenti di studi su Israele nelle università della Gran Bretagna.

Questi dipartimenti sono ben finanziati da una piccola congrega di donatori filo-israeliani a corollario della propaganda ufficiale “Brand Israel” [Marchio Israele] che intende “approfondire il discorso su Israele in modo che il Paese non venga visto solo attraverso la prospettiva della violenza di stato,” spiega Aked.

Eliminazionismo”

In questa raccolta sono ampiamente documentati in modo persuasivo gli attacchi ben finanziati e orchestrati contro il dibattito accademico critico con Israele.

Il caso di Steven Salaita ritorna continuamente in quasi tutti i saggi del libro. Salaita venne licenziato da un incarico appena ottenuto all’Università dell’Illinois a Urbana-Champaign e cacciato dal corpo accademico per i suoi tweet “incivili” in risposta al massacro di bambini palestinesi da parte di Israele a Gaza nel 2014.

Il licenziamento di Salaita fu una propaggine delle “macchinazioni punitive degli eliminazionisti del colonialismo di insediamento,” scrive nel contributo più provocatorio ed importante del libro C. Heike Schotten, che insegna scienze politiche all’università del Massachussett di Boston.

La logica è quella di eliminare i nativi attraverso la totale assimilazione nella “missione civilizzatrice” del colonizzatore o con la loro cancellazione se si rifiutano.

Assunto per insegnare nel dipartimento di studi sui nativi, Salaita venne licenziato perché rappresentava [in quanto figlio di due immigrati ispanici ma di origine palestinese e giordana, ndtr.] e insieme sosteneva l’esistenza e la resistenza dei popoli nativi (in Palestina o altrove), e sono esattamente questa rappresentatività e questo sostegno ad essere inconcepibili,” afferma Schotten (corsivo nell’originale).

Anche l’influenza neoliberista, l’integrazione nella logica di mercato e la mercificazione delle università rende il corpo insegnante suscettibile di pressioni interne ed esterne affinché righi dritto su Israele.

Nick Riemer, docente di inglese e linguistica all’Università di Sidney, sostiene che le amministrazioni delle università utilizzano le lamentele dei sionisti come “strumento per il controllo sociale nei campus.”

Quelle rimostranze forniscono “argomentazioni contro membri del corpo docente che sono in genere anche impegnati in una serie di altre attività che li mettono regolarmente in conflitto con le autorità universitarie”, come la partecipazione sindacale e lo schierarsi apertamente contro l’amministrazione dell’università.

Sinead Pembroke, che ha conseguito un dottorato in sociologia all’University College di Dublino, critica il crescente ricorso a personale docente a contratto come misura per limitare i costi, privando molti accademici di un rapporto stretto con i colleghi e di protezione legale qualora vengano presi di mira per le loro opinioni politiche. In conseguenza di ciò molti si autocensurano.

Controintuitivo

Molti dei saggi del libro mettono in dubbio l’utilità di appellarsi alla libertà accademica per proteggere il dibattito sulla Palestina.

A prima vista ciò sembra controintuitivo, in quanto i docenti universitari potrebbero sostenere in modo credibile e convincente la loro prerogativa di fare ricerca, insegnare e parlare come meglio credono senza intromissioni.

Tuttavia questi stessi principi potrebbero essere utilizzati dai sionisti nella loro opposizione al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) in appoggio ai diritti dei palestinesi.

La nozione di libertà accademica “non offre la necessaria chiarezza politica per mostrare cosa sia effettivamente in gioco nella differenza tra i sostenitori e gli oppositori del boicottaggio,” scrive Riemer.

Invece, aggiunge Riemer, “la ragione più efficace per boicottare e difendere chi boicotta è porre fine all’apartheid contro i palestinesi,” chiedendo a chi propone il BDS di favorire un discorso fondato sui valori (corsivo nell’originale).

E, come nota John Reynolds, del dipartimento giuridico dell’Università Statale d’Irlanda Maynooth, la libertà accademica è utilizzata sempre più spesso dalla destra per dare corpo a razzismo e suprematismo. “Quando si tratta di esprimere posizioni anticolonialiste e antirazziste, la libertà accademica risulta vulnerabile e condizionata,” afferma.

Al contrario, “gli argomenti riguardanti la libertà accademica messi al servizio del colonialismo” hanno avuto una rinascita “che diffonde forme e progetti di destra molto particolari,” come l’apologia di atrocità colonialiste.

Studenti e governo

Questa raccolta avrebbe potuto prestare maggiore attenzione alla repressione sia amministrativa che fuori dalle università contro studenti che si organizzano per appoggiare i diritti dei palestinesi.

Gli studenti attivisti sono sottoposti a una sopraffazione forse ancor più dura rispetto al corpo docente, attraverso misure disciplinari amministrative, con i discorsi di monitoraggio di personale professionale filo-israeliano nei campus e con la deleteria schedatura da parte di siti in rete come “Canary Mission” [che si dedica a schedare, denunciare e calunniare chi sostiene la causa palestinese, ndtr.].

Il libro collettivo avrebbe anche beneficiato di un approfondimento sui tentativi autoritari del governo USA di assimilare le critiche contro Israele al fanatismo antiebraico con lo scopo di ridurre i finanziamenti alle università considerate troppo permissive nei confronti di discorsi che critichino lo Stato.

Questa problematica intrusione e prevaricazione del governo è incarnata da Kenneth Marcus, recentemente nominato sottosegretario per i diritti civili presso il ministero dell’Educazione USA.

Marcus ha aperto la strada alla strategia di sporgere reclami, con il ministero che sostiene falsamente che gli studenti ebrei vengono maltrattati e discriminati a causa delle critiche contro Israele nei campus.

Prestando servizio nell’amministrazione Trump, Marcus ha portato avanti questo programma pretestuoso con conseguenze potenzialmente di lunga durata Se non prende in considerazione queste pressioni da parte del governo, qualunque discussione riguardo al far tacere le università sulla Palestina è incompleto.

Josh Ruebner è professore associato del Dipartimento di Studi su Giustizia e Pace presso la Georgetown University [prestigiosa università privata USA con sede a Washington, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Palestinese muore dopo essere stato colpito e arrestato dall’esercito israeliano

20 agosto 2020 – Al Jazeera

Mohammad Haziz era uno dei tre palestinesi colpiti dalle forze israeliane nei pressi del villaggio di Deir Abu Meshal nella Cisgiordania occupata.

Un adolescente palestinese, che era stato colpito e portato via da soldati israeliani, è morto in conseguenza delle ferite.

Il ministero della Sanità palestinese nella Cisgiordania occupata afferma che Mohammad Damir Matar, 16 anni, è uno dei tre palestinesi colpiti mercoledì sera dalle forze israeliane nei pressi del villaggio di Deir Abu Meshal, vicino a Ramallah,

La Mezzaluna rossa palestinese ha affermato di aver portato in ospedali di Ramallah due giovani feriti, mentre un terzo ferito era stato arrestato da forze israeliane.

Emad Zahran, capo del consiglio comunale di Deir Abu Meshal, ha detto all’agenzia di notizie Anadolu che ore dopo il suo arresto la famiglia di Haziz è stata informata della sua morte dall’esercito israeliano.

Mohammad era stato arrestato al tramonto dopo essere stato colpito da un reparto dell’esercito di occupazione (israeliano),” ha aggiunto Zahran.

Egli ha affermato che gli israeliani devono ancora restituire il corpo dell’adolescente.

Muhanna Matar, cugino di Mohammad, ha detto ai mezzi di comunicazione palestinesi locali che Haziz è stato colpito dalle forze israeliane, che avevano organizzato un’imboscata nei pressi di una circonvallazione [utilizzata solo dagli israeliani per evitare di attraversare i villaggi palestinesi, ndtr.] e che è stato arrestato ancora sanguinante.

Matar ha aggiunto che la sua famiglia non ha dato il consenso a un’autopsia sul cugino, il cui corpo è trattenuto nel famigerato istituto di medicina forense Abu Kabir di Tel Aviv, noto per l’espianto illegale di organi di palestinesi.

In precedenza l’esercito israeliano ha affermato di aver sparato a un gruppo di palestinesi nei pressi di Ramallah, sostenendo che erano in possesso di materiali incendiari e pneumatici a cui intendevano dare fuoco.

Un comunicato afferma: “Forze israeliane hanno sventato un’operazione nei pressi del villaggio di Deir Abu Meshal, quando hanno avvistato una cellula in possesso di materiali per bottiglie incendiarie e copertoni a cui intendevano appiccare il fuoco per danneggiare veicoli civili.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Può l’Egitto contribuire a ridurre le tensioni tra Israele ed Hamas?

Ahmad Abu Amer – Gaza City, Striscia di Gaza

19 agosto 2020 – Al-Monitor

Una delegazione dell’intelligence egiziana ha intrapreso nuove iniziative tra Israele e Hamas per ridurre la tensione su entrambi i lati della frontiera della Striscia di Gaza dopo che negli ultimi giorni la situazione è peggiorata.

L’Egitto sta avviando nuovi passi nella Striscia di Gaza nel tentativo di ridurre la tensione che recentemente è in aumento tra Israele e Hamas dopo che il 6 agosto, facendo seguito a una pausa di due mesi, gruppi palestinesi hanno ripreso il lancio di palloncini incendiari verso il sud di Israele.

Israele ha risposto al fuoco che ha devastato i campi nel sud di Israele bombardando numerosi siti militari di Hamas a Gaza. L’11 agosto ha parzialmente chiuso il valico di Kerem Shalom e impedito l’ingresso nella Striscia di Gaza di materiali da costruzione e carburante.

Ciò il 18 agosto ha portato alla chiusura dell’unica centrale elettrica di Gaza. Il 16 agosto ai pescatori palestinesi è stato totalmente vietato l’accesso al mare al largo della Striscia di Gaza.

L’escalation si è prodotta dopo che Hamas ha accusato Israele di ritardare la messa in atto degli accordi di tregua raggiunti nell’ottobre 2018. Essi intendevano alleggerire il blocco e stabilivano la creazione di due zone industriali a est di Gaza City per l’assunzione di decine di migliaia di disoccupati. Come parte degli accordi di tregua avrebbero dovuto essere messi in pratica progetti per l’elettricità e l’acqua, così come piani intesi a incrementare il volume di importazioni ed esportazioni verso e dalla Striscia di Gaza.

In questo contesto il 17 agosto nella Striscia di Gaza è arrivata una delegazione della sicurezza egiziana guidata da Ahmed Abdel Khaleq, responsabile per le questioni palestinesi presso il servizio generale di intelligence egiziano. La delegazione, prima di recarsi in Israele lo stesso giorno per trasmettere le richieste del movimento, si è incontrata per molte ore con i dirigenti di Hamas a Gaza. Era previsto che tornassero a Gaza il 18 agosto con la risposta, ma la visita si è prolungata fino a data indefinita, in quanto Israele ha respinto la maggior parte delle richieste di Hamas.

Un funzionario di Hamas informato sui colloqui ha detto in forma anonima ad Al-Monitor che il movimento ha chiesto alla delegazione egiziana di fare pressione su Israele per l’attuazione degli accordi raggiunti in precedenza e perché si cominci immediatamente a realizzare i progetti riguardanti l’elettricità, l’acqua e le due zone industriali ad est di Gaza City. La fonte ha aggiunto che il movimento non porrà fine alla tensione sul confine con Israele finché quest’ultimo non risponderà alle richieste che ha ricevuto tramite la delegazione egiziana.

Il funzionario ha spiegato che [Hamas] non vuole uno scontro militare, ma non lo teme nel caso Israele rifiutasse di mettere in pratica queste richieste.

Ha rivelato che è stato consentito al Qatar di continuare a finanziare la Striscia di Gaza fino alla fine del 2020 e ha sottolineato che il movimento chiede che il contributo venga esteso fino alla fine del 2021, includendo 200.000 famiglie – invece di 100.000, come nei mesi scorsi – a causa dell’aumento delle famiglie povere nella Striscia di Gaza in seguito al blocco israeliano e alla pandemia da coronavirus.

Il 17 agosto il giornale israeliano Yedioth Ahronoth ha informato che le richieste di Hamas presentate ad Israele tramite la delegazione egiziana sono eccessive e le probabilità di raggiungere un accordo tra Israele e Hamas sono ancora scarse, come evidenziato dal continuo lancio di palloncini incendiari verso il sud di Israele durante e dopo la visita della delegazione egiziana nella Striscia di Gaza.

Il ministro della Difesa israeliano e futuro primo ministro in alternanza Benny Gantz il 18 agosto ha messo in guardia Hamas riguardo al continuo lancio di palloni incendiari da Gaza nel sud di Israele, affermando che “Hamas sta giocando col fuoco e farò in modo che gli si ritorca contro.”

Un parlamentare egiziano vicino ai servizi di intelligence egiziani ha detto in forma anonima ad Al-Monitor: “È vero che le richieste di Hamas ricevute dalla delegazione il 17 agosto sono consistenti, ma rientrano in quello che si era stabilito con Israele nei mesi scorsi.” Prevede che nei prossimi giorni si raggiungerà un nuovo accordo, in quanto nessuna delle due parti vuole arrivare a un’escalation militare.

Il parlamentare egiziano ha sottolineato che al momento la delegazione dell’intelligence sta cercando di mettere d’accordo le due parti nella speranza di riportare rapidamente la calma sul confine tra Gaza ed Israele. Secondo questa fonte la delegazione sta anche tentando di alleggerire le misure prese da Israele dopo la recente escalation, che includono la chiusura del valico di Kerem Shalom e il blocco all’importazione di alcuni prodotti, consentendo la fornitura di carburante all’impianto per la produzione di energia elettrica di Gaza e permettendo ai pescatori di riprendere la loro attività.

Il portavoce del ministero della Sanità di Gaza Ashraf al-Qidra ha detto ad Al-Monitor che se il carburante non venisse rapidamente fornito all’impianto per la produzione di energia elettrica si profilerebbe un disastro sanitario per i pazienti della Striscia di Gaza. Ha segnalato che le gravi ripercussioni della mancanza di elettricità minacciano i pazienti nelle unità di terapia intensiva, nelle sale operatorie e nelle stanze per la quarantena.

Da parte sua Israele attribuisce il ritardo nella messa in pratica di quanto concordato con Hamas nell’ottobre 2018 alla difficoltà, a causa del coronavirus, di tenere incontri con funzionari internazionali per mettere in pratica importanti progetti nella Striscia di Gaza riguardanti specificamente elettricità, acqua e zone industriali.

Mustafa al-Sawaf, analista politico ed ex-caporedattore del giornale locale Felesteen [principale quotidiano della Striscia di Gaza, ndtr.], ha detto ad Al-Monitor che il successo della missione della delegazione egiziana per ridurre la tensione tra Hamas e Israele dipende dalla sua capacità di fare pressione su Israele per ottenere progressi per quanto riguarda gli accordi di tregua.

Sawaf si aspetta che la delegazione riesca ad ottenere risposte positive ad alcune, non a tutte, le richieste che Hamas ha presentato ad Israele, considerando che, dopo che Israele ha ripetutamente fatto marcia indietro sui suoi impegni, il compito per la delegazione egiziana non è facile.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Crepe nel muro di separazione israeliano e la fragilità del potere di Netanyahu

Shir HeverNadia Nasser-Najjab

19 agosto 2020 – MiddleEastEye

Anche se quest’estate con l’allentamento delle misure di sicurezza alcuni palestinesi sono potuti andare in spiaggia, dietro questo si celano i problemi che affliggono il primo ministro israeliano.

Questa estate i media israeliani hanno riferito con sorpresa una scena inaudita: migliaia di famiglie palestinesi sulle spiagge di Tel Aviv e di altre città israeliane. Gli israeliani si sono abituati a svolgere la loro routine senza vedere i 2 milioni e mezzo di vicini della Cisgiordania occupata, che vivono giusto dall’altra parte del muro di separazione.

Da una spiaggia di Tel Aviv, dei palestinesi hanno condiviso il video di un bagnino israeliano che lasciava entrare i palestinesi di Nablus. La voce che i soldati stessero chiudendo un occhio di fronte ai famosi varchi nel muro si è diffusa rapidamente tra i palestinesi, che si sono affrettati ad approfittare dell’occasione, pagando prezzi esorbitanti ai taxi per andare oltre il muro.

Molti giovani palestinesi hanno visto per la prima volta il mare (che dista meno di 100 chilometri da gran parte della Cisgiordania occupata) e alcune famiglie hanno approfittato dell’occasione per visitare le zone in cui vivevano le loro famiglie prima della Nakba del 1948.

Qualche giornalista ha aspettato a riferire questi fatti finché i passaggi nel muro non sono stati nuovamente chiusi. In effetti la scorsa settimana, non appena la notizia delle famiglie palestinesi sulle spiagge è apparsa sulle pagine dei giornali israeliani, l’esercito ha rapidamente e aggressivamente richiuso i varchi per evitare l’accusa di essere indulgente con i palestinesi.

Rafforzare il potere coloniale

Negli ultimi anni, migliaia di lavoratori palestinesi sono entrati in Israele attraverso i buchi nel muro di separazione in cerca di lavoro e spesso muovendosi proprio sotto gli occhi dei soldati israeliani. La richiesta di manodopera palestinese a buon mercato, e la consapevolezza tra i politici israeliani del fatto che il reddito ricavato dal lavoro fatto in Israele sia un’ancora di salvezza essenziale per l’economia palestinese in rovina hanno dissuaso l’esercito israeliano dal sigillare quei buchi.

Ma nell’epoca del coronavirus è stato davvero sorprendente vedere che i buchi nel muro venivano usati non solo dai lavoratori, ma anche da intere famiglie.

La politica arbitraria di apertura e chiusura dei passaggi attraverso il muro crea tra i palestinesi un senso di incertezza, e rafforza il potere coloniale delle autorità israeliane sulla popolazione palestinese.

Quando l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha impartito direttive alle persone perché rispettassero il blocco del Covid-19 e rimanessero a casa, sapeva benissimo che le sue istruzioni sarebbero state ignorate. E con il coordinamento della sicurezza con Israele sospeso per via dei piani di annessione del primo ministro Benjamin Netanyahu, le forze di sicurezza palestinesi non si sono nemmeno preoccupate di impedire alle persone di entrare in Israele – un’ulteriore umiliazione e indebolimento per l’autorità e la legittimità dell’ANP.

I palestinesi però sanno che l’improvvisa e inaspettata clemenza rispetto ai valichi non è un segno della generosità israeliana. Il colonizzatore “non regala niente per niente”, come disse una volta il filosofo Frantz Fanon.

Per anni, un piccolo gruppo di donne israeliane ha fatto entrare clandestinamente [in Israele] dei palestinesi sulle proprie auto attraverso i posti di blocco, prendendo le corsie riservate agli ebrei israeliani. La più famosa è Ilana Hammerman, che ha spesso sfidato le autorità israeliane portando palestinesi attraverso il checkpoint.

Non è mai stata arrestata, probabilmente perché ciò svelerebbe regole dell’apartheid che consentono agli ebrei di attraversare i posti di blocco solo se non hanno palestinesi in auto. Ma lasciando che le aperture nel muro rimangano aperte, le autorità israeliane rendono irrilevante l’attivismo di Hammerman e altri.

Distogliere l’attenzione del pubblico

Una spiegazione ancora migliore per la decisione presa dal governo di allentare il blocco è la precaria situazione politica di Netanyahu. Ogni volta che le proteste contro il suo governo si fanno sentire, Netanyahu utilizza una crisi nella sicurezza per distogliere l’attenzione pubblica dai problemi economici e legali che affliggono la sua amministrazione.

Dieci anni fa, mentre i manifestanti invocavano giustizia sociale, Netanyahu ha falsamente accusato gli abitanti della Striscia di Gaza di essere coinvolti in un attacco che aveva avuto origine in Egitto, e ha ordinato il bombardamento del territorio costiero. Allo stesso modo, nel 2014-15, mentre gli investimenti stranieri in Israele crollavano e il Paese affrontava una crisi abitativa, Netanyahu spostò l’attenzione sull’Iran, affermando che prima di potersi prendere cura della qualità della vita bisogna prendersi cura della “vita stessa”.

Adesso i manifestanti stanno protestando contro le pesanti conseguenze economiche provocate dal blocco del Covid-19, la massiccia disoccupazione e il fatto che Netanyahu sia piuttosto impegnato a combattere le accuse di corruzione che ad affrontare la crisi – e niente può essere più utile di una piccola guerra o di una rivolta palestinese per dichiarare elezioni anticipate e vincerle come “Mr. Security”.

Sembra ormai chiaro che Benny Gantz, il “primo ministro di rimpiazzo” e rivale di Netanyahu, abbia interessi opposti. Nella sua qualità di ministro della Difesa è nella posizione ideale per mettere a frutto quanto appreso come comandante dell’esercito israeliano, vale a dire che le restrizioni alla libera circolazione dei palestinesi non creano sicurezza per gli israeliani, anzi – e che lasciare le famiglie palestinesi passare attraverso i varchi del muro diminuisce la loro motivazione immediata ad attaccare Israele.

Provocazioni fallite

Netanyahu non ha perso l’occasione di scatenare un po’ di violenza e cavalcare l’ondata di paura per un altro mandato come primo ministro, ma i suoi tentativi di provocare uno scontro con Hezbollah in Libano sono falliti, con l’esplosione di Beirut che rende il momento particolarmente inopportuno perché le forze israeliane scatenino attacchi mentre il resto del mondo invia aiuti.

Quindi, proprio come il suo predecessore Ehud Olmert, Netanyahu ha spostato l’attenzione dal Libano alla Striscia di Gaza. All’inizio di questo mese, alcuni palloni che trasportavano materiali incendiari sono stati lanciati da Gaza in Israele, provocando incendi nei campi israeliani. Non sono stati riportati feriti, tuttavia Netanyahu li ha usati come giustificazione per lanciare attacchi aerei, chiudere posti di blocco, fermare l’importazione di combustibile a Gaza e persino bloccare gli aiuti del Qatar al territorio assediato.

Tutto ciò, tuttavia, non è riuscito finora a indurre Hamas ad un attacco di ritorsione. Hamas ha già una chiara comprensione della politica israeliana e sa esattamente cosa Netanyahu stia cercando di ottenere.

Qualche gita al mare non farà dimenticare ai palestinesi il dolore dell’occupazione, né allevierà lo stress e la paura di una vita senza diritti – ma questa breve storia è sufficiente a dimostrare che il muro non ha mai riguardato la sicurezza israeliana, e che separare le diverse popolazioni che vivono sotto il controllo israeliano non è sostenibile.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Shir Hever è membro del consiglio di Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East [Voce ebraica per una pace giusta in Medio Oriente].

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La storia di un fiume e della supremazia ashkenazita in Israele

Lihi Yona

18 agosto 2020 – +972 magazine

Un fiume che attraversa un kibbutz è diventato un luogo di polemiche e violenze che getta luce su quanto la sinistra sionista sia diventata irrilevante.

Nelle scorse settimane un fiume che attraversa un kibbutz israeliano è diventato teatro di furiose polemiche, violenze e odio.

In questa specifica lotta, cosa interessante e atipica, i soliti sospettati nel panorama politico israeliano hanno giocato ruoli capovolti: personalità di spicco della sinistra israeliana danno un convinto sostegno alle “gated communities”, zone residenziali auto-segregate, contro uguaglianza e giustizia distributiva, esprimendo allo stesso tempo una forte opposizione all’applicazione della legge. Volendo correre il rischio di riciclare un cliché abusato, la storia di questa lotta può insegnarvi tutto quello che avete bisogno di sapere sulla politica israeliana e sulla crescente irrilevanza della sinistra sionista israeliana. 

Nir David è un kibbutz nel nord di Israele, situato fra Afula e Beit She’an, città operaie abitate prevalentemente da mizrahi [ebrei di origine araba che vivono in Israele, ndtr.]. Come altri, è costituito prevalentemente da ashkenaziti [lett. tedeschi, ndtr.], ebrei di origine europea, discendenti dei fondatori del Paese e che ne hanno dominato le risorse e le istituzioni economiche, culturali e militari, soprattutto tramite il Mapai, il partito Laburista sionista.

L’Asi, un corso d’acqua di uno splendido blu con una temperatura di 28° tutto l’anno, corre attraverso il kibbutz. Secondo la legge israeliana sulle risorse idriche, i corsi d’acqua sono di proprietà pubblica e devono restare accessibili e aperti a tutti. Ciononostante, gli abitanti di Nir David hanno deciso che l’accesso all’Asi non lo sia e hanno costruito recinzioni e barriere per impedire il pubblico accesso al fiume.

In anni recenti, un gruppo di abitanti delle comunità intorno al kibbutz ha condotto una battaglia per garantire il libero accesso all’Asi. Nel 2015 hanno intentato una causa contro il kibbutz, che, di conseguenza, ha promesso di consentire l’accesso ad alcuni tratti, promessa mai mantenuta.

È la storia dei kibbutz in Israele a far da sfondo fondamentale a questo scontro. Nir David è stato fondato nel 1936, il primo di decine di colonie “Torre e Palizzata” [insediamenti sionisti costruiti rapidamente come strutture difensive sfruttando una scappatoia della legge ottomana, ndtr.] che, con il consenso delle autorità coloniali britanniche, erano elementi chiave della campagna sionista per tenere gli arabi palestinesi lontani da zone strategiche. Un resoconto del 1960s apparso su Hashomer Hatzair, giornale legato al movimento dei kibbutz, descrive come “quel mattino di 25 anni fa gli arabi che abitavano in tende e capanne a Tel Souk e Sakhne strabuzzarono gli occhi increduli perché nel corso della notte c’era stato un nuovo fatto geografico sulla mappa del Paese!” 

La giustificazione storica per erigere recinzioni e torri intorno ai kibbutz, intesi come fortezze strategiche, era di tener lontani gli arabi. Quegli stessi muri e recinzioni adesso tengono palestinesi ed ebrei mizrahi fuori da Nir David.

Anche i kibbutz, incluso Nir David, hanno contribuito al vasto divario socio-economico che oggi caratterizza Israele. Gli ashkenaziti godono di privilegi e accessi praticamente illimitati alla terra e alle risorse naturali che a loro volta forniscono significative opportunità economiche. Nel frattempo, le “città di sviluppo” dei mizrahi che sono spuntati intorno ad essi ospitano decine di migliaia di persone in piccole e affollate aree geografiche che offrono poche opportunità di progresso economico.

Per dare un’idea: gli abitanti dell’area amministrativa regionale in cui è situato il kibbutz Nir David godono di 21.000 mq per persona, mentre nella vicina città operaia di Beit She’an gli abitanti si devono accontentare di una media di 400 mq per persona, cioè quelli di Nir David dispongono di 48 volte più terra per persona. Nel corso degli anni, gli abitanti di Nir David hanno costruito ville e avviato fiorenti imprese turistiche sulle rive dell’Asi. Nelle rare occasioni in cui il kibbutz accetta nuovi residenti, l’ammissione dipende da un processo di valutazione che include una valutazione della personalità da parte di un istituto specializzato.

Su questo sfondo, e dato il continuo rifiuto del kibbutz di rispettare la legge sulle risorse idriche e la promessa da loro fatta al tribunale, la lotta per liberare il fiume Asi si è intensificata. Nel corso degli ultimi mesi, gli abitanti delle città circostanti e gli attivisti provenienti da tutto il Paese sono arrivati ogni giorno ai cancelli del kibbutz tentando di guadagnare l’accesso al fiume. In risposta, si sono trovati davanti cancelli sorvegliati e chiusi ed episodi di violenza da parte di membri del kibbutz che li hanno attaccati con cinghie e bastoni. 

Lo scorso venerdì [14 agosto, ndtr.] gli attivisti hanno tenuto la loro più grande manifestazione, con la partecipazione di centinaia di persone. I manifestanti sono riusciti a entrare nel kibbutz e a raggiungere e godersi il fiume. Comunque, la giornata è finita in modo violento, dato che dei membri del kibbutz hanno bloccato uno dei manifestanti dentro i cancelli, prendendolo a calci dopo che era caduto a terra, un attacco che l’ha mandato in ospedale con commozione cerebrale e contusione renale. Ad altri hanno tagliato le gomme delle auto.

Di primo acchito nessuno sospetterebbe che la lotta per liberare l’Asi possa innescare una tale diatriba, ma in sostanza si mira a garantire il libero accesso agli spazi pubblici. Quando la città di Afula aveva tentato di impedire l’accesso ai suoi parchi ai non residenti, quella decisione fu immediatamente (e giustamente) bollata come razzista perché si tentava di tenere i palestinesi fuori dalla città. Le azioni per costringere Afula ad aprire i suoi parchi ricevettero un sostegno ampio e senza riserve dalla sinistra israeliana e dalle organizzazioni per i diritti umani. Eppure la battaglia per liberare l’Asi sta ricevendo reazioni diametralmente opposte dalle istituzioni sioniste di sinistra e da molti che si definiscono progressisti.

Uno dopo l’altro, coloro che sostengono regolarmente uguaglianza, giustizia e valori egalitari hanno trovato ogni tipo di scuse per non appoggiare la lotta.

Alcuni dicono che permettere il libero accesso distruggerebbe il fiume dato che i visitatori non terrebbero pulite le acque e le sponde. Questa tesi si basa principalmente sullo stereotipo razzista riguardo all’igiene e alla pulizia dell’area circostante abitata dai mizrahi, ignorando che per le attività turistiche di Nir David se ne permette già l’accesso a centinaia di persone purché paghino. L’affermazione è ancora più assurda se si considera che Nir David scarica rifiuti agricoli in un vicino fiume che attraversa Beit She’an.

Altri di sinistra sostengono che il fiume fa parte della “dimora” dei membri del kibbutz e che entrarci equivarrebbe a un’invasione violenta. Alcuni di questi membri e sostenitori hanno persino ipotizzato, sui social se sia lecito che gli abitanti Nir David sparino sui manifestanti che entrano nelle loro proprietà. Heli Yaakobs, un alto funzionario di Nir David e membro del consiglio di The Israel Women’s Network [Rete delle Donne di Israele], la più grande organizzazione femminista del Paese, ha fatto un paragone fra le proteste e l’aggressione sessuale. Un’importante figura della sinistra ha ipotizzato che la lotta per l’Asi non sia così importante e un altro, scherzosamente, l’ha messa al 43esimo posto su una lista di 42 battaglie importanti per il futuro di Israele.

La reazione di figure di spicco della sinistra, insieme al silenzio assordante della stragrande maggioranza dei politici di sinistra e delle organizzazioni per i diritti umani è forse sbalorditivo, ma non c’è da stupirsi.

Oltre a dimostrare la crescente irrilevanza della sinistra sionista, ci insegna molto sui privilegi delle élite ashkenazite israeliane, sia per quanto riguarda la terra che l’idea stessa di giustizia. Lo stesso tipo di cancellate che tiene fuori i manifestanti da Nir David è anche usato per etichettare la loro causa come ingiusta, sbagliata e irrilevante.

Storicamente la sinistra sionista ha preso parte attiva nella repressione e violenza intrinseche alla fondazione dello Stato, sia contro i palestinesi che contro i mizrahi. La sinistra è stata responsabile di aver concepito la politica discriminatoria sulla terra che ancora oggi permette agli abitanti di Nir David privilegi significativi per quanto riguarda le assegnazioni della terra, perpetuando nel contempo un enorme divario economico fra ashkenaziti e altre comunità marginalizzate in Israele.

Questa è la stessa “sinistra” che nel 1948 espulse i palestinesi e ne espropriò le terre, molte delle quali finirono sotto il controllo dei kibbutz, e che per decenni fece scomparire i bambini dalle famiglie mizrahi [riferimento ai bambini mizrahi che vennero dati in adozione a ricche famiglie ebraiche, spesso statunitensi, all’insaputa dei genitori, a cui si diceva che erano morti, ndtr.]. Quando la destra andò al potere per la prima volta nel 1977 molti videro nel cambiamento politico una loro vittoria: un voto di protesta di chi era stufo dell’ingiusto governo del Mapai nei primi anni dello Stato.

Da allora la sinistra si identifica principalmente con le élites ashkenazite, mentre la destra in gran parte si associa (ameno simbolicamente) con comunità operaie dei mizrahi, molti dei quali covano ancora del risentimento contro la sinistra storica.

Agli attivisti mizrahi che insistono su questo contesto storico e sul suo impatto sulle alleanze politiche d’oggi di solito viene detto che serbano rancore contro il Mapai che non esiste più e ha pochissimo in comune con la sinistra di oggi. Inoltre si dice loro che questa ostilità porta i mizrahi a votare contro i propri interessi.

La battaglia sull’Asi prova che queste affermazioni sono errate. Dimostra quanto sia irrilevante la sinistra sionista quando si tratta di confrontarsi con questa continua ingiustizia. I partiti di sinistra sionisti, come il Laburista e il Meretz, continuano a dipendere dai kibbutz per il sostegno elettorale ed è precisamente questo sostegno che impedisce loro di stare a fianco di una delle più importanti lotte che si stanno svolgendo al momento. Questa dipendenza è forse il motivo per cui sono rimasti in silenzio anche davanti alle impressionanti disuguaglianze fra le “città di sviluppo” e i kibbutz.

La battaglia per liberare l’Asi ha smascherato e messo sotto gli occhi di tutti la sinistra sionista. Una sinistra coraggiosa e onesta si sarebbe schierata senza riserve con i manifestanti che stanno lottando contro le diseguaglianze e un governo che le mantiene e promuove fingendo di difendere giustizia, equa distribuzione delle risorse e uguaglianza di fronte alla legge. Invece la sinistra sionista si nasconde dietro scuse razziste.

Non c’è dubbio che quei partiti di sinistra che volessero mettersi su queste posizioni coraggiose dovrebbero fronteggiare gravi conseguenze politiche. Gli abitanti dei kibbutz potrebbero sentirsi traditi e non votare per i partiti che non sembrano lavorare per i loro interessi. Ma non esiste un’altra strada: una sinistra che tace davanti alle ingiustizie circa l’Asi e degli abitanti dei kibbutz (così come davanti alle ingiustizie del sionismo stesso) non può parlare con onestà di ingiustizie in altre situazioni e certamente non può offrire un’alternativa ideologica valida alla destra.

Anche se tale posizione dovesse costare alla sinistra la sua unica ancora di salvezza elettorale, resta sempre la cosa giusta da fare. Lasciamo che la sinistra sionista muoia o faccia il suo corso. Forse dalle sue ceneri emergerà un nuovo tipo di sinistra ebraica, che non si basi sulla supremazia, ma su un’autentica solidarietà fra quelli che storicamente sono stati esclusi. 

Non assomiglierebbe alla sinistra cui siamo abituati, ma piuttosto alla coalizione che sta lottando per liberare l’Asi: giovani che non si identificano necessariamente con la sinistra e che ciononostante stanno guidando uno dei più vigorosi movimenti in favore della giustizia distributiva in Israele oggi. Rinunciando all’impegno storico a favore delle élite ashkenazite, una tale sinistra potrebbe finalmente essere libera di stringere alleanze nuove e a favore del cambiamento, alleanze che abbattano confini ideologici e geografici.

Lihi Yona è una dottoranda presso la Columbia Law School, le cui ricerche si concentrano sul diritto del lavoro e sulla teoria della razza in Israele e negli Stati Uniti.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)